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Discussione:La visione di Ezechiello
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OrbiliusMagister
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{{Infotesto
| Progetto= letteratura
| Edizione = ''"Canti e poemi"'' di [[Autore:Vincenzo Monti|Vincenzo Monti]]<br/>A cura di [[Autore:Giosuè Carducci|Giosuè Carducci]]<br/>Firenze, G. Barbera, 1886
| Fonte = Sito internet [http://www.bibliotecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit001183/bibit001183.xml Biblioteca Italiana]
| Eventuale nome del traduttore =
| Nome del primo contributore =[[User:Gavagai|Gavagai]] ([[User talk:Gavagai|disc.]])
| Note = Fonte digitalizzata presente su {{GB|iikvfam4bIUC}}
| Nome del rilettore =
}}
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<noinclude><pagequality level="4" user="Pebbles" />{{RigaIntestazione|('''4474''')|{{sc|pensieri}}|407|riga=si}}</noinclude>idee, e nel modo il piú indefinito. Di tali frasi, e, in generale, della facoltà di esprimersi in siffatta guisa, abbondano le lingue antiche; la latina specialmente, anche piú della greca: e quindi è che la prosa latina, per l’espressione e il linguaggio (non per le idee, e lo ''stile'', come la francese) è sovente piú poetica del verso, non pur moderno, ma greco; benché il latino non abbia lingua poetica a parte (28 marzo 1829).
{{ZbPensiero|4474/1}} Monosillabi lat., opposti alle voci greche corrispondenti. ''Do'' δί-δω-μι, dal disusato δόω.
{{ZbPensiero|4474/2}} ''Sufficiente'' detto di uomo, ''sufficienza'' ec. - ἱκανὸς, ἱκανότης ec.
{{ZbPensiero|4474/3}} Alla p. {{ZbLink|4442}}. ''Eremo'' sostantivo da ἐρημὸς aggettivo, sottinteso τόπος. ''Deserto''. Vedi {{AutoreCitato|Egidio Forcellini|Forcellini}}. ''Nulla'' (res) per ''nihil''. E per via di tali sottintendimenti, infiniti altri aggettivi, non sol di tempo o luogo, ma d’ogni genere, son passati, in ogni lingua, ad essere sostantivi, in vece de’ sostantivi originali loro corrispondenti. Del resto anche il greco abbonda di tali ellissi negli aggettivi di tempo o luogo (28 marzo 1829).
{{ZbPensiero|4474/4}} Error grande, non meno che frequentissimo nella vita, credere gli uomini piú astuti e piú cattivi, e le azioni e gli andamenti loro piú doppi, di quel che sono. Quasi non minore né meno comune che il suo contrario (28 marzo 1829).
{{ZbPensiero|4474/5}} ''Tanto'', inquit, ''melius''. {{AutoreCitato|Fedro|Fedro}}; - ''tant mieux, tant pis''.
{{ZbPensiero|4474/6}} Ce que les intérêts particuliers ont de commun (nella società) est si peu de chose, qu’il ne balancera jamais ce qu’ils ont d’opposé. {{Sc|{{AutoreCitato|Jean-Jacques Rousseau|Rousseau}}}}, ''Pensées'', Amsterdam, 1786, première partie, p. 23 (28 marzo 1829).<noinclude>
<references/>
[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|||}}</noinclude>[[File:Il libro dei versi-054.jpg|320px|center]]
{{Centrato}}LE FOGLIE </div>
<hr style="width:4em; margin:auto" />
{{Blocco a destra|
{{Centrato}}<poem>.... ''la première faute
Fut le premier poids...''</poem>
{{Sc|Victor Hugo}}</div>
}}
<poem>Nascean le stelle; la lontana chiesa
Emanava armonie. Reprobamente
Vagolando pe’ campi io le sentivo;
::::E una voce, repente,
Surta dall’ombra e che parea d’un vivo
Gridommi a lato: — «Tutto ciò che pesa,
Uomo, ha peccato.»</poem><noinclude>
{{Fine blocco}}<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|740|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxix.}}}}|[''v''. 1-12]}}</noinclude>bolgia, et ammoniscelo dell’andar più oltre, dicendo così: ''La molta gente''; ch’io vedea nella nona bolgia, ''e le diverse piaghe''; ch’io vedea nelle loro persone, ''Avean le luci mie''; cioè delli occhi, ''sì inebriate''; di lagrime, ''Che dello stare a pianger eran vaghe''; e qui nota la sua compassione e la reprensione di Virgilio, onde dice: ''Ma Virgilio mi disse: Che pur guate''; tu, Dante? ''Perchè la vista tua pur sì soffolge''; cioè si ficca, ''Là già tra l’ombre triste smozzicate''; come mostrato è nel precedente canto? ''Tu non ài fatto sì all’altre bolge''; come tu fai a questa: ''Pensa, se tu annoverar le credi''; l’anime che sono in questa bolgia, ''Che miglia ventidue la valle volge''; finge l’autore che il tondo di questa bolgia fosse ventidue miglia, per mostrare ch’era presso al centro della terra: imperò che avea a passare la x bolgia e lo nono cerchio che à dentro da sè quattro cerchi, e dentro dal quarto finge che sia lo centro, ''E già la luna''; qui l’ammonisce del procedere oltre: con ciò sia cosa che il tempo sia brieve et ànno ancora a vedere altro; e lo tempo conceduto, secondo l’autore, era una notte e un di’ infino al centro, e parte dell’altra notte quanto fosse da mattina a mezza terza dovea logorare a passare lo centro, e l’avanzo della notte dovea logorare infino appresso all’aurora a risalire e ritornare all’oriente, ove finge essere il purgatorio intorno a uno monte, nella sommità del quale finge essere lo paradiso terrestre. E così in su l’aurora finge ritornarsi quivi, et innanzi essere uscito e ritornato nell’inferno, come si mosterrà nell’ultimo canto di questa cantica; la notte era già passata e venuto tanto del di’, che la luna era girata nell’altro emisperio, passato il centro della terra: imperò che, s’ella era sotto i piedi di Dante e di Virgilio che non erano ancor giunti al centro, dunque ella era<ref>C. M. ella avea passato</ref> passato il centro e debbasi immaginare ch’ella venia contra loro. E la cagione è questa, che Dante discendendo sempre, è ito verso l’occidente; e quando à avuto a volgere à finto che sia volto a sinistra, e questa è conveniente via all’inferno, perchè la via de’ peccati è sempre in verso occidente et in verso sinistra: imperò che in verso oriente, et in verso destra si va alle virtù. E la luna, poiché à passato l’orizzonte dell’occidente, viene in verso lo levante, e pertanto immaginiamo che fosse corso più che mezza notte<ref>C. M. mezza la notte nell’</ref> nell’altro emisperio, dunque di quassù a noi era corso più che mezzo di’: imperò che tanto dovea essere corso di qua lo sole in verso l’occidente, quanto di là la luna verso l’oriente: imperò che nel tempo, che l’autore finge che questo discenso fosse, era l’equinozio vernale, pari lo di’ con la notte; onde si può comprendere che fosse tra la nona e il vespro, e però dice: ''E già la luna è sotto i nostri piedi''; nell’altro emisperio di qua dal {{Pt|cen-|}}<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|[''v''. 13-30]|{{Sc|c o m m e n t o}}|741|}}</noinclude>{{Pt|tro|centro}}, come noi siamo, che ancora noi siamo giunti ad esso, ''Lo tempo è poco omai che n’è concesso'': imperò chè da passato nona a sera, sicché poco era per rispetto di quello ch’era passato, che era la notte e più che il mezzo il di’, ''Et altro è da veder, che tu non vedi'': però ch’avea a vedere la x bolgia e il nono cerchio che n’à in sè quattro.
C. XXIX — ''v''. 13-21. In questi tre ternari pone Dante la risposta, che finge che facesse a Virgilio a quel che detto fu di sopra, dicendo: ''rispuos’io''; cioè Dante, ''appresso''; cioè immantinente, ''Se tu''; cioè Virgilio, ''avessi Atteso''; cioè saputa, ''la cagion perch’io''; cioè Dante, ''guardava''; così attentamente, ''Forse m’avresti ancor lo star dimesso''; cioè m’avresti conceduto ch’io fossi stato ancora più. ''Parte''; cioè tutta via, o in quel mezzo, ''sen gìa... Lo Duca;'' cioè Virgilio se n’andava, ''et io retro gli andava''; cioè io Dante lo seguitava, ''già facendo la risposta''; che seguita, ''E soggiugnendo''; al detto di Virgilio: ''Dentro a quella cava''; cioè bolgia; ecco la risposta di Dante, ''Dov’io tenea or li occhi sì a posta, Credo che un spirto di mio sangue''; cioè di mia schiatta, ''pianga la colpa''; cioè sua, che ''laggiù'': cioè in quella bolgia, ''cotanto costa''; cioè sì grande pena è; e non ci è altra esposizione.
C. XXIX — ''v''. 22-30. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio li togliesse via la cagione, dicendo: ''Allor disse il Maestro''; cioè Virgilio: ''Non si franga''; cioè non si rompa dall’altre cose che ài a pensare, ''Lo tuo pensier da qui inanzi sovr’ello''; cioè sopra colui che dicesti: ''Attendi ad altro''; tu, Dante, ''et el''; cioè colui di che tu dici, ''là si rimanga''; cioè in quella nona bolgia, ''Ch’io vidi lui''; dichiara Virgilio che il vide e nominalo; e questo non finge l’autore sanza cagione: imperò che questo suo parente non fu mai veduto da lui, e però finge che Virgilio che significa la ragione, come detto è di sopra, lo vedesse e nominasselo, ''appiè del ponticello''; in sul quale noi eravamo, ''Mostrarti''; cioè te Dante, ''e minacciar forte col dito'': menando il dito si minaccia, tenendol fermo si dimostra, ''Et udi’l nominar''; cioè io Virgilio,.''Geri del Bello''; questo Geri fu figlio di Giovanni del Bello, lo quale fu della progenie di Dante, e fu morto per uno della casa de’ Gerini<ref>C. M. dei Germi,</ref>, per parole che questo Giovanni avea rapportate; onde Geri suo figliuolo pensò sempre di farne vendetta. E non vedendo modo di farla, si stavano a buona guardia; quello de’ Gerini<ref>Qui il Cod. R. ci dà — Germi</ref> si contrafece a modo di uno povero lebroso, avendosi fatto dipignere sì che parea lebbroso, e passando da casa i Gerini si restò al maggior della casa che era armato, e domandolli bene per l’amore di Dio, e disse: Messere, ecco la famiglia del<noinclude>
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C. XXIX — ''v''. 13-21. In questi tre ternari pone Dante la risposta, che finge che facesse a Virgilio a quel che detto fu di sopra, dicendo: ''rispuos’io''; cioè Dante, ''appresso''; cioè immantinente, ''Se tu''; cioè Virgilio, ''avessi Atteso''; cioè saputa, ''la cagion perch’io''; cioè Dante, ''guardava''; così attentamente, ''Forse m’avresti ancor lo star dimesso''; cioè m’avresti conceduto ch’io fossi stato ancora più. ''Parte''; cioè tutta via, o in quel mezzo, ''sen gìa... Lo Duca;'' cioè Virgilio se n’andava, ''et io retro gli andava''; cioè io Dante lo seguitava, ''già facendo la risposta''; che seguita, ''E soggiugnendo''; al detto di Virgilio: ''Dentro a quella cava''; cioè bolgia; ecco la risposta di Dante, ''Dov’io tenea or li occhi sì a posta, Credo che un spirto di mio sangue''; cioè di mia schiatta, ''pianga la colpa''; cioè sua, che ''laggiù'': cioè in quella bolgia, ''cotanto costa''; cioè sì grande pena è; e non ci è altra esposizione.
C. XXIX — ''v''. 22-30. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio li togliesse via la cagione, dicendo: ''Allor disse il Maestro''; cioè Virgilio: ''Non si franga''; cioè non si rompa dall’altre cose che ài a pensare, ''Lo tuo pensier da qui inanzi sovr’ello''; cioè sopra colui che dicesti: ''Attendi ad altro''; tu, Dante, ''et el''; cioè colui di che tu dici, ''là si rimanga''; cioè in quella nona bolgia, ''Ch’io vidi lui''; dichiara Virgilio che il vide e nominalo; e questo non finge l’autore sanza cagione: imperò che questo suo parente non fu mai veduto da lui, e però finge che Virgilio che significa la ragione, come detto è di sopra, lo vedesse e nominasselo, ''appiè del ponticello''; in sul quale noi eravamo, ''Mostrarti''; cioè te Dante, ''e minacciar forte col dito'': menando il dito si minaccia, tenendol fermo si dimostra, ''Et udi’l nominar''; cioè io Virgilio,.''Geri del Bello''; questo Geri fu figlio di Giovanni del Bello, lo quale fu della progenie di Dante, e fu morto per uno della casa de’ Gerini<ref>C. M. dei Germi,</ref>, per parole che questo Giovanni avea rapportate; onde Geri suo figliuolo pensò sempre di farne vendetta. E non vedendo modo di farla, si stavano a buona guardia; quello de’ Gerini<ref>Qui il Cod. R. ci dà — Germi</ref> si contrafece a modo di uno povero lebroso, avendosi fatto dipignere sì che parea lebbroso, e passando da casa i Gerini si restò al maggior della casa che era armato, e domandolli bene per l’amore di Dio, e disse: Messere, ecco la famiglia del<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Marcotk" />{{RigaIntestazione|742|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxix.}}}}|[''v''. 31-51]}}</noinclude>potestà, riponete l’arme. Costui entrò in casa e pose giù l’arme et uscissi fuori; allora questo Geri lo percosse d’uno coltello ch’avea sotto, et ucciselo. Avvenne poi caso che uno di casa i Gerini andò potestà di Fucecchio, e con lui andò uno suo nipote che si chiamava Geremia per officiale, et andò un di’ alla cerca per l’arme, scontrò questo Geri ch’era capitato a Fucecchio per suoi fatti; e cercatolo s’elli avea arme, e non trovandogliele, lo percosse con un coltello nel petto et ucciselo, e di questo non fu mai fatto vendetta per quelli del casato di Dante; e però finge l’autore che lo minacciasse, perchè la vendetta non era fatta. E perchè questo Geri fu seminatore di scandali, però lo mette nella nona bolgia, e seguita: ''Tu eri allor''; dice Virgilio a Dante, ''si del tutto impedito Sovra colui che già tenne Altaforte''; questo fu messer Beltramo di cui fu detto di sopra, che a posta del re Giovanni, detto di sopra, tenne una fortezza che si chiamava Altaforte, che è in Inghilterra, ''Che non guardasti in là''; cioè in verso là, ''sì fu sparito''; cioè Geri detto di sopra.
C. XXIX — ''v''. 31-39. In questi tre ternari l’autor nostro pone la risposta, ch’elli fìnge che facesse a Virgilio sopra quel che detto avea, e il suo processo, dicendo: ''O Duca mio''; dice Dante a Virgilio, ''la violenta morte''; del detto Geri che fu morto, come detto fu di sopra, ''Che non gli è vendicata ancor''; per alcuno di sua casa, ''diss’io''; cioò Dante, ''Per alcun che dell’onta sia consorte''; cioè per alcun de’ consorti suoi, ''Fece lui disdegnoso''; in verso di me, ''ond’el sen gìo''; cioè se n’andò, ''Sanza parlarmi, sì com’io stimo''; cioè penso io Dante, ''Et in ciò''; cioè et in questo ch’io l’ò veduto isdegnoso, ''m’à el fatto assai più pio''; cioè ch’io non sarei in verso l’inimici a non farne vendetta, che bench’io avesse in cuore di non farne vendetta, ora l’ò molto più. ''Così parlammo''; io Dante e Virgilio, ''infino al luogo primo, Che''; cioè che prima, ''da lo scoglio''; cioè dal ponte, ''l’alta valle''; cioè profonda, ''mostra, Se più lume vi fosse, tutto ad imo''; cioè tutto infino al fondo; ma perchè v’è poco lume, non si può così vedere in fino al fondo del ponte che è luogo alto; e così dimostra che sia venuto in su la decima bolgia.
C. XXIX — ''v''. 40-51. In questi quattro ternari lo nostro autore dimostra come giunsono in sulla decima bolgia, e manifesta in genere le pene che vi sono, dicendo: ''Quando noi''; cioè Virgilio et io Dante, ''fummo in su l’ultima chiostra''; cioè in su l’ultima chiusura, ''Di Malebolge''; detto fu di sopra, perchè così si chiama, ''sì che i suoi conversi''; conversi chiama i peccatori che vi sono, perchè nelli chiostri stanno li conversi, e di sopra è detto l’ultima chiostra, ''Potean parere alla veduta nostra''; cioè potean apparere alli occhi nostri, ''Lamenti diversi''<ref>C. M. ''diversi saettaron me''; Dante, e dice ''diversi''</ref>; perche veniano da diverse parti, e {{Pt|per-|}}<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Marcotk" />{{RigaIntestazione|[''v''. 52-66]|{{Sc|c o m m e n t o}}|743|}}</noinclude>{{Pt|ch’|perch’}}erano diversi, ovvero differenti, ''Che di pietà ferrati avean li strali''; continua la similitudine, poiché à detto che saettarono, finge che fossono lamenti di pianti, come li strali ferrati di ferro; e come li strali ferrati feriscono col ferro, così quelli lamenti percoteano li orecchi di Dante<ref>C. M. di Dante col pianto;</ref> con ferite di pietade; ''Ond’io li orecchi con le man copersi''; cioè per non udirli. ''Qual dolor fora''; qui fa una similitudine, che tale era quel dolore, qual sarebbe quello che s’udirebbe, se in una fossa fossono li malati che sono nelli spedali di Valdichiana, la state presso all’autunno, e li mali di Maremma e di Sardigna, e però dice: ''se delli spedali di Valdichiana''; qui parla l’autore delli spedali posti in Valdichiana, sottoposti alla casa d’Altopascio che è tra Fiorenza e Lucca e Pistoia, ''tra luglio e il settembre''; cioè d’agosto, quando le genti sono più inferme, ''E i mali di Maremma''; questo dice, perchè la Maremma suole essere più inferma in tale tempo, che li luoghi montanini, ''e di Sardigna'': Sardigna è isola molto inferma, come sa ciascuno che v’è stato, ''Fossero in una fossa tutti insembre''; cioè insieme, ''Tal era quivi''; lo dolore, ''e tal puzzo n’usciva''; di quella x bolgia, ''Qual suol venir delle marcite membre''; e così in genere à narrato la pena che v’è, che tutti finge che sieno malati e piagati, come si dirà di sotto più spezialmente.
C. XXIX — ''v''. 52-57. in questi due ternari l’autor nostro finge lo suo discenso fatto in su l’altro capo dello scoglio, dicendo così: ''Noi''; cioè Virgilio et io Dante, ''descendemmo in su l’ultima riva''; cioè ripa; et intendesi di quella di là, perchè prima è detto che vennono in su l’arco dello scoglio, onde si potea vedere la bolgia infino al fondo, ''Del lungo scoglio''; cioè della pietra che sta sopra la bolgia come ponte, e perchè dice ''lungo'', mostra che la bolgia sia larga, ''pur da man sinistra''; questo dice: imperò che da man sinistra si discende ai vizi e peccati, come a man diritta si monta alla virtù, ''Et allor fu la mia vista più viva''; questo dice, perchè vide meglio, ''Giù ver lo fondo''; che prima non potea vedere, ''dove la ministra''; cioè in quella parte dove la ministra; cioè servigiale, ''Dell’alto Sire''; cioè Idio, ''infallibil Giustizia''; questa è la ministra di Dio, infallibile perchè non si può ingannare, ''Punisce i falsator''; cioè coloro che commettono falsità per qualunque modo, ''che qui registra''; cioè che qui rappresenta.
C. XXIX — ''v''. 58-66. In questi tre ternari l’autor nostro fa una similitudine, presa dai poeti, della pestilenzia che fu in Egina, città del re Eaco, posta in Grezia in isola ch’era così chiamata dal nome della madre d’Eaco, ch’ebbe nome Egina; e prima era chiamata Conopia<ref>C. M. Cenopia</ref> et era posta nella contrada che si chiama Achaia, e questa<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Marcotk" />{{RigaIntestazione|[''v''. 52-66]|{{Sc|c o m m e n t o}}|743|}}</noinclude>{{Pt|ch’|perch’}}erano diversi, ovvero differenti, ''Che di pietà ferrati avean li strali''; continua la similitudine, poichè à detto che saettarono, finge che fossono lamenti di pianti, come li strali ferrati di ferro; e come li strali ferrati feriscono col ferro, così quelli lamenti percoteano li orecchi di Dante<ref>C. M. di Dante col pianto;</ref> con ferite di pietade; ''Ond’io li orecchi con le man copersi''; cioè per non udirli. ''Qual dolor fora''; qui fa una similitudine, che tale era quel dolore, qual sarebbe quello che s’udirebbe, se in una fossa fossono li malati che sono nelli spedali di Valdichiana, la state presso all’autunno, e li mali di Maremma e di Sardigna, e però dice: ''se delli spedali di Valdichiana''; qui parla l’autore delli spedali posti in Valdichiana, sottoposti alla casa d’Altopascio che è tra Fiorenza e Lucca e Pistoia, ''tra luglio e il settembre''; cioè d’agosto, quando le genti sono più inferme, ''E i mali di Maremma''; questo dice, perchè la Maremma suole essere più inferma in tale tempo, che li luoghi montanini, ''e di Sardigna'': Sardigna è isola molto inferma, come sa ciascuno che v’è stato, ''Fossero in una fossa tutti insembre''; cioè insieme, ''Tal era quivi''; lo dolore, ''e tal puzzo n’usciva''; di quella x bolgia, ''Qual suol venir delle marcite membre''; e così in genere à narrato la pena che v’è, che tutti finge che sieno malati e piagati, come si dirà di sotto più spezialmente.
C. XXIX — ''v''. 52-57. in questi due ternari l’autor nostro finge lo suo discenso fatto in su l’altro capo dello scoglio, dicendo così: ''Noi''; cioè Virgilio et io Dante, ''descendemmo in su l’ultima riva''; cioè ripa; et intendesi di quella di là, perchè prima è detto che vennono in su l’arco dello scoglio, onde si potea vedere la bolgia infino al fondo, ''Del lungo scoglio''; cioè della pietra che sta sopra la bolgia come ponte, e perchè dice ''lungo'', mostra che la bolgia sia larga, ''pur da man sinistra''; questo dice: imperò che da man sinistra si discende ai vizi e peccati, come a man diritta si monta alla virtù, ''Et allor fu la mia vista più viva''; questo dice, perchè vide meglio, ''Giù ver lo fondo''; che prima non potea vedere, ''dove la ministra''; cioè in quella parte dove la ministra; cioè servigiale, ''Dell’alto Sire''; cioè Idio, ''infallibil Giustizia''; questa è la ministra di Dio, infallibile perchè non si può ingannare, ''Punisce i falsator''; cioè coloro che commettono falsità per qualunque modo, ''che qui registra''; cioè che qui rappresenta.
C. XXIX — ''v''. 58-66. In questi tre ternari l’autor nostro fa una similitudine, presa dai poeti, della pestilenzia che fu in Egina, città del re Eaco, posta in Grezia in isola ch’era così chiamata dal nome della madre d’Eaco, ch’ebbe nome Egina; e prima era chiamata Conopia<ref>C. M. Cenopia</ref> et era posta nella contrada che si chiama Achaia, e questa<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Cinzia sozi" />{{RigaIntestazione|744|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxix.}}}}|[''v''. 58-66]}}</noinclude>Egina era moglie d’Asopo. Questa terra odiata da Giunone, perchè Egina era stata concubina di Giove, secondo che pone Ovidio Metamorfoseos nel {{Sc|vii}}, fu corrotta da una grande pestilenzia intanto che tutti li uomini morirono infino alli animali; e non essendo rimaso se non lo re Eaco con tre suoi figliuoli Peleo, Telamone e Foco, pregò Giove che li rendesse li cittadini morti, o elli pigliasse ancora lui. Et avuto segno da Cielo ch’elli sarebbe esaudito, e guardando presso a sè, vide una quercia tutta piena di formiche ch’andavano suso e giuso portando granella, come è di loro usanza; e vedendo questa moltitudine, pregò Giove che gli desse altri tanti cittadini; et andato a dormire, perchè era sera, vide in sogno che quelle formiche si mutavano in uomini, e la mattina svegliato, vide quelle formiche diventate uomini, e però furono chiamati ''Mirmidones'' dalla formica che si chiama così in lingua greca; e diventati uomini, vennono a lui e salutaronlo per loro re e riempierono la città. E però di questo fa comperazione l’autore, dicendo: ''Non credo''; io Dante, ''che a veder maggior tristizia Fosse in Egina''; cioè in quella città d’Eaco, ''il popol tutto infermo, Quando fu l’aere sì pien di malizia''; per la pestilenzia, ''Che li animali infino al picciol vermo Cascaron tutti, e poi le genti antiche''; di quella città Egina, ''Secondo che i poeti ànno per fermo''; quasi dica: Li poeti questo fingono, e non l’ànno se non come per fizione, e così si dee avere per li altri, ''Si ristorar di seme di formiche'': però che le formiche diventarono uomini, com’è detto di sopra, ''Ch’era a veder per quella oscura valle Languir li spirti per diverse biche''; cioè dolersi per diversi luoghi di quella bolgia, ordinati e distribuiti secondo lo più e il meno della colpa; e questa è la determinazione della comperazione, e qui finisce la prima lezione.<br />
{{spazi|5}}''Qual sopra il ventre'' ec. Questa è la seconda lezione del {{Sc|xxix}}
canto, nel quale l’autor nostro tratta spezialmente delle pene che finge essere in questa {{Sc|x}} bolgia, e de’ peccatori che qui si puniscono; e dividesi in sette parte: imperò che prima pone distintamente delle pene che sono nella {{Sc|x}} bolgia, e distintamente d’alquanti peccatori; nella seconda, come Virgilio domanda due se v’è alcun latino, quivi: ''O tu, che con le dita'' ec.; nella terza, come pone la risposta di quelli due che sono latini, quivi: ''Latin siam noi'' ec.; nella quarta, come Virgilio mette Dante a domandar, quivi: ''Lo buon Maestro'' ec.; nella quinta, come l’addomandato risponde, quivi: ''Io fui d’Arezzo'' ec.; nella sesta, come Dante per alcuna cagione esce della materia, e domanda a Virgilio della condizione de’ Sanesi, e quel che vi rispose uno di quelli addomandati, quivi: ''Et io dissi al Poeta'' ec.; nella settima dichiara questo medesimo, che rispose alla domanda di Dante fatta a Virgilio chi elli è, quivi; ''Ma perchè'' {{Pt|''sap''-|}}<noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Cinzia sozi" />{{RigaIntestazione|744|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxix.}}}}|[''v''. 58-66]}}</noinclude>Egina era moglie d’Asopo. Questa terra odiata da Giunone, perchè Egina era stata concubina di Giove, secondo che pone Ovidio Metamorfoseos nel {{Sc|vii}}, fu corrotta da una grande pestilenzia intanto che tutti li uomini morirono infino alli animali; e non essendo rimaso se non lo re Eaco con tre suoi figliuoli Peleo, Telamone e Foco, pregò Giove che li rendesse li cittadini morti, o elli pigliasse ancora lui. Et avuto segno da Cielo ch’elli sarebbe esaudito, e guardando presso a sè, vide una quercia tutta piena di formiche ch’andavano suso e giuso portando granella, come è di loro usanza; e vedendo questa moltitudine, pregò Giove che gli desse altri tanti cittadini; et andato a dormire, perchè era sera, vide in sogno che quelle formiche si mutavano in uomini, e la mattina svegliato, vide quelle formiche diventate uomini, e però furono chiamati ''Mirmidones'' dalla formica che si chiama così in lingua greca; e diventati uomini, vennono a lui e salutaronlo per loro re e riempierono la città. E però di questo fa comperazione l’autore, dicendo: ''Non credo''; io Dante, ''che a veder maggior tristizia Fosse in Egina''; cioè in quella città d’Eaco, ''il popol tutto infermo, Quando fu l’aere sì pien di malizia''; per la pestilenzia, ''Che li animali infino al picciol vermo Cascaron tutti, e poi le genti antiche''; di quella città Egina, ''Secondo che i poeti ànno per fermo''; quasi dica: Li poeti questo fingono, e non l’ànno se non come per fizione, e così si dee avere per li altri, ''Si ristorar di seme di formiche'': però che le formiche diventarono uomini, com’è detto di sopra, ''Ch’era a veder per quella oscura valle Languir li spirti per diverse biche''; cioè dolersi per diversi luoghi di quella bolgia, ordinati e distribuiti secondo lo più e il meno della colpa; e questa è la determinazione della comperazione, e qui finisce la prima lezione.
''Qual sopra il ventre'' ec. Questa è la seconda lezione del {{Sc|xxix}}
canto, nel quale l’autor nostro tratta spezialmente delle pene che finge essere in questa {{Sc|x}} bolgia, e de’ peccatori che qui si puniscono; e dividesi in sette parte: imperò che prima pone distintamente delle pene che sono nella {{Sc|x}} bolgia, e distintamente d’alquanti peccatori; nella seconda, come Virgilio domanda due se v’è alcun latino, quivi: ''O tu, che con le dita'' ec.; nella terza, come pone la risposta di quelli due che sono latini, quivi: ''Latin siam noi'' ec.; nella quarta, come Virgilio mette Dante a domandar, quivi: ''Lo buon Maestro'' ec.; nella quinta, come l’addomandato risponde, quivi: ''Io fui d’Arezzo'' ec.; nella sesta, come Dante per alcuna cagione esce della materia, e domanda a Virgilio della condizione de’ Sanesi, e quel che vi rispose uno di quelli addomandati, quivi: ''Et io dissi al Poeta'' ec.; nella settima dichiara questo medesimo, che rispose alla domanda di Dante fatta a Virgilio chi elli è, quivi; ''Ma perchè'' {{Pt|''sap''-|}}<noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|748|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxix.}}}}|[''v''. 85-90]}}</noinclude>{{Pt|minerà|nominerà}} di sotto; e quivi dirò di loro condizioni, e però dice: ''Io''; cioè Dante, ''vidi due seder a sè poggiati''; che per sè non si sostengano onde ancor si nota qui la lor viltà, ''Come a scaldar s’appoggia tegghia a tegghia''; fa una similitudine che, come s’accosta sopra il fuoco testo a testo, sicché l’uno regge l’altro per scaldare, per far migliacci; così faceano costoro due, per meglio reggersi, ''Dal capo al piè di schianze maculati''; e per questo nota la loro corruzione. ''E non vidi giammai menare stregghia''; qui fa una similitudine che, come lo ragazzo che è aspettato dal signorsoo, che à fretta d’andarsene tosto a letto a dormire, mena la stregghia fortemente a stregghiare il cavallo; così costoro menavano l’unghie a grattarsi; e però fìnge, o vero dice: ''E non vidi giammai''; io Dante, ''menare stregghia''; a stregghiare lo cavallo, ''Da ragazzo aspettato dal signorso''; che voglia cavalcare, ''Nè da colui che mal volentier vegghia''; che fa in fretta per andare a dormire, ''Come ciascun''; di questi due, ''menava spesso il morso Dell’unghie sopra sè per la gran rabbia''; del pizzicore ch’avea; e qui si notano le grandi cure e sollicitudini che ànno li falsari, a dare effetto alle loro falsitadi, ''Del pizzicor, che non à più soccorso''; se non di stracciarsi con l’unghie: ''Così traeva giù l’unghia''; di colui che si grattava, ''la scabbia''; cioè la crosta della lebra, ''Come il coltel da scardova le scaglie, O d’altro pesce che più larghe l’abbia''; fa similitudine che così l’unghie faceano cadere le croste della lebbra, come lo coltello<ref>C. M. lo coltello, con che si diliscano li pesci, fa cadere da quel pescio</ref>, col quale si tolgono via le scaglie da’ pesci, le fa cadere da quel pescie, che si chiama scardova che à molto grandi scaglie e squame, ''O d’altro pesce che più larghe''; scaglie, ''l’abbia''; più che la scardova.
C. XXIX — ''v''. 85-90. In questi due ternari l’autor nostro finge che Virgilio parlasse a questi due detti di sopra, addomandando se v’era alcuno italiano, scongiurandoli per quello che a loro era caro, dicendo così: ''O tu, che con le dita ti dismaglie''; dice Virgilio all’un de’due detti di sopra; cioè ti levi la scaglia, come si leva dal coretto maglia da maglia, ''Cominciò il Duca mio''; cioè Virgilio, ''all’un di loro''; cioè di quelli due, ''E che fai d’esse''; cioè delle tue dita, ''tal volta''; cioè alcuna volta, ''tanaglie''; cioè quando afferrava e strappava, quando la scaglia era ancora verde che non si spiccava, ''Dinne''<ref>In alcune copie nel Testo per quella difficoltà, che seco arrecano le opere stampate in diverso carattere, ci è sfuggito - Dinne per Dimmi, di che speriamo ci vorrà escusati la cortesia dei lettori. ''E''.</ref>; tu a noi, ''s’alcun Latino è tra costoro''; cioè alcuno d’Italia, ''Che son quinc’entro''; cioè in questa bolgia, ''se l’unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro''; scongiuralo per quello che crede che sia a lui di piacere, per cattare benivolenzia: piace al lebroso di grattarsi per lo<noinclude>
<references/></noinclude>
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C. XXIX — ''v''. 85-90. In questi due ternari l’autor nostro finge che Virgilio parlasse a questi due detti di sopra, addomandando se v’era alcuno italiano, scongiurandoli per quello che a loro era caro, dicendo così: ''O tu, che con le dita ti dismaglie''; dice Virgilio all’un de’due detti di sopra; cioè ti levi la scaglia, come si leva dal coretto maglia da maglia, ''Cominciò il Duca mio''; cioè Virgilio, ''all’un di loro''; cioè di quelli due, ''E che fai d’esse''; cioè delle tue dita, ''tal volta''; cioè alcuna volta, ''tanaglie''; cioè quando afferrava e strappava, quando la scaglia era ancora verde che non si spiccava, ''Dinne''<ref>In alcune copie nel Testo per quella difficoltà, che seco arrecano le opere stampate in diverso carattere, ci è sfuggito - Dinne per Dimmi, di che speriamo ci vorrà escusati la cortesia dei lettori. ''E''.</ref>; tu a noi, ''s’alcun Latino è tra costoro''; cioè alcuno d’Italia, ''Che son quinc’entro''; cioè in questa bolgia, ''se l’unghia ti basti Eternalmente a cotesto lavoro''; scongiuralo per quello che crede che sia a lui di piacere, per cattare benivolenzia: piace al lebroso di grattarsi per lo<noinclude>
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Pagina:Dei Sepolcri (Bettoni 1808).djvu/85
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Modafix" />{{RigaIntestazione|||}}</noinclude>{{Indentatura}}''Le parole sono in bocca di {{AutoreCitato|Pietro Verri|Pietro Verri}} uno de’ quattro Spiriti descritti sul fine del Terzo Canto. — Parini è uno degli ascoltanti.''</div>
<poem> {{Loop|7|. }}{{Loop|2|. }}
I placidi cercai poggi felici,
Che con dolce pendio cingon le liete
{{R|3}}Dell’''Eupili'' lagune irrigatrici;<ref><small>Colli beati e placidi<br />Che il vago {{Ec|Eupoli|Eupili}} mio<br />Cingete con dolcissimo<br />Insensibil pendio!*</small>
<nowiki>*</nowiki>{{AutoreCitato|Giuseppe Parini|Parini}} nell’Ode su la ''Vita rustica''.</ref>
E nel vederli mi sclamai: salvete,
Piagge dilette al ciel, che al mio Parini
{{R|6}}Foste cortesi di vostr’ombre quete;
Quando ei fabbro di numeri divini
L’acre bile fe’ dolce, e la vestia
{{R|9}}Di {{AutoreCitato|Pindaro|tebani}} concenti e {{AutoreCitato|Quinto Orazio Flacco|venosini}}.
Parea de’ carmi tuoi la melodia
Per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde
{{R|12}}E le selve eran tutte un’armonia.</poem><noinclude>
<references/></noinclude>
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Autore:Giambattista Basile
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OrbiliusMagister
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Gadget PopolaTestiAutore: aggiunti testi mancanti
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<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giambattista<section end="Nome"/>
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<section begin="Nazionalità"/>italiano<section end="Nazionalità"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Giambattista
| Cognome = Basile
| Attività = scrittore
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* {{Testo|Lo cunto de li cunti|Lo cunto de li cunti (Il pentamerone) di Giambattista Basile, testo conforme alla prima stampa del MDCXXXIV-VI con introduzione e note di Benedetto Croce, Vol. I., Napoli}}
* {{Testo|Parsemolina}} (traduzione moderna in ampezzano)
* {{Testo|Lirici marinisti/IV/Giambattista Basile|Liriche di Giambattista Basile}}
** {{Testo|Di Cristo in croce essangue}}
** {{Testo|Mentre d'ampia voragine tonante}}
** {{Testo|Pallidetta mia vita}}
** {{Testo|Sovra gli omeri bianchi}}
{{Sezione note}}
[[Categoria:Autori marinisti]]
[[nap:Author:Giambattista Basile]]
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Pagina:Bandello - Novelle, Laterza 1911, IV.djvu/397
108
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2865773
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Eumolpo
3652
ortografia
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="1" user="Phe-bot" /></noinclude>394
PARTE TERZA
ai timidi giovini che, senza pensare più innanzi, credettero
fermamente quella bestia esser il diavolo. Onde spaventati, si
misero, quanto più le gambe ne gli poterono portare, a fuggir
via, tenendosi per ben avventurato colui che più forte se ne
fuggiva. Giunti in dormitorio, ansando e non potendo quasi
formar parola, incontrarono alcuni frati che se n'andavano al
coro, tra i quali era il maestro dei novizi. Egli, veggendo, per
10 lume che tutte le notti arde in dormitorio, costoro tornarsene
indietro, disse loro perché non andavano ad apprestar l’ufficio;
i quali con perturbata e timida voce gli risposero che su la
sepoltura de l’interrato la sera avevano visibilmente veduto il
nemico de l’umana natura. 11 buon maestro, che non era perciò
11 più animoso uomo del mondo, cominciò a tremar di paura
e stava fra due, se deveva discendere o no. Su questo arrivò
fra Giovanni Mascarello, cantore e ottimo musico, il quale, sentendo questo, animosamente se n’andò giù. E come entrò in
chiesa e vide quella bestia, che aveva distese l’orecchie per Io
strepito che aveva sentito, se gli appresentò innanzi il morto
e la sua malvagia vita, e subito, rivolgendo le spalle, serrò l’uscio
de la sagrestia e corse di lungo di sopra, gridando quanto poteva
più: — ''Patres mei'', egli è il diavolo ed il nemico de l’umana natura! — E più fiate replicava simili parole. Egli ha, come
sapete, una grandissima voce e gridava si forte che non vi fu
frate nel monastero che non lo sentisse. Il priore, che alora
usciva fuor de la cella, si fece innanzi e a fra Giovanni disse:
— Che pazzie son queste, cantore, che voi dite? Farneticate voi,
o che ci è? Tacete e non fate a quest'ora cotesti romori. Che
avete voi, in nome di Dio? — Padre — rispose alora il cantore, —
io non farnetico, ma vi dico che il diavolo è in chiesa, ed io
visibilmente con questi miei occhi l’ho veduto su la sepoltura di
quell'uomo di cosi mala fama, che iersera sepellimmo. E credo
che sia venuto per portarsene a l’inferno il corpo di colui.
Questi dui giovini anco l’hanno veduto. — Domandato dal priore
che cosa vista avessero, dissero il medemo che fra Giovanni
detto aveva. Il perché il priore, pigliati seco alquanti di quei
frati che quivi il romore aveva ragunati, scese giù ed entrò in<noinclude>
<references/></noinclude>
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Autore:Giulia Turco Turcati Lazzari
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<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giulia<section end="Nome"/>
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</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Giulia
| Cognome = Turco Turcati Lazzari
| Attività = scrittrice
| Nazionalità = italiana
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* {{Testo|Il piccolo focolare}}
* {{Testo|La fanciulla straniera}} [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu|(pagina Indice)]]
* {{testo|Il passo}} [[Indice:Rivista d'Italia, Anno VI, Fasc. VI.djvu|pagina indice]]
* {{testo|Fiori d'inverno}} [[Indice:Turco - Fiori d'inverno.djvu|pagina indice]]
* {{testo|Oro e orpello}} [[Indice:Turco - Oro e orpello.djvu|pagina indice]]
* {{testo|Il giornale intimo}} [[Indice:Turco - Il giornale intimo.djvu|pagina indice]]
* {{testo|La gentilezza dell'animo}} [[Indice:Turco - La gentilezza dell'animo.djvu|pagina indice]]
* [[La storia d'un ciliegio]] {{IA|la_storia_d_un_ciliegio_1895}}
* [[Canzone senza parole (raccolta|Canzone senza parole)]] [[Indice:Turco - La gentilezza dell'animo.djvu|pagina indice]]
** {{testo|Canzone senza parole}}
** {{testo|Una cameriera}}
** {{testo|Salvatrice}}
** {{testo|La passione di Curzio Alvise}}
** {{testo|La cura di Manuela}}
** {{testo|Vinta}}
* [[Il romanzo di Luisa Hercolani]] {{IA|il_romanzo_di_luisa_hercolani_1895}}
* [[Il sacrificio di Ieronima]] {{IA|il_sacrificio_di_ieronima_1898}}
* [[Impressioni e ricordi di Bayreuth]] {{IA|impressioni_e_ricordi_di_bayreuth_1897}}
; già compresi in Canzone senza parole:
* [[La cura di Manuela]] {{IA|la_cura_di_manuela_1898}}
* [[Canzone senza parole (1896)]] {{IA|canzone_senza_parole_1896}}
* [[La passione d'Alvise]] {{IA|la_passione_d_alvise_1899}}
* {{testo|Salvatrice}} [[Indice:Turco - Salvatrice.djvu|(pagina indice)]]
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2022-08-03T12:59:47Z
Alex brollo
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/* Opere */
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<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giulia<section end="Nome"/>
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</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Giulia
| Cognome = Turco Turcati Lazzari
| Attività = scrittrice
| Nazionalità = italiana
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* {{Testo|Il piccolo focolare}}
* {{Testo|La fanciulla straniera}} [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu|(pagina Indice)]]
* {{testo|Il passo}} [[Indice:Rivista d'Italia, Anno VI, Fasc. VI.djvu|pagina indice]]
* {{testo|Fiori d'inverno}} [[Indice:Turco - Fiori d'inverno.djvu|pagina indice]]
* {{testo|Oro e orpello}} [[Indice:Turco - Oro e orpello.djvu|pagina indice]]
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{{R|530}}E verso la città, fuggendo, cercarono scampo.
Quivi il tenace Ulisse, levando un altissimo grido,
s’avventò, l’incalzò, come aquila a volo dal cielo.
Ma scagliò allora una fumida folgore il figlio di Crono,
che cadde innanzi a sua figlia, la Diva dall’occhio azzurrino.
{{R|535}}E disse allor la Diva dall’occhio azzurrino ad Ulisse:
«O figlio di Laerte, divino scaltrissimo Ulisse,
frénati, e della guerra pon fine alla rissa funesta,
ché Giove, onniveggente di Crono figliuol, non s’adiri».
Disse Atena. Ubbidí col gaudio nell’anima Ulisse.
{{R|540}}E quindi strinse accordi giurati fra entrambe le parti
Pallade Atena, la figlia di Giove che l’egida scuote,
che avea la voce assunta di Mèntore, e tutto l’aspetto.
</poem>
[[File:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II-0238.png|400px|center]]<noinclude></noinclude>
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<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|SANTA CRISTINA}}
<poem>
Di Cristo in croce essangue
amante sviscerata,
nel suo duol, nel suo sangue
Cristina trasformata,
sente dentro al suo cor mesto e doglioso
amorosa pietade, amor pietoso.
Brama con lui patire
e sferze e spine e croci;
seco desia morire
fra’ suoi tormenti atroci;
e, gravida d’amor, nel cor istesso
ciò che brama e desia le resta impresso.
Talché ne l’alma sente
i medesmi flagelli,
la corona pungente,
i chiodi acuti e felli
e, nel suo duol cangiata acerbo e forte,
prova seco ad ogni or viva la morte.
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OrbiliusMagister
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{{ct|f=100%|v=1|PER L’INCENDIO DEL VESUVIO DEL 1632}}
<poem>
Mentre d’ampia voragine tonante
fervido vedi uscir parto mal nato,
piover le pietre e grandinar le piante,
spinte al furor d’impetuoso fiato,
e i verdi campi giá sí lievi avante
coprir manto di cenere infocato,
e ’l volgo saettar smorto e tremante
solfurea parca, incendïoso fato:
— Ahi! — con lingua di foco ei par che gridi —
arde il tutto, e sei pur alma di gelo;
tu nel peccar t’avanzi e ’l mar s’arretra.
Non temi, e crollar senti i colli e i lidi;
non cangi stato, e cangia aspetto il cielo;
disfassi un monte, e piú il tuo cor s’impetra! —
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<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|LA BELLA CHIOMA}}
<poem>
Sovra gli omeri bianchi
via piú che freschi gigli e pure brine,
l’aureo mar ondeggiava del bel crine,
e al dolce lusingar d’aura seconda
rendea piú chiaro l’òr, piú ricca l’onda.
Cosí, lucente e vago
copre l’arena d’òr superbo il Tago,
e cosí ’l Gange ancora
l’illustre riva alteramente indora.
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OrbiliusMagister
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<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|LE TRE BELLE}}
<poem>
O belle Parche al mio stame vitale,
o separato Gerïon d’amore,
o tridente gentil che nel mio core
puoi con tre punte aprir piaga immortale!
Ecco, nuove sirene Amor fatale
ne dá, che non i corpi in salso umore,
ma sommergono l’alme in dolce ardore,
né canto sol, ma sguardo hanno mortale.
Ecco quelle tre dee, che scorse in Ida
del piú bel re troian la bella prole,
piú de la greca fede al greco infida.
Ecco giá da la terza eterea mole
discese le tre Grazie, ove s’annida
mirabilmente triplicato il sole.
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{{ct|f=100%|v=1|MUSICA NOTTURNA }}
<poem>
Tu, che fra le caligini profonde
spiri armonia, de la tranquilla notte
le dolci pose dolcemente rotte
che del fiume leteo stillano l’onde,
ben sembri chi di Lete in su le sponde
fra l’ombre giá de le tartaree grotte,
per trarne le bellezze ivi condotte,
sciolse dal mesto cor note gioconde.
Quindi ben io l’orride pene intanto
di questo scorgo invisitato inferno
a sí placido suon temprarsi alquanto.
Ecco, arresta la luna il moto eterno;
stupisce forse, poich’un simil canto
fra gli orrori ascoltò del nero Averno.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III }}
{{ct|f=100%|v=1|SEDENDO GIUDICE IN TRIBUNALE }}
<poem>
Io, che giudice altrui qui siedo in trono,
son fatto reo di deitá terrena;
io, ch’a le colpe altrui parto la pena,
a chi pena mi dá, lasso, perdono.
Quell’io, ne la cui man che punge e frena,
e l’altrui vite e l’altrui morti sono,
a l’empia feritá di tigre armena
de l’egra vita mia l’imperio dono.
Altri al mio spesso riverito sguardo
timido agghiaccia; ed io, se miro mai
un bel volto avvampar, l’adoro e n’ardo.
Giudice, invero, avventurato assai,
se, qual giudice Ideo, giamai riguardo
di mia Venere ignuda i bianchi rai!
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|biagio cusano}}|157}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|IV}}
{{ct|f=100%|v=1|PER I SETTE MONTI}}
{{ct|f=90%|v=1|nella mano della sua donna}}
<poem>
Roma sembri animata a piú d’un core
co’ sette bianchi tuoi monti spiranti,
mano, in cui forma il Campidoglio Amore,
trïonfator de’ prigionieri amanti.
Anzi, pur hai di ciel vivi sembianti:
ecco la bella in te via di candore,
ed ecco per mirabile stupore
vi miro i corsi de’ pianeti erranti.
Qui, mentre del pensier dibatto l’ali,
a preveder da sí bel ciel la sorte
degli amorosi miei corsi vitali,
ah mio destino doloroso e forte!
con infausti caratteri fatali
scritto in ambe le palme io leggo: {{sc|Morte}}.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|V}}
{{ct|f=100%|v=1|ROMA - AMOR}}
<poem>
Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante,
de l’arte a contemplar gli alti stupori;
meraviglie però molto maggiori
scoprirá di natura il tuo sembiante.
Giá non entrò con sí superbi onori
nel Campidoglio mai gran trïonfante,
qual tu, che porti a’ tuoi begli occhi avante
novo trofeo d’incatenati cori.
A Marte crescerá l’antica arsura,
or ch’altra Citerea fa piú sereno
il ciel de le sue belle invitte mura.
E Roma, dolcemente arsa al baleno
di tua beltá cosí leggiadra e pura,
quel che porta nel nome avrá nel seno.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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{{Rule|2em|v=4}}<section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|IL SORRISO MODESTO}}
<poem>
Ove il Sebeto al mar porta di pianto,
piú che d’onde lucenti, argentea soma,
e di folti ginepri il capo inchioma
la bianca amica in sul sinistro canto;
quella vid’io, che dá lume al mio canto,
volger in groppi d’òr la lunga chioma;
allor: — Qual piú leggiadra oggi si noma,
doni a te — dissi, — o bella ninfa, il vanto!
Quanti in vari composti usò natura
di bello, ha messo in tuo gentile aspetto,
o piú che umana angelica figura!
Non può scemer l’invidia in te difetto,
sí perfetta ti rende egual misura... —
Ella sorrise e chinò gli occhi al petto.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|160|{{Sc|lirici marinisti}}}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|II}}
{{ct|f=100%|v=1|LA BELLA PARLATRICE}}
<poem>
Né con sí vaghi ed amorosi accenti
narra Progne a voi, selve, i suoi dolori;
né Filomena i suoi secreti amori
con sí facondo dir commette ai venti;
né sí rotto fra sassi i piè lucenti,
mormora il rio lungo il pratel de’ fiori,
come la bionda mia leggiadra Clori,
mentre a l’amica sua spiega i tormenti.
Un fiume d’òr, che di rubini ha sponde,
scogli di perle, il suo parlar simiglia;
ma come arciero il cor punge e saetta.
Deh, qual veggio d’amor gran meraviglia!
lingua chi mosse mai sí dolce, o donde,
se non forse dal ciel scesa angioletta?
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|L’AMOROSA IMAGINAZIONE}}
<poem>
Amor, che mal mio grado mi trasporta
a far mia stanza in solitario monte,
nei fior, ne l’erba, in verde faggio, in fonte
mi figura colei che ’l mio cor porta.
Onde io, vòlto a seguir sí fida scorta,
e mirando or le luci al ferir pronte,
or gli atti onesti or le bellezze conte,
sento un dolce piacer che mi conforta.
E mentre a le sembianze amate e belle
son fiso, io veggio uscir la notte o ’l giorno,
e l’un l’alba condur, l’altra le stelle;
e passar fère a l’ombra, al rivo, al prato,
e far gli armenti a lor magion ritorno...
Me solo in un pensier tien fermo il fato.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|162|{{Sc|lirici marinisti}}|nascondi=si}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=120%|v=1|t=4|GIOVANNI ANDREA ROVETTI}}
{{Rule|2em|v=4}}<section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|IL LAGO DI DIANA IN NEMI}}
<poem>
Lago ove Cinzia regna, Amor barcheggia,
gloria del primo Augusto, onor de l’arte,
occhio de la natura ond’ella sparte
mille vaghezze sue lieta vagheggia,
Giove sovra il tuo ciel stende la reggia,
quando i consigli suoi libra e comparte;
ivi danza Ciprigna e giostra Marte,
quando il coro sovran lá su festeggia.
Placidi sempre in te scherzano i venti,
di greggi ondosi le tue ninfe appaghi,
fatto speco ai pastor, specchio agli armenti.
Ma quel recinto d’arboscelli vaghi,
teatro illustre de’ tuoi chiari argenti,
vuol dir che la corona hai tu dei laghi.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|giovanni andrea rovetti}}|163}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|II}}
{{ct|f=100%|v=1|IL PIANTO DEL FIGLIUOLO}}
<poem>
Un picciol cane, un ghiro ed un augello
del tuo caro fanciullo
sono, bella Lisetta, ognor trastullo.
Ruzza col ghiro il cane,
ne brilla il putto in vista;
ma l’augel, che non tresca e becca il pane,
infranto ne rimane:
tu ne ridi, io ne godo, ei se n’attrista,
e scaccia stizzosetto
il ghiro e ’l cane e piagne l’augelletto.
Se ridi, o cruda, del tuo figlio ai guai,
al mio duol che farai?
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|PREMENDO IL PIEDE}}
<poem>
Tu chiedi quel ch’io voglio,
quando a mensa talor ti premo il piede?
Ah, che negli occhi ogni tuo sguardo il vede!
Lusingando t’infingi
e ’l bianco volto in bel rossor dipingi.
Vorrei, dolce ben mio...
Lasso, ch’a dirlo m’arrossisco anch’io!
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|164|{{Sc|lirici marinisti}}|nascondi=si}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=120%|v=1|t=4|BARTOLOMEO TORTOLETTI}}
{{Rule|2em|v=4}}<section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|LA SEGRETEZZA}}
<poem>
Lilla, al comune onor piú ch’al piacere
vo’ che serviam; questi passeggi e queste
vanitá da fanciul son poco oneste,
poco conformi a le tue doti altere.
Amiamci di buon cuor; queste le vere
parti son d’amor puro, amor celeste.
Oh bell’inganno ad altrui fa chi veste
gli amorosi pensier d’arti severe.
Lilla, fa’ a modo mio; non ti dispiaccia
ch’io ti venga a servir sí parcamente,
ch’altri non creda i nostri amori e taccia.
Patisco io piú di te; ma finalmente,
dopo alcun di che non si vegga in faccia,
fa vista piú soave il Sol lucente.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|bartolomeo tortoletti}}|165}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|II}}
{{ct|f=100%|v=1|LA SOMIGLIANZA}}
<poem>
Ove d’avara chiostra a me s’involi,
idolo mio leggiadro, il tuo splendore,
maestro a vagheggiar mi guida Amore
somigliante beltá che mi consoli.
Tu non temer però che lá sen voli
da le tue fiamme fuggitivo il core;
giuroti ch’ardo piú, quanto maggiore
conosco il raggio onde tu splender suoli.
In lei null’altra cosa amar poss’io
ch’il tuo solo ritratto: una è la bella
luce d’entrambe ed uno il mio desio.
Tai sono i rai del Sol ne la sorella;
e se tu sole sei del giorno mio,
luna esser può de la mia notte anch’ella.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|LE ROSE GITTATE AL FUOCO}}
<poem>
Ite, rose lascive, ite d’amore
pegni vani e nocenti, un tempo cari,
e da l’arido vostro e dal pallore
qual sia chi mi vi diè, per me s’impari.
Tal diverrá quella beltá, ch’in fiore
oggi par che non abbia al mondo pari;
e deggio ancor seguirla? ancor dal core
m’usciranno per lei singulti amari?
Ahi, che pur troppo il mio desire insano
mi fe’ soggetto; or tempo è ben che fia
sciolto il laccio crudel da la mia mano.
Intanto, itene voi per cotal via,
ch’il rogo vostro e ’l cenere profano
primo trofeo di mia vittoria sia.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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Lirici marinisti/IV/Giambattista Basile
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Giambattista Basile<section end="autore"/>
<section begin="sottotitolo"/>Liriche di Giambattista Basile<section end="sottotitolo"/>
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<section begin="arg"/>Da definire<section end="arg"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Qualità|avz=100%|data=14 settembre 2021|arg=Da definire}}{{IncludiIntestazione|autore=Giambattista Basile|sottotitolo=Liriche di Giambattista Basile|prec=../|succ=../Biagio Cusano}}
<pages index="AA. VV. - Lirici marinisti.djvu" from=157 to=157 fromsection="s1" tosection="s1" />
== Indice ==
*{{Testo|Di Cristo in croce essangue|I. Santa Cristina|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Mentre d'ampia voragine tonante|II. Per l'incendio del Vesuvio del 1632|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Sovra gli omeri bianchi|III. La bella chioma|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Pallidetta mia vita|IV. Pallore gradito|tipo=tradizionale}}
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Lirici marinisti/IV/Biagio Cusano
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2022-08-03T15:46:37Z
OrbiliusMagister
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wikitext
text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Biagio Cusano<section end="autore"/>
<section begin="sottotitolo"/>Liriche di Biagio Cusano<section end="sottotitolo"/>
<section begin="prec"/>../Giambattista Basile<section end="prec"/>
<section begin="succ"/>../Giovanni Palma<section end="succ"/>
<section begin="nome template"/>IncludiIntestazione<section end="nome template"/>
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<section begin="arg"/>Da definire<section end="arg"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Qualità|avz=100%|data=14 settembre 2021|arg=Da definire}}{{IncludiIntestazione|autore=Biagio Cusano|sottotitolo=Liriche di Biagio Cusano|prec=../Giambattista Basile|succ=../Giovanni Palma}}
<pages index="AA. VV. - Lirici marinisti.djvu" from=161 to=161 fromsection="s1" tosection="s1" />
== Indice ==
*{{Testo|O belle Parche al mio stame vitale|I. Le tre belle|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Tu, che fra le caligini profonde|II. Musica notturna|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Io, che giudice altrui qui siedo in trono|III. Sedendo giudice in tribunale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Roma sembri animata a più d'un core|IV. Per i sette monti|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante|V. Roma-Amor|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quella selva di peli orrida e scura|VI. All'amante, che si è raso|tipo=tradizionale}}
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|maffeo barberino}}|169|nascondi=si}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=120%|v=1|t=4|PAOLO GIORDANO ORSINO }}
{{ct|f=90%|v=1|DUCA DI BRACCIANO}}
{{Rule|2em|v=4}}<section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|I}}
{{ct|f=100%|v=1|LA BELLA PELLEGRINA}}
<poem>
La leggiadretta e vaga pellegrina,
che mano ostil de l’aver suo fe’ manca,
fuggendo l’arsa patria, ardita e franca
venne altrove a portar luce divina.
La lontana, dapoi che la vicina
provincia scorse, scorre e non si stanca:
intanto l’occhio nero e la man bianca
fan dei semplici cor strage o rapina.
Tu che rimiri ognor serrate e sole
le donne di bel volto o di crin biondo
e risponder altrui poche parole,
non prender meraviglia, non immondo
giudicare il pensier: proprio è del sole
l’andar girando e illuminando il mondo.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|170|{{Sc|lirici marinisti}}}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|II}}
{{ct|f=100%|v=1|SENSO E RAGIONE}}
<poem>
Apria bocca vermiglia un vago riso,
occhio azzurro vibrava aureo splendore,
guance rosa spargea del suo colore
dove piú dove meno in un bel viso.
Nel mirar quel seren, da sé diviso
per l’estremo diletto era ogni core;
questo potea ben dirsi il dí d’amore,
d’amor la primavera, il paradiso.
Chiuse gli occhi il mio volto, aprigli il seno;
era (oh stupor!) la primavera inverno,
la rosa spina, lo splendor baleno;
il breve riso, ésca di pianto eterno;
notte il giorno, tempesta era il sereno,
duolo il diletto, il paradiso inferno.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|VANITAS VANITATUM}}
<poem>
Tu, che giamai non ti contenti e vuoi
laute mense bramar sotto aurei tetti,
consorte eccelsa entro a gemmati letti,
esercito di servi a’ cenni tuoi;
di regnar dagli espèri a’ lidi eoi,
di canti e melodie dolci diletti,
di cacce e di tornei giocondi aspetti,
quando alla fin tutto ottenessi... E poi?
In breve è nulla. Ed anco è nulla adesso
se tu lo paragoni al ben ch’è vero,
e sol ti sembra ben perch’è d’appresso.
E corta hai tu la vista. Occhio sincero,
se lo mira e multiplica in se stesso,
ritroverá zero via zero, zero.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|paolo giordano orsino}}|171}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|IV}}
{{ct|f=100%|v=1|LA BUGIA}}
<poem>
La bugia non mai sola; uno squadrone
ha sempre in compagnia de la sua setta,
che le va dietro o innanzi, e l’interdetta
strada corre con essa a perdizione.
Se non ha gran memoria, è confusione;
se tra nemici sta, calunnia è detta;
s’alberga tra gli amici, è barzelletta;
se versa circa ai grandi, adulazione.
Riso, pianto e parlar non è sincero
sempre in noi; ma il vestir verace addita
se teniamo dal franco o da l’ibero.
Questo nostro costume non imíta
giá la bugia: ella è contraria al vero
e va di veritá sempre vestita.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|V}}
{{ct|f=100%|v=1|LA CITTÀ}}
<poem>
Ne le cittadi ove i monarchi han sede,
disusato è pel tristo il bon sentiero;
fassi solo apparir per bianco il nero,
oprar fortuna e non virtú si vede.
Quivi al torto ragion soggiace e cede,
il doppio cor conculca il cor sincero,
l’interesse l’onore, il falso il vero,
l’odio l’amor, l’infedeltá la fede.
Teco piange il tuo mal chi gusto n’ebbe,
ti promette favor chi vòl vendetta,
arride a te chi ’l pianto tuo vorrebbe.
Ti dá il buon di chi il tuo mal anno aspetta
e ti saluta chi ti caverebbe
piú volentieri il cor che la berretta.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|174|{{Sc|lirici marinisti}}}}</noinclude><section begin="s1" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|II}}
{{ct|f=100%|v=1|IL GIORNO DEI MORTI}}
<poem>
Queste pompe di morte e questi odori
d’arabi incensi e queste accese faci
memorie son de’ nostri dí fugaci
per pianger sempre i giá commessi errori.
Tu, che godi fra gli ozi e fra gli amori
le lusinghe del mondo empie e fallaci,
e tra i diletti addormentato giaci,
ami ombre, abbracci vento e siegui orrori.
Chi un tempo, carco d’amorose prede,
ebbe l’ostro a le guance e l’oro al crine,
deforme arido teschio, ecco, si vede.
Superbi regi e la vil plebe alfine
poca polve vegg’io sotto il tuo piede,
oppressi e vinti da un medesmo fine.
</poem><section end="s1" />
<section begin="s2" />{{ct|f=100%|v=1|t=2|III}}
{{ct|f=100%|v=1|LA TEMPESTA}}
<poem>
Armato il ciel di tuoni e lampi ardenti,
e col volto cruccioso oltre l’usato,
vibrò da l’arco suo, fremendo irato,
contro la terra i fulmini pungenti.
Tolsero i nembi e le pruine e i venti
allo stelo le frondi e l’erba al prato;
e tonando da l’uno e l’altro lato,
cruda guerra tra lor fean gli elementi.
Da l’arenoso letto, ecco, il mar esce,
ed ingombrando il mondo or vaga errante
fra l’onde il cervo, or tra bei fiori il pesce;
e tra diluvi e tra tempeste tante,
con gl’infocati lampi il giel si mesce,
e tra le nevi il cielo è fiammeggiante.
</poem><section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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Autore:Biagio Cusano
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OrbiliusMagister
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Gadget PopolaTestiAutore: aggiunti testi mancanti
wikitext
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<section begin="Nazionalità"/>italiano<section end="Nazionalità"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Biagio
| Cognome = Cusano
| Attività = poeta
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* {{Testo|Lirici marinisti/IV/Biagio Cusano|Liriche di Biagio Cusano}}
** {{Testo|Io, che giudice altrui qui siedo in trono}}
** {{Testo|Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante}}
** {{Testo|O belle Parche al mio stame vitale}}
** {{Testo|Quella selva di peli orrida e scura}}
** {{Testo|Roma sembri animata a più d'un core}}
** {{Testo|Tu, che fra le caligini profonde}}
{{Sezione note}}
[[Categoria:Autori marinisti]]
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" /></noinclude>{{ct|f=150%|t=3|v=3|w=4px|“IL SOPRAPPIÙ.„}}
Il gobbetto posò la tazza vuota sul tavolino del caffè, s'accomodò sul divano e aperse un giornale.
Il Comunicato, i saluti dei combattenti, l'albero di Natale pei feriti, la guerra, sempre la guerra, dovunque la guerra! Egli solo non poteva parlare della guerra, perchè quando ne discorreva con amici, conoscenti od ignoti, tutti quanti lo guardavano con un'aria di compassionevole canzonatura e se vi pensava si rodeva dentro di sè.
Eppure egli sentiva gli altri ed anche se stesso supremamente ingiusti verso la sua sorte. La quale finalmente non era che la sorte di moltissimi giovani venticinquenni come lui che per varie ragioni non potevano vestire la divisa militare e recarsi a combattere. Mario Ponti non era malato di petto e sempre tossicoloso?<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|88|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>
Piero Giannoni non trascinava la gamba destra per un disastro automobilistico? Carluccio Lanzi non era mezzo cieco e del tutto ridicolo con la sua miopia che gli faceva commettere le peggiori scempiaggini?
Eppure tutti costoro potevano parlare della guerra e dichiararsi senza vergogna riformati per malattia o per difetto fisico senza che a nessuno saltasse in mente di sogghignare e di sternutare comicamente come accadeva quasi ogni giorno per lui.
— Caro mio, la tua non è un’insufficienza fisica — gli aveva detto una sera Mario Ponti, il mezzo tisico che aveva uno spirito maligno specialmente velenoso verso coloro che stavano benissimo. — Il tuo difetto si può invece chiamare un soprappiù.
Tutti avevano riso di questa trovata e da quel giorno la sua gobba era stata battezzata “il soprappiù„. Gli amici che lo incontravano per via e al caffè gli battevano sul dorso allegramente chiedendogli notizie del “soprappiù„, consigliando a sottoporre il suo caso all’ufficio di leva perchè non era giusto che un uomo sano, giovane e provvisto per soprappiù di simile magnifica esuberanza restasse a casa mentre poteva rendersi utile al paese più di qualsiasi altro soldato diritto e mingherlino.<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''“Il soprappiù„''|89|riga=si}}</noinclude>
Ferdinando Ducas, il gobbetto, ascoltava, sorrideva, talvolta rimbeccava, ma dentro di sè soffriva tutte le torture. Quante volte avrebbe voluto drizzarsi sulla sua piccola persona così robusta e forte non ostante il “soprappiù„ e pigliare sonoramente a schiaffi il suo sorridente insultatore! Ma anche questo onesto sfogo era riserbato ai galantuomini e ai gentiluomini almeno di media statura e di schiena a linea retta ed egli non ne poteva usufruire senza rendere sè e la sua gobba ancora più grotteschi di quanto già non fossero.
Tra gli amici che più mordacemente si burlavano di lui ve n'era uno partito da un paio di settimane per la guerra il quale, sino al momento di salire in treno accompagnato da tutta la comitiva, non aveva cessato di colpirlo coi suoi frizzi e coi suoi motteggi a cui egli non s'era stancato di rispondere col più amabile sorriso e col più benevolo spirito.
Questi si chiamava Giovanni Bonvicini ed era fidanzato a una cugina del gobbetto, la signorina Lauretta Ducas, graziosissima ragazza ventenne ricca e superba, corteggiata da molti ammiratori. Anche Ferdinando si sarebbe schierato con gioia da molto tempo nel numero degli adoratori più assidui e appassionati di sua cugina Lauretta, se non ci fosse stato di mezzo<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|90|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>
ciò che anch’egli ormai chiamava come gli altri “il soprappiù„ e appena si arrischiava a darle timidamente del tu come lo autorizzava la sua parentela ed a farle due o tre visite all’anno, accolto da lei e da sua madre con una tediata indifferenza.
Pareva ch’esse si vergognassero d’avere un gobbo nella loro famiglia, come se questo potesse nuocere ai futuri destini di Lauretta e gli lasciavano chiaramente comprendere che desideravano di vederlo il meno possibile. Ma quando ella si fidanzò a Gianni Bonvicini, il quale era un ottimo partito e un bellissimo ragazzo, gli si mostrarono alquanto più indulgenti e si degnarono di ammetterlo con qualche maggiore frequenza in casa loro, forse perchè Gianni si divertiva a confrontarlo così piccolo e mal costrutto con la sua magnifica aitanza di bell’ufficiale in divisa.
Senonchè, partito Bonvicini per la zona di guerra fra le lagrime della fidanzata, Ferdinando non osò più mostrarsi alla cugina, come se ella dovesse ora maggiormente disprezzarlo perchè egli se ne rimaneva a godersi il suo agiato ozio e la sua sconfinata libertà, mentre Gianni passava le notti nell’umidità gelida della trincea e si esponeva ogni giorno alla morte.
Il gobbetto sfogliò lentamente il giornale so-<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''“Il soprappiù„''|91|riga=si}}</noinclude>stenuto dal bastoncino di legno trovato sul tavolo del caffè e gli venne sott’occhio nell’ultima pagina, fra gli annunzi mortuari, un nome che lo fece sobbalzare.
“Gianni Bonvicini, ufficiale nel.... cadeva eroicamente sul Carso il giorno.... Costernati ma orgogliosi ne dànno l’annunzio i genitori, la sorella e il cognato, la fidanzata....„
— Ah! povera Lauretta, — esclamò Ferdinando balzando in piedi e si vide nello specchio di contro così pallido e sconvolto che si meravigliò del proprio dolore.
— Povero Gianni! Così allegro e spiritoso, così bel giovane e così fortunato, — si diceva il gobbo uscendo dalla saletta fumosa e camminando senza avvedersene sotto la pioggia che cadeva a dirotto.
— Morto, morto dopo quindici giorni di vita di campo. Scomparso così con un sorriso ed un frizzo dietro lo sportello di un treno per non più ritornare. Morto, lasciando tutti a piangere e a desiderarlo vivo, a ricordarlo così bello, ad amarlo così forte. Ah! che fortuna andarsene a quel modo con un addio pieno di baldanza e sparire nell’ombra con un ultimo baleno degli occhi neri, con un ultimo riso dei denti bianchi! Perchè povero Gianni? Chi più avventurato di lui? Perchè compiangerlo? Chi sa?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|92|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>
S’era avviato in questi pensieri sotto una fila di portici dove la gente si pigiava per ripararsi dalla pioggia e d’un tratto s’accorse d’essere giunto davanti alla casa di sua cugina Lauretta. Allora si fermò e pensò che poteva salire da lei con la speranza di trovarla, per dirle il suo doloroso stupore ed alcune parole di sincero compianto.
Nel salotto semibuio per l’oscurità del cielo e dei cortinaggi egli trovò sua zia tutta in lagrime intenta a narrare con molti sospiri ad un’amica matura la tragica fine del suo futuro genero. Ella salutò appena Ferdinando e non lo presentò alla signora ma egli sedette sull’orlo d’una poltrona, nell’ombra, e stette ad ascoltare i particolari di quella morte con una avidità vibrante di commozione.
Quindi la visitatrice si alzò e fu chiamata Lauretta perchè venisse a salutarla. Ella si presentò sulla soglia tutta vestita a lutto come una vedova, più bella e più superba nel suo pallore senza lacrime e si lasciò baciare silenziosamente dalla matura signora che s’accomiatava. Soltanto quando questa fu uscita ella s’accorse della presenza di Ferdinando e lo guardò con due occhi foschi, senza rivolgergli la parola.
— Lauretta, — egli balbettò timido e impacciato dinanzi a quel dolore così rigidamente<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''“Il soprappiù„''|93|riga=si}}</noinclude>
chiuso in se stesso, — ho letto poco fa la crudele notizia e non so dirti, non so esprimerti davvero quale profonda angoscia ne abbia provato.
Ella lo ascoltava senza guardarlo, col gomito sul bracciuolo della poltrona e la guancia sulla palma, corrugando di tanto in tanto la fronte come se quella voce la infastidisse.
— Tu non puoi immaginare, Lauretta, — continuava il gobbo — come mi abbia commosso la fine eroica del povero Gianni, e quanto lo ricordi come lo vidi l’ultima volta mentre partiva, così gioviale, così pieno di salute e di vivacità. Rammento persino, vedi, che le sue ultime parole furono per me. Addio, Nando, tanti saluti al “soprappiù„ mi gridò, mentre il treno si metteva in moto e tutti gli altri risero di cuore perchè aveva tanto spirito e non era cattivo neppure con me, povero Gianni!
Egli ebbe un piccolo sorriso accorato sul viso pallido e ossuto e guardò sua cugina aspettando ch’ella gli rispondesse con una parola, con un cenno, con uno sguardo, con un sospiro. Ma ella rimaneva immobile col viso rivolto verso la finestra da cui scendeva fra i cortinaggi una luce grigia di giornata piovosa.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|94|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>
— Eppure — riprese il gobbetto incoraggiato da quel silenzio che gli permetteva di aprire tutto il suo cuore — eppure, vedi, Lauretta, la sua morte è stata così bella che io non posso trattenermi dall’invidiarlo. Perdonami questa confessione che ti parrà quasi un sacrilegio, ma io sento che quando si lascia la vita in quel modo, giovani, belli, forti, amati, non c’è compianto che per il dolore di chi resta. Quello che se ne va, così di colpo, senza sapere forse di morire, è un fortunato degno d’invidia e non di pietà.
A queste parole seguì una brevissima pausa durante la quale Lauretta si alzò e gli venne vicino mostrandogli all’improvviso tutta la durezza orgogliosa e beffarda del suo viso.
— Che puoi sapere tu di queste cose? — gli disse con una voce aspra che lo colpì in pieno petto. — Puoi cantare e sospirare le belle frasi, tu che te ne rimani beatamente a casa mentre gli altri si battono e cadono. È facile parlare d’invidia per uno che muore quando si ha la fortuna di possedere una gobba che salva da tutti i rischi e da tutti i pericoli. Va là, che sei ben felice di avere, come diceva Gianni, il tuo bel “soprappiù„ che ti impedisce di esporre la pelle con gli altri. Di’ la verità almeno, e non raccontare la patetica storia della tua in-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''“Il soprappiù„''|95|riga=si}}</noinclude>vidia per chi se ne va. Tanto, nessuno ti crederebbe.
Ella scomparve dietro una portiera e il gobbetto rimase solo, così instupidito da quelle parole che non riuscì per un poco a trovare la porta e ad andarsene.
Ma quando fu nella strada, sotto la pioggia che cadeva sempre, se le ripetè ad una ad una e gli parve a un tratto che nessun destino al mondo fosse più triste del suo. Non poteva nemmeno compiangere chi rimaneva, non poteva nemmeno invidiare chi se ne andava. “Tanto, nessuno ti crederebbe„.
Camminò un paio d’ore sotto la pioggia ruminando fino all’esasperazione questi pensieri e quando fu notte si fermò su un ponte di strada ferrata sotto il quale passavano continuamente treni in partenza e in arrivo. Veniva dalla stazione vicina un urlìo allegro di soldati che partivano per la zona di guerra, salutati dagli amici e dai parenti e di quando in quando lo scoppio d’una fanfara militare echeggiava più forte coprendo le grida.
Ferdinando ascoltava quella musica e quelle voci con un palpito sordo nel cuore e non osava neppure più formulare un pensiero di invidia per quei giovani pieni di baldanza che potevano andare a combattere e a morire fra<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|100|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>esangue grasso e floscio dove le sopracciglia ancora nere nella gran fronte scoperta segnavano due vasti archi pieni d’alterigia e di volontà.
— Si calmi, marchesa, — l’esortò il medico prendendole il polso inerte sulla coperta di broccato azzurro e ne contò con volto assorto i battiti scuotendo il capo dall’alto al basso in segno di sodisfatta approvazione.
Ma quando fu per andarsene dopo aver dato alla cameriera gli ultimi ordini, l’inferma gli afferrò la mano, lo trattenne presso di sè, gli disse con voce supplichevole:
— Rimanga ancora un poco, dottore. Vorrei parlarle.
Per un caso singolare ma non infrequente agli esseri già votati ad una vicina morte, la marchesa Saveria Vallarsi, la superba gentildonna che si vantava di non aver mai pregato nessuno, tranne Dio, si piegava ora a implorare consiglio ed aiuto da quel giovine medico quasi ignoto che il caso le aveva mandato a soccorrerla durante una crisi del suo male incurabile in uno dei primi giorni di villeggiatura.
Egli sedette grave a piè del letto mentre la cameriera usciva, congedata da un cenno della signora.
— Io ho bisogno di conoscere la verità sul<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''La via ritrovata''|101|riga=si}}</noinclude>conto mio, dottore. Sono vecchia ormai e la morte non mi fa più paura.
Donna Saveria pronunciò queste parole quasi duramente fissando il giovine scienziato coi suoi occhi acuti sotto il vasto arco nero dei sopraccigli corrugati. Pareva voler infondere nell’altro la convinzione che di nessuna menzogna e di nessuna pietà occorreva mascherare la risposta, qualunque essa fosse stata.
— Marchesa, — rispose il medico con la medesima fermezza di volto e di espressione — la scienza non può dare quasi mai un esatto responso, solo può con una certa sicurezza prevedere l’avvenire.
— L’avvenire? — ripetè donna Saveria con un sorriso d’ironica amarezza. — Esiste ancora per me un avvenire?
— Tutto è relativo, — osservò il giovine stringendosi nelle spalle. — Le forze da opporre al male sono ormai molto depresse e poichè ella vuole assolutamente sapere....
Egli sostò, colpito dalla gravità della sua stessa voce che aveva la cruda freddezza d’una sentenza. Ma l’inferma lo incitò con lo sguardo, con l’ansia interrogativa di tutto il volto, con le parole impazienti: — Dica, dica, dottore.
— Ebbene, — egli proseguì, — per qualche settimana, per un mese al più si potrà lottare<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|102|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>contro il morbo e illudersi forse di averlo vinto o almeno domato. Ma sarà una speranza fittizia.
— E bisognerà cedere, — soggiunse donna Saveria scrutando il volto del medico.
Egli sollevò le spalle con gli occhi all’alto nell’atteggiamento della rassegnazione mentre ella proseguiva:
— È questo che m’occorreva conoscere. Un mese di vita, il tempo per salutare i figli di mio figlio che sono lontani, dispersi pel mondo. Per uno di essi, per il più giovane, mi sarà necessario il suo aiuto, dottore.
Ella incrociò sulla coperta le dita pallide e grasse e sollevò verso di lui le mani congiunte, supplichevoli:
— Bisognerà che lei scriva annunziando la mia non lontana fine e chiedendo nel nome di una moribonda la grazia di lasciarmelo rivedere prima di chiudere gli occhi per sempre. Senza di questo non potrò andarmene in pace, nè ottenere forse il riposo nell’al di là.
La sua voce prima implorante s’era fatta fioca e quasi incomprensibile come s’ella parlasse ormai per sè stessa, per il bisogno di esprimere un pensiero lungamente chiuso nell’anima tormentata. Ma il medico, chino su di lei, la ricondusse al presente con un’altra domanda:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''La via ritrovata''|103|riga=si}}</noinclude>
— E dove si trova questo suo nipote?
— È frate, dottore; è frate della più rigida clausura, — rispose la marchesa coprendosi il volto con le palme, con un lungo sospiro doloroso.
Ella trasse a fatica di sotto il guanciale un libriccino di pelle nera, ne tolse un foglietto ripiegato e lo porse al giovine:
— Ecco l’indirizzo al quale deve scrivere. Questo è il nome del padre superiore, questo è il convento. Mio nipote si chiama padre Jacopo Vallarsi. E Dio voglia ch’io lo riveda prima di morire e ch’io ottenga il suo perdono.
Il medico le volse un lungo sguardo indagatore, ma non manifestò alcuna curiosità e racchiuse il biglietto nel suo portafogli. Quindi tese all’inferma la sua mano ch’ella afferrò con gli occhi pieni di lagrime e strinse convulsamente.
— Lei è giovane e serio come il mio Jacopo e forse per questo mi ispira tanta fiducia. Forse anche un poco somiglia a lui prima che vestisse l’abito, quell’abito ch’io stessa l’ho costretto a indossare e che fu il castigo di questi ultimi anni della mia vita.
Ella sentiva il suo cuore traboccare nel bisogno di una espansione, di una confidenza,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|104|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>forse di una confessione che la sollevasse da un lungo rimpianto e da un cocente rimorso, ora fatti più acuti e più intollerabili della certezza della morte non lontana. E le pareva che accusandosi a quel giovine taciturno che l’ascoltava con una impassibile fermezza di giudice già incominciasse la sua espiazione e già l’addolcisse la speranza del perdono.
— M’erano rimasti due giovinetti orfani da allevare e da educare alla morte del mio unico figlio ed io m’ero proposta di seguire le tradizioni della mia famiglia e di destinare il maggiore alla diplomazia, il minore al sacerdozio.
Il dottore risedutosi a piè del letto ascoltava senza guardare l’inferma, col gomito appoggiato alla sponda e la fronte nella palma in un’attitudine raccolta di confessore.
— Il primo, quieto e docile, s’avviò tranquillamente ai suoi studi, conseguì i suoi diplomi, superò i suoi concorsi ed ora è un ottimo diplomatico e un padre esemplare, lieto della sua bella carriera e della sua florida famiglia. Ma Jacopo, il minore, di parecchi anni più giovane del fratello, non seguì così docilmente la via ch’io gli avevo tracciata. D’intelligenza vivacissima e di modi pronti, si sentì subito inceppato e chiuso nelle severe costrizioni ecclesiastiche<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''La via ritrovata''|105|riga=si}}</noinclude>e morse lungamente il freno prima di sottomettersi alla mia volontà. Fra i miei ricordi più amari mi torna sovente al pensiero quello d’una sua crisi terribile di lacrime e di disperazione prima di pronunciare i voti che lo legavano alla Chiesa. Rammento ch’egli si attaccò alle mie ginocchia implorando almeno una dilazione di qualche anno o di qualche mese, affinchè la sua vocazione si chiarisse e s’affermasse. Ma io sapevo che questa attesa lo avrebbe distolto da ciò che reputavo ormai il suo preciso dovere dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini e fui inflessibile. Jacopo obbedì, entrò nei sacri ordini, ma non volle essere un prete secolare, un predicatore alla moda, un vescovo decorativo. Si chiuse in un convento e fu un oscuro frate tutto dedito a Dio e alla pietà. Egli ha ora quasi ventisette anni; da cinque anni non lo rivedo, non ho notizia di lui, non conosco che il luogo della sua residenza. Ignoro la vita del suo spirito, ignoro se le sue ribellioni si siano placate nella rinunzia e nella preghiera, ma so di essere stata in grave colpa dinanzi a lui e temo di averne fatto un infelice, forse un disperato.
La marchesa Saveria si terse le lagrime che durante il racconto erano sgorgate senza posa dai suoi occhi e pronunciò con la voce rotta<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|106|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>e quasi gemente la sua accusa. Quando tacque il medico s’alzò, disse risoluto:
— Scriverò stasera stessa. Se le regole del convento lo permettono, ella rivedrà certo suo nipote.
— Nessuna grazia si rifiuta a un morente — mormorò l’inferma con un mesto sorriso, e porse la mano al dottore con uno sguardo di gratitudine.
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Scese la notte sull’antica villa e vi stese il suo velo d’ombra e di silenzio. L’ammalata volle che la finestra affacciata sul giardino rimanesse aperta, per poter contemplare dal suo letto un lembo di cielo tutto fiorito di stelle e mandare lassù all’invisibile Dio raggiante negli astri muti le sue orazioni di rammarico e di speranza.
Sembrava pure pregare con un lungo trillo d’umiltà serena il coro ampio dei grilli nascosti nel buio della campagna dormente, e pareva alla vecchia anima afflitta che i piccoli coristi implorassero, col loro canto monotono, pace per il lontano e pietà per lei.
A un tratto il cane di guardia, vagante per il giardino, incominciò a mugolare sordamente.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''La via ritrovata''|107|riga=si}}</noinclude>Si sentì l’ansare affrettato della sua corsa verso il cancello e la cadenza del suo galoppo sulla ghiaia scricchiolante dei viali.
La marchesa Saveria, che teneva chiusi gli occhi in un leggero assopimento, sobbalzò destandosi, all’abbaiare furioso del cane; chiamò la cameriera, che dormiva tutta vestita su un piccolo divano dietro la porta e le ordinò con voce agitata:
— Va’ a vedere; c’è qualcuno. Qualcuno è entrato nel giardino. Scendi subito.
— Ma no, signora, — mormorò la donna, ancora assonnata, reprimendo uno sbadiglio. — Il cane abbaia a tutti i passanti. Ecco. Ha già cessato.
Ma le rispose un ululato più forte e l’inferma si agitò più affannata nel suo letto, mentre l’indolente cameriera si sporgeva dalla finestra.
— Ecco, vedo luce nel casino del giardiniere. Devono aver picchiato alla sua porta e chiamato qualcuno. Adesso sapremo di che si tratta.
— Scimunita! — le gridò la marchesa, tremante d’ira. — Torna ad accucciarti là dietro e dormi, poichè non sai far altro.
Ma essa discese ad aprire la porticina al giardiniere, che la chiamava sommessamente<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|108|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>dal basso e attutiva la voce e i passi per non impressionare la padrona. Tuttavia questa, con l’udito finissimo dei malati, l’intese e gli impose di salire, di portare egli stesso l’ambasciata.
— Ho un biglietto per lei, signora marchesa. Mi è stato consegnato ora attraverso il cancello da un giovine che non conosco, alto, pallido, avvolto in un mantello.
Ella si sollevò sui guanciali, afferrò il suo occhialino cerchiato d’oro e decifrò a fatica le poche parole a lapis, le quali dicevano laconicamente: “Non spaventarti, cara nonna. Sono Jacopo, e approfitto del solo momento che ho per darti un saluto„.
Donna Saveria incominciò a tremare per tutte le membra ed a battere i denti nel volto atterrito come se le si fosse annunziato un fantasma. Non poteva parlare, ma abbassò ripetutamente il capo rivolta al giardiniere per significargli d’introdurre il notturno visitatore, quindi attese immobile sui guanciali volgendo alla porta il volto più pallido e più floscio dove gli archi neri dei sopraccigli s’appuntivano verso la fronte in un’ansietà paurosa e interrogativa al tempo stesso.
E suo nipote, il padre Jacopo Vallarsi, apparve. Aveva sulle spalle un largo mantello<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||''La via ritrovata''|109|riga=si}}</noinclude>grigio e non portava cappello. Sorrideva con la testa eretta avanzando verso l’inferma e il suo passo non più ostacolato dalla tonaca sembrava ancora un poco esitante, quasi sorpreso della propria libertà.
Come fu presso il letto, s’inginocchiò e baciò la mano di sua nonna con la stessa riverenza di quando era fanciullo. In quell’atto il mantello scivolò dalle sue spalle e dinanzi agli occhi sbalorditi della marchesa Saveria quell’uomo inginocchiato che le baciava la mano, Jacopo, il monaco della più rigida clausura, apparve vestito d’una divisa d’ufficiale segnato al braccio di una rossa croce.
— Benedicimi, nonna, affinchè possa compiere il mio dovere sui campi di battaglia meglio di quanto non l’abbia fatto negli orti del Signore.
La mano grassa ed esangue della marchesa si posò sul capo del giovine mentre il suo spirito rivolgeva a Dio una fervorosa invocazione.
— Mi hanno chiamato ed eccomi qui, pronto a tutto. Soccorrerò i feriti, benedirò i morenti, affronterò io stesso la morte, — diceva Jacopo con un sorriso luminoso che sua nonna non gli conosceva, ritto accanto al letto con le mani incrociate sull’elsa della sciabola. — E<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|110|{{Sc|le ore inutili}}||riga=si}}</noinclude>forse, nonna, — soggiunse fissandola in volto con uno sguardo eloquente e con un lungo sospiro represso, — forse, nonna, troverò finalmente la mia via.
Allora la marchesa Saveria ebbe per la prima volta nella sua lunga vita che stava per tramontare un gesto spontaneo d’umiltà, di rimorso e d’amore.
Tese a suo nipote le braccia e stringendolo a sè, con la sua vecchia testa contro la giovine spalla di Jacopo, lo supplicò piangendo di perdonarla.<noinclude></noinclude>
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Le ore inutili/La via ritrovata
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>La via ritrovata<section end="sottotitolo"/>
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Le ore inutili/Il soprappiù
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>“Il soprappiù„<section end="sottotitolo"/>
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Discussioni utente:Accolturato
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Barbaforcuta
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/* Problemi fiorentini */ Risposta
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{{benvenuto|firma=[[Utente:Accurimbono|Accurimbono]] <small>([[Discussioni_utente:Accurimbono|disc]])</small> 11:25, 6 dic 2018 (CET)}}
== Risultati del concorso per il 15º compleanno di Wikisource ==
<div style="background: #{{Colore portale sfondo barre 3}}; background: box-shadow: 0 0 .3em; border:2px solid #A7D7F9; border-radius: .2em; margin: 1em 0 2em 0; padding: 1em;">
[[File:Nuvola_wikisource_icon_IT.png|120px|right]]
Carissimo {{PAGENAME}},
'''Grazie''' per il tuo contributo a Wikisource. Grazie alla tua opera e a quella di tutti gli altri partecipanti, abbiamo riletto ben 4937 pagine in soli 14 giorni: la comunità solitamente impiega mesi a rileggere quel numero di pagine! La tua presenza ha reso questo compleanno di Wikisource una festa fantastica, e speriamo che anche tu ti sia divertito. Grazie anche per aver pazientemente aspettato l'annuncio dei vincitori: è finalmente giunto il momento tanto atteso :-)
'''Vai [[Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource|a questa pagina per sapere chi ha vinto]]!'''
Ma vogliamo ricordarti che Wikisource non finisce qui: il progetto di una biblioteca digitale libera e collaborativa si nutre di contributi quotidiani, di utenti generosi come te. Per cui sei ufficialmente invitato a rimanere e a collaborare con noi, quanto vuoi, quando vuoi; non c'è nessun obbligo. Quando hai un dubbio puoi sempre scrivere al [[Wikisource:Bar|Bar]] o a uno di noi utenti.
Infine ci piacerebbe sapere la tua opinione sul concorso: ti è piaciuto? Hai idee per migliorarlo? E' stato semplice partecipare? Scrivici pure quello che vuoi (critiche e suggerimenti) [[Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource/Feedback|a questa pagina]].
A presto, e grazie ancora di aver festeggiato con noi!
'''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''', 01:55, 26 dic 2018 (CET)
</div>
<!-- Messaggio inviato da User:OrbiliusMagister@itwikisource usando l'elenco su https://it.wikisource.org/w/index.php?title=Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource/Lista&oldid=2240287 -->
== Toscana ==
Ciao, ti ringrazio della rilettura di Carocci [[I dintorni di Firenze]]; sei per caso interessato a libri sulla Toscana? Ciao --[[User:Giaccai|Susanna Giaccai]] ([[User talk:Giaccai|disc.]]) 16:17, 3 giu 2019 (CEST)
: ciao sì in generale su firenze e toscana, sul territorio, storia urbanistica etc. --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 10:12, 5 giu 2019 (CEST)
==Wikimania a Stoccolma e la letteratura nelle lingue minori==
Laurentius mi ha detto che vai a Stoccolma e che hai esperienza di Wikisouce. Avrei da chiederti un grosso favore Il programma di Wikimania è già fissato e introdurre nuovi argomenti è una impresa molto ardua: ma il 2019 è l'[https://wikimania.wikimedia.org/wiki/2019:Languages anno delle Nazioni Unite] delle lingue autoctone e una delle forme con cui i progetti Wikimedia se ne possono occupare più efficacemente è di utilizzare Wikisource per raccogliere e diffondere le opere letterarie delle lingue in pericolo.
Mi sono occupato di ladino dolomitico
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Ladin
romancio
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Rumantsch
istriota
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Istriot
lombardo
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Lumbaart
Nell'area alpina italiana c'è una wikisource in
veneto
https://vec.wikisource.org/wiki/Pagina_prinsipale
piemontese
https://pms.wikisource.org/wiki/Intrada
c'è una richiesta di riconoscimento per il ligure
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Ligure
Il tentativo è di compilare in inglese [https://wikimania.wikimedia.org/wiki/2019:Diversity/Submission_form il submission form] e vedere di trovare ascolto.[[User:Mizardellorsa|Mizar (ζ Ursae Maioris)]] ([[User talk:Mizardellorsa|disc.]]) 22:03, 6 lug 2019 (CEST)
:{{ping|Mizardellorsa}} purtroppo ho dovuto disdire proprio oggi ed ho appena comunicato a Laurentus la mia rinuncia.
: se potrò aiutarvi comunque in qualche altro modo, nei miei ritagli di tempo, lo farò volentieri.
: mi spiace, --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:02, 8 lug 2019 (CEST)
== Sottopagine ==
Ciao! Le pagine dei vari capitoli vanno create come sottopagine, ovvero "Apriti Standard!/Prefazione" e non solo "Prefazione", altrimenti si perde il legame logico tra l'intera opera e il singolo capitolo. Ti ho corretto l'indice, potresti creare di nuovo le singole sottopagine e mettere in cancellazione le vecchie (dal menu in alto, bottone Altro > Cancella)? Se hai dubbi chiedi pure. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 18:58, 28 ago 2019 (CEST)
: ciao, grazie mille !
: ho capito cosa hai detto,
: ora guardo se riesco a fare la modifica come da te consigliata.
: magari mi ci vorrà un po, poi ho visto che anche
:{{ping|Alex Brollo}} ci voleva lavorare non vorrei interferire.
:Anzi vedo ora che mi sembra ci abbia pensato {{ping|OrbiliusMagister}}, che ringrazio. Per evitare di fare danni aspetterò :finchè non sono sicuro che ci sia bisogno e che non sia stato fatto.
:Grazie ancora a entrambi !--[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 09:06, 29 ago 2019 (CEST)
== Quesiti ==
Sono un po' preoccupato di averti "puntato", spero che reggerai alla pressione senza scoraggiarti.... Una domanda: hai attivato qualche gadger opzionale? Se sì: hai attivato memoRegex e Precarica & autoNs0? --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:51, 29 ago 2019 (CEST)
: figurati, al limite mi rimetto solo a rileggere finchè pian piano prendo confidenza :-)
: Ho controllato, li ho 'spuntati' ma non li ho mai usati
:--[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 15:34, 29 ago 2019 (CEST)
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== scansione pagine piegate ==
Sono stata stamani in Biblioteca nazionale e ho fatto diverse foto alle 3 pagine; con il cellulare e con una macchina fotografica. Se mi scrivi usando la funzione nella colonna sinistra, ti mando le foto in modo che tu possa tagliare e raddrizzare quelle che ritieni migliori. Comunque il volume era sul tavolo di una impiegata che rientre dopo Befana, Siamo a tempo quindi per far fare eventualmente le foto da loro. Ciao --[[User:Giaccai|Susanna Giaccai]] ([[User talk:Giaccai|disc.]]) 12:39, 2 gen 2020 (CET)
::{{ping|Giaccai}} fantastico ! ti ringrazio tantissimo ! Senti non per non farlo, ma preferirei tu lo condividessi al Bar perchè mi pare c'era irrisolta la questione di come inserirle. Io sono poco più che un principiante e preferirei almeno avere l'avallo di qualcuno più autorevole prima di partire. Che ne dici ? --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 08:57, 3 gen 2020 (CET)
== Cerco volontario per help e esercitazioni ==
Conosci [https://meet.jit.si/ jitsi]? E' il tool suggerito da Wikimedia Italia per teleconferenze e condivisione del desktop. Se imparassi ad usarlo, sarebbe semplice e molto più efficace "fare tutoraggio". Ma per imparare ad usarlo, bisogna usarlo... e bisogna essere almeno in due. Sei disponibile a esplorare il tool insieme? Basta mettersi d'accordo sugli orari di presenza. Avviare il tool è semplicissimo, basta collegarsi a un URL, non serve scaricare nè installare niente. Pwermette una visualizzazione remota del desktop (+microfono + eventuale telecamera) ma NON l'accesso a distanza al pc, quindi dovrebbe essere sicurissimo. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:03, 16 gen 2020 (CET)
:{{ping|Alex brollo}} no ! ora lo guardo ! ti ringrazio della proposta, mi lusinga e alletta, ma devo cercare di renderla compatibile con un paio di cosette... quando torno da qualche giorno di montagna, il 25, guardiamo di accordarci ok ? ti ringrazio intanto tantissimo. --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 13:08, 16 gen 2020 (CET)
:: Benissimo! Io userò la "stanza" https://meet.jit.si/alex_brollo ; conoscendo il "nome stanza" chiunque può collegarsi (precisamente, mi pare, "chiedere il permesso di collegarsi"). Per creare una stanza propria, basta aggiungere un postfisso all'url (tipo https://meet.jit.si/Acculturato ) e comunicarlo a chi vuoi comunicarlo. Una semplicità sconcertante. Buone vacanze.--[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:33, 16 gen 2020 (CET)
== L'ultimo click ==
Manca solo un click per portare [[Studi storici sul centro di Firenze]] a SAL 100% e aggiungerlo ai nuovi arrivi.... lo lasci fare a te. Magari prima dai un'ultima occhiata; ci sono andato giù un po' pesante, ma penso che ne valesse la pena, sono abbastanza soddisfatto. Con le Note separate è stata una battaglia dura... --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 11:18, 27 mag 2021 (CEST)
== Problemi fiorentini ==
Premessa: il testo era difficile :-)
Ti elenco alla rinfusa un po' di problemi, in genere più nocivi in transclusione.
* note separate.
** il codice del template era quasi sempre esatto. In qualche caso le section attorno alle note ''erano aperte ma non chiuse''. Attenzione: il codice dà un errore se la nota è presente ''nella stessa pagina del testo''; in quel caso bisogna usare il solito codice ref, anche se la resa in nsPagina è irregolare (come mi segnalavi in bar). Inoltre, le note separate ''devono essere escluse dalla transclusione''.
* template Sezione note: inutile includerlo in includeonly; tanto in nsPagina non fa niente.
* template Rule: inutile includerlo in un template Centrato o Ct, è centrato di default.
* immagino che la transclusione delle sezioni vi abbia fatto penare; una pena a più mani. Restavano tracce di una prima strategia di transclusione in blocco delle macrosezioni.
Se vuoi facciamo un'autopsia completa di qualche pagina.... la raccomandazione: anticipare la transclusione in ns0, non appena la pagina nsPagina è stata create (anche prima, volendo!) e vedere "come viene" spesso, soprattutto nei passaggi difficili. Al momento nsPagina è quasi solo un lavoro preliminare per ottenere buone pagine ns0: inutile impazzire per ottenere il meglio in entrambe le visualizzazioni; se si può senza impazzire bene, altrimenti "comanda" ns0. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 18:27, 27 mag 2021 (CEST)
:: accidenti che casino... mi dispiace, ancora non mi rigiro molto sugli effetti in transclusione. Ti ringrazio immensamente per il lavoro fatto. E per avermi scritto le note qui almeno le ricerco all'occorrenza. Per il green finale al Ns0 vedi te quando darlo, mi sembra più opportuno. Grazie ancora.[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 09:51, 28 mag 2021 (CEST)
::: Non preoccuparti, ripeto: era un testo veramente difficile, soprattutto in transclusione. Difficilissimo documentare le soluzioni per ogni tipo di stranezza tipografica; la via maestra per risolvere i problemi, in caso di difficoltà, è fare una domanda in bar. Gli utenti più esperti sono pienamente consapevoli delle difficoltà e disponibili sia a dare una mano con suggerimenti, che a sistemare personalmente, almeno in alcune pagine "di esempio". Riguardo alle note, da un po' assegno le pagine più ostiche alla [[:Categoria:Pagine con annotazioni complesse]] per non dimenticare casi utili da studiare. Anzi, aggiungo la categoria anche a un paio di pagine del libro in questione, quelle che contengono note "miste", un po' ''ref'' e un po' ''nota separata''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 10:25, 28 mag 2021 (CEST)
::::Mi intrufolo nella discussione :-)
::::Ho provato a sistemare [https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/45 questa] pagina, che dava errore al blocco a destra. Vedi un po' se va bene e, in quel caso, replicala per tutte le pagine di inizio canto.--[[User:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] ([[User talk:Barbaforcuta|disc.]]) 11:50, 3 ago 2022 (CEST)
:::::@[[Utente:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] Perfetto! grazie davvero, vado subito a mettere l'impostazioni a tutti i canti. [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:33, 3 ago 2022 (CEST)
:::::@[[Utente:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] però mi viene spostato a sinistra, non so cosa sbaglio
:::::[[Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/93]] [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:40, 3 ago 2022 (CEST)
::::::Linkami una pagina con il problema, così posso vedere cosa c'è che non va nel codice. [[User:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] ([[User talk:Barbaforcuta|disc.]]) 12:10, 4 ago 2022 (CEST)
626vzk17f0sxkuhhauoy2jmstphi2v9
3016572
3016570
2022-08-04T10:22:09Z
Accolturato
41514
/* Problemi fiorentini */ Risposta
wikitext
text/x-wiki
{{benvenuto|firma=[[Utente:Accurimbono|Accurimbono]] <small>([[Discussioni_utente:Accurimbono|disc]])</small> 11:25, 6 dic 2018 (CET)}}
== Risultati del concorso per il 15º compleanno di Wikisource ==
<div style="background: #{{Colore portale sfondo barre 3}}; background: box-shadow: 0 0 .3em; border:2px solid #A7D7F9; border-radius: .2em; margin: 1em 0 2em 0; padding: 1em;">
[[File:Nuvola_wikisource_icon_IT.png|120px|right]]
Carissimo {{PAGENAME}},
'''Grazie''' per il tuo contributo a Wikisource. Grazie alla tua opera e a quella di tutti gli altri partecipanti, abbiamo riletto ben 4937 pagine in soli 14 giorni: la comunità solitamente impiega mesi a rileggere quel numero di pagine! La tua presenza ha reso questo compleanno di Wikisource una festa fantastica, e speriamo che anche tu ti sia divertito. Grazie anche per aver pazientemente aspettato l'annuncio dei vincitori: è finalmente giunto il momento tanto atteso :-)
'''Vai [[Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource|a questa pagina per sapere chi ha vinto]]!'''
Ma vogliamo ricordarti che Wikisource non finisce qui: il progetto di una biblioteca digitale libera e collaborativa si nutre di contributi quotidiani, di utenti generosi come te. Per cui sei ufficialmente invitato a rimanere e a collaborare con noi, quanto vuoi, quando vuoi; non c'è nessun obbligo. Quando hai un dubbio puoi sempre scrivere al [[Wikisource:Bar|Bar]] o a uno di noi utenti.
Infine ci piacerebbe sapere la tua opinione sul concorso: ti è piaciuto? Hai idee per migliorarlo? E' stato semplice partecipare? Scrivici pure quello che vuoi (critiche e suggerimenti) [[Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource/Feedback|a questa pagina]].
A presto, e grazie ancora di aver festeggiato con noi!
'''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''', 01:55, 26 dic 2018 (CET)
</div>
<!-- Messaggio inviato da User:OrbiliusMagister@itwikisource usando l'elenco su https://it.wikisource.org/w/index.php?title=Wikisource:Quindicesimo_compleanno_di_Wikisource/Lista&oldid=2240287 -->
== Toscana ==
Ciao, ti ringrazio della rilettura di Carocci [[I dintorni di Firenze]]; sei per caso interessato a libri sulla Toscana? Ciao --[[User:Giaccai|Susanna Giaccai]] ([[User talk:Giaccai|disc.]]) 16:17, 3 giu 2019 (CEST)
: ciao sì in generale su firenze e toscana, sul territorio, storia urbanistica etc. --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 10:12, 5 giu 2019 (CEST)
==Wikimania a Stoccolma e la letteratura nelle lingue minori==
Laurentius mi ha detto che vai a Stoccolma e che hai esperienza di Wikisouce. Avrei da chiederti un grosso favore Il programma di Wikimania è già fissato e introdurre nuovi argomenti è una impresa molto ardua: ma il 2019 è l'[https://wikimania.wikimedia.org/wiki/2019:Languages anno delle Nazioni Unite] delle lingue autoctone e una delle forme con cui i progetti Wikimedia se ne possono occupare più efficacemente è di utilizzare Wikisource per raccogliere e diffondere le opere letterarie delle lingue in pericolo.
Mi sono occupato di ladino dolomitico
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Ladin
romancio
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Rumantsch
istriota
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Istriot
lombardo
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Lumbaart
Nell'area alpina italiana c'è una wikisource in
veneto
https://vec.wikisource.org/wiki/Pagina_prinsipale
piemontese
https://pms.wikisource.org/wiki/Intrada
c'è una richiesta di riconoscimento per il ligure
https://wikisource.org/wiki/Main_Page/Ligure
Il tentativo è di compilare in inglese [https://wikimania.wikimedia.org/wiki/2019:Diversity/Submission_form il submission form] e vedere di trovare ascolto.[[User:Mizardellorsa|Mizar (ζ Ursae Maioris)]] ([[User talk:Mizardellorsa|disc.]]) 22:03, 6 lug 2019 (CEST)
:{{ping|Mizardellorsa}} purtroppo ho dovuto disdire proprio oggi ed ho appena comunicato a Laurentus la mia rinuncia.
: se potrò aiutarvi comunque in qualche altro modo, nei miei ritagli di tempo, lo farò volentieri.
: mi spiace, --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:02, 8 lug 2019 (CEST)
== Sottopagine ==
Ciao! Le pagine dei vari capitoli vanno create come sottopagine, ovvero "Apriti Standard!/Prefazione" e non solo "Prefazione", altrimenti si perde il legame logico tra l'intera opera e il singolo capitolo. Ti ho corretto l'indice, potresti creare di nuovo le singole sottopagine e mettere in cancellazione le vecchie (dal menu in alto, bottone Altro > Cancella)? Se hai dubbi chiedi pure. [[User:Candalua|Can da Lua]] ([[User talk:Candalua|disc.]]) 18:58, 28 ago 2019 (CEST)
: ciao, grazie mille !
: ho capito cosa hai detto,
: ora guardo se riesco a fare la modifica come da te consigliata.
: magari mi ci vorrà un po, poi ho visto che anche
:{{ping|Alex Brollo}} ci voleva lavorare non vorrei interferire.
:Anzi vedo ora che mi sembra ci abbia pensato {{ping|OrbiliusMagister}}, che ringrazio. Per evitare di fare danni aspetterò :finchè non sono sicuro che ci sia bisogno e che non sia stato fatto.
:Grazie ancora a entrambi !--[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 09:06, 29 ago 2019 (CEST)
== Quesiti ==
Sono un po' preoccupato di averti "puntato", spero che reggerai alla pressione senza scoraggiarti.... Una domanda: hai attivato qualche gadger opzionale? Se sì: hai attivato memoRegex e Precarica & autoNs0? --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:51, 29 ago 2019 (CEST)
: figurati, al limite mi rimetto solo a rileggere finchè pian piano prendo confidenza :-)
: Ho controllato, li ho 'spuntati' ma non li ho mai usati
:--[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 15:34, 29 ago 2019 (CEST)
== Community Insights Survey ==
<div class="plainlinks mw-content-ltr" lang="it" dir="ltr">
'''Condividi la tua esperienza con questo sondaggio'''
Gentile {{PAGENAME}},
La Wikimedia Foundation chiede il tuo parere in un sondaggio sulla tua esperienza con {{SITENAME}} e Wikimedia. Lo scopo di questo sondaggio è quello di capire come la Foundation sta supportando il tuo lavoro su wiki e come possiamo cambiare o migliorare le cose in futuro. Le tue opinioni condivise influenzeranno direttamente il lavoro attuale e futuro della Wikimedia Foundation.
Per favore prenditi circa da 15 a 25 minuti per '''[https://wikimedia.qualtrics.com/jfe/form/SV_0pSrrkJAKVRXPpj?Target=CI2019List(other,act5) fornire il tuo parere tramite questo sondaggio]'''. È disponibile in varie lingue.
Il sondaggio è ospitato da una terza parte e [https://foundation.wikimedia.org/wiki/Community_Insights_2019_Survey_Privacy_Statement gestita in base a questa informativa sulla privacy] (in inglese).
Per [[m:Community Insights/Frequent questions|saperne di più su questo progetto]]. [mailto:surveys@wikimedia.org Inviaci una mail] se hai delle domande, o se non vuoi ricevere futuri messaggi riguardo a questo sondaggio.
Cordialmente,
</div> [[User:RMaung (WMF)|RMaung (WMF)]] 16:34, 9 set 2019 (CEST)
<!-- Messaggio inviato da User:RMaung (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=CI2019List(other,act5)&oldid=19352874 -->
== Il pavimento del Duomo di Siena ==
Ci sono ancora un po' di cose da sistemare su Commons, ma per quanto riguarda la rilettura ci siamo; mancano un paio di pagine da passare a SAL 100% (io non posso farlo, lo faresti tu per favore?) dopodichè puoi passare a SAL 100% anche in ns0 e aggiungerla alla sezione Ultimi testi riletti in pagina principale.
Spero che il nuovo codice delle pagine (ritoccato) ti piaccia. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 16:22, 13 set 2019 (CEST)
:: Vedo solo ora.. ci ha pensato qualcun altro !
:: scusa ancora per i casini --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 08:34, 16 set 2019 (CEST)
== Reminder: Community Insights Survey ==
<div class="plainlinks mw-content-ltr" lang="it" dir="ltr">
'''Condividi la tua esperienza con questo sondaggio'''
Gentile {{PAGENAME}},
Un paio di settimane fa ti abbiamo invitato a partecipare al Community Insights Survey. È il sondaggio annuale della Wikimedia Foundation sulle nostre comunità globali. Vogliamo capire quanto bene sosteniamo il tuo lavoro su wiki. Siamo al 10% del nostro obiettivo di partecipazione. Se non hai già partecipato al sondaggio, puoi aiutarci a raggiungere il nostro obiettivo! '''La tua opinione è importante per noi.'''
Per favore prenditi circa da 15 a 25 minuti per '''[https://wikimedia.qualtrics.com/jfe/form/SV_0pSrrkJAKVRXPpj?Target=CI2019List(other,act5) fornire il tuo parere tramite questo sondaggio]'''. È disponibile in varie lingue.
Il sondaggio è ospitato da una terza parte e [https://foundation.wikimedia.org/wiki/Community_Insights_2019_Survey_Privacy_Statement gestita in base a questa informativa sulla privacy] (in inglese).
Per [[m:Community Insights/Frequent questions|saperne di più su questo progetto]]. [mailto:surveys@wikimedia.org Inviaci una mail] se hai delle domande, o se non vuoi ricevere futuri messaggi riguardo a questo sondaggio.
Cordialmente,
</div> [[User:RMaung (WMF)|RMaung (WMF)]] 21:14, 20 set 2019 (CEST)
<!-- Messaggio inviato da User:RMaung (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=CI2019List(other,act5)&oldid=19395141 -->
== Reminder: Community Insights Survey ==
<div class="plainlinks mw-content-ltr" lang="it" dir="ltr">
'''Condividi la tua esperienza con questo sondaggio'''
Gentile {{PAGENAME}},
Mancano solo poche settimane per partecipare al Community Insights Survey! Siamo al 30% del nostro obiettivo di partecipazione. Se non hai già partecipato al sondaggio, puoi aiutarci a raggiungere il nostro obiettivo!
Con questo sondaggio, la Wikimedia Foundation raccoglierà dei pareri su come sosteniamo il tuo lavoro su wiki. Ci vorranno solo 15-25 minuti per completarlo e avrà un impatto diretto sul sostegno che forniamo.
Per favore prenditi circa da 15 a 25 minuti per '''[https://wikimedia.qualtrics.com/jfe/form/SV_0pSrrkJAKVRXPpj?Target=CI2019List(other,act5) fornire il tuo parere tramite questo sondaggio]'''. È disponibile in varie lingue.
Il sondaggio è ospitato da una terza parte e [https://foundation.wikimedia.org/wiki/Community_Insights_2019_Survey_Privacy_Statement gestita in base a questa informativa sulla privacy] (in inglese).
Per [[m:Community Insights/Frequent questions|saperne di più su questo progetto]]. [mailto:surveys@wikimedia.org Inviaci una mail] se hai delle domande, o se non vuoi ricevere futuri messaggi riguardo a questo sondaggio.
Cordialmente,
</div> [[User:RMaung (WMF)|RMaung (WMF)]] 19:04, 4 ott 2019 (CEST)
<!-- Messaggio inviato da User:RMaung (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=CI2019List(other,act5)&oldid=19435548 -->
== scansione pagine piegate ==
Sono stata stamani in Biblioteca nazionale e ho fatto diverse foto alle 3 pagine; con il cellulare e con una macchina fotografica. Se mi scrivi usando la funzione nella colonna sinistra, ti mando le foto in modo che tu possa tagliare e raddrizzare quelle che ritieni migliori. Comunque il volume era sul tavolo di una impiegata che rientre dopo Befana, Siamo a tempo quindi per far fare eventualmente le foto da loro. Ciao --[[User:Giaccai|Susanna Giaccai]] ([[User talk:Giaccai|disc.]]) 12:39, 2 gen 2020 (CET)
::{{ping|Giaccai}} fantastico ! ti ringrazio tantissimo ! Senti non per non farlo, ma preferirei tu lo condividessi al Bar perchè mi pare c'era irrisolta la questione di come inserirle. Io sono poco più che un principiante e preferirei almeno avere l'avallo di qualcuno più autorevole prima di partire. Che ne dici ? --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 08:57, 3 gen 2020 (CET)
== Cerco volontario per help e esercitazioni ==
Conosci [https://meet.jit.si/ jitsi]? E' il tool suggerito da Wikimedia Italia per teleconferenze e condivisione del desktop. Se imparassi ad usarlo, sarebbe semplice e molto più efficace "fare tutoraggio". Ma per imparare ad usarlo, bisogna usarlo... e bisogna essere almeno in due. Sei disponibile a esplorare il tool insieme? Basta mettersi d'accordo sugli orari di presenza. Avviare il tool è semplicissimo, basta collegarsi a un URL, non serve scaricare nè installare niente. Pwermette una visualizzazione remota del desktop (+microfono + eventuale telecamera) ma NON l'accesso a distanza al pc, quindi dovrebbe essere sicurissimo. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:03, 16 gen 2020 (CET)
:{{ping|Alex brollo}} no ! ora lo guardo ! ti ringrazio della proposta, mi lusinga e alletta, ma devo cercare di renderla compatibile con un paio di cosette... quando torno da qualche giorno di montagna, il 25, guardiamo di accordarci ok ? ti ringrazio intanto tantissimo. --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 13:08, 16 gen 2020 (CET)
:: Benissimo! Io userò la "stanza" https://meet.jit.si/alex_brollo ; conoscendo il "nome stanza" chiunque può collegarsi (precisamente, mi pare, "chiedere il permesso di collegarsi"). Per creare una stanza propria, basta aggiungere un postfisso all'url (tipo https://meet.jit.si/Acculturato ) e comunicarlo a chi vuoi comunicarlo. Una semplicità sconcertante. Buone vacanze.--[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 13:33, 16 gen 2020 (CET)
== L'ultimo click ==
Manca solo un click per portare [[Studi storici sul centro di Firenze]] a SAL 100% e aggiungerlo ai nuovi arrivi.... lo lasci fare a te. Magari prima dai un'ultima occhiata; ci sono andato giù un po' pesante, ma penso che ne valesse la pena, sono abbastanza soddisfatto. Con le Note separate è stata una battaglia dura... --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 11:18, 27 mag 2021 (CEST)
== Problemi fiorentini ==
Premessa: il testo era difficile :-)
Ti elenco alla rinfusa un po' di problemi, in genere più nocivi in transclusione.
* note separate.
** il codice del template era quasi sempre esatto. In qualche caso le section attorno alle note ''erano aperte ma non chiuse''. Attenzione: il codice dà un errore se la nota è presente ''nella stessa pagina del testo''; in quel caso bisogna usare il solito codice ref, anche se la resa in nsPagina è irregolare (come mi segnalavi in bar). Inoltre, le note separate ''devono essere escluse dalla transclusione''.
* template Sezione note: inutile includerlo in includeonly; tanto in nsPagina non fa niente.
* template Rule: inutile includerlo in un template Centrato o Ct, è centrato di default.
* immagino che la transclusione delle sezioni vi abbia fatto penare; una pena a più mani. Restavano tracce di una prima strategia di transclusione in blocco delle macrosezioni.
Se vuoi facciamo un'autopsia completa di qualche pagina.... la raccomandazione: anticipare la transclusione in ns0, non appena la pagina nsPagina è stata create (anche prima, volendo!) e vedere "come viene" spesso, soprattutto nei passaggi difficili. Al momento nsPagina è quasi solo un lavoro preliminare per ottenere buone pagine ns0: inutile impazzire per ottenere il meglio in entrambe le visualizzazioni; se si può senza impazzire bene, altrimenti "comanda" ns0. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 18:27, 27 mag 2021 (CEST)
:: accidenti che casino... mi dispiace, ancora non mi rigiro molto sugli effetti in transclusione. Ti ringrazio immensamente per il lavoro fatto. E per avermi scritto le note qui almeno le ricerco all'occorrenza. Per il green finale al Ns0 vedi te quando darlo, mi sembra più opportuno. Grazie ancora.[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 09:51, 28 mag 2021 (CEST)
::: Non preoccuparti, ripeto: era un testo veramente difficile, soprattutto in transclusione. Difficilissimo documentare le soluzioni per ogni tipo di stranezza tipografica; la via maestra per risolvere i problemi, in caso di difficoltà, è fare una domanda in bar. Gli utenti più esperti sono pienamente consapevoli delle difficoltà e disponibili sia a dare una mano con suggerimenti, che a sistemare personalmente, almeno in alcune pagine "di esempio". Riguardo alle note, da un po' assegno le pagine più ostiche alla [[:Categoria:Pagine con annotazioni complesse]] per non dimenticare casi utili da studiare. Anzi, aggiungo la categoria anche a un paio di pagine del libro in questione, quelle che contengono note "miste", un po' ''ref'' e un po' ''nota separata''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]) 10:25, 28 mag 2021 (CEST)
::::Mi intrufolo nella discussione :-)
::::Ho provato a sistemare [https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/45 questa] pagina, che dava errore al blocco a destra. Vedi un po' se va bene e, in quel caso, replicala per tutte le pagine di inizio canto.--[[User:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] ([[User talk:Barbaforcuta|disc.]]) 11:50, 3 ago 2022 (CEST)
:::::@[[Utente:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] Perfetto! grazie davvero, vado subito a mettere l'impostazioni a tutti i canti. [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:33, 3 ago 2022 (CEST)
:::::@[[Utente:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] però mi viene spostato a sinistra, non so cosa sbaglio
:::::[[Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/93]] [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:40, 3 ago 2022 (CEST)
::::::Linkami una pagina con il problema, così posso vedere cosa c'è che non va nel codice. [[User:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] ([[User talk:Barbaforcuta|disc.]]) 12:10, 4 ago 2022 (CEST)
:::::::@[[Utente:Barbaforcuta|Barbaforcuta]] mmm ora sono su un altro pc e lo vedo bene... sono confuso, quando ho lle idee chiare ti ridisturbo. grazie e scusa. [[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 12:22, 4 ago 2022 (CEST)
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Spinoziano
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Yiyi" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=X|Data=Sabato, 18 Novembre 1911|Numero=47}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Titolo=Beneficenza|Testo=Adunanza del Comitato per la Fiera dell’Asilo Infantile dei Ciechi ― Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi ― La Benedizione e l’Inaugurazione dell’Asilo Infantile Uboldi a Dugnano.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Titolo=Religione|Testo=R. B. Vangelo della domenica seconda d’Avvento ― {{sc|L. Meregalli}}. Origine d’un curioso ricorso al Protomartire.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|A. Baldacci}}. La Tripolitania e la Cirenaica.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=18 novembre 1911|Numero=47|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale ― Diario ― Piccola posta.}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Beneficenza}}
{{centrato|{{larger|'''ADUNANZA DEL COMITATO'''}}}}
{{centrato|{{larger|'''per la Fiera dell’Asilo Infantile dei Ciechi'''}}}}
{{FI
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Giovedì, nel Salone dell’Istituto dei Ciechi, si radunò il Comitato delle Signore per l’''Asilo Infantile dei Ciechi'', per provvedere affinchè la Fiera di beneficenza in favore dello stesso Asilo, che avrà luogo nei primi giorni del prossimo Dicembre, possa conseguire l’esito migliore.
Al banco della Presidenza era presente il Rettore dell’Istituto colla segretaria del Comitato, signorina Matelda Cajrati. Mancava chi era sempre presente, nelle adunanze precedenti, l’economo cassiere, cav. Vespasiano Ghisi, repentinamente morto nei primi giorni del passato agosto. Questa assenza era notata e sentita nel cuore da tutti i presenti, e il Rettore dell’Istituto, facendosi interprete del sentimento comune, disse parole di compianto per l’estinto, che opera tanto amorosa e sollecita aveva sempre prestato in favore dell’Asilo, specialmente pel buon esito delle fiere precedenti; aggiungendo un pensiero di condoglianza per la vedova, sì crudelmente colpita dalla perdita grave.
Il signor Cornelio, vice-segretario del Comitato, si associò alle parole del Presidente, ricordando qual vivo e intelligente interesse il sig. Ghisi aveva sempre portato all’opera dell’Asilo Infantile, contribuendo in modo notevole ed efficace alla sua fondazione ed al suo incremento.
Il Rettore diede poi conto di alcuni mutamenti{{AltraColonna}} avvenuti in seno del Comitato: la signora Ricciarda Guy venne sostituita nel posto di capo-gruppo, dalla signora Pazzini Sayno; e la contessa Ottavia Revel dalla contessa Biandrà di Reaglie, che non potè poi conservare il posto gentilmente accettato: il banco rimasto improvvisamente vacante, venne assunto da una rappresentanza della Società ''pro Esercito'', lieta di concorrere al buon esito della Fiera, in vista della deliberazione presa che un terzo dell’introito della Fiera stessa andrà a favore del Comitato pei feriti e i morti nella guerra in Tripolitania.
Questo elemento patriotico introdotto nella Fiera, da tutti accettato e altamente applaudito, venne salutato come una garanzia di esito splendido per il risultato della Fiera.
Sul banco della Presidenza era poi depositato, visibile a tutti, un astuccio contenente un servizio completo in argento per caffè, dono di S. M. la Regina Madre. È annunciato anche l’invio del dono di S. M. la Regina Elena, in una coppa di valore.
I due doni verranno separatamente sorteggiati con biglietti di lotteria da L. 2.
Il distintivo alla Fiera per le capo-gruppi e le aderenti, in rapporto al momento patriotico, sarà formato da un nastro trecolori.
Prima di chiudere l’adunanza, il Rettore facendosi interprete del voto di tutti, mandò un augurio alla presidente assente, marchesa Maria Trotti, già da tempo incomodata di salute, perchè possa ben presto riaversi, e almeno con una breve apparizione, venga a rallegrare di sua presenza la Fiera, per la quale ebbe sempre tanto interesse, e che all’opera sua doveva nel passato tanta parte dei suoi introiti eccezionali.
{{FI
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{{centrato|{{larger|'''Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi'''}}}}
{{Rule|6em|000}}
{{centrato|{{larger|'''OFFERTE PER LA FIERA'''}}}}
Sig. Enrichetta Hensemberger Rivolta, capi d’indumenti n. 36.
Signora Gigina Viganoni Benaglia, n. 20 scampoli colorati.
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'''Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’''Enciclopedia dei Ragazzi''.'''
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 6 Luglio 1912|Numero=27}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Beneficenza|Testo=Il benefico pesce d’Aprile 1912 pro Ospedale Bambini — Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi— Casa di riposo pei Ciechi vecchi.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Religione|Testo=R. B., Vangelo della domenica sesta dopo Pentecoste - La persecuzione religiosa nelle colonie portoghesi continua.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Necrologio|Testo={{sc|A. M. Cornelio}}, Mons. Venanzio Meroni.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo=Onoranze ad un Gentiluomo Lombardo — Riti funebri presso i Tonga — {{sc|Federico Bussi}}, Ai Giardin pubblich — {{sc|Ranieri Venerosi}}, La colonizzazione della Patagonia e l’emigrazione italiana — {{sc|Edmondo De Amicis}}, L’Arte.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=6 luglio 1912|Numero=27|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
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|file = Il buon cuore - Anno XI, n. 15 - 13 aprile 1912 (page 1 crop).jpg
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}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Beneficenza}}
{{centrato|{{larger|'''Il benefico pesce d’Aprile 1912'''}}}}
{{centrato|'''pro Ospedale Bambini - Milano, via Castelvetro'''}}
Due felici e bravi ragazzetti sentirono in cuor loro, come la vita possa esser triste anche nei piccoli; e con santo entusiasmo si proposero venire in aiuto dei loro fratellini sventurati.
Come poi si confà a bambini, trovarono una forma gaia per dar vita al loro pensiero generoso, ed al primo aprile 1912 inviarono all’Ospedale dei Bambini un gran pesce, nelle cui viscere racchiudevasi scudi e foglietti, che manifestavano adesioni e concorso di persone di buon cuore, e l’oblazione era da dividersi coi bambini dei richiamati.
I bravi ragazzetti vogliono rinnovare ogni anno la loro geniale sorpresa, e bambini e bambine si sono già organizzati con loro, perchè generosa riesca l’elargizione.
Non dubitiamo che i bambini «di buon cuore», ne seguiranno l’esempio, dando il loro appoggio all’opera del benefico pesce d’aprile.
{{centrato|'''Regolamento.'''}}
1. — L’Associazione conta un numero indeterminato di Soci: fanciulli, fanciulle, giovinetti e signorine.
2. — Ogni Socio si obbliga a versare ogni anno L. 1 per spese d’Associazione ed a raccogliere almeno L. 5 all’anno.
3. — Ogni Socio all’atto dell’iscrizione riceverà{{AltraColonna}} piccolo distintivo ed apposito libretto per le sottoscrizioni, che dovrà ritornare colle offerte non più tardi del 15 marzo 1913.
4. — Ogni Socio è invitato ad indicare, consegnando il libretto, a quale Istituzione proteggitrice del fanciullo, desidererebbe assegnato il quinto delle somme raccolte. L’Istituzione che raccoglierà il maggior numero di voti, sarà la preferita.
5. — Il Socio che procurerà cinque nuovi Soci, sarà dichiarato Socio Fondatore e regalato di speciale distintivo in argento.
6. — Tutti gli anni verrà assegnata una speciale medaglia di benemerenza al Socio Fondatore, che avrà procurato nell’annata il maggior numero di Soci.
7. — Il Socio Fondatore dovrà provvedere alla sostituzione qualora volesse dimettersi.
8. — La prima Domenica d’aprile: Festa del «Pesce» e consegna dei distintivi ai Soci Fondatori e della medaglia di benemerenza.
9. — Le iscrizioni dei Soci e la consegna dei libretti si ricevono presso: Signorina Antonietta Bareggi, via Gorani, 5 — Signorino Egidio Torrani, Piazza Castello, 17 — Signora Anna Torrani Aliprandi, Piazza Castello, 17.
10. — I Signori Bareggi e Torrani renderanno noto ogni anno con apposita circolare l’esito dell’introito e delle Istituzioni raccomandate.
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|file = Il buon cuore - Anno IX, n. 24 - 11 giugno 1910 (page 5 crop).jpg
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{{centrato|{{larger|'''Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi'''}}}}
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{{centrato|OBLAZIONI.}}
{{Vi|titolo=La Famiglia Cajrati, per un letto che porti il nome dell’Ing. Arch.<br/>''Michele Cajrati''|pagina=L. 100 — }}
{{Vi|titolo=N. N., per un letto che porti la scritta: Dottor ''Edoardo Grandi''|pagina=» 100 ―}}
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{{centrato|{{larger|'''CASA DI RIPOSO PEI CIECHI VECCHI'''}}}}
{{A destra|Somma retro L. 7282 — }}
{{Vi|titolo=La Famiglia Cajrati, in memoria dell’Ing. Architetto<br/>''Michele Cajrati''|pagina=» 100 — }}
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 13 Luglio 1912|Numero=28}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Titolo=Religione|Testo=R. B., Vangelo della domenica settima dopo Pentecoste — {{sc|L. Meregalli}}, «Noli me tangere....» (per la festività di Santa Maria Maddalena) ― La Divina Misericordia e la Maddalena del Vangelo.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Titolo=Necrologio|Testo=In memoria della Nobildonna Teresa Landriani.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|Ranieri Venerosi}}, La colonizzazione della Patagonia e l’emigrazione italiana ― {{sc|Samarita}}, Rodi (poesia).}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=13 luglio 1912|Numero=28|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale ― Diario}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica settima dopo Pentecoste'''}}}}
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{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''Uscendo il Signore Gesù co’ suoi Discepoli da Gerico, andò dietro a lui una gran turba di popolo. Quand’ecco che due ciechi, i quali stavano a sedere lungo la strada, avendo udito dire che passava Gesù, alzaron la voce, dicendo: Signore, figliuolo di David, abbi pietà di noi. Ma il popolo li sgridava perché tacessero. Eglino però più forte gridavano, dicendo: Signore, figliuol di Davide, abbi pietà di noi. E Gesù soffermossi, li chiamò e disse loro: che volete ch’io vi faccia? Signore, risposero essi, che si aprano gli occhi nostri. E Gesù, mosso a compassione di essi, toccò i loro occhi: e subito videro e lo seguitarono.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. MATTEO, cap. 20.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
In un confronto fra la turba che lascia le comodità di Gerico per seguire Gesù, udirne la santa parola di vita ed osservare la potenza dell’opere, e i due ciechi, che tranquilli aspettano Cristo lunghesso la strada, si può ben trarre un’osservazione — comune se si vuole — ma assai pratica.
Quando si è sentito Gesù, quando se ne è gustata la dolcezza che da lui emana, e se n’è provata la soavità dell’opere, non è tanto facile staccarsi e sciogliersi da lui. Una folla, mista d’uomini e di donne, assuefatti ai comodi, ai vantaggi della città — lascia il luogo{{AltraColonna}} istesso di quei comodi, lascia le case proprie, le proprie abitudini — quasi seconda vita — i parenti, per seguire Gesù, da cui nulla possono sperare, giacchè — povero come Egli è — nulla di materiale vantaggio può dare, ma solo le parole del vero e la gran ’suggestione della carità e dell’amore. Eppur una forza misteriosa dietro li trae e li lega a Gesù, spezzando catene per uso e tempo saldissime.
Contrariamente i due ciechi non si muovono dalla strada. Là, sfruttando il via vai delle turbe, ci avevano passato la loro vita, grama e stentata: ci avevano fatto l’osso: la piccola elemosina soddisfaceva i loro minimi bisogni, quindi non si muovono: non sentono il bisogno di Cristo: non pregano di condurli.... al più grideranno quando Cristo passerà.... così buono, darà loro una maggior elemosina.
Oh! Cristo non è cercato, non è desiderato da chi vive lungo la strada dove è tanto passare di gente, di sesso, di condizione, età diversa.... La strada divaga, distrae, non dà modo di pensare alle proprie miserie, debolezze, bisogni, intenti come siamo ad osservare gli altri. La strada non è il luogo di raccoglimento, meditazione, ecc. Il vivere sulla strada è il vivere divagato, dissipato, è il luogo dell’anime frivole, leggere... è il luogo dove tutto si mette in vista per essere osservati, dove è impossibile la riflessione, dove è impossibile trovare Cristo, che suole darsi, manifestarsi, scoprirsi solo a coloro che lo cercano, che lo sentono, che lo sanno abitare non fra il tumulto delle passioni, ma nel chiuso del cuore, dello spirito:'' Non in commotione Dominus!'' disse il profeta.
{{Asterismo}}
Quando s’avvedono di Gesù — l’han loro suggerito gli amici, i buoni, coloro che già conoscevano Cristo — gridano a lui «...abbi pietà». Chiedono in genere pietà, forse l’elemosina.. sono così avviliti, che a lui dicono il solito grido, non sanno che cosa domandare mentre di tutto hanno bisogno.
Sì, il peccatore tante volte non chiede nulla. Sente il cumulo delle miserie: grida per le sofferenze del momento ma non osa.... non sa. Che stato terribile d’incoscienza, d’abbrutimento, di ben dura rassegnazione! La turba tenta farli tacere: il mondo, l’ambiente, i{{FineColonna}}<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 20 Luglio 1912|Numero=29}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=20 luglio 1912|Numero=29|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=20 luglio 1912|Numero=29|Titolo=Religione|Testo=R. B., Vangelo della domenica ottava dopo Pentecoste — Il Congresso Eucaristico di Vienna — Un nuovo pellegrinaggio popolare a prezzi ridottissimi — Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=20 luglio 1912|Numero=29|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|Eugenio Bonardelli}}, L’emigrazione italiana in California.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=20 luglio 1912|Numero=29|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica ottava dopo Pentecoste'''}}}}
{{Rule|8em|000}}
{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''In quel tempo andavano accostandosi a Gesù dei pubblicani e dei peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra di voi che avendo cento pecore, e avendone smarrita una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercare quella che si è smarrita, fino a tanto che la trovi? E trovatala se la pone sulle spalle allegramente e tornato a casa chiama gli amici e i vicini dicendo loro: Rallegratevi meco, perchè,ho trovato la mia pecorella che si è smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa in cielo per un peccatore che fa penitenza che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual’è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente fino a che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perchè ho trovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli angeli di Dio per un peccatore che faccia penitenza.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. LUCA, cap. 14.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
La parabola di Cristo — in risposta alle malignità dei Farisei — è commoventissima. È l’opera della bontà e giustizia divina in pro’ del peccatore. Questi non conosce Dio, da lui si allontana cercando la luce nelle{{AltraColonna}} tenebre e la propria soddisfazione nel lezzo delle proprie passioni.
Nè solo così si smarrisce forse per errore: Dio aumenta la sua bontà nel sostenere, oh! non quelli che traviano incoscienti, ma ancor quelli che a lui si ribellano ingrati ai suoi benefici: quelli ancor che — ripudiando i suoi doni — d’essi usano a maggior vituperio ed ingiuria verso Dio: quelli — più ripugnanti — che sprezzano ed irridono alla voce della sua carità e misericordia.
Allarghiamola la parabola. Gesù ne fa smarrita una sola mentre ha assicurato nel chiuso le novantanove. Ma dove sono le salve? dove sono e come sicure le altre? Nella nostra società non si può dire — oggidì — che forse una sola va salva, mentre destinate a fatale ruina e precipizio corrono l’altre tutte, trasportate da mille forze, da mille errori, pregiudizi, violenze di passioni, urtate e sospinte da un torrente d’iniquità e corruzione che tutto che tocca inquina ed infetta? Solo una va salva? E l’altre tutte?
{{Asterismo}}
L’osservazione — la più superficiale — dovrebbe indurci a disperazione. Rotto ogni freno morale, la legge viene calpestata ed infranta con una leggerezza inconcepibile, ed il vuoto della mente — digiuna del vero, realtà esistente — si riempie delle chimere, dei sogni e dell’oscuro, dell’errore, del pregiudizio.
Come va la cosa innanzi all’inesorabile giustizia di Dio?!
Nella sua infinita giustizia trova modo di riuscire il buono e tenero pastore dell’anima nostra. Non lo abbandona: segue l’anima peccatrice giù per le balze, nelle valli del vizio: lo avvicina superbo e colla voce del rimorso, colla parola dei sacerdoti, colle letture sante, colle malattie, colle afflizioni, coll’irrequietezza dello spirito e l’ansia del cuore lo cerca, lo chiama. Sempre l’insegue: mai si dà riposo e sa turbare l’anima errante nei sonni suoi, nel riposo, durante i conviti, fin là nell’allegria, creando una nausea indefinibile allato al piacere che egli cerca nell’atto di colpa.
Oh! l’infinita e soave azione divina! azione tranquilla, azione delicata per cui non umiliati ma vinti volontieri ci chiniamo al giogo di Dio.{{FineColonna}}<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 27 Luglio 1912|Numero=30}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Titolo=Beneficenza|Testo=Resoconto annuale (1911) del sodalizio di S. Pietro Claver per le Missioni africane.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Titolo=Religione|Testo=R. B., Vangelo della domenica nona dopo Pentecoste.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Titolo=Educazione ed Istruzione|All’''Italica Gens'' dalle Americhe — {{sc|Luigi Ambrosini}}, Il carteggio di Alessandro Manzoni.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=27 luglio 1912|Numero=30|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
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}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Beneficenza}}
{{centrato|{{larger|'''RESOCONTO ANNUALE (1911)'''}}}}
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|{{larger|'''del Sodalizio di S. Pietro Claver'''}}
|-
|align=right|{{larger|'''per le Missioni africane.'''}}
|}
Questo resoconto dato come supplemento all’''Eco dell’Africa'' (bollettino mensile illustrato, abbonam. annuo L. 1.50, Roma, Via dell’Olmata, 16) contiene le seguenti notizie atte a convincere gli amici dell’Opera, che l’interesse da loro provato pel Sodalizio Claveriano, ''Società ausiliare delle Missioni africane'' è pienamente giustificato.
Il Sodalizio possiede finora 2 case centrali, 4 centri, 11 succursali e 49 depositi, sparsi quasi per tutta l’Europa, ed inoltre un deposito in America e nell’isola Maurizio.
Il numero degli zelatori crebbe durante l’anno, di 718, raggiungendo la cifra di 40.000.
Con la parola e gli scritti il Sodalizio si diede ad un lavorìo infaticabile a beneficio dell’Africa, per modo da prendere l’iniziativa di 48 discorsi e 61 conferenze in varie lingue e con proiezioni, 16 recite, 3 esposizioni di arredi sacri, parecchi bazars di carità e feste.
L’organo principale dell’Opera l’''Eco dell’Africa'' comparve in otto lingue europee con una tiratura complessiva di 40.000 copie al mese, mentre il secondo bollettino per la gioventù «la Bibliotechina africana» che dal 1912 esce sotto il titolo di «Fanciullo negro», si pubblicò in 15.000 copie al mese in italiano e tedesco. Nella propaganda scritta va pure citato l’«Almanacco di S. Pietro Claver» e quello delle «Missioni per i fanciulli» in lingua tedesca; inoltre altri opuscoli in diverse lingue europee ed africane.{{AltraColonna}}
Il Sodalizio preparò molte feste sacre per la ricorrenza dei suoi patroni: Madonna del buon Consiglio (26 aprile) e {{wl|Q167458|S. Pietro Claver}} (9 settembre).
Il frutto del suo lavoro di propaganda fu la distribuzione ai Missionari africani senza distinzione di nazionalità e congregazione, di 282.390,01 corone. Fra le numerose congregazioni in Africa che ricevettero sovvenzioni, vanno nominate le seguenti:
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|
{{Vi|titolo=PP. dello Spirito Santo|pagina=Cor. 35.677,86}}
{{Vi|titolo=PP. Bianchi|pagina=» 25.016,84}}
{{Vi|titolo=PP. Gesuiti|pagina=» 35.672,64}}
{{Vi|titolo=PP. Cappuccini|pagina=» 13.045,48}}
{{Vi|titolo=Oblati di Maria Immacolata|pagina=» 14.493,05}}
{{Vi|titolo=Oblati di S. Francesco di Sales|pagina=» 10.265,46}}
{{Vi|titolo=Missionari di Lione|pagina=» 17.461,87}}
|}
Ebbero inoltre sussidi per redimere 282 schiavi, 491 negri ebbero danaro dai padrini in occasione del Battesimo; 1 moretto, 4 seminaristi, ed 1 catechista negro furono adottati; 28.188,06 corone andarono a costituire borse di studio per seminaristi indigeni. Inoltre furono spediti nelle varie Missioni oggetti per l’importo di corone 19.900.
Per maggiori schiarimenti, rivolgersi alla Contessa Ledóchowska, Direttrice generale del Sodalizio di San Pietro Claver a Roma, via dell’Olmata 16, e procurarsi ivi l’opuscolo ''La vocazione di un’ausiliatrice delle Missioni africane''. Prezzo franco di posta L. 0.30.
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<section begin="3" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica nona dopo Pentecoste'''}}}}
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{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''In quel tempo, mentre intorno a Gesù si affollavano le turbe per udire la parola di Dio, egli se ne stava presso il lago di Genezaret. E vide due barche ferme a riva del lago: e ne erano usciti i pescatori, e lavavano le reti. Ed entrato in una barca, che era quella di Simone, lo richiese di allontanarsi alquanto da terra. E stando a sedere, insegnava dalla barca alle turbe.''{{FineColonna}}<section end="3" /><noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 15 - 9 aprile 1910.pdf/2
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MARIO ZANELLO
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|114|IL BUON CUORE|}}
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{{Rule|100%}}</noinclude>{{Colonna}}
nazioni europee. Vogliamo dire la Legge 3o maggio 1908. Essa è la prima legge che negli Stati Uniti afferma il principio della responsabilità diretta del padrone di fronte all’operaio vittima di infortunio, ma quella per ora non si estende che agli operai che sono al servizio del Governo federale.
Tal condizione della legislazione è noto come renda difficile la equa compensazione e risarcimento delle disgrazie e dei danni subiti a causa di infortunio: ed in modo speciale ciò si manifesta nel riguardo dei nostri emigrati, che in gran parte sono poco istruiti e non sanno come fare per iniziare procedure a questo scopo: tanto più poi se la famiglia di taluno, che ha perduto la vita in un disastro in America, si trova in Italia.
Il nostro governo che si è reso conto della cosa ed ha visto come queste siano contingenze in cui il nostro emigrato più abbisogna di aiuto, ha provvidamente istituito in alcuni centri più importanti dei ''Legal Bureaus'' per l’assistenza legale agli italiani.
La frequenza, con cui purtroppo tali casi incresciosi ricorrono, ci fa augurare che esso intensifichi ed allarghi questa sua opera: e mette in luce frattanto uno dei compiti di assistenza in cui i nostri segretariati potranno rendere dei servigi utilissimi; specialmente quando essi saranno completamente e perfettamente organizzati. Infatti questi potranno dare consigli in simili casi ai disgraziati che ne abbisognano, ed aiuto legale diretto per mezzo di patrocinatori aderenti all’''Italica Gens''; inoltre sarà provvidenziale l’opera di conforto e di sollievo che essi stessi potranno esplicare nella loro qualità di missionari e di ministri di religione per l’aiuto morale alle famiglie derelitte ed ai feriti; poichè non deve dimenticarsi che la gran parte dei nostri emigrati conservano la religione della patria, la quale, anche se sopita e trascurata per qualche tempo, si ravviva e si fa sentire potentemente nei momenti di sventura quando la morte si mostra dappresso.
Nel recente disastro di Cherry, si ricordi che gruppi di uomini salvati dopo molti giorni di disperata sepoltura furono trovati recitando preghiere: erano Polacchi, Ungheresi, Italiani, tutti avevano sentito il bisogno di implorare la divinità.
E qui è giusto che segnaliamo al plauso l’opera di un sacerdote, direttore del nostro’ segretariato in Granville III, presso Cherry, il sac. Pietro Delo, che in occasione di quel disastro mostrò di aver compreso altamente la sua missione, e con encomiabile zelo fece tutto ciò che fu a lui possibile per soccorrere i colpiti, ed all’aiuto materiale unì il conforto morale portando pace e rassegnazione fra i morenti e le loro famiglie in preda alla disperazione.
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'''Ricordatevi di comperare il 13.{{smaller|<sup>mo</sup>}} fascicolo dell’''ENCICLOPEDIA DEI RAGAZZI'' che esce in questa settimana.'''
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'''La ''NONNA'' è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.'''
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{{AltraColonna}}
{{Centrato|{{Larger|'''Le Chiese gemelle di Milano'''}}}}
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Uno dei punti su cui l’Autorità ecclesiastica fu più remissiva, indulgente, è quello che riguarda la costruzione di Chiese, lo stile, e tante accidentalità architettoniche delle medesime. Ai puritani intransigenti sa male che non siasi fatto un obbligo di attenersi sempre e dovunque allo stile basilicale romano, o almeno allo stile lombardo e gotico, le tre maniere che — a voler essere schietti — meglio rispondono al nostro culto. Sa male che pochi freni si applicassero a tante voglie bizzarre di fondatori e architetti di Chiese, i quali, specialmente in un passato molto remoto, poterono impunemente dar sfogo al capriccio, alla fantasia, ai gusti paganeggianti ''et similia'' con solo ed esclusivo guadagno in favore dell’Arte e della Libertà figlie del cielo.
Senza parlare di Chiese ''duple'' e ''triple'', sovrapposte, l’una all’altra, come quella di S. Francesco ad Assisi, e il Santuario di Lourdes; vorremmo richiamare l’attenzione alle ''Chiese gemelle'', di cui in Milano ce n’ha almeno tre.
Un genere di architettura sacra di gusto molto discutibile, che abolisce il concetto di unità e di concentramento, che disorienta e buongustai dell’arte e divoti. Giacchè, come lo suggerisce il termine qualificativo e come molti dei miei lettori possono aver visto, le ''Chiese gemelle'' sono realmente due Chiese in una, riunite e comunicanti tra di loro attraverso longitudinali arcate aperte, poggianti su pilastroni, con due altari principali, due pulpiti, due presbiteri (almeno una volta) due entrate, ma una sola facciata.
Fortunatamente però questo genere di Chiese del secolo XV non attecchì; per cui ora è molto difficile trovarne esemplari. A Milano tuttavia n’abbiamo tre, fu già detto, ma bastanti, fin troppo, per darcene idea, e sono: ''S. Cristoforo'', l’''Incoronata'' e ''S. Michele'' alla Chiusa. Lusingandomi che ai lettori possa interessare conoscere queste Chiese oltre che di nome, passo a fornirne i pochi cenni che mi fu dato raccogliere.
Il ''S. Cristoforo'' è fuori porta Ticinese, sulla sponda destra del Naviglio, per chi esce di città. Fin dal secolo XII ed anche prima, sull’area del ''S. Cristoforo'' sorgeva un ospedale, dotato dai signori di Milano e dal popolo di sufficienti entrate. Prima del 1400 dovea esservi la Chiesa di S. Cristoforo esclusivamente poichè, secondo una lettera ducale del 1398 si concedeva alla città di Milano di costruire un ponte sul Naviglio perchè dall’altra riva non c’era un transito comodo alla detta Chiesa. E nel 1400 i Visconti fecero innalzare al fianco meridionale un’altra Chiesa che portava il nome di Cappella ducale; in seguito ebbe dai duchi Giovanni Maria Visconti, Filippo Visconti e Giovan Galeazzo Sforza nuovi abbellimenti e dotazioni. Di essa prima ebbero governo i Monaci di S. Vincenzo in Prato fino al 1789; poi le Parrocchie di S. Gottardo e di S. Maria al Naviglio.
Si ammirano porzioni della cara architettura lombarda originale tanto che bastano a far rimpiangere e le manomissioni vandaliche dei nostri antenati, e a far {{Pt|de-}}
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MARIO ZANELLO
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{{Pt|siderare|desiderare}} un giudizioso pronto ristauro. Nell’interno, sulla parete sovrastante la porta d’entrata vedesi tuttora un prezioso affresco dell’epoca in cui fu costruito la Chiesa, d’un pregio e d’una dolcezza d’espressione che bisognerebbe contemplarlo in ginocchio; ma anch’esso domanda un ristauro sapiente, che fu ben riconosciuto, ma che non viene mai per difetto di denaro.
Il ''S. Cristoforo'' è una Chiesa votiva in ringraziamento d’esser stata la Milano d’allora liberata dalla peste. Così, mentre fino a quest’epoca, l’unico che proteggeva dalla peste era S. Rocco, si ebbe anche S. Cristoforo e più tardi si avrà S. Sebastiano. ''Funiculus triplex difficile rumpitur''. Tanto più curioso questo benefico intervento di S. Cristoforo in quanto il suo nome lo farebbe passare per un semplice missionario; e tutt’al più, il leggendario mestiere da lui esercitato prima di cader martire sotto Giuliano l’apostata, per un filantropo qualunque. Si sa che oriundo Cananeo, peregrinò di qua, di là; finchè, giunto presse un fiume molto largo e profondo, sprovvisto di ponti e di barche, pensò di stabilirvisi, ad esercitare una carità fiorita col tragittare per amor di Dio di qua e di là i viandanti, mettendo a contributo la sua gigantesca e poderosa statura.
La festa del Santo fissata al 25 luglio, attirava un mondo di gente; e i milanesi più di tutti vi accorrevano, se non a sdebitarsi d’una solidale riconoscenza, ad approfittare di quello svago campestre che offriva mille vantaggi di distrazione, e di munizione di aria più pura e ossigenata.
Altra Chiesa gemella è l’''Incoronata'', a P. Garibaldi. Non si sa bene se fu chiamata così in onore dell’incoronazione di Maria a regina del Cielo, o piuttosto a celebrare il fatto che il fondatore Francesco Sforza Visconti ottenne la corona ducale, o magari l’una e l’altra versione.
La prima parte della Chiesa dedicata alla Vergine, fu costruita dal Duca nel 1451; e nove anni dopo la moglie dello Sforza, Bianca Maria, faceva costruire l’altra dedicandola a S. Nicolao da Tolentino in riconoscimento di molte grazie ricevute da esso. Si vuole anche che i fondatori volessero simboleggiata in questa Chiesa gemella la loro unione maritale.
La forma architettonica originale in stile lombardo ormai è quasi irriconoscibile, se si eccettui il lato di mezzodì, relativamente ben conservato.
Assai ragguardevole al lato sinistro la cappella di S. Agostino, che come si sa, fu voluta dai primi monaci chiamati a reggere questa Chiesa, gli Eremitani di S. Agostino. L’immagine del Santo che ha sloggiato nella cappella vicina all’altare, per lasciar posto al simulacro di S. Nicolao, è di Siro Ferri, e gli affreschi sono del Perugino, del Procaccino e del Montalti. All’altare della Madonna si vede un affresco pure considerevole.
Nel 1654 vi fu il primo radicale ristauro per architettura d’ordine ionico.
Come tutte le Chiese, anche l’''Incoronata'' corse molte vicende. Nel 1455 furono chiamati a reggerla gli Eremitani di S. Agostino; nel 1805, soppressi gli Ordini religiosi, passava sussidiaria di S. Simpliciano, e nel 1858 veniva eretta in Parrocchia.
{{AltraColonna}}
''S. Michele alla Chiusa'' è la terza ''Chiesa gemella'' di cui ci occupiamo. Quanto alla denominazione, dovremmo intendere che quì sia stata qualche parte dei muri della città rovinata dal Barbarossa, e poi ristorata alla meglio e detta ''Chiusa'' secondo la iscrizione ''Monasterium hoc in postdiruptum oppressum?'' O che si radunassero quì le acque sotterranee, o che i conciatori di cuoi arrestassero quì le acque per i loro usi?
La Chiesa in origine è di stile lombardo. Anteriore la Chiesa di S. Michele, aggiunta in seguito l’altra, dedicata alla Vergine, la cui immagine ora venerata all’altare principale, un tempo era collocata verso strada, e circondata di venerazione pei miracoli operati. Governata un tempo da due parroci e la Chiesa della Madonna da deputati amministratori delle offerte, nel tempo di S. Carlo restò un sol parroco, ed ora è sussidiaria di S. Lorenzo. Per quanto infelicemente trasformata, è sempre preziosa, anche per alcune tele d’altari, fra cui S. Antonio di Padova dello Storer, tedesco, visibile nella parete destra della Cappella vicina alla sagrestia.
{{A destra|margine=1em|{{Sc|L. Meregalli.}}}}
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{{Centrato|{{Larger|'''LA GIOVINE MADRE'''}}}}
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{{Centrato|'''Adolfo Deschamps'''}}
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:Dolce è il tuo sonno, o bel fanciullo biondo!
::Appien rivela che soltanto, al mondo,
:::Tu distingui de’ miei baci ’l romor!
::Il tuo sereno aspetto agli immortali
::Fa dubitar ch’io ti nasconda l’ali,
:::E un angelo tu sia, simile a lor!
:Mentre tu dormi, così dolcemente,
::Vie più t’imbianchi, e, sotto il ciglio ardente,
:::Le amate guancie tingi di rossor:
::Le tue palpebre poi cosi serrate
::Pajon l’ali d’un’ape dispiegate
:::Sui petali d’un giglio, ai primi albor!
:Il tuo viso infantil, tutto vaghezza,
::Mi sembra un ciel di pace e di purezza,
:::In cui dell’alma tua brilli ’l fulgor!
::Desso è specchio fedel, che non inganna,
::E l’aura di quaggiù mai non l’appanna
:::Perchè Iddio ti riguarda con amor.
:No! il ciel non abbandona alma sì bella
::Del mondo impuro alla crudel procella,
:::Che i bimbi strugge, come strugge i fior!
::Una lagrima a Dio spunta in sul ciglio,
::Quand’Egli mira nel terrestre esiglio
:::Che un fior sì fresco inaridisce e muor!
:Ma quand’io sul mio sen ti stringo, in pianto,
::E t’offro a Lui come olocausto santo,
:::O mio pargolo bello, o mio tesor,
::Allor ti guardo, e, nella prece mia,
::Sento che grata è a Lui l’offerta pia,
:::Che invio dall’ara del materno cor.
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MARIO ZANELLO
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{{Rule|100%}}</noinclude><section begin="1" />{{Colonna}}
:Io prego allora la bontà infinita
::A far blando il sentier della tua vita,
:::E a ricovrirti ognor del suo favor,
::Poi, largo premio del mio vivo affetto,
::Io chieggo a Dio che solo un sorrisetto
:::Da te mi venga, e attesti ’1 tuo candor.
:Oh! possa, in mezzo a fior’più lusinghieri,
::Nelle danze ridenti e nei piaceri,
:::Possa io mostrarti l’infernale orror
::’Ve inabissa, con gelido blasfema,
::Chi non vide tra i fior dell’anatèma
:::Raggiar di due sinistri occhi ’1 baglior!
:O mio bambino, al Dio, che t’ha creato
::Serba sempre il tuo labbro intemerato,
:::E la prece, che schietta ergi al Signor,
::Come, a sera, si addorme verginale
::Tal si desti, in sull’alba mattinale,
:::De’ fior’di miele col soave odor.
:E la croce che al collo io t’ho sospesa,
::T’apprenda del peccar quant’è l’offesa,
:::E perché Iddio fu oppresso dai dolor’:
::T’apprenda, o caro, come tante pene
::Ei le sofferse per il nostro bene,
:::Ed amarlo tu dei con santo ardor.
:O bimbo mio!... Congiungi le manine
::E, affilando alle imagini divine
:::Di tue pupille il cerulo splendor,
::T’inginocchia, e, con santa cortesia,
::Ai dolci nomi di Gesù e Maria
:::Deh! impara a far sul mio grembiule onor!
{{A destra|margine=1em|{{Sc|Pietro Caliari.}}}}
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{{Centrato|'''Offerte per l’Opera Pia Catena'''}}
{{Centrato|(CURA DI SALSOMAGGIORE).}}
{{Vi|titolo=Sandra invocando una benedizione nel suo giorno nuziale|pagina=L. 50 ―}}
{{Vi|titolo=Baglia Bambergi Giulia|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=Bernasconi Maria|pagina=» 200 ―}}
{{Vi|titolo=Colombo Maria|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=Clotilde Riva|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=''Banco Ambrosiano''|pagina=» 150 ―}}
{{Vi|titolo=''Banca Popolare''|pagina=» 250 ―}}
{{Vi|titolo=Winghen Gianetto Margherita|pagina=» 10 ―}}
{{Centrato|NUOVE PATRONESSE.}}
Colombo Maria — Winghen Gianetto Margherita.
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{{Centrato|'''PENSIONE FAMIGLIA PER IMPIEGATE'''}}
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{{A destra|Somma retro L. 5490 ―}}
{{Vi|titolo=Sig. Lodovico Hess (già Socio fondatore) un’azione|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=Ing. Italo Locatelli, altre due azioni|pagina=» 20 ―}}
{{Vi|titolo=Signora Clerici marchesa Giuditta|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=» Robecchi|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=Donna Maria Craven|pagina=» 10 ―}}
{{Vi|titolo=» Giulia Craven|pagina=» 5 ―}}
{{Vi|titolo=Don Luigi Craven|pagina=» 5 ―}}
{{Vi|titolo=''Banca Popolare''|pagina=» 200 ―}}
{{Vi|titolo=N. N.|pagina=» 2 ―}}
{{Vi|titolo=Signor Mario Misetti|pagina=» 5 ―}}
{{Vi|titolo=Gian-Franco Banfi|pagina=» 5 ―}}
{{Vi|titolo=Signora Giuditta Conti Bisleri|pagina=» 10 ―}}
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{{RigaIntestazione|(Continua)||Totale L. 5782 — }}
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<section begin="2" />{{AltraColonna}}
{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{Centrato|{{Larger|'''Vangelo della seconda domenica dopo Pasqua'''}}}}
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{{Centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''Giovanni vide Gesù, che veniva gli incontro, e disse: Ecco l’Agnello di Dio: ecco colui che toglie i peccati del mondo. Questo è colui, del quale ho detto: Dopo di me, viene uno, che è da più di me, perché era prima di me. E io nol conosceva; ma affinché egli fosse riconosciuto in Israele, per questo io sono venuto a battezzare nell’acqua. E Giovanni rendette testimonianza dicendo: Ho veduto lo spirito scendere dal cielo in forma di colomba, e si fermò sopra di lui. E io nol conosceva; ma chi mandommi a battezzare nell’acqua, mi disse: Colui sopra del quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito, quegli è colui che battezza nello Spirito Santo. E io ho veduto: e ho attestato com’egli è il Figliuolo di Dio.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. GIOVANNI, Cap. {{sc|i}}.}}}}
{{Centrato|'''Pensieri.'''}}
''Ecce agnus Dei!'' Gesù Cristo riveste per i credenti in lui il carattere di vittima.
Noi non possiamo quasi pensare un giusto senza pensarlo martire — quanto più il giusto per eccellenza!
Ogni uomo grande è segnato da questo destino di dolore.... e, direi, ciò si comprende, ciò è quasi fatale.
L’uomo grande è un profeta, che spinge l’occhio sovrano, sicuro e lontano e vede ciò che la massa dei suoi contemporanei non vede.... Ne viene solitudine austera all’uomo superiore; un senso di nostalgia verso una patria più elevata e degna; ne viene lo sforzo di attuare la propria visione....
Il pensiero profondo stimola all’azione costante, efficace, sovvertitrice all’occhio dei miopi che circondano il veggente ed essi si volgon contro il perturbatore....
Ma a questa guerra, frutto di cecità e d’ignoranza, e, fino a un certo punto, inevitabile, s’aggiunge quella delle passioni eccitate, degli interessi urtati..... la lotta dell’insipienza si complica di male e diventa immorale e indegna!
Rammento l’impressione profonda provata quando, per la prima volta, s’affacciò al mio pensiero, questo seguito di dolore che è retaggio d’ogni superiorità.... Fu però una ben triste ora quella in cui vidi che non solo la luce, non solo la verità scientifica può essere fatta bersaglio ai colpi degli inetti e dei cattivi, ma anche la bontà, la virtù.....
Eppure, meditando, anche ciò si spiega... Che cosa umiliante per noi poter spiegarci certe brutture, oh, Signore! — L’uomo giusto, adora la verità, nulla lo rende vacillante davanti alla virtù; egli si piegherà ai miseri, non si inchinerà mai ai potenti; egli aiuterà i bisognosi, non tratterà mai con i vani, bramosi di privilegi;.... la sua virtù crea il vuoto intorno a lui e — tranne che per pochi — benedetti d’una benedizione ineffabile, egli è il nemico che va demolito, soppresso.
Oh la visione dell’umanità accanita contro quanto
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MARIO ZANELLO
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in essa v’ha di migliore! Intenta a martirizzare i suoi eroi! Giunta fino a crocifiggere Gesù!....
Ma i martiri, ma il martire per eccellenza, sono vittime per quelli che poi li riconoscono e il loro martirio è fonte di bene alla società che li ha confitti in croce!
È riparazione tarda la venerazione che si volge alle tombe gloriose dei grandi, dei santi,.... ma non è riparazione vana: essa dice un’ascensione verso il bene, verso il vero..... Per questa ascensione i martiri certo esultano al di là della tomba, al di là della morte!
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Il Cristianesimo in quanto religione non poteva essere senza sacrificio, perchè religione senza sacrificio è inconcepibile, come è inconcepibile religione senza preghiera.
La preghiera (la preghiera ideale insegnata e praticata da Gesù e da’ suoi santi) attrae a sè la divinità.
Il sacrificio porta l’uomo in Dio.
Ma il cristianesimo ha come vittima del sacrificio il suo stesso fondatore.
Pensiamo bene a tutte le conseguenze pratiche di questo fatto.
Il Cristiano non può onorare Iddio in altro modo che col diventare egli stesso olocausto alla divinità come Gesù Cristo.
Rammentiamolo, quando pare si sia tentati di credere che basti offrire a Dio le cose nostre, serbando a noi noi stessi!
Già i profeti d’Israele ammonivano che Dio non si beava di sacrifici, ma solo dei cuori mondi e puri; l’insegnamento profetico è ripetuto, e quanto più efficacemente, a noi cristiani dal Maestro nostro divino, pendente dalla croce.
È con il cuor nostro scevro d’ogni bruttura, pronto a tutto per la verità e per il bene, cioè per Dio, che noi possiamo rendergli onore degno!
{{Asterismo}}
Il sacrificio di Gesù al Padre fu sacrificio ''razionale'', perchè consistette in un atto sublime di ''obbedienza'': factus obbediens usque ad mortem.
Un simile sacrificio annullava quelli di animali e di cose visibili che per sè non hanno alcun valore: Rimane, dopo la morte di Gesù, un solo sacrificio accetto: ''compiere la volontà del Padre!''
Questo completa il precedente punto della nostra meditazione: Noi dobbiamo offrir noi stessi al Padre e l’offerta nostra sarà piena, degna, accetta, quando noi compiremo la volontà del Padre. Noi dobbiamo compiere il volere di Dio, attuare i suoi disegni sopra di noi. Unica nostra preoccupazione, se noi siam cristiani, religiosi per davvero, non dovrebbe essere che quella di conoscere questa volontà.
Iddio vuole il vero, il bene... questo da tutti. Ma che vuole in particolare da noi?
Dalle circostanze esteriori noi vedremo la volontà del Signore: in ogni contingenza, ascoltando e seguendo il suggerimento che ci spinge alla bontà, noi attueremo il volere divino.
{{AltraColonna}}
Quante volte, volendo fare così, noi ce ne dovremo rimanere umili e sereni e calmi fra le amarezze più crude; noi dovremo portare la croce, amando sempre le persone che con la loro incomprensione, con il loro contegno, ce la spingon ognor più dentro nel cuore; quante volte per seguire la voce divina, bisognerà vincere noi stessi, costringerci, fino quasi ad annientarci...
Eppure solo così noi compiremo la volontà del Padre; — solo così arriveremo alla piena unione con Dio, di conseguenza alla nostra felicità...: felicità austera, ma ineffabile, ma grande; — quella felicità che faceva esclamare all’Apostolo: Io sovrabbondo di gaudio in ogni mia tribolazione!
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{{Centrato|{{Larger|'''Don MICHELE RUA'''}}}}
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È spirato mercoledì all’alba, dopo un’agonia tranquilla, l’agonia di un santo che, fino all’ultimo momento, si mostra noncurante di se stesso e tutto asservito alla beneficenza nella più sublime estrinsecazione. Sì, {{wl|Q1351154|don Rua}}, come {{wl|Q146183|don Bosco}}, fu un gran santo, fu un grande benefattore, fu un grande italiano che seppe e volle, con fervore d’apostolo e con ardente amor patrio, estendere anche alle terre più lontane i benefici della civiltà e della carità ispirata ai più alti ideali.
Era nato il 9 gennaio 1837, poco lungi dalla località in cui sorse più tardi il primo oratorio salesiano. Ivi era allora la Fucina delle canne dello Stato sardo, nella quale Giovanni Rua, suo padre, era impiegato; ed ivi ebbe poveri ed oscuri natali.
La morte di don Michele Rua avrà larga eco anche fuori del mondo cattolico, perchè egli aveva conoscenti e ammiratori fra uomini di partito e di fede diversa. Basta, a provarlo, questo episodio, fra i molti, che a Torino a suo tempo menò molto rumore.
Da tre mesi durava uno sciopero in un notissimo cotonificio della città; i proprietari non volevano assolutamente scendere a patti con la maestranza di oltre mille operai nè a discussione coi rappresentanti di questa. Erano avvenuti vari tumulti e clamorose dimostrazioni sia davanti allo stabilimento cinto di una specie di assedio giorno e notte, sia sotto le case di alcuni cosidetti ''krumiri''. In più di una famiglia si soffriva anche la fame. Prefetto, sindaco, questore e le altre autorità avevano dato inutilmente la loro opera pacificatrice.
Don Rua chiamò un giorno nella sua povera celletta i proprietari dello stabilimento e i rappresentanti degli operai, e ciò che non avevano potuto le autorità cittadine con promesse o minacce, potè ottenere con la sua parola l’umile sacerdote. La vertenza fu concordemente risolta e la pace e il lavoro ritornarono in tutta una legione di lavoratori.
La figura di don Rua, alta, esile, quasi mistica, e la sua parola semplice, i suoi modi bonari, ricordavano il fondatore dell’opera salesiana, don Bosco, del quale sin da giovinetto egli godette l’illimitata fiducia e la protezione.
{{Nop}}
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|118|IL BUON CUORE|}}
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Già, anche mentre don Bosco era in vita, egli ne era stato preconizzato successore, e già molti anni prima della morte di lui — avvenuta il 31 gennaio 1888 — era l’anima di tutta la vasta società, ne conosceva l’amministrazione, gli ordinamenti, l’inviluppo degli affari e dei disegni.
Nel 1885 don Bosco stesso lo nominò suo vicario con diritto di successione.
Morto don Bosco, la devozione e la simpatia che circondavano questo nome — che la Chiesa due anni dopo elencava fra i suoi venerabili — si riversarono su don Rua, mentre un atto di Leone XIII in data 11 febbraio dello stesso anno, lo confermava nella carica di superiore generale della Società salesiana.
Don Bosco vide per la prima volta Michele Rua quando questi, bambino di otto anni, frequentava la scuola di Santa Barbara, retta dai fratelli delle Scuole Cristiane.
Da quei giorni incominciò la devozione del piccino per il fondatore dell’opera salesiana e Michele Rua prese quasi subito a frequentare l’oratorio di Valdocco. Fu in quella visita, prendendo parte ad una processione — così raccontò egli stesso — che vide fra i devoti colla torcia in una mano e nell’altra uno dei libri di preghiere distribuiti da don Bosco, il conte di Cavour. Don Rua anche molti, molti anni dopo, diceva:
— Me ne ricordo ancora, come se lo vedessi oggi.... Don Rua vestiva l’abito chiericale il 3 ottobre 1852 in una chiesetta nei pressi di Castelnuovo d’Asti, dove nacque don Bosco. Qualche anno dopo il suo protettore gli dava un segno della sua predilezione: morta la propria madre, chiamava a sostituirla nell’ufficio di custode, di economa-amministratrice della sua casa di Valdocco, la madre di Michele Rua.
Nel 1858, la prima volta che don Bosco andò a Roma per essere ricevuto da Pio IX, condusse seco come segretario il giovanetto chierico. Fu in quella occasione che don Bosco, ritiratosi don Rua, chiese al Papa che gli concedesse le basi di una istituzione compatibile coi tempi e coi luoghi.
Due anni dopo il chierico finiva gli studi teologici e fu chiesta al Vaticano la dispensa della sua giovane età per la sacra ordinazione del giovanetto. E’ caratteristica la risposta del Papa, il quale, per dare speciale prova della sua benevolenza, concedeva «all’ottimo cooperatore dell’Opera di carità e religione», la grazia chiesta per semplice rescritto. Occorreva, però, per l’esecuzione del rescritto il ''placet'' del Governo, che don Rua dovette attendere ancora per due mesi. Ma il 29 settembre 1860 egli veniva insignito del carattere sacerdotale e il 30 settembre celebrava nell’oratorio suddetto senza speciale solennità.
Don Rua fin dall’ora teneva in mano gran parte della gestione dell’oratorio con la sua invincibile fermezza di carattere. In lui le qualità più eminenti si congiungevano ad una profonda umiltà, che fu dote costante della sua lunga vita.
La Società è l’opera di don Bosco sotto don Rua — durante i 22 anni in cui ne tenne la direzione generale — raggiunse il massimo sviluppo specialmente all’estero. A ciò contribuiva la perfetta conoscenza che egli si {{AltraColonna}} procurava delle istituzioni, visitandone buon numero in tutta Europa, nell’Africa del Nord, nella Turchia e nella Palestina. Per le case d’America si manteneva in tale corrispondenza personale coi superiori e persino con le persone di servizio sì da poterne avere un concetto esattissimo e particolareggiato.
Alla morte di don Bosco la Società contava circa 500 soci; oggi ne ha oltre 4000. Gli stabilimenti educativi lasciati da don Bosco erano circa un centinaio e don Rua li portò ad oltre trecento. In tale cifra non sono compresi quelli riguardanti gli istituti della Società di Maria Ausiliatrice, che procedette sempre con eguale sviluppo di quello dei Salesiani la cui direzione venne fino a questi ultimi tempi, tenuta da don Rua.
L’opera dei Salesiani oltre i confini della patria è caratterizzata da uno schietto senso di italianità, il quale induce a credere che nessun altro degli Istituti in questo notevole periodo d’anni abbia maggiormente contribuito a diffondere all’estero, e specialmente nell’America meridionale e centrale, lo spirito di italianità e la conoscenza della lingua madre quanto la Società salesiana diretta da don Rua.
Una documentata rivelazione di questo fatto si ebbe all’Esposizione di Milano nel 1906, ove l’opera di don Bosco figurava nel ramo degli Italiani all’Estero, riportando il Gran Premio e il più sincero elogio della giuria, la quale rese omaggio alla grandiosità del lavoro compiuto all’estero dai Salesiani. Rilevavasi allora da una statistica sommaria che la massima parte delle Case salesiane erano in America e negli altri paesi extra-europei e che in tutte si insegnava l’italiano, si inalberava la bandiera italiana e si faceva opera di patriottismo diffondendo con ogni mezzo la nostra cultura.
L’opera di don Rua all’Esposizione di Milano si presentava divisa in quattro grandi sezioni: Istruzione, educazione e beneficenza fra i popoli civili; Missioni religiose e colonizzazione fra i popoli selvaggi; Assistenza e scuola fra gli emigrati italiani; Missioni varie lavori di italiani all’estero.
Notevole è il lavoro compiuto sotto la direzione di don Rua nella civilizzazione dei popoli selvaggi e nella colonizzazione dei vasti territori da questi occupati. La conquista della Patagonia alla civiltà è merito dei Salesiani, i quali in due vastissimi vicariati hanno piantato una trentina di case coloniche agricole, scuole di arti e mestieri, studi di vario genere e persino qualche fiorente osservatorio astronomico e meteorologico che presta preziosi servizi alla scienza in quelle lontane e sconfinate regioni.
Questa impresa di civilizzazione don Rua iniziò in questi anni nel Matto Grosso al Brasile, ottenendo in mezzo a tribù selvagge dei risultati mirabili, che vengono apprezzati dal Governo di quella giovane repubblica. Persino la cura e l’assistenza dei lebbrosi don Rua volle impiantare da qualche anno in America. La stampa italiana ha avuto ripetute occasioni di occuparsi dei lazzaretti per i lebbrosi che egli fece costruire ad Agua de Dios ed a Contratacion dove molti dei Salesiani si sono isolati dal mondo civile, votandosi ad una vita di sacrifici ad una sorte che mette raccapriccio al solo pensarvi.
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Pagina:Gazzetta Musicale di Milano, 1844.djvu/196
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Eumolpo
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t;
SOiSha
i ÆM L’allro decreto prescrive clic il canto dovrà insegnarsi ]
in tutte le scuole della città, e per quanto sarà possi-:
bile, anche in quelle de’ villaggi.
— Dresda. Bianca e Gualtiero, opera nuova del
“AT signor Alessandro Lwoff, generale e ajutanle di campo
(y>,j dell’imperatore di Russia, è stata qui rappresentata il
© 13 ottobre, con un successo tale, die alla line dell’opera
tutto il personale die vi aveva preso parte fu evocato
sul proscenio in un col compositore. L etichetta non
permettendo jmiilo al generale di rendersi agli inviti
del pubblico, per quanto lusinghieri fossero, ne fece le
veci il Direttore. Quanto alla nuova partizione, i giornali
ne fanno i più grandi elogi; si citano fia gli alili
pezzi un duetto ira Bianca e Gualtiero, ed una pie-;
ghiera con coro, che vuoisi di superba bellezza.
— Il 19 ottobre. Gli avanzi mortali di Darlo Maria 1
Weber arrivarono in questa capitale; ove furono trasportati
dal figlio di questo celebre compositore, signor
Massimiliano Weber, uno de’ nostri più distinti
pittori. Sabato passalo le esequie del grande artista sono
state celebrale nella chiesa di S. Maria in presenza di
tutto che Dresda racchiude di persone distinte nelle
scienze, nelle lettere e nelle arti. Il //cr/uicrzi, che venne
eseguito in questa circostanza, era stato assegnalo da
una estrazione a sorte, per la quale si aveva messo in
un’urna i nomi di Jomclli, Mozart e Cherubini. Quest’ultimo
nome è uscito dall’urna, e, per conseguenza,
venne eseguito il Requiem, di Cherubini. Dopo la cerimonia
funebre, il feietro fu portato al cimitero cattolico
di Dresda, ove venne seppellito. La comitiva si com!
poneva di più di ottocento persone.
j — Ghatz. Alfredo Jaell, il giovane pianista di ondi i
anni, che già da due mesi trovasi in questa città coi
suoi genitori, si fece sentire il 20 ottobre nella sala delI’
Unione Musicale, ed il 24 in teatro. Egli suonò un
Notturno di Dohler, una Fantasia di Thaiberg e un
pezzo di Liszt. Alfredo Jaell sorprende eseguendo le
più difficili composizioni con franchezza, espressione e
sentimento.
— M vmum Scrivesi da questa città al Monde musical:
o Come mai volete dare un’idea dello straordinario
entusiasmo eccitato da Liszt! È una vera frenesia.
Il trionfo di Liszt è lauto più glorioso, in quanto che
qui, ad eccezione di quei pochi che I ebbero sentito a
Parigi, era pressocché sconosciuto. Inoltre Liszt aveva a
lottare contro una fortissima prevenzione avversa all istrumento
che egli tratta così meravigliosamente. Il pianoforte
in Ispagna non è stalo considerato finora che come
un semplice istromento d’accompagnamento, e tulli
disapprovavano l’arditezza di colui che, con un pianoforte,
e solo, pretendesse interessare un uditorio. Ma
Liszt non ebbe che a comparire e farsi sentire per riportare
una completa vittoria. Al suo concerto, che ebbe
luogo nella sala del Liceo, non appena aveva egli Unito
il suo primo pezzo, V ouverture del Guglielmo Teli,
che vi fu un’esplosione interniinabile d’applausi e di
braco. Al secondo pezzo, la sua fantasia sulla Aorma,
l’entusiasmo si è raddoppialo, ed i gridi di bis, le chiamate,
gli applausi, cominciarono per non più cessare
fino alla fine del concerto, che c stato una continua
ovazione. - Liszt ha ora sottoscritto col direttore del
gran teatro del Circo un contratto per quattro concerti,
per ognun dei quali egli riceverà una somma di
20,000 reali. Vi terrò informato dei successi di questo
grande artista, successi che per quanto clamorosi siano
stati, non possono che vieppiù accrescersi, perocché vi
devo ripetere che la vigilia Liszt era pressocché sconosciuto
per Madrid, mentre il suo nome vola ora di bocca
in bocca».
— Mosca. Quel teatro italiano diè principio alle sue
rappresentazioni colla Lucrezia Borgia. Musica ed esecuzione
ebbero il più lusinghiero successo, e di alcuni
pezzi si volle pur la replica. 1 cantanti principali erano
le signore Assandri e Viotti ed i signori Salvie Corradi-Setli.
— I’iiugi. Leggesi nella France Musicale. • Venerdì
l.° corrente si e eseguito all Accadcmia realedi musica
il capo lavoro di Haydn, La Creazione del Móndo, che
non si era sentito a Parigi dopo il 3 gennajo, anno IX.- |
In generale non si mostrò grande entusiasmo per questa
composizione: se si eccettuano due o tre pezzi che vivamente
si applaudirono, il resto dell’opera fu accolto
un po’ freddamente. Ci si dira che il pubblico non é
fatto per comprendere delle opere di tanta importanza;
e noi rispondei orno che ciò non é fuori di proposito, e!
che quello che. é stato composto per un pubblico del 179S
non potrebbe intieramente convenire al gusto ed alle
abitudini del pubblico del 1844. - Pressoché seicento
artisti presero parte a questa imponente esecuzione, ed
il signor llabeneek può a buon dritto andar superbo!
d’aver saputo raccoglici e con tanta abilità una cosi forMorelli,
sono stati applaudilissiini. La Persiani pareva
un po’ affaticata; troppo spesso ella sostituisce delle
frasi sue, d’altronde sempre ben adatte alla musica di
Donizclli; ed il pubblico approva questi cambiamenti.
Ronconi fu superiore ad ogni elogio nel finale del secondo
atto, e Mario che aveva in prima rifiutala la
parte d’Edgardo, può essersi nuovamente convinto che
non vi ha parte di tenore nel repertorio italiano ove egli
non possa spiegare e far ammirare le sue biillanti qualità
d’attore e cantante.
— L’opera che probabilmente sarà rappresentata
dopo la Maria Stuart, è intitolata Aal’m. La partizione
sarà del signor Enrico Reber, già noto per delle sinfonie,
dei terzetti e delle melodie di gran merito.
— S. A. R. il principe di Joinville ha di buon grado
accettalo il patrocinio della Società degli artistesmusiciens.
Il principe e la principessa, come anche il
duca d’Aumale, hanno onorato di loro presenza il gran
concerto dato giorni sono all’Opéra.
— Il concerto del signor Giorgio Kastner avrà luogo
il 24 corrente nella sala del Conservatorio. Vi si eseguirà
una grand’opera biblica di sua composizione, intitolata
le Dernier roi de Judo.
— l’ixis, il celebre pianista, è di ritorno a Parigi,
ove rimarrà lutto I’ inverno.
— Pestìi. intercali, il celebre professore e virtuoso
sul mandolino, che qui trovasi da alcuni giorni, si farà
quanto prima sentire in pubblico.
— PitESBiiioo. Il 24 novembre l’Unione di musica
sacra celebrerà la festa annuale di S. Cecilia coll’esecuzione
della seconda ed ultima messa in ile dell’immortale
Beelhoven. All’Unione è quindi concesso per
la seconda volta l’esclusivo onore di eseguire questa
messa, che finora non venne eseguita intiera in nessun
luogo, con un personale di circa 2ùo cooperanti.
— Vienna. La grande riunione di canto, sotto la direzione
del signor A. Schmidt, direttore di quella Gazzetta
Musicale, ha ricevuto l’autorizzazione dell’imperatore.
Sua.Maestà si è degnala accettare una serenata
che é stata data da tutti i membri della riunione, nella
sua villa di Schonbrunn. Fra i maestri di cui furono
eseguite delle produzioni, si rimarcano, oltre Mozart,
Meyerbeer, Ilalévy, Mendelsslion, i signori Kiickcn,
Reissiger, A. Schaeffer.
ALTRE COSE
— Il violinista Ernst, dopo aver suonato in un’accademia
di corte di S. Altezza R. il Duca di Nassau,
ha continuato il suo viaggio artistico alla volta di Weimar,
ove diede già un concerto con mollo successo.
Alla fine dei corrente mese pensa di recarsi a leiina,
dopo che avrà dati dei concerti a Lipsia, Dresda e Praga.
— Scrivesi da Amsterdam al Journal des Débats:» li celebre violoncellista Giacomo Franco-Mendez ricevette
ultimamente, da S. M. la Regina Teresa di Baviera,
una ricca spilla di brillanti, accompagnata da una
lettera la più lusinghiera, quale testimonianza della sua
soddisfazione per una composizione intitolala fiéwrie
per violoncello e pianoforte, della quale S. M. aveva
accettata la dedica. - Questo artista ha pure teste composto
un grande Concerto per violoncello con grande
orchestra, la dedica del quale fu accettata dal Principe
d Orange nel modo d più gentile. Il sig. Franco-Mendez
si propone nel prossimo inverno di portarsi a Parigi».
— Thaiberg è stato nominato membro dell’Accademia
delle Belle Arti di Napoli, con un decreto di Sua
Maestà in data del 21 settembre passato.
— Leggesi nella llevue et Gazelle Musicale». Il signor
Wolfsolm ha teste inventalo una nuova specie di
diapason che ci pare offrire incontestabili vantaggi sull’antico
modello; quasi’ ultimo e generalmente di suono
debole, di poca durata, e talvolta anche di equivoca
esattezza. Quello del sig. Wolfsolm, al contrario, avendo
la forma d’un piccolo cilindro diritto, rende un suono
puro, forte, inalterabile, che si prolunga a piacere. Per
la modicità del prezzo, questo nuovo diapason può convenire
a chicchessia, e diventerà certamente il cade mecum
di tutti i musicanti».
— Il Débats dice che a Dresda si ha il progetto di innalzare
a Weber in una delle pubbliche piazze una statua
in bronzo.
I IH mentii
TIt.K.IllïA El K ICA
o
DI FRANCESCO H A RI A PIAVE
POSTA IN MUSICA DAL MAESTRO
GmSs min
Pezzi ridotti per Canto con accompagnamento
di Pianoforte dal Maestro Luigi Truzzi.
16798
16799
1680I
16802
16805
1680 U
16805
1680(5
16814
16811
16815
16813
Scena e Cavatina, Dal più remolo
esilio, per Tcn.
Scena, fioro e Cavatina, Tu al cui
sguardo onnipossente, per S.
Scena c Romanza, O vecchio cor,
che bulli, per Bar.
Scena e. Duello-Finale 1, Tu pur
lo sai, che giudice, per S. e Bar.
Preludio, Scena e Preghiera, Allo II,
Aon maledirmi, o prode, per T.
Scena e Duello, Ao, non morrai,
ch.è i perfidi, per S. e T.
Scena e Terzetto,.Ve/ tuo paterno
amplesso, per S., T. e Bar.
Scena c Quartetto, Ah sì, il tempo,
per S., T., Bar. e B.
Scena ed Aria, Più non vive!...
/’innocente, per S.
Scena c Barcarola, Tace il vento,
c quêta T onda.
Scena ed Aria, All’infelice veglio,
per Tcn.
Scena ed Aria finale, Questa dunque
è Piniqua mercede, per Bar.
Data della
pubblicazione
12 Novembre
1844.
25 detto
50 dello
Il rimanente a completamento dell’Opcra verrà pubblicalo
in seguito alle epoche fisse che verranno indicate.
Contemporaneamente ai suddetti pezzi per Canto
verranno pubblicali anche i Pezzi per Pianoforte
HO1<>, ridotti dal Maestro Luigi ’Truzzi, e (pianto
prima le altre riduzioni.
FANTASIA CONCERTANTE
per Pianoforte e Flauto
SOPRA MOTIVI DELL’OPERA
DEL M.° VERDI
COMPOSTA DA
16772 Op. 74 Fr. 7 —
FANTASIA MARZIALE
/><?>• Pianoforte
COMPOSTA DA
urna
I
midabile armala La sala offriva un colpo d occino maraviglioso.
Gli esecutori, disposti sopra un tavolato a gradini, arrivavano fino ai fregi del fondo della scena, e sul primo piano i coristi, uomini e donne, stavano in gruppo intorno ai capi dei cori e dei cantanti. Non vi fu un momento d’esitazione; da un capo all’altro l’esecuzione e stata perfetta. Le signore Cinti-Damoreau e Dorus Gras hanno alternativamente cantato la parte di Gabriele; i signori Duprez e Roger quella di Uriele; i signori Levasseur e Barroilhet qu&lla di Rafaele; il
signor Hermann Leon e madamigella Dobrée quelle di Adamo ed Èva. - Commetteremmo una grave (immissione
se non annunziassimo l’immenso successo della
ouverture d’Obéron, eseguita in modo splendido dall’orchestra
e soprattutto dai ventiquattro primi violini,
e del coro di Giuda Maccabeo» Chantons victoire «.
in cui i coristi hanno mostrato una potenza sonora ed
una unità d’esecuzione di cui non vi fu mai esempio.
Malgrado l’ora avanzata, questi due pezzi sono stali replicati,
fra tale clamore di applausi da far crollare la sala».
— Teatro Italiano. Si è ripresa la Lucia. Questa
bellissima opera é ognora accolta con entusiasmo; epperò
questa volti il pubblico ha più che mai manifestato
la sua soddisfazione. La Persiani, Mai io, Ronconi,
«DOVE PUBBLICAZIONI MLSIlALI
DELL!. R. STABILIMENTO NAZIONALE PR1V1LEG.
Di C4IOVAXXI RICORDI
Eì 1È® B
SECONDO DIVERTIMENTO
4G106
Op. 40.
F. 2 40
Il lOffl DI
Tragedia lirica in 4 parti
tli Fr. Cistitii
POSTA IN MUSICA DA
^10=
16746
per Piauofofte
COMPOSTO DA
Op. 73.
Fr. 3 —
TEOD’JLC 1UBBLLIÏÏI
Ne sono pubblicati nove pezzi ridotti per Canto
con accompagnamento di Pianoforte.
Dall’I. R. Stabilimento Nazionale Privilegiato di Calcografia, Copisteria e Tipografia Musicale di Giovava! Ricordi Ed. Pr.
Contrada degli Omcnoni N. 1720, e Rotto il.portico di fianco all’I. R. Teatro alla Scala*
GIOVANNI RICORDI
E 1> I TOIIT-PllOP KILTAR1O<noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno IX, n. 15 - 9 aprile 1910.pdf/8
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|120|IL BUON CUORE|}}
{{Rule|100%}}
{{Rule|100%}}</noinclude>{{Colonna|33%}}{{pt|simo|nobilissimo}} di quella divina parola consolatrice che più si cerca e si sente nei momenti supremi della vita. L’eloquenza sua, riflesso della sua mente e del suo cuore, aveva un particolar pregio di severa elettezza di forma e di pensiero; era religione viva, non enfasi di vuota parola. Forse perciò fu poco noto.
Scompare con lui un altro di quella eletta schiera, ormai esigua, del vecchio clero milanese che colla intelligenza, colla integrità della vita, col saper conciliare le più alte idealità, coll’adempiere all’ufficio sacerdotale non mai come professione ma come ministero, operò cosi profondamente nelle famiglie e nella società, che ogni giorno più lo cerca con ansia e lo desidera.
Di Gaspare Ferrari gli amici fedeli conserveranno nel cuore la memoria benedetta.
{{A destra|margine=1em|{{sc|A. De-Marchi.}}}}
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Dopo lunga e penosa malattia, moriva nella nostra città il prof. ''Francesco Ardissone'', ordinario di botanica nella scuola superiore di agricoltura — dove ebbe la direzione fin dal 1898 — e direttore dell’Orto Botanico di Brera. Il prof. Ardissone fu uno dei più dotti botanici che abbiano illustrata I’ Italia dalla seconda metà del secolo scorso, noto e ammirato non solo da noi ma anche all’estero. Studioso appassionato della crittogamia e dell’algologia, le sue memorie sulle alghe siciliane, liguri, marchigiane e della Terra del fuoco, gli valsero la nomina a membro effettivo del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, e la laurea dell’Istituto di Francia. Amantissimo della montagna, illustrò con monografie interessanti la flora alpina, e come il Parlatore ebbe note speciali per il nostro modesto ma bellissimo monte Barro.
Valentissimo pure nella fotografia, si compiaceva di offrire agli amici le più belle, artistiche vedute, da lui prese nei punti più culminanti e sviluppate con rara perfezione. Membro corrispondente ed onorario di numerose accademie scientifiche, come quelle di Torino, Bordeaux, Vienna, Dresda, Cherbourg, Ratisbona, Breslavia, Algeri, diede prova d’indefessa attività e di fedeltà al lavoro fino all’ultimo di una vita intemerata dedita tutta alla famiglia, agli scolari, agli studi prediletti.
Le nostre amichevoli condoglianze ai superstiti, specie al figlio medico, dott. Adolfo.
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A Milano, la signora ''Margherita Floreanini-Rocca'', notissima per la sua attiva partecipazone ad opere di carità.
— A Canicatti (Girgenti), il barone ''Francesco Lombardo-Gangitano'', si adoperò instancabilmente per la redenzione politica e morale della provincia di Girgenti. Agricoltore intelligente, che trasformò in modo mirabile i suoi estesi latifondi, costruendovi{{altraColonna|33%|style=vertical-align:top;}} strade e case coloniche; fu anche assai munifico avendo, pochi mesi prima di morire, elargito all’ospedale di Canicatti la cospicua somma di 325 mila lire.
— A Como, ''Margherita Costantini vedova Bernasconi'', pia signora che morendo destinava 20 mila lire all’ospedale di S. Anna pei poveri di Borgo Vico, 15 mila lire all’ospedale di Mendrisio pei poveri di Chiasso e altre 6 mila lire per alcune istituzioni benefiche di Como.
— A Spalato, ''Enrico Chiudina'', intelligente uomo di legge, che aveva consacrato tutta la vita, con modestia e tenacia, all’opera di salvazione dell’italianità dalmata. Istituì erede del suo patrimonio — circa 100 mila corone — la sezione di Spalato della Lega nazionale, la quale ha per iscopo la difesa della lingua italiana.
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{{centrato|{{larger|DIARIO ECCLESIASTICO}}}}
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{{Mlb|'''10 aprile''' — Domenica seconda dopo Pasqua — S. Anselmo vesc. di Lucca.
'''11, lunedi''' — S. Leone Magno papa.
'''12, martedi''' — S. Zenone vesc. m.
'''13, mercoledi''' — S. Ermenegildo re.
'''14, giovedi''' — S. Giustino filosofo.
'''15, venerdi''' — Ss. Basilissa e Anastasia mm.
'''16, sabato''' — Ss. Calisto e Carisio mm.}}
{{centrato|''Adorazione del SS. Sacramento.''}}
{{Mlb|Continua a S. Calimero.
'''12, martedi''' — A S. M. al Paradiso.
'''16, sabato''' — A S. Sofia.}}
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Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 47 - 18 novembre 1911.pdf/2
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Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|370|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}{{centrato|{{larger|'''La Benedizione e l’Inaugurazione dell’Asilo Infantile UBOLDI'''}}}}
{{centrato|{{larger|a Paderno Dugnano}}}}
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{{centrato|{{larger|''(12 Novembre 1911)''}}}}
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Domenica, fra l’esultanza dell’intera borgata che, accolse le Autorità e la folla degli invitati al suono quiste che rinsaldano i migliori rapporti tra le diverse della ''Marcia Reale'' — si è benedetto con rito solenne dal Rev.mo Monsignor G. Polvara — per speciale delegazione dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo di Milano: — e si è inaugurato questo magnifico Asilo. Esso onora il nome della nobil famiglia Uboldi, e ne testimonia l’illuminata beneficenza. — Questa parola che spesso commuove ed esalta, ha avuto nel forbito e limpido discorso inaugurale del cav. Ferdinando Uboldi — il quale con la madre, donna Angelina Uboldi Cavallotti, ostenne tutte le spese — la più simpatica illustrazione.
Accennati gli inconvenienti dell’urbanesimo, e ricordata l’opportunità di un discentramento della beneficenza, per meglio aiutare i bisogni dei piccoli comuni, mentre i grandi centri trovano nel loro crescente sviluppo di energie i mezzi sufficienti per provvedere alle varie forme di assistenza, il cav. Uboldi disse le ragioni che già da tempo premevano sul cuore della madre sua e di lui, perchè anche a Paderno sorgesse un Asilo infantile. Pur lodando il fervore delle numerose benefiche iniziative che si sono segnalate in questi ultimi anni, la mentò la soverchia specializzazione della beneficenza, la quale appunto va a danno di coloro che si vogliono beneficare. L’opera dei buoni dovrebbe più specialmente raccogliersi intorno alle istituzioni che più specialmente provvedono agli ammalati, ai vecchi, e ai bambini. E dando rilievo alla dolcezza del sentimento che la Regina Elena, grande protettrice dell’infanzia, ed affermato che non vi debbono essere fanciulli cattivi, il cav. Uboldi fece un inno alla bellezza e alla poesia del fanciullo. Con quella geniale erudizione che viene dal cuore, egli fece una rapida sintesi dell’amore e del culto pei bambini attraverso la storia e i popoli più antichi e più rozzi. E fini tra applausi ricordando la necessità del concetto educativo e morale, che deve campeggiare nella vita di un Asilo: integrazione dell’opera della famiglia, la quale non deve mai sottrarsi ai doveri che le incombono anche rispetto alla società.
Il Prefetto, sen. Panizzardi, espresse la sua viva {{pt|com-}}{{altraColonna}}{{pt|piacenza|compiacenza}} di dover di frequente assistere a feste inaugurali che documentano il progresso civile, lo spirito di iniziativa e di beneficenza delle popolazioni lombarde. Tutto ciò costituisce la più schietta manifestazione di sana democrazia, che si palesa più specialmente nella beneficenza da parte dell classi dirigenti, intesa con alto sentimento di solidarietà umana. Sono queste con classi sociali. Chiuse il suo discorso, applauditissimo, con un plauso alle benemerenze antiche della casa Uboldi e ai generosi donatori.
Il Rev.mo Monsignor Polvara, data comunicazione di una lettera dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo bene augurando ai generosi donatori, aggiunse una serie di apprezzate considerazioni intorno all’ obbligo di educare cristianamente la prole — e, manifestata tutta la sua compiacenza di presenziare tanta solennità, imsplorava le più elette benedizioni dal Cielo sulla nobil famiglia Uboldi e sull’opera loro.
Parlarono quindi — pure applauditi — il dott. Maga, sindaco del Comune, facendosi interprete della riconoscenza del paese, l’onorevole Taverna con poche ma vibrate parole dimostrò come la formazione del cittadino si debba curare fin dalla prima infanzia, affinchè le nuove generazioni sieno cresciute nel sentimento del dovere e mirino alla grandezza della Patria.
La cerimonia si è chiusa con un nuovo plauso espresso dal Rev. sig. Parroco locale — e coll’offerta di una artistica pergamena con una medaglia d’oro al cav. Ferdinando Uboldi da parte dei suoi coloni a testimonianza dei buoni ed antichi rapporti che intercedono fra i coloni e la famiglia Uboldi.
Erano fra gli intervenuti il comm. Giuseppe De Capitani d’Arzago, l’on. Dozzio, i fratelli baroni Bagatti Valsecchi, il marchese Stanga, il conte Bazzero, il generale Costantini, il cav. Gavazzi per la Provincia, l’ispettore prof. cav. Fontana pel Provveditore agli
studi, molte e molte signore della nostra aristocrazia;
e rispettabili famiglie della città e dintorni.
La direzione dell’Asilo è affidata alle Religiose della
Piccola Casa della divina Provvidenza (Cottolengo).
L’Emin. signor Cardinale Arcivescovo faceva tenere
alla nobil famiglia Uboldi in sì fausta occasione il prezioso suo autografo:
{{smaller|Fausta quæque ac prospera a Domino atque ex animo ominamur Asylo, quod puerulis juste et religiose curandis, Paderni ad Mediolanum munifice nuper extructum Angela Cavallotti et {{pt|Fer-}}}}{{fineColonna}}
{{FI
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2022-08-04T08:07:23Z
Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|370|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}{{centrato|{{larger|'''La Benedizione e l’Inaugurazione dell’Asilo Infantile UBOLDI'''}}}}
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Domenica, fra l’esultanza dell’intera borgata che, accolse le Autorità e la folla degli invitati al suono quiste che rinsaldano i migliori rapporti tra le diverse della ''Marcia Reale'' — si è benedetto con rito solenne dal Rev.mo Monsignor G. Polvara — per speciale delegazione dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo di Milano: — e si è inaugurato questo magnifico Asilo. Esso onora il nome della nobil famiglia Uboldi, e ne testimonia l’illuminata beneficenza. — Questa parola che spesso commuove ed esalta, ha avuto nel forbito e limpido discorso inaugurale del cav. Ferdinando Uboldi — il quale con la madre, donna Angelina Uboldi Cavallotti, ostenne tutte le spese — la più simpatica illustrazione.
Accennati gli inconvenienti dell’urbanesimo, e ricordata l’opportunità di un discentramento della beneficenza, per meglio aiutare i bisogni dei piccoli comuni, mentre i grandi centri trovano nel loro crescente sviluppo di energie i mezzi sufficienti per provvedere alle varie forme di assistenza, il cav. Uboldi disse le ragioni che già da tempo premevano sul cuore della madre sua e di lui, perchè anche a Paderno sorgesse un Asilo infantile. Pur lodando il fervore delle numerose benefiche iniziative che si sono segnalate in questi ultimi anni, la mentò la soverchia specializzazione della beneficenza, la quale appunto va a danno di coloro che si vogliono beneficare. L’opera dei buoni dovrebbe più specialmente raccogliersi intorno alle istituzioni che più specialmente provvedono agli ammalati, ai vecchi, e ai bambini. E dando rilievo alla dolcezza del sentimento che la Regina Elena, grande protettrice dell’infanzia, ed affermato che non vi debbono essere fanciulli cattivi, il cav. Uboldi fece un inno alla bellezza e alla poesia del fanciullo. Con quella geniale erudizione che viene dal cuore, egli fece una rapida sintesi dell’amore e del culto pei bambini attraverso la storia e i popoli più antichi e più rozzi. E fini tra applausi ricordando la necessità del concetto educativo e morale, che deve campeggiare nella vita di un Asilo: integrazione dell’opera della famiglia, la quale non deve mai sottrarsi ai doveri che le incombono anche rispetto alla società.
Il Prefetto, sen. Panizzardi, espresse la sua viva {{pt|com-}}{{altraColonna}}{{pt|piacenza|compiacenza}} di dover di frequente assistere a feste inaugurali che documentano il progresso civile, lo spirito di iniziativa e di beneficenza delle popolazioni lombarde. Tutto ciò costituisce la più schietta manifestazione di sana democrazia, che si palesa più specialmente nella beneficenza da parte delle classi dirigenti, intesa con alto sentimento di solidarietà umana. Sono queste con classi sociali. Chiuse il suo discorso, applauditissimo, con un plauso alle benemerenze antiche della casa Uboldi e ai generosi donatori.
Il Rev.mo Monsignor Polvara, data comunicazione di una lettera dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo bene augurando ai generosi donatori, aggiunse una serie di apprezzate considerazioni intorno all’ obbligo di educare cristianamente la prole — e, manifestata tutta la sua compiacenza di presenziare tanta solennità, imsplorava le più elette benedizioni dal Cielo sulla nobil famiglia Uboldi e sull’opera loro.
Parlarono quindi — pure applauditi — il dott. Maga, sindaco del Comune, facendosi interprete della riconoscenza del paese, l’onorevole Taverna con poche ma vibrate parole dimostrò come la formazione del cittadino si debba curare fin dalla prima infanzia, affinchè le nuove generazioni sieno cresciute nel sentimento del dovere e mirino alla grandezza della Patria.
La cerimonia si è chiusa con un nuovo plauso espresso dal Rev. sig. Parroco locale — e coll’offerta di una artistica pergamena con una medaglia d’oro al cav. Ferdinando Uboldi da parte dei suoi coloni a testimonianza dei buoni ed antichi rapporti che intercedono fra i coloni e la famiglia Uboldi.
Erano fra gli intervenuti il comm. Giuseppe De Capitani d’Arzago, l’on. Dozzio, i fratelli baroni Bagatti-Valsecchi, il marchese Stanga, il conte Bazzero, il generale Costantini, il cav. Gavazzi per la Provincia, l’ispettore prof. cav. Fontana pel Provveditore agli studi, molte e molte signore della nostra aristocrazia; e rispettabili famiglie della città e dintorni.
La direzione dell’Asilo è affidata alle Religiose della Piccola Casa della divina Provvidenza (Cottolengo).
L’Emin. signor Cardinale Arcivescovo faceva tenere alla nobil famiglia Uboldi in sì fausta occasione il prezioso suo autografo:
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MARIO ZANELLO
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avrebbe rischiato la propria vita per salvarla, ma qui il caso era troppo terribile e al disopra del coraggio e del sangue freddo della giovinetta avvolta in tali frangenti, e da far raccapricciare i marini più valorosi. Il fatto sta che Manlio e Lisa in un solo gruppo nuotarono nei gorghi del fiume, scomparendo e ricomparendo alla superficie in modo lamentevole e fatale.
Alla Contessa vi volle la catastrofe, la freschezza dell’onda ed il prospetto della morte, per distrarla dallo stato di disperato stupore e maledizione della vita in cui l’avevano immersa ministri del demonio.
Essa mai disse se si pentiva in quel momento d’aver abbandonato la casa materna, e cercato il pericolo e la morte; — e dall’abbandono, dalla rassegnazione con cui essa si avvolse nel suo sciallo, e si abbandonò all’orrendo suo fato, senza un grido od uno sforzo per salvarsi, si poteva congetturare, esser essa disposta a finire una sventurata esistenza.
Ma non era giunta l’ora finale della bella infelice. Mentre travolta nei gorghi, la sua salma ora abbandonata ai capricci dei flutti, ed il suo spirito forse già rivolgevasi a quell’Infinito che tutto racchiude, e che probabilmente tutto regge — quell’Infinito da sostituirsi ragionevolmente alle menzogne dei preti, il di cui culto può solo, propagato dalla scienza, illuminare ed affratellare tutte queste razze d’insetti che brulicano sulla superficie d’uno dei mondi minori — in<noinclude></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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quel mentre, dico, una mano d’acciaio la stringeva sul destro braccio e la sollevava come una bambina dall’onda, per riposarla sul marciapiede d’una scalinata di granito alla sponda destra del Tevere.
Nel forte della tempesta, quel sito era rimasto deserto, ma siccome i nembi estivi non sono durevoli, presto la calma successe al temporale, e la gente ricominciò a circolare anche nel luogo della catastrofe; per cui la bella naufraga fu presto trasportata al coperto.
La prima casa vicina accolse la vezzosa svenuta , ed alcuni cordiali la resero alla vita. — Un giovane di marziali fattezze stava ai suo capezzale, e per sorte, nella folla che circondava il suo letto, colui fu il primo su cui fissaronsi gli occhi della contessa quando tornò in sè. Aprir gli occhi, fissarli sul suo salvatore, scuotersi e tentar di spingersi verso di lui, fu tutto un momento. E chi avea detto alla sedotta dal gesuita che colui l’avea tratta dall’onda, da morte certa, col pericolo della propria vita? L’avea essa scorto mentre travolta nei frangenti? Impossibile ! forse ''quella corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote degli umani'', di cui ci narra Foscolo, avea penetrato, o trovavasi senza dubbio nell’anima della sventurata nobile romana? — Forse in quei sogni di felicità che cullano ogni creatura, essa avea sognato, veduto nel delirio della immaginazione esaltata, tale bellissima e fiera figura, e s’era fatto un idolo di colui che ora è realmente davanti ad essa?<noinclude></noinclude>
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Accurimbono
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I. Platone, ateniese, era figlio di Aristone e della Perittiona, o Potona, la quale traeva origine da {{AutoreCitato|Solone|Solone}}. Imperocchè di costui era fratello Dropide e da Dropide era nato Crizia; da Crizia Callesero; da Callesero Crizia, che fu dei trenta, e Glaucone; da Glaucone Carotide e la Perittiona, dalla quale e da Aristone, Platone, sesto dopo Solone. Solone poi traeva origine da Neleo e da Nettuno; poichè è fama che suo padre venisse da Codro, figlio di Melanto, i quali secondo Trasilo si dicono discesi da Nettuno. Speusippo nel libro intitolato ''Banchetto funebre di Platone'', Clearco nell’''Encomio di Platone'', e Anassilide nel secondo ''Dei filosofi,'' raccontano: che era voce in Atene, che alla Perittiona, fatta matura, volle usar forza Aristone, e non vi riuscì; e che cessando dalla violenza vide in sogno<noinclude><references/></noinclude>
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Vite dei filosofi/Libro Nono
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Piaz1606
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Discussioni autore:Giulia Turco Turcati Lazzari
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Alex brollo
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/* Elenco caricamenti */ Risposta
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== Opere dalla Biblioteca di Trento ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Direi di usare questa pagina come centrale operativa per il caricamento delle opere dell'autrice. Raccomando di "pingarmi" alrrimenti rischio di farmi sfuggire il messaggio e rispondere in ritardo :-( .... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:45, 25 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] d'accordo Alex, sarà fatto! :) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:25, 25 lug 2022 (CEST)
== workflow caricamento su Commons ==
# apro il sito https://ia-upload.wmcloud.org/, mi chiede di accedere al sistema di autenticazione OAuth di Commons, eseguo.
# imposto, nella maschera, l'id di internet archive per il libro :la_fanciulla_straniera, e un nume per il file su Commons (imposto Turco - La fanciulla straniera.djvu). clicco su "Ottieni metadata".
# sbagliato! l'id giusto è la_fanciulla_straniera_1905, l'altro porta solo a una immagine singola, non a un libro. Riprovo, ok.
# la pagina mi propone un codice per il caricamento su commons, questo:
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meglio eseguire qualche ritocco, soprattutto importanti i template copyright e categorie. Questo il testo ritoccato, usando il nome vero e non lo pseudonimo dell'autrice:
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# Via! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 25 lug 2022 (CEST)
== passo due: da commons a wikisource ==
[[:File:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]: ok, il tool ia upload ha fatto il suo, dai dati di internet archive ha costruito un file djvu con strato ocr, e possiamo creare la pagina Indice, che sarà [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]. Vedi che il nome della pagina Indice è esattamente uguale al nome del file. verifica di aver attivato, fra le tue Preferenze->Accessori, il gadget '''Precompila indice da book''', mi piacerebbe che la pagina indice la creassi tu.... confermami quando sei pronta, intanto verifico che tutto sia a posto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:11, 25 lug 2022 (CEST)
: Verifica ok. puoi provare a cliccare il link rosso alla pagina indice. Tieni conto che qualsiasi errore, sia su wikisource che su common, ouò essere corretto.... quindi, '''be bold'''. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:47, 25 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Ti rispondo qui.... ma stupidamente non potevi saperlo: ho dimenticato il ping. vai col click sul link rosso, '''dopo''' aver verificato di aver attivato il gadget come suggerito il messaggio sopra, e se tutto va bene il gadget dovrebbe precompilare la pagina con i dati di Commons. salva, cl solito criterio '''be beld'''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:16, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] aah ecco il barbatrucco, nessun problema ho recuperato i messaggi :) dovrei essere riuscita a creare la pagina indice, me lo confermi? https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Turco_-_La_fanciulla_straniera.djvu [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:26, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] confermo :). via con il passo tre. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:34, 26 lug 2022 (CEST)
== Passo tre: rifinire la pagina Indice ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Creata la pagina Indice, bisogna sistemare per bene due campi, che vedi in modifica: il campo Lista delle pagine e il campo Sommario. Entrambi sono importanti perchè la loro corretta compilazione è la base per utilissimi automatismi. Lo faccio io, tu osserva il risultato e chiedimi spiegazioni di qualsiasi cosa non ti sia chiara. Controlla che anche il gadget "Precarica e autoNs0" sia attivato. presto ci sarà molto utile. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:42, 26 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo! Gadget attivo, confermo [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:46, 26 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Intoppo imprevisto, ci mancava. Qualcosa è andato storto, il djvu prodotto da IA Upload è ''privo di strato ocr''. Non so spiegarmi perchè, pazienza: lo sostituisco con un djvu prodotto in altro modo e sicuramente dotato di strato ocr. Nel frattempo, se vuoi, entra in creazione di qualche pagina, il campo di edit resterà vuoto perchè non trova lo strato ocr dentro il djvu, ma tu puoi ottenerlo al volo con il tool "Trascrivi il testo". Salva o non salvare a tua scelta. ti lascio il vecchio djvu fallato per una mezz'oretta, è istruttivo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:00, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Fatto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo, nella scorsa mezz'ora ho dato un'occhiata. [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:35, 26 lug 2022 (CEST)
::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Quindi un suggerimento... procurati pdf2djvu, esiste sia per windows che per linux, va benissimo per convertire in djvu al volo i file pdf di internet archive. Io preferisco la versione "a riga di comando". https://jwilk.net/software/pdf2djvu . se IA Upload fallisce. è bene avere sottomano un'alternativa. Bene.... è l'ora di cominciare la trascrizione e correzione del testo. ci sono molti gadget per fare meglio e prima, ma non è male iniziare facendo tutto a mano. Sistemo un paio di pagine per darti qualcosa <del>da scopiazzare</del> da cui prendere ispirazione :-). --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Uffa, trascrivendo un paio di pagine trovo che l'ocr è buono, ma le immagini non lo sono affatto, sono "sfuocate". Vado avanti ancora un po'. se mi stufo sostituisco il djvu con un altro migliore. Un certo deterioramento delle immagini originali è inevitabile, ma il troppo stroppia.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] effettivamente, lo sto notando anche io... come mai la qualità si è deteriorata così? E soprattutto, c'è modo di rimediare e/o di risolvere il problema prima di procedere con gli altri testi di Giulia/Jacopo? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 15:19, 26 lug 2022 (CEST)
::::::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Non me lo spiego, è inusuale. Già era strano che IA Upload avesse fallito: che poi anche pdf2djvu abbia dato un risultato insoddisfacente è misterioso. Troveremo una soluzione. Nel frattempo le scansioni stanno là, in Internet archive, associate a un ottimo OCR.... il che è un'ottima cosa. Provo a caricare il nuovo djvu (ottenuto con abbyy finereader dalle immagini jp2 di Internet Archive) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:40, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] tecnologia, non è più affidabile di questi tempi (con un sospiro di sconforto) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 08:36, 27 lug 2022 (CEST)
== Elenco caricamenti ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] '''Help!''' Dissodato il primo gruppo, ho affrontato il secondo, e trovo che uno dei titoli, Canzone senza parole, è una ponderosa raccolta, che comprende anche alcune voci duplicate. Si tratta di edizioni diverse, ma lascerei comunque i doppioni in sospeso. Puoi verificare, per favore, se l'elenco dei vostri caricamenti su IA è completo? [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 23:19, 2 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ti confermo che l'elenco dei caricamenti su IA è completo. Alcune novelle della raccolta "Canzone senza parole", è vero, sono state pubblicate anche a sé stanti, prima del gruppo unico pubblicato nel 1901. Nei nostri piani però volevamo che andasse tutto tutto su WikiSource [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:38, 3 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Niente impedisce di caricare qui edizioni diverse della stessa opera. Io lascio semplicemente i doppioni per ultimi. ovvio che il caricamento (che sto facendo proprio adesso) di [[Canzone senza parole]] dà maggiore soddisfazione.... :-) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:14, 3 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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/* facciamo il punto */ nuova sezione
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== Opere dalla Biblioteca di Trento ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Direi di usare questa pagina come centrale operativa per il caricamento delle opere dell'autrice. Raccomando di "pingarmi" alrrimenti rischio di farmi sfuggire il messaggio e rispondere in ritardo :-( .... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:45, 25 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] d'accordo Alex, sarà fatto! :) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:25, 25 lug 2022 (CEST)
== workflow caricamento su Commons ==
# apro il sito https://ia-upload.wmcloud.org/, mi chiede di accedere al sistema di autenticazione OAuth di Commons, eseguo.
# imposto, nella maschera, l'id di internet archive per il libro :la_fanciulla_straniera, e un nume per il file su Commons (imposto Turco - La fanciulla straniera.djvu). clicco su "Ottieni metadata".
# sbagliato! l'id giusto è la_fanciulla_straniera_1905, l'altro porta solo a una immagine singola, non a un libro. Riprovo, ok.
# la pagina mi propone un codice per il caricamento su commons, questo:
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[[Category:1905 books]]
[[Category:DjVu files in Italian]]
</pre>
# Via! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 25 lug 2022 (CEST)
== passo due: da commons a wikisource ==
[[:File:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]: ok, il tool ia upload ha fatto il suo, dai dati di internet archive ha costruito un file djvu con strato ocr, e possiamo creare la pagina Indice, che sarà [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]. Vedi che il nome della pagina Indice è esattamente uguale al nome del file. verifica di aver attivato, fra le tue Preferenze->Accessori, il gadget '''Precompila indice da book''', mi piacerebbe che la pagina indice la creassi tu.... confermami quando sei pronta, intanto verifico che tutto sia a posto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:11, 25 lug 2022 (CEST)
: Verifica ok. puoi provare a cliccare il link rosso alla pagina indice. Tieni conto che qualsiasi errore, sia su wikisource che su common, ouò essere corretto.... quindi, '''be bold'''. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:47, 25 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Ti rispondo qui.... ma stupidamente non potevi saperlo: ho dimenticato il ping. vai col click sul link rosso, '''dopo''' aver verificato di aver attivato il gadget come suggerito il messaggio sopra, e se tutto va bene il gadget dovrebbe precompilare la pagina con i dati di Commons. salva, cl solito criterio '''be beld'''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:16, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] aah ecco il barbatrucco, nessun problema ho recuperato i messaggi :) dovrei essere riuscita a creare la pagina indice, me lo confermi? https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Turco_-_La_fanciulla_straniera.djvu [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:26, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] confermo :). via con il passo tre. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:34, 26 lug 2022 (CEST)
== Passo tre: rifinire la pagina Indice ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Creata la pagina Indice, bisogna sistemare per bene due campi, che vedi in modifica: il campo Lista delle pagine e il campo Sommario. Entrambi sono importanti perchè la loro corretta compilazione è la base per utilissimi automatismi. Lo faccio io, tu osserva il risultato e chiedimi spiegazioni di qualsiasi cosa non ti sia chiara. Controlla che anche il gadget "Precarica e autoNs0" sia attivato. presto ci sarà molto utile. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:42, 26 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo! Gadget attivo, confermo [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:46, 26 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Intoppo imprevisto, ci mancava. Qualcosa è andato storto, il djvu prodotto da IA Upload è ''privo di strato ocr''. Non so spiegarmi perchè, pazienza: lo sostituisco con un djvu prodotto in altro modo e sicuramente dotato di strato ocr. Nel frattempo, se vuoi, entra in creazione di qualche pagina, il campo di edit resterà vuoto perchè non trova lo strato ocr dentro il djvu, ma tu puoi ottenerlo al volo con il tool "Trascrivi il testo". Salva o non salvare a tua scelta. ti lascio il vecchio djvu fallato per una mezz'oretta, è istruttivo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:00, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Fatto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo, nella scorsa mezz'ora ho dato un'occhiata. [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:35, 26 lug 2022 (CEST)
::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Quindi un suggerimento... procurati pdf2djvu, esiste sia per windows che per linux, va benissimo per convertire in djvu al volo i file pdf di internet archive. Io preferisco la versione "a riga di comando". https://jwilk.net/software/pdf2djvu . se IA Upload fallisce. è bene avere sottomano un'alternativa. Bene.... è l'ora di cominciare la trascrizione e correzione del testo. ci sono molti gadget per fare meglio e prima, ma non è male iniziare facendo tutto a mano. Sistemo un paio di pagine per darti qualcosa <del>da scopiazzare</del> da cui prendere ispirazione :-). --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Uffa, trascrivendo un paio di pagine trovo che l'ocr è buono, ma le immagini non lo sono affatto, sono "sfuocate". Vado avanti ancora un po'. se mi stufo sostituisco il djvu con un altro migliore. Un certo deterioramento delle immagini originali è inevitabile, ma il troppo stroppia.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] effettivamente, lo sto notando anche io... come mai la qualità si è deteriorata così? E soprattutto, c'è modo di rimediare e/o di risolvere il problema prima di procedere con gli altri testi di Giulia/Jacopo? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 15:19, 26 lug 2022 (CEST)
::::::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Non me lo spiego, è inusuale. Già era strano che IA Upload avesse fallito: che poi anche pdf2djvu abbia dato un risultato insoddisfacente è misterioso. Troveremo una soluzione. Nel frattempo le scansioni stanno là, in Internet archive, associate a un ottimo OCR.... il che è un'ottima cosa. Provo a caricare il nuovo djvu (ottenuto con abbyy finereader dalle immagini jp2 di Internet Archive) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:40, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] tecnologia, non è più affidabile di questi tempi (con un sospiro di sconforto) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 08:36, 27 lug 2022 (CEST)
== Elenco caricamenti ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] '''Help!''' Dissodato il primo gruppo, ho affrontato il secondo, e trovo che uno dei titoli, Canzone senza parole, è una ponderosa raccolta, che comprende anche alcune voci duplicate. Si tratta di edizioni diverse, ma lascerei comunque i doppioni in sospeso. Puoi verificare, per favore, se l'elenco dei vostri caricamenti su IA è completo? [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 23:19, 2 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ti confermo che l'elenco dei caricamenti su IA è completo. Alcune novelle della raccolta "Canzone senza parole", è vero, sono state pubblicate anche a sé stanti, prima del gruppo unico pubblicato nel 1901. Nei nostri piani però volevamo che andasse tutto tutto su WikiSource [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:38, 3 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Niente impedisce di caricare qui edizioni diverse della stessa opera. Io lascio semplicemente i doppioni per ultimi. ovvio che il caricamento (che sto facendo proprio adesso) di [[Canzone senza parole]] dà maggiore soddisfazione.... :-) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:14, 3 ago 2022 (CEST)
== facciamo il punto ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Per ora ho seguito una strategia banale: caricare tutto quello che è stato caricato su IA, tale e quale, stesso nome file e stesso contenuto in scansioni.
Ci sono problemi da risolvere.
1. alcuni file rappresentano un estratto da fascicoli di una rivista.
2. altri file rappresentano un fascicolo, più o meno completo, di una rivista, ma il nome e i metadati si riferiscono a uno solo dei contenuti, e precisamente a quelli a firma Jacopo Turco.
3. altri file rappresentano, invece, veri e propri "libri", in particolare [[Canzone senza parole (raccolta)]], classificabile con certezza come "raccolta di novelle".
4. ci sono alcuni doppioni (edizioni diverse della stessa opera).
Bisogna fare ordine, e senza par passare troppo tempo.... mi scuso se il mio approccio è stato precipitoso. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:11, 4 ago 2022 (CEST)
2duqmbjnuzenswb3px3k8hcwzpk7cyl
3016523
3016522
2022-08-04T08:13:04Z
Isabelawliet
62037
/* facciamo il punto */ Risposta
wikitext
text/x-wiki
== Opere dalla Biblioteca di Trento ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Direi di usare questa pagina come centrale operativa per il caricamento delle opere dell'autrice. Raccomando di "pingarmi" alrrimenti rischio di farmi sfuggire il messaggio e rispondere in ritardo :-( .... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:45, 25 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] d'accordo Alex, sarà fatto! :) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:25, 25 lug 2022 (CEST)
== workflow caricamento su Commons ==
# apro il sito https://ia-upload.wmcloud.org/, mi chiede di accedere al sistema di autenticazione OAuth di Commons, eseguo.
# imposto, nella maschera, l'id di internet archive per il libro :la_fanciulla_straniera, e un nume per il file su Commons (imposto Turco - La fanciulla straniera.djvu). clicco su "Ottieni metadata".
# sbagliato! l'id giusto è la_fanciulla_straniera_1905, l'altro porta solo a una immagine singola, non a un libro. Riprovo, ok.
# la pagina mi propone un codice per il caricamento su commons, questo:
<pre>
== {{int:filedesc}} ==
{{Book
| Author = Jacopo Turco
| Editor =
| Translator =
| Illustrator =
| Title = Jacopo Turco - La fanciulla straniera
| Subtitle =
| Series title =
| Volume =
| Edition =
| Publisher =
| Printer =
| Date = 1905
| City =
| Language = {{language|it}}
| Description = <div>"La fanciulla straniera" is a short story written by Jacopo Turco, alias of the Italian writer Giulia Turcati Lazzari (1848-1912). </div><div>The short story was published in 1905 in the journal "Rivista d'Italia" (Rome, Italy). </div>
| Source = {{IA|la_fanciulla_straniera_1905}}
| Image = {{PAGENAME}}
| Image page =
| Permission =
| OCLC =
| Other versions =
| Wikisource = s:it:Index:{{PAGENAME}}
| Homecat =
| Wikidata =
}}
{{Djvu}}
== {{int:license-header}} ==
{{PD-scan}}
[[Category:Uploaded with IA Upload]]
[[Category:1905 books]]
[[Category:DjVu files in Italian]]</pre>
meglio eseguire qualche ritocco, soprattutto importanti i template copyright e categorie. Questo il testo ritoccato, usando il nome vero e non lo pseudonimo dell'autrice:
<pre>
== {{int:filedesc}} ==
{{Book
| Author = {{Creator:Giulia Turco Turcati Lazzari}}
| Editor =
| Translator =
| Illustrator =
| Title = La fanciulla straniera
| Subtitle =
| Series title =
| Volume =
| Edition =
| Publisher =
| Printer = Unione Cooperativa Editrice
| Date = 1905
| City = roma
| Language = {{language|it}}
| Description = {{en|1="La fanciulla straniera" is a short story written by Jacopo Turco, alias of the Italian writer Giulia Turcati Lazzari (1848-1912).
The short story was published in 1905 in the journal "Rivista d'Italia" (Rome, Italy). }}
| Source = {{IA|la_fanciulla_straniera_1905}}
| Image = {{PAGENAME}}
| Image page =
| Permission =
| OCLC =
| Other versions =
| Wikisource = s:it:Index:{{PAGENAME}}
| Homecat =
| Wikidata =
}}
{{Djvu}}
== {{int:license-header}} ==
{{PD-old-auto|deathyear=1912}}
{{PD-US-expired}}
[[Category:Giulia Turco Turcati Lazzari]]
[[Category:Uploaded with IA Upload]]
[[Category:1905 books]]
[[Category:DjVu files in Italian]]
</pre>
# Via! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 25 lug 2022 (CEST)
== passo due: da commons a wikisource ==
[[:File:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]: ok, il tool ia upload ha fatto il suo, dai dati di internet archive ha costruito un file djvu con strato ocr, e possiamo creare la pagina Indice, che sarà [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]. Vedi che il nome della pagina Indice è esattamente uguale al nome del file. verifica di aver attivato, fra le tue Preferenze->Accessori, il gadget '''Precompila indice da book''', mi piacerebbe che la pagina indice la creassi tu.... confermami quando sei pronta, intanto verifico che tutto sia a posto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:11, 25 lug 2022 (CEST)
: Verifica ok. puoi provare a cliccare il link rosso alla pagina indice. Tieni conto che qualsiasi errore, sia su wikisource che su common, ouò essere corretto.... quindi, '''be bold'''. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:47, 25 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Ti rispondo qui.... ma stupidamente non potevi saperlo: ho dimenticato il ping. vai col click sul link rosso, '''dopo''' aver verificato di aver attivato il gadget come suggerito il messaggio sopra, e se tutto va bene il gadget dovrebbe precompilare la pagina con i dati di Commons. salva, cl solito criterio '''be beld'''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:16, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] aah ecco il barbatrucco, nessun problema ho recuperato i messaggi :) dovrei essere riuscita a creare la pagina indice, me lo confermi? https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Turco_-_La_fanciulla_straniera.djvu [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:26, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] confermo :). via con il passo tre. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:34, 26 lug 2022 (CEST)
== Passo tre: rifinire la pagina Indice ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Creata la pagina Indice, bisogna sistemare per bene due campi, che vedi in modifica: il campo Lista delle pagine e il campo Sommario. Entrambi sono importanti perchè la loro corretta compilazione è la base per utilissimi automatismi. Lo faccio io, tu osserva il risultato e chiedimi spiegazioni di qualsiasi cosa non ti sia chiara. Controlla che anche il gadget "Precarica e autoNs0" sia attivato. presto ci sarà molto utile. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:42, 26 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo! Gadget attivo, confermo [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:46, 26 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Intoppo imprevisto, ci mancava. Qualcosa è andato storto, il djvu prodotto da IA Upload è ''privo di strato ocr''. Non so spiegarmi perchè, pazienza: lo sostituisco con un djvu prodotto in altro modo e sicuramente dotato di strato ocr. Nel frattempo, se vuoi, entra in creazione di qualche pagina, il campo di edit resterà vuoto perchè non trova lo strato ocr dentro il djvu, ma tu puoi ottenerlo al volo con il tool "Trascrivi il testo". Salva o non salvare a tua scelta. ti lascio il vecchio djvu fallato per una mezz'oretta, è istruttivo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:00, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Fatto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo, nella scorsa mezz'ora ho dato un'occhiata. [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:35, 26 lug 2022 (CEST)
::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Quindi un suggerimento... procurati pdf2djvu, esiste sia per windows che per linux, va benissimo per convertire in djvu al volo i file pdf di internet archive. Io preferisco la versione "a riga di comando". https://jwilk.net/software/pdf2djvu . se IA Upload fallisce. è bene avere sottomano un'alternativa. Bene.... è l'ora di cominciare la trascrizione e correzione del testo. ci sono molti gadget per fare meglio e prima, ma non è male iniziare facendo tutto a mano. Sistemo un paio di pagine per darti qualcosa <del>da scopiazzare</del> da cui prendere ispirazione :-). --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Uffa, trascrivendo un paio di pagine trovo che l'ocr è buono, ma le immagini non lo sono affatto, sono "sfuocate". Vado avanti ancora un po'. se mi stufo sostituisco il djvu con un altro migliore. Un certo deterioramento delle immagini originali è inevitabile, ma il troppo stroppia.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] effettivamente, lo sto notando anche io... come mai la qualità si è deteriorata così? E soprattutto, c'è modo di rimediare e/o di risolvere il problema prima di procedere con gli altri testi di Giulia/Jacopo? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 15:19, 26 lug 2022 (CEST)
::::::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Non me lo spiego, è inusuale. Già era strano che IA Upload avesse fallito: che poi anche pdf2djvu abbia dato un risultato insoddisfacente è misterioso. Troveremo una soluzione. Nel frattempo le scansioni stanno là, in Internet archive, associate a un ottimo OCR.... il che è un'ottima cosa. Provo a caricare il nuovo djvu (ottenuto con abbyy finereader dalle immagini jp2 di Internet Archive) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:40, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] tecnologia, non è più affidabile di questi tempi (con un sospiro di sconforto) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 08:36, 27 lug 2022 (CEST)
== Elenco caricamenti ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] '''Help!''' Dissodato il primo gruppo, ho affrontato il secondo, e trovo che uno dei titoli, Canzone senza parole, è una ponderosa raccolta, che comprende anche alcune voci duplicate. Si tratta di edizioni diverse, ma lascerei comunque i doppioni in sospeso. Puoi verificare, per favore, se l'elenco dei vostri caricamenti su IA è completo? [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 23:19, 2 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ti confermo che l'elenco dei caricamenti su IA è completo. Alcune novelle della raccolta "Canzone senza parole", è vero, sono state pubblicate anche a sé stanti, prima del gruppo unico pubblicato nel 1901. Nei nostri piani però volevamo che andasse tutto tutto su WikiSource [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:38, 3 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Niente impedisce di caricare qui edizioni diverse della stessa opera. Io lascio semplicemente i doppioni per ultimi. ovvio che il caricamento (che sto facendo proprio adesso) di [[Canzone senza parole]] dà maggiore soddisfazione.... :-) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:14, 3 ago 2022 (CEST)
== facciamo il punto ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Per ora ho seguito una strategia banale: caricare tutto quello che è stato caricato su IA, tale e quale, stesso nome file e stesso contenuto in scansioni.
Ci sono problemi da risolvere.
1. alcuni file rappresentano un estratto da fascicoli di una rivista.
2. altri file rappresentano un fascicolo, più o meno completo, di una rivista, ma il nome e i metadati si riferiscono a uno solo dei contenuti, e precisamente a quelli a firma Jacopo Turco.
3. altri file rappresentano, invece, veri e propri "libri", in particolare [[Canzone senza parole (raccolta)]], classificabile con certezza come "raccolta di novelle".
4. ci sono alcuni doppioni (edizioni diverse della stessa opera).
Bisogna fare ordine, e senza par passare troppo tempo.... mi scuso se il mio approccio è stato precipitoso. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:11, 4 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ma figurati, anzi grazie ancora mille volte per tutto il lavoro che hai svolto. Io, se posso, come posso aiutare? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:13, 4 ago 2022 (CEST)
90kkx2h32rrerfdolg3sod4eij803k1
3016529
3016523
2022-08-04T08:23:53Z
Alex brollo
1615
/* facciamo il punto */ Risposta
wikitext
text/x-wiki
== Opere dalla Biblioteca di Trento ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Direi di usare questa pagina come centrale operativa per il caricamento delle opere dell'autrice. Raccomando di "pingarmi" alrrimenti rischio di farmi sfuggire il messaggio e rispondere in ritardo :-( .... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:45, 25 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] d'accordo Alex, sarà fatto! :) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:25, 25 lug 2022 (CEST)
== workflow caricamento su Commons ==
# apro il sito https://ia-upload.wmcloud.org/, mi chiede di accedere al sistema di autenticazione OAuth di Commons, eseguo.
# imposto, nella maschera, l'id di internet archive per il libro :la_fanciulla_straniera, e un nume per il file su Commons (imposto Turco - La fanciulla straniera.djvu). clicco su "Ottieni metadata".
# sbagliato! l'id giusto è la_fanciulla_straniera_1905, l'altro porta solo a una immagine singola, non a un libro. Riprovo, ok.
# la pagina mi propone un codice per il caricamento su commons, questo:
<pre>
== {{int:filedesc}} ==
{{Book
| Author = Jacopo Turco
| Editor =
| Translator =
| Illustrator =
| Title = Jacopo Turco - La fanciulla straniera
| Subtitle =
| Series title =
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| Edition =
| Publisher =
| Printer =
| Date = 1905
| City =
| Language = {{language|it}}
| Description = <div>"La fanciulla straniera" is a short story written by Jacopo Turco, alias of the Italian writer Giulia Turcati Lazzari (1848-1912). </div><div>The short story was published in 1905 in the journal "Rivista d'Italia" (Rome, Italy). </div>
| Source = {{IA|la_fanciulla_straniera_1905}}
| Image = {{PAGENAME}}
| Image page =
| Permission =
| OCLC =
| Other versions =
| Wikisource = s:it:Index:{{PAGENAME}}
| Homecat =
| Wikidata =
}}
{{Djvu}}
== {{int:license-header}} ==
{{PD-scan}}
[[Category:Uploaded with IA Upload]]
[[Category:1905 books]]
[[Category:DjVu files in Italian]]</pre>
meglio eseguire qualche ritocco, soprattutto importanti i template copyright e categorie. Questo il testo ritoccato, usando il nome vero e non lo pseudonimo dell'autrice:
<pre>
== {{int:filedesc}} ==
{{Book
| Author = {{Creator:Giulia Turco Turcati Lazzari}}
| Editor =
| Translator =
| Illustrator =
| Title = La fanciulla straniera
| Subtitle =
| Series title =
| Volume =
| Edition =
| Publisher =
| Printer = Unione Cooperativa Editrice
| Date = 1905
| City = roma
| Language = {{language|it}}
| Description = {{en|1="La fanciulla straniera" is a short story written by Jacopo Turco, alias of the Italian writer Giulia Turcati Lazzari (1848-1912).
The short story was published in 1905 in the journal "Rivista d'Italia" (Rome, Italy). }}
| Source = {{IA|la_fanciulla_straniera_1905}}
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| Image page =
| Permission =
| OCLC =
| Other versions =
| Wikisource = s:it:Index:{{PAGENAME}}
| Homecat =
| Wikidata =
}}
{{Djvu}}
== {{int:license-header}} ==
{{PD-old-auto|deathyear=1912}}
{{PD-US-expired}}
[[Category:Giulia Turco Turcati Lazzari]]
[[Category:Uploaded with IA Upload]]
[[Category:1905 books]]
[[Category:DjVu files in Italian]]
</pre>
# Via! [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 25 lug 2022 (CEST)
== passo due: da commons a wikisource ==
[[:File:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]: ok, il tool ia upload ha fatto il suo, dai dati di internet archive ha costruito un file djvu con strato ocr, e possiamo creare la pagina Indice, che sarà [[Indice:Turco - La fanciulla straniera.djvu]]. Vedi che il nome della pagina Indice è esattamente uguale al nome del file. verifica di aver attivato, fra le tue Preferenze->Accessori, il gadget '''Precompila indice da book''', mi piacerebbe che la pagina indice la creassi tu.... confermami quando sei pronta, intanto verifico che tutto sia a posto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:11, 25 lug 2022 (CEST)
: Verifica ok. puoi provare a cliccare il link rosso alla pagina indice. Tieni conto che qualsiasi errore, sia su wikisource che su common, ouò essere corretto.... quindi, '''be bold'''. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:47, 25 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Ti rispondo qui.... ma stupidamente non potevi saperlo: ho dimenticato il ping. vai col click sul link rosso, '''dopo''' aver verificato di aver attivato il gadget come suggerito il messaggio sopra, e se tutto va bene il gadget dovrebbe precompilare la pagina con i dati di Commons. salva, cl solito criterio '''be beld'''. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:16, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] aah ecco il barbatrucco, nessun problema ho recuperato i messaggi :) dovrei essere riuscita a creare la pagina indice, me lo confermi? https://it.wikisource.org/wiki/Indice:Turco_-_La_fanciulla_straniera.djvu [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:26, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] confermo :). via con il passo tre. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:34, 26 lug 2022 (CEST)
== Passo tre: rifinire la pagina Indice ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Creata la pagina Indice, bisogna sistemare per bene due campi, che vedi in modifica: il campo Lista delle pagine e il campo Sommario. Entrambi sono importanti perchè la loro corretta compilazione è la base per utilissimi automatismi. Lo faccio io, tu osserva il risultato e chiedimi spiegazioni di qualsiasi cosa non ti sia chiara. Controlla che anche il gadget "Precarica e autoNs0" sia attivato. presto ci sarà molto utile. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:42, 26 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo! Gadget attivo, confermo [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:46, 26 lug 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Intoppo imprevisto, ci mancava. Qualcosa è andato storto, il djvu prodotto da IA Upload è ''privo di strato ocr''. Non so spiegarmi perchè, pazienza: lo sostituisco con un djvu prodotto in altro modo e sicuramente dotato di strato ocr. Nel frattempo, se vuoi, entra in creazione di qualche pagina, il campo di edit resterà vuoto perchè non trova lo strato ocr dentro il djvu, ma tu puoi ottenerlo al volo con il tool "Trascrivi il testo". Salva o non salvare a tua scelta. ti lascio il vecchio djvu fallato per una mezz'oretta, è istruttivo. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:00, 26 lug 2022 (CEST)
:::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Fatto. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 11:32, 26 lug 2022 (CEST)
::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] ottimo, nella scorsa mezz'ora ho dato un'occhiata. [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 11:35, 26 lug 2022 (CEST)
::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Quindi un suggerimento... procurati pdf2djvu, esiste sia per windows che per linux, va benissimo per convertire in djvu al volo i file pdf di internet archive. Io preferisco la versione "a riga di comando". https://jwilk.net/software/pdf2djvu . se IA Upload fallisce. è bene avere sottomano un'alternativa. Bene.... è l'ora di cominciare la trascrizione e correzione del testo. ci sono molti gadget per fare meglio e prima, ma non è male iniziare facendo tutto a mano. Sistemo un paio di pagine per darti qualcosa <del>da scopiazzare</del> da cui prendere ispirazione :-). --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 13:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::: @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Uffa, trascrivendo un paio di pagine trovo che l'ocr è buono, ma le immagini non lo sono affatto, sono "sfuocate". Vado avanti ancora un po'. se mi stufo sostituisco il djvu con un altro migliore. Un certo deterioramento delle immagini originali è inevitabile, ma il troppo stroppia.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:03, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] effettivamente, lo sto notando anche io... come mai la qualità si è deteriorata così? E soprattutto, c'è modo di rimediare e/o di risolvere il problema prima di procedere con gli altri testi di Giulia/Jacopo? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 15:19, 26 lug 2022 (CEST)
::::::::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Non me lo spiego, è inusuale. Già era strano che IA Upload avesse fallito: che poi anche pdf2djvu abbia dato un risultato insoddisfacente è misterioso. Troveremo una soluzione. Nel frattempo le scansioni stanno là, in Internet archive, associate a un ottimo OCR.... il che è un'ottima cosa. Provo a caricare il nuovo djvu (ottenuto con abbyy finereader dalle immagini jp2 di Internet Archive) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 15:40, 26 lug 2022 (CEST)
:::::::::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] tecnologia, non è più affidabile di questi tempi (con un sospiro di sconforto) [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 08:36, 27 lug 2022 (CEST)
== Elenco caricamenti ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] '''Help!''' Dissodato il primo gruppo, ho affrontato il secondo, e trovo che uno dei titoli, Canzone senza parole, è una ponderosa raccolta, che comprende anche alcune voci duplicate. Si tratta di edizioni diverse, ma lascerei comunque i doppioni in sospeso. Puoi verificare, per favore, se l'elenco dei vostri caricamenti su IA è completo? [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 23:19, 2 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ti confermo che l'elenco dei caricamenti su IA è completo. Alcune novelle della raccolta "Canzone senza parole", è vero, sono state pubblicate anche a sé stanti, prima del gruppo unico pubblicato nel 1901. Nei nostri piani però volevamo che andasse tutto tutto su WikiSource [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 09:38, 3 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Niente impedisce di caricare qui edizioni diverse della stessa opera. Io lascio semplicemente i doppioni per ultimi. ovvio che il caricamento (che sto facendo proprio adesso) di [[Canzone senza parole]] dà maggiore soddisfazione.... :-) [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:14, 3 ago 2022 (CEST)
== facciamo il punto ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Per ora ho seguito una strategia banale: caricare tutto quello che è stato caricato su IA, tale e quale, stesso nome file e stesso contenuto in scansioni.
Ci sono problemi da risolvere.
1. alcuni file rappresentano un estratto da fascicoli di una rivista.
2. altri file rappresentano un fascicolo, più o meno completo, di una rivista, ma il nome e i metadati si riferiscono a uno solo dei contenuti, e precisamente a quelli a firma Jacopo Turco.
3. altri file rappresentano, invece, veri e propri "libri", in particolare [[Canzone senza parole (raccolta)]], classificabile con certezza come "raccolta di novelle".
4. ci sono alcuni doppioni (edizioni diverse della stessa opera).
Bisogna fare ordine, e senza par passare troppo tempo.... mi scuso se il mio approccio è stato precipitoso. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:11, 4 ago 2022 (CEST)
:Ciao @[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]]! Ma figurati, anzi grazie ancora mille volte per tutto il lavoro che hai svolto. Io, se posso, come posso aiutare? [[User:Isabelawliet|Isabelawliet]] ([[User talk:Isabelawliet|disc.]]) 10:13, 4 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Se possibile, organizzando un po' di rilettura. Comincerei dal testo più impoftante e meno controverso, [[Canzone senza parole (raccolta)]]. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 10:23, 4 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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Alex brollo
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{{ct|f=120%|v=2|t=3|SECONDO CANTARE.}}
{{ct|f=70%|v=1|ARGOMENTO.}}
<poem class="arg">
:De' due gran figli del signor d'Ugnano
Prodigioso il natal narra Baldone:
Come s'acquista moglie Florïano,
E vien dall'Orco poi fatto prigione:
Come Amadigi libera il germano,
E il mostro spaventoso a terra pone:
E dice al fin, che l'un di questi dui
Fu padre a Celidora, e l'altro a lui.
</poem>
<poem>
{{o|1|m}}.
:Era in Ugnano{{nsm|121|182}} il duca Perïone
Che sempre all'altarin fidecommisso{{nsm|121|183}}
Faceva notte e dì tanta orazione
E tante carità, ch'era un subisso:
Nè per altro era tutto bacchettone
Che per un suo pensiero eterno e fisso
D'aver prole; perchè della sua schiatta
Non v'era, morto lui, nè can nè gatta.
</poem><noinclude></noinclude>
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Alex brollo
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:De' due gran figli del signor d'Ugnano
Prodigioso il natal narra Baldone:
Come s'acquista moglie Florïano,
E vien dall'Orco poi fatto prigione:
Come Amadigi libera il germano,
E il mostro spaventoso a terra pone:
E dice al fin, che l'un di questi dui
Fu padre a Celidora, e l'altro a lui.
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:Era in Ugnano{{nsm|121|182}} il duca Perïone
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Faceva notte e dì tanta orazione
E tante carità, ch'era un subisso:
Nè per altro era tutto bacchettone
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Non v'era, morto lui, nè can nè gatta.
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Discussioni indice:Lippi - Malmantile racquistato.pdf
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2022-08-03T13:59:15Z
Alex brollo
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/* Note di formattazione */
wikitext
text/x-wiki
== Note di formattazione ==
Il testo è stato caricato dopo preformattazione. Nella correzione va fatta attenzione a:
* errori casuali derivati dall'elavorazione automatica;
* sistemazione RigaIntestazione;
* completamento del codice del template {{tl|nsm}}, aggiungendo il primo parametro che deve contenere il numero pagina contenente il testo dell'annotazione [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 14:08, 29 lug 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] scusami, quando hai modo di dare un occhio alle note
[[Pagina:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/74]] e pagg. successive; se vanno bene così le risistemo a mano, oppure se è saltato qualche parametro
:grazie anticipate come sempre --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 09:12, 3 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]] in tutte le prime pagine Primo Cantare, Secondo cantare, Terzo cantare etc. il primo corpo del testo dovrebbe essere più in piccolo. Ho provato a mettere il parametro ma mi scombina il testo, quindi per ora ho lasciato tutto stessa grandezza.
::[[Pagina:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/93]] --[[User:Accolturato|Accolturato]] ([[User talk:Accolturato|disc.]]) 10:42, 3 ago 2022 (CEST)
::: @[[Utente:Acculturato|Acculturato]] Giusto. Vedi la soluzione proposta in [[Pagina:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/93]], naturalmente si può modificare globalmente nella pagina [[Indice:Lippi_-_Malmantile_racquistato.pdf/styles.css]].
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Alex brollo
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Alex brollo
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Alex brollo
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Alex brollo
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Alex brollo
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|154|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><poem>
De’ fati intanto la bilancia; e Dio,
Dio sol si stava immoto e riguardava.
Surse allor la Pietade; e non aprío
Il divin labbro ancor, che già tacea
{{R|105}}Di quell’ire tremende il mormorío.
Col dolce strale d’un sol guardo avea
Già conquiso ogni petto. In questo dire
La rosea bocca alfin sciolse la dea:
Alte in mezzo de’ giusti odo salire
{{R|110}}Di vendetta le grida, ed io domando
Anch’io vendetta, sempiterno Sire,
Anch’io cacciata dai potenti in bando
Batto indarno ai lor cuori, e inesaudita
Vo scorrendo la terra e lagrimando.
{{R|115}}Ma, se i regnanti han mia ragion tradita<ref>115. '''han mia ragion tradita''': non sono, come dovrebbero, pietosi.</ref>,
Perché la colpa de’ regnanti, o padre,
Negl’innocenti popoli è punita?
Perché tante perir misere squadre<ref>118. '''misere squadre''': poveri soldati.</ref>
Per la causa de’ vili? Ahi! caro i crudi
{{R|120}}Fanno il sacro costar nome di madre<ref>119. '''caro''' ecc.: fanno costar caro a’ detti soldati il sacro nome di madre dato alla patria.</ref>.
Peccò Francia, gli è ver; ma, spenti i drudi<ref>121. '''i drudi''': i turpi amanti, i fautori.</ref>
D’insana libertà, perché in suo danno
Gemono ancora le nimiche incudi<ref>123. '''Gemono''' ecc.: si fabbricano ancora da’ nemici armi?</ref>?
Dunque eteme laggiú l’ire saranno?
{{R|125}}E solo al pianto in avvenir le spose,
Solo al ferro e al furor partoriranno?
Dunque Europa le guance lagrimose
Porterà sempre? E per chi poi? Per una,
Per due, per poche insomma alme orgogliose.
{{R|130}}Taccio il nembo di duol che denso imbruna
Tutto d’Olanda il ciel; taccio il lamento
Della prostrata elvetica fortuna<ref name="pag170">130. '''Taccio''' ecc.: S’è detto che l’Olanda e la Svizzera erano state nel 1799 invase dagli alleati contro</ref>.
Ma l’affanno non taccio e il tradimento
Che Italia or grava, Italia in cui natura
{{R|135}}Fe’ tanto di bellezza esperimento.
Duro il servaggio la premea; piú dura
Una sognata libertà la preme,
Che colma de’ suoi mali ha la misura.
Su i cruenti suoi campi piú non freme
{{R|140}}Di Marte il tuono; ma che val, se in pace
</poem>
<ref follow="pag169">l’immensa curva del cielo.</ref><noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Poesie (Monti).djvu/171
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2022-08-03T14:41:53Z
OrbiliusMagister
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/* Pagine SAL 25% */ [[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: <poem> Pur come in guerra sí sospira e geme? Prepotente rapina<ref>142. '''Prepotente rapina''' ecc.: grandi rapine apersero la via alla piú squallida miseria.</ref> alla vorace Squallida fame spalancò le porte, E chi serrarle le dovea si tace<ref>144. '''E chi''' ecc.: e i governanti si stanno inoperosi.</ref>. {{R|145}}Meglio era pur dal ferro aver la morte, Che spirar nudo e scarno e derelitto...
proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO TERZO|155|riga=si}}</noinclude><poem>
Pur come in guerra sí sospira e geme?
Prepotente rapina<ref>142. '''Prepotente rapina''' ecc.: grandi rapine apersero la via alla piú squallida miseria.</ref> alla vorace
Squallida fame spalancò le porte,
E chi serrarle le dovea si tace<ref>144. '''E chi''' ecc.: e i governanti si stanno inoperosi.</ref>.
{{R|145}}Meglio era pur dal ferro aver la morte,
Che spirar nudo e scarno e derelitto
Tra i famelici figli e la consorte.
Deh sia fine al furor, fine al delitto,
Fine ai pianti mortali, e della spada
{{R|150}}Pèra una volta e de’ tiranni il dritto!
Paghi di sangue chi vuol sangue, e cada;
Ma l’innocente viva, e dell’oppresso
Il sospiro, o Signor, ti persuada.
La dea qui ruppe il suo parlar con esso<ref>154. '''con esso''': cfr. la nota al v. 127, p. 88.</ref>
{{R|155}}Le lagrime sul ciglio; e chi per questa,
Chi per quella fremea l’alto consesso,
Qual freme d’aquilon chiuso in foresta
Il primo spiro, allor che ciechi aggira<ref>158. '''ciechi aggira''': polverosi volge in giro.</ref>
I sussurri forier della tempesta.
{{R|160}}Mentre vario il favor ne’ petti ispira
Desïanze diverse, incerto ognuno
Qual fia vittrice, la clemenza o l’ira;
Del ciel cangiossi il volto e si fe’ bruno,
E caligine in cerchio orrenda e folta
{{R|165}}Il trono avvolse dell’Eterno ed Uno.
E una voce n’uscí che l’ardua vòlta
Dell’Olimpo intronava. Attenta e muta
Trema natura e la gran voce ascolta.
Cieli, udite, odi, o terra, l’assoluta
{{R|170}}Di Dio parola. Tu che<ref>170. '''Tu che''' ecc.: tu, o Bonaparte, che ecc.</ref> l’alto spegni
Patrio delirio, e Francia hai restituta;
Tu che vincendo moderanza insegni
All’orgoglio de’ re, cui tua saggezza
Tolse la scusa di cotanti sdegni<ref>174. '''la scusa''' ecc.: il pretesto di sdegnarsi cosí facilmente, e però di far guerra.</ref>;
{{R|175}}Fa cor: quel Dio che abbatte ogni grandezza<ref>175. '''quel Dio''' ecc.: Anche il Manzoni (''Il cinque Mag.'', 105): «Il Dio che atterra e suscita». Cfr. anche ''Deuteronomio'' XXXII, 39.</ref>,
Guerra e pace a te fida<ref name="pag171">176. </ref>, a te devolve
Il castigo d’Europa e la salvezza.
Tu sei polve al mio sguardo, ed io la polve
</poem><ref follow="pag170">la Francia.</ref><noinclude><references/></noinclude>
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OrbiliusMagister
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO TERZO|155|riga=si}}</noinclude><poem>
Pur come in guerra sí sospira e geme?
Prepotente rapina<ref>142. '''Prepotente rapina''' ecc.: grandi rapine apersero la via alla piú squallida miseria.</ref> alla vorace
Squallida fame spalancò le porte,
E chi serrarle le dovea si tace<ref>144. '''E chi''' ecc.: e i governanti si stanno inoperosi.</ref>.
{{R|145}}Meglio era pur dal ferro aver la morte,
Che spirar nudo e scarno e derelitto
Tra i famelici figli e la consorte.
Deh sia fine al furor, fine al delitto,
Fine ai pianti mortali, e della spada
{{R|150}}Pèra una volta e de’ tiranni il dritto!
Paghi di sangue chi vuol sangue, e cada;
Ma l’innocente viva, e dell’oppresso
Il sospiro, o Signor, ti persuada.
La dea qui ruppe il suo parlar con esso<ref>154. '''con esso''': cfr. la nota al v. 127, p. 88.</ref>
{{R|155}}Le lagrime sul ciglio; e chi per questa,
Chi per quella fremea l’alto consesso,
Qual freme d’aquilon chiuso in foresta
Il primo spiro, allor che ciechi aggira<ref>158. '''ciechi aggira''': polverosi volge in giro.</ref>
I sussurri forier della tempesta.
{{R|160}}Mentre vario il favor ne’ petti ispira
Desïanze diverse, incerto ognuno
Qual fia vittrice, la clemenza o l’ira;
Del ciel cangiossi il volto e si fe’ bruno,
E caligine in cerchio orrenda e folta
{{R|165}}Il trono avvolse dell’Eterno ed Uno.
E una voce n’uscí che l’ardua vòlta
Dell’Olimpo intronava. Attenta e muta
Trema natura e la gran voce ascolta.
Cieli, udite, odi, o terra, l’assoluta
{{R|170}}Di Dio parola. Tu che<ref>170. '''Tu che''' ecc.: tu, o Bonaparte, che ecc.</ref> l’alto spegni
Patrio delirio, e Francia hai restituta;
Tu che vincendo moderanza insegni
All’orgoglio de’ re, cui tua saggezza
Tolse la scusa di cotanti sdegni<ref>174. '''la scusa''' ecc.: il pretesto di sdegnarsi cosí facilmente, e però di far guerra.</ref>;
{{R|175}}Fa cor: quel Dio che abbatte ogni grandezza<ref>175. '''quel Dio''' ecc.: Anche il Manzoni (''Il cinque Mag.'', 105): «Il Dio che atterra e suscita». Cfr. anche ''Deuteronomio'' XXXII, 39.</ref>,
Guerra e pace a te fida<ref name="pag171">176. </ref>, a te devolve
Il castigo d’Europa e la salvezza.
Tu sei polve al mio sguardo, ed io la polve
</poem><ref follow="pag170">la Francia.</ref><noinclude><references/></noinclude>
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Discussioni indice:Turco - Canzone senza parole.djvu
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Alex brollo
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci,
il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
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OrbiliusMagister
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utene:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una
La raccolta è stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
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OrbiliusMagister
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una
La raccolta è stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
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OrbiliusMagister
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
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@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
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@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
:La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
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@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. al momento, il fatto che un file rappresenti un fascicolo di una rivista, più o meno completo, e sia il titolo che i metadati invece siano relativi a uno solo dei
vari contenuti non va; me ne rendo conto, ma ho preferito procrastinare la soluzione del problema, e sono disponibilissimo a operare per sistemare le cose.
Comunque, questo caso dimostra, ancora una volta, come wikisource sia un ambiente tutt'altro che semplice :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. al momento, il fatto che un file rappresenti un fascicolo di una rivista, più o meno completo, e sia il titolo che i metadati invece siano relativi a uno solo dei vari contenuti '''non va'''; me ne rendo conto, ma ho preferito procrastinare la soluzione del problema, e sono disponibilissimo a operare per sistemare le cose.
Comunque, questo caso dimostra, ancora una volta, come wikisource sia un ambiente tutt'altro che semplice :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
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OrbiliusMagister
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== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. al momento, il fatto che un file rappresenti un fascicolo di una rivista, più o meno completo, e sia il titolo che i metadati invece siano relativi a uno solo dei vari contenuti '''non va'''; me ne rendo conto, ma ho preferito procrastinare la soluzione del problema, e sono disponibilissimo a operare per sistemare le cose.
Comunque, questo caso dimostra, ancora una volta, come wikisource sia un ambiente tutt'altro che semplice :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
:Ehm, non per rompere, ma se scrivo è perché sto moooolto faticosamente ponendo mano a una soluzione procrastinata per cinque anni in cui mi sto facendo un mazzo non indifferente solo perché non ero attivo quando la trascrizione dei Lirici marinisti è partita.
:In pratica, meglio ragionare e chiarirsi per tempo piuttosto che trovarsi ad attendere e rischiare che una situazione sbagliata venga scambiata per uno standard. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 09:23, 4 ago 2022 (CEST)
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2022-08-04T07:52:30Z
Alex brollo
1615
/* Sfilacciamento */ Risposta
wikitext
text/x-wiki
== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. al momento, il fatto che un file rappresenti un fascicolo di una rivista, più o meno completo, e sia il titolo che i metadati invece siano relativi a uno solo dei vari contenuti '''non va'''; me ne rendo conto, ma ho preferito procrastinare la soluzione del problema, e sono disponibilissimo a operare per sistemare le cose.
Comunque, questo caso dimostra, ancora una volta, come wikisource sia un ambiente tutt'altro che semplice :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
:Ehm, non per rompere, ma se scrivo è perché sto moooolto faticosamente ponendo mano a una soluzione procrastinata per cinque anni in cui mi sto facendo un mazzo non indifferente solo perché non ero attivo quando la trascrizione dei Lirici marinisti è partita.
:In pratica, meglio ragionare e chiarirsi per tempo piuttosto che trovarsi ad attendere e rischiare che una situazione sbagliata venga scambiata per uno standard. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 09:23, 4 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Verissimo, ma tieni conto che su wikisource, al contrario di wikipedia, abbiamo l'illusione di poter raggiungere una ''pagina finita'' in due o tre edit... hai voglia.... :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:52, 4 ago 2022 (CEST)
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2022-08-04T07:53:58Z
OrbiliusMagister
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wikitext
text/x-wiki
== Nota su scansione/OCR ==
@[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]] Nel caricamento su IA hai già visto perchè ti suggerivo di caricare un pdf multipagina piuttosto che una raccolta di jpg.... funziona bene anche la raccolta, ma ci sono trabocchetti. Se organizzate altri caricamenti, raccomando la conversione in pdf multipagina delle immagini prima del caricamento su IA.
Un secondo piccolo problema per l'OCR sono i margini delle pagine. Sarebbe meglio escludere, dalle immagini, sia il fondo che il margine fisico della pagina, ossia eseguire un buon cropping. per fortuna esiste un fantastico programma, briss, in java, che consente di fare un buon cropping virtuale di tutte le pagine di un pdf, in modo veramente geniale. Può essere usato anche per separare in pagine singole un pdf in cui le immagini sono a due facciate. Il bello è che non interviene affatto sulle immagini, e quindi le conserva perfettamente.... perfino se sotto c'è uno strato testo. suggerisco caldamente di provarlo: questo djvu è stato ottenuto dal pdf originale ripassato con briss. il cropping dei margini evita che l'ocr cerchi di interpretare, facendo pasticci, il margine della pagina. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 16:56, 3 ago 2022 (CEST)
===Sfilacciamento===
@[[Utente:Alex brollo|Alex brollo]], @[[Utente:Isabelawliet|Isabelawliet]], chiedo scusa per l'intrusione, ma nella mia ignoranza non mi spiego al primo colpo la scelta di dare alle novelle della raccolta uno status autonomo invece di mantenerle come sottopagine della raccolta.
Un conto sono le raccolte di novelle (o poesie) di molti autori in una antologia curata da uno studioso, un altro conto è una raccolta sia stata curata dall'autrice e le novelle sono state raccolte in volume dall'autrice, giusto? Anche fossero state pubblicate prima singolarmente noi abbiamo davanti la raccolta: a meno di casi inequivocabili di singole novelle che abbiano assunto fama e valore come componimento autonomo (caso moooolto più raro che per le poesie) noi trattiamo questa raccolta non diversamente dalle raccolte di Verga o di altri.
Non è che mi manca qualche informazione? Illuminami. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 00:31, 4 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Ho gli stessi dubbi, ma ho preferito, al momento, valorizzare al massimo il lavoro di scansione e caricamento su IA senza pormi troppe domande. tuttavia incontro parecchi problemi.... uno, per esempio, è quello di come gestire i caricamenti di interi fascicoli di una rivista, presentati sotto il nome di un unico articolo che contengono. Ho ondeggiato nella risoluzione del problema adottando soluzioni diverse, ma occorre ripensarci. Il secondo problema è quello dei "doppioni", es. Salvatrice. Comunque, tengo aggiornata la pagina Autore, e sarei ben lieto di una discussione su come sistemare le cose.
La mia proposta per il primo dei due problemi: "ripulirei" i djvu dei fascicoli, lasciandoci solo il frontespizio del fascicolo e le pagine relative all'articolo/alla novella di interesse. al momento, il fatto che un file rappresenti un fascicolo di una rivista, più o meno completo, e sia il titolo che i metadati invece siano relativi a uno solo dei vari contenuti '''non va'''; me ne rendo conto, ma ho preferito procrastinare la soluzione del problema, e sono disponibilissimo a operare per sistemare le cose.
Comunque, questo caso dimostra, ancora una volta, come wikisource sia un ambiente tutt'altro che semplice :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 08:36, 4 ago 2022 (CEST)
:Ehm, non per rompere, ma se scrivo è perché sto moooolto faticosamente ponendo mano a una soluzione procrastinata per cinque anni in cui mi sto facendo un mazzo non indifferente solo perché non ero attivo quando la trascrizione dei [[Lirici marinisti]] è partita.
:Noto dalla voce di Pedia sull'autrice che la stessa ''[[Salvatrice]]'' appare sia da sola (uscita nel 1897) che nella raccolta del 1901 che stiamo elaborando, e la mole dei brani rende difficile distinguere tra romanzo e novella.
:In pratica, meglio ragionare e chiarirsi per tempo piuttosto che trovarsi ad attendere e rischiare che una situazione sbagliata venga scambiata per uno standard. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 09:23, 4 ago 2022 (CEST)
::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Verissimo, ma tieni conto che su wikisource, al contrario di wikipedia, abbiamo l'illusione di poter raggiungere una ''pagina finita'' in due o tre edit... hai voglia.... :-( [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 09:52, 4 ago 2022 (CEST)
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Di Cristo in croce essangue
0
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3015970
2022-08-03T15:12:29Z
OrbiliusMagister
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[[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: {{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/> <section begin="URL della versione cartacea a fronte"/>Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu<section end="URL della versione cartacea a fronte"/> <section begin="Argomento"/>Canzoni<section end="Argomento"/...
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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Mentre d'ampia voragine tonante
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2022-08-03T15:15:35Z
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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Sovra gli omeri bianchi
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text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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Pallidetta mia vita
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2022-08-03T15:17:50Z
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text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Giambattista Basile<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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| Titolo = IV. Pallore gradito
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| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
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}}
{{Raccolta|Lirici marinisti/IV/Giambattista Basile|Giambattista Basile}}
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O belle Parche al mio stame vitale
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2022-08-03T15:39:15Z
OrbiliusMagister
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[[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: {{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Biagio Cusano<section end="Nome e cognome dell'autore"/> <section begin="URL della versione cartacea a fronte"/>Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu<section end="URL della versione cartacea a fronte"/> <section begin="Argomento"/>Sonetti<section end="Argomento"/> <sec...
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text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Biagio Cusano<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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| Nome e cognome dell'autore = Biagio Cusano
| Titolo =
| Anno di pubblicazione =
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| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
| URL della versione cartacea a fronte = Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu
| prec =
| succ = Tu, che fra le caligini profonde
}}
{{Raccolta|Lirici marinisti/IV/Biagio Cusano|Biagio Cusano}}
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3015982
3015980
2022-08-03T15:40:24Z
OrbiliusMagister
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text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Biagio Cusano<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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| Nome e cognome dell'autore = Biagio Cusano
| Titolo = I. Le tre belle
| Anno di pubblicazione =
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| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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Tu, che fra le caligini profonde
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| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| prec = O belle Parche al mio stame vitale
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Io, che giudice altrui qui siedo in trono
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| Nome e cognome dell'autore = Biagio Cusano
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| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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Roma sembri animata a più d'un core
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| Argomento = Sonetti
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| prec = Io, che giudice altrui qui siedo in trono
| succ = Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante
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Nel Tebro andrai, fra tante moli e tante
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| Titolo = V. Roma-Amor
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| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| prec = Roma sembri animata a più d'un core
| succ = Quella selva di peli orrida e scura
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Quella selva di peli orrida e scura
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| Titolo = VI. All'amante, che si è raso
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| Progetto = Letteratura
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INDICE
Canzone senza parole pag. 3
Una cameriera. » 75
Salvatrice » 123
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La cura di Manuela. » 263
"Vinta . » 367<noinclude></noinclude>
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Canzone senza parole 3
Una cameriera 75
Salvatrice 123
La passione di Curzio Alvisa 177
La cura di Manuela 263
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Il giovane musicista,, salendo per la prima volta
e non senza stento, la bella scala a chiocciola di
marmo nero del palazzo Riace che il Bibbiena
aveva disegnato, sentì nell’anima il solito sgomento
delle cose ignote.
D’indole un po’ schiva, egli provava dinanzi
alle continue, nuove conoscenze richieste dalla
professione, in quei mesi di tirocinio quale mae-
stro di pianoforte in una cittá • dianzi sconosciuta,
una specie di riluttanza orgogliosa, un senso di
vergogna per l’ariditá dell’insegnamento che gli
pareva offendere l’arte un tempo vagheggiata sotto
altra e più libera forma: era un’ardua lotta in cui
la ragione doveva vincere la prepotenza dell’istinto.
Ma quel giorno, appena ebbe varcata la soglia
dell’anticamera, appena fu introdotto nelle stanze
da un vecchio cameriere dallo sguardo onesto e
fedele, l’impressione consueta si tramutò in un
senso di strana, indefinibile dolcezza, e gli parve
che dal ricco appartamento in cui la severitá ari-<noinclude></noinclude>
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{{FI
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}}
Il giovane musicista,, salendo per la prima volta
e non senza stento, la bella scala a chiocciola di
marmo nero del palazzo Riace che il Bibbiena
aveva disegnato, sentì nell’anima il solito sgomento
delle cose ignote.
D’indole un po’ schiva, egli provava dinanzi
alle continue, nuove conoscenze richieste dalla
professione, in quei mesi di tirocinio quale mae-
stro di pianoforte in una cittá • dianzi sconosciuta,
una specie di riluttanza orgogliosa, un senso di
vergogna per l’ariditá dell’insegnamento che gli
pareva offendere l’arte un tempo vagheggiata sotto
altra e più libera forma: era un’ardua lotta in cui
la ragione doveva vincere la prepotenza dell’istinto.
Ma quel giorno, appena ebbe varcata la soglia
dell’anticamera, appena fu introdotto nelle stanze
da un vecchio cameriere dallo sguardo onesto e
fedele, l’impressione consueta si tramutò in un
senso di strana, indefinibile dolcezza, e gli parve
che dal ricco appartamento in cui la severitá ari-<noinclude></noinclude>
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}}
Il giovane musicista,, salendo per la prima volta
e non senza stento, la bella scala a chiocciola di
marmo nero del palazzo Riace che il Bibbiena
aveva disegnato, sentì nell’anima il solito sgomento
delle cose ignote.
D’indole un po’ schiva, egli provava dinanzi
alle continue, nuove conoscenze richieste dalla
professione, in quei mesi di tirocinio quale mae-
stro di pianoforte in una cittá • dianzi sconosciuta,
una specie di riluttanza orgogliosa, un senso di
vergogna per l’ariditá dell’insegnamento che gli
pareva offendere l’arte un tempo vagheggiata sotto
altra e più libera forma: era un’ardua lotta in cui
la ragione doveva vincere la prepotenza dell’istinto.
Ma quel giorno, appena ebbe varcata la soglia
dell’anticamera, appena fu introdotto nelle stanze
da un vecchio cameriere dallo sguardo onesto e
fedele, l’impressione consueta si tramutò in un
senso di strana, indefinibile dolcezza, e gli parve
che dal ricco appartamento in cui la severitá {{Pt|ari-|}}<noinclude></noinclude>
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stocratica era temprata dalla più geniale eleganza
gli venisse incontro un profumo di schietta e fa-
miliare ospitalitá, d’intima e squisita grazia fem-
minile.
In quell’appartamento difatti abitava, disde-
gnosa del mondo, una donna che il destino aveva
fulminata sul fiore della giovinezza ed a cui il
solo amore materno insegnava ad apprezzare una
seconda volta la vita, sebbene dalla vita ella più
nulla sperasse. Era una specie di chiostro nel
quale la marchesa Vittoria di Riace, rimasta ve-
dova a ventisei anni, rinunziando ai diletti e ai
privilegi dell’etá e della sua condizione e circon-
dandosi di pochi parenti e di due o tre amiche,
si ritirava nella stagione invernale per dedicarsi
interamente a Violante la sua unica figliuoletta.
G-abriele Montalto fu ricevuto subito dalla gio-
vane signora sulla cui bellezza un po’ scultoria il
rimpianto persistente del passato aveva diffuso,
senza attenuarla, un’ombra di nobile melanconia
che ispirava, oltre il rispetto, la venerazione.
L’accoglienza più che benevola, lusinghiera, che
ella fece al maestro, lasciava delicatamente tras-
parire la simpatia pietosa che le destavano in
cuore l’aspetto signorile del giovane e la deformitá
che ne deturpava il corpo.
Vittima d’un fatale scontro ferroviario, in cui
gli si era sfragellata la gamba sinistra, il giovane
era zoppo e, intollerante di qualunque apparecchio
chirurgico, si reggeva con una gruccia.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||— 4 —|}}</noinclude>stocratica era temprata dalla più geniale eleganza
gli venisse incontro un profumo di schietta e fa-
miliare ospitalitá, d’intima e squisita grazia fem-
minile.
In quell’appartamento difatti abitava, disde-
gnosa del mondo, una donna che il destino aveva
fulminata sul fiore della giovinezza ed a cui il
solo amore materno insegnava ad apprezzare una
seconda volta la vita, sebbene dalla vita ella più
nulla sperasse. Era una specie di chiostro nel
quale la marchesa Vittoria di Riace, rimasta ve-
dova a ventisei anni, rinunziando ai diletti e ai
privilegi dell’etá e della sua condizione e circon-
dandosi di pochi parenti e di due o tre amiche,
si ritirava nella stagione invernale per dedicarsi
interamente a Violante la sua unica figliuoletta.
G-abriele Montalto fu ricevuto subito dalla gio-
vane signora sulla cui bellezza un po’ scultoria il
rimpianto persistente del passato aveva diffuso,
senza attenuarla, un’ombra di nobile melanconia
che ispirava, oltre il rispetto, la venerazione.
L’accoglienza più che benevola, lusinghiera, che
ella fece al maestro, lasciava delicatamente tras-
parire la simpatia pietosa che le destavano in
cuore l’aspetto signorile del giovane e la deformitá
che ne deturpava il corpo.
Vittima d’un fatale scontro ferroviario, in cui
gli si era sfragellata la gamba sinistra, il giovane
era zoppo e, intollerante di qualunque apparecchio
chirurgico, si reggeva con una gruccia.<noinclude></noinclude>
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stocratica era temprata dalla più geniale eleganza
gli venisse incontro un profumo di schietta e fa-
miliare ospitalitá, d’intima e squisita grazia fem-
minile.
In quell’appartamento difatti abitava, disde-
gnosa del mondo, una donna che il destino aveva
fulminata sul fiore della giovinezza ed a cui il
solo amore materno insegnava ad apprezzare una
seconda volta la vita, sebbene dalla vita ella più
nulla sperasse. Era una specie di chiostro nel
quale la marchesa Vittoria di Riace, rimasta ve-
dova a ventisei anni, rinunziando ai diletti e ai
privilegi dell’etá e della sua condizione e circon-
dandosi di pochi parenti e di due o tre amiche,
si ritirava nella stagione invernale per dedicarsi
interamente a Violante la sua unica figliuoletta.
G-abriele Montalto fu ricevuto subito dalla gio-
vane signora sulla cui bellezza un po’ scultoria il
rimpianto persistente del passato aveva diffuso,
senza attenuarla, un’ombra di nobile melanconia
che ispirava, oltre il rispetto, la venerazione.
L’accoglienza più che benevola, lusinghiera, che
ella fece al maestro, lasciava delicatamente tras-
parire la simpatia pietosa che le destavano in
cuore l’aspetto signorile del giovane e la deformitá
che ne deturpava il corpo.
Vittima d’un fatale scontro ferroviario, in cui
gli si era sfragellata la gamba sinistra, il giovane
era zoppo e, intollerante di qualunque apparecchio
chirurgico, si reggeva con una gruccia.<noinclude></noinclude>
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{{Pt|stocratica|aristocratica}} era temprata dalla più geniale eleganza
gli venisse incontro un profumo di schietta e familiare
ospitalitá, d’intima e squisita grazia femminile.
In quell’appartamento difatti abitava, disdegnosa
del mondo, una donna che il destino aveva
fulminata sul fiore della giovinezza ed a cui il
solo amore materno insegnava ad apprezzare una
seconda volta la vita, sebbene dalla vita ella più
nulla sperasse. Era una specie di chiostro nel
quale la marchesa Vittoria di Riace, rimasta vedova
a ventisei anni, rinunziando ai diletti e ai
privilegi dell’etá e della sua condizione e circondandosi
di pochi parenti e di due o tre amiche,
si ritirava nella stagione invernale per dedicarsi
interamente a Violante la sua unica figliuoletta.
Gabriele Montalto fu ricevuto subito dalla giovane
signora sulla cui bellezza un po’ scultoria il
rimpianto persistente del passato aveva diffuso,
senza attenuarla, un’ombra di nobile melanconia
che ispirava, oltre il rispetto, la venerazione.
L’accoglienza più che benevola, lusinghiera, che
ella fece al maestro, lasciava delicatamente trasparire
la simpatia pietosa che le destavano in
cuore l’aspetto signorile del giovane e la deformitá
che ne deturpava il corpo.
Vittima d’un fatale scontro ferroviario, in cui
gli si era sfragellata la gamba sinistra, il giovane
era zoppo e, intollerante di qualunque apparecchio
chirurgico, si reggeva con una gruccia.<noinclude></noinclude>
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Fornito di attitudini non comuni, Montalto,
nell’ adolescenza, aveva studiato indefessamente,
coll’intenzione di percorrere la carriera del con-
certista, ma quella grave sventura e lo squilibrio
nervoso venuto ad alterare, dopo il disastro, il
suo sensibile organismo d’artista, l’avevano co-
stretto a rinunziare ad un sicuro successo per de-
dicarsi alla monotona e per lui faticosa professione
del maestro di pianoforte.
Egli era l’unico, amorevole appoggio di sua
madre e d’una sorellina, della piccola famiglia su-
perstite e caduta a poco a poco dall’agiatezza al
bisogno.
La marchesa fece subito chiamare la bambina
che intendeva affidare alle cure del valente musi-
cista e da lì a poco comparve, esitando, tra le
falde d’una portiera, Una fanciulletta undicenne,
d’aspetto esile e gentile.
Era vestita di bianco e i lunghi capelli, di un
castano fulvo lumeggiato d’oro, le scendevano colla
più pittorica profusione sulle spallucce e sul petto,
sfumandole vagamente il gracile ovale del volto.
La marchesa trattenne con un cenno il giovane
che voleva alzarsi per andarle incontro, e la bam-
bina s’avvicinò salutando. Non era bella, ma la sua
testina aveva una sì pura leggiadria di disegno e
spirava dalla fronte, dagli occhi, dalla bocca un
raggio sì vivo di bontá intelligente e di precoce
energia che Montalto rimase un minuto immobile
a contemplarla.<noinclude></noinclude>
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Fornito di attitudini non comuni, Montalto,
nell’ adolescenza, aveva studiato indefessamente,
coll’intenzione di percorrere la carriera del con-
certista, ma quella grave sventura e lo squilibrio
nervoso venuto ad alterare, dopo il disastro, il
suo sensibile organismo d’artista, l’avevano co-
stretto a rinunziare ad un sicuro successo per de-
dicarsi alla monotona e per lui faticosa professione
del maestro di pianoforte.
Egli era l’unico, amorevole appoggio di sua
madre e d’una sorellina, della piccola famiglia su-
perstite e caduta a poco a poco dall’agiatezza al
bisogno.
La marchesa fece subito chiamare la bambina
che intendeva affidare alle cure del valente musi-
cista e da lì a poco comparve, esitando, tra le
falde d’una portiera, Una fanciulletta undicenne,
d’aspetto esile e gentile.
Era vestita di bianco e i lunghi capelli, di un
castano fulvo lumeggiato d’oro, le scendevano colla
più pittorica profusione sulle spallucce e sul petto,
sfumandole vagamente il gracile ovale del volto.
La marchesa trattenne con un cenno il giovane
che voleva alzarsi per andarle incontro, e la bam-
bina s’avvicinò salutando. Non era bella, ma la sua
testina aveva una sì pura leggiadria di disegno e
spirava dalla fronte, dagli occhi, dalla bocca un
raggio sì vivo di bontá intelligente e di precoce
energia che Montalto rimase un minuto immobile
a contemplarla.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" />{{RigaIntestazione||— 5 —|}}</noinclude>
Fornito di attitudini non comuni, Montalto,
nell’adolescenza, aveva studiato indefessamente,
coll’intenzione di percorrere la carriera del concertista,
ma quella grave sventura e lo squilibrio
nervoso venuto ad alterare, dopo il disastro, il
suo sensibile organismo d’artista, l’avevano costretto
a rinunziare ad un sicuro successo per dedicarsi
alla monotona e per lui faticosa professione
del maestro di pianoforte.
Egli era l’unico, amorevole appoggio di sua
madre e d’una sorellina, della piccola famiglia superstite
e caduta a poco a poco dall’agiatezza al
bisogno.
La marchesa fece subito chiamare la bambina
che intendeva affidare alle cure del valente musicista
e da lì a poco comparve, esitando, tra le
falde d’una portiera, Una fanciulletta undicenne,
d’aspetto esile e gentile.
Era vestita di bianco e i lunghi capelli, di un
castano fulvo lumeggiato d’oro, le scendevano colla
più pittorica profusione sulle spallucce e sul petto,
sfumandole vagamente il gracile ovale del volto.
La marchesa trattenne con un cenno il giovane
che voleva alzarsi per andarle incontro, e la bambina
s’avvicinò salutando. Non era bella, ma la sua
testina aveva una sì pura leggiadria di disegno e
spirava dalla fronte, dagli occhi, dalla bocca un
raggio sì vivo di bontá intelligente e di precoce
energia che Montalto rimase un minuto immobile
a contemplarla.<noinclude></noinclude>
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Nella limpidezza angelica dell’occhio infantile,
nella sua profonditá immacolata si leggono e si
sentono talvolta ineffabili promesse.
La fanciulletta porse la sua manina nervosa
ed affilata e corrispose con molta attenzione, anzi
con una curiositá ardente e superiore agli anni,
’allo sguardo del giovane, fìngendo di non vedere
la gruccia clie pur l’attraeva, Colla stessa pietá
istintiva della madre. Interessava molto anche a
lei di conoscere il nuovo maestro perchè amava
la musica con un trasporto superiore alla sua etá.
Dopo un breve colloquio, nel quale la mar-
chesa narrò degli studi musicali fatti da Violante
colle sue istitutrici, e Montalto accennò alle dan-
nose conseguenze che possono recare le prime no-
zioni date, il più delle volte, sopra basi false e da
persone incompetenti, il maestro espresse il desi-
derio che la bambina gli facesse sentire quello che
sapeva, e si recarono tutti insieme nella stanza da
studio. Una stanza semplicissima che occupavano
in parte il pianoforte e una lunga tavola coperta
con bell’ordine da libri è da quaderni.
Due scansie contenenti le opere principali per
l’infanzia, i poeti classici e una buona scelta di
esercizi musicali ne adomavano le pareti; il sole
vi penetrava largamente dalle alte finestre, ravvi-
vando, nella tetra stagione invernale, alcune piante
fiorite e fragranti di freesia e di reseda.
’Montalto, che la marchesa aveva pregato di
cominciare subito le lezioni, invitò la piccola sco-<noinclude></noinclude>
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Nella limpidezza angelica dell’occhio infantile,
nella sua profonditá immacolata si leggono e si
sentono talvolta ineffabili promesse.
La fanciulletta porse la sua manina nervosa
ed affilata e corrispose con molta attenzione, anzi
con una curiositá ardente e superiore agli anni,
’allo sguardo del giovane, fìngendo di non vedere
la gruccia clie pur l’attraeva, Colla stessa pietá
istintiva della madre. Interessava molto anche a
lei di conoscere il nuovo maestro perchè amava
la musica con un trasporto superiore alla sua etá.
Dopo un breve colloquio, nel quale la mar-
chesa narrò degli studi musicali fatti da Violante
colle sue istitutrici, e Montalto accennò alle dan-
nose conseguenze che possono recare le prime no-
zioni date, il più delle volte, sopra basi false e da
persone incompetenti, il maestro espresse il desi-
derio che la bambina gli facesse sentire quello che
sapeva, e si recarono tutti insieme nella stanza da
studio. Una stanza semplicissima che occupavano
in parte il pianoforte e una lunga tavola coperta
con bell’ordine da libri è da quaderni.
Due scansie contenenti le opere principali per
l’infanzia, i poeti classici e una buona scelta di
esercizi musicali ne adomavano le pareti; il sole
vi penetrava largamente dalle alte finestre, ravvi-
vando, nella tetra stagione invernale, alcune piante
fiorite e fragranti di freesia e di reseda.
Montalto, che la marchesa aveva pregato di
cominciare subito le lezioni, invitò la piccola sco-<noinclude></noinclude>
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lara al pianoforte e Violante vi sedette con di-
sinvoltura, posando le sue manine sulla tastiera.
— Queste sono vere mani da pianista — disse
il giovane prendendone una fra le sue e osservan-
dola con una certa tenerézza. — Coraggio .... come
andiamo colle scale?
La fanciulletta fece, sbagliando spesso, la scala
di do e di sol. .
— Da me le sapevo, ma adesso ho paura ! —
mormorò, rivolgendo verso il maestro lo sguardo
lagrimoso.
Montalto sorrise e tentò di rassicurarla con
amorevoli parole.
— Suona la tua arietta, Violante — suggerì
la marchesa.
— Compone ? ormai ! — sciamò il giovine cor-
rugando un poco le ciglia
— È un’ariettina, ma è brutta — disse Vio-
lante con una smorfietta piena di grazia. — Vuol
proprio sentirla?
-— Ma sì, ben volentieri ! — concluse il maestro
subito conquistato da quella grazia e reprimendo
il desiderio di stringersi al cuore la gentile crea-
turina.
E Violante suonò alcune battute, una cosa da
bimba, ma il ritmo era giusto e l’armonia corretta.
— Va bene. Col tempo potremo occuparci di
composizione, ma per ora bisogna proprio che ci
limitiamo ai soli studii; si rassegnerá volentieri?
— Mi rassegnerò — rispose la bambina grave-<noinclude></noinclude>
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mente, con un piccolo atto energico ed espressivo
della testina riccioluta, — ma mi dica, signore...
spero ch’ella vorrá suonarmi tutti i giorni qualche
cosa, per esempio, l’adagio della sintonia in do
minore di Beethoven che abbiamo udita la setti-
mana scorsa al liceo; io non so che le prime bat-
tute, le ho cercate da me, sulla tastiera...
Montalto si mise al pianoforte. Egli non suo-
nava se non per accennare i pezzi agli scolari,
ma non potè a meno di tare una eccezione per
Violante, e ricordò tutto quel divino adagio con
grande intensitá d’accento.
La fanciulletta ascoltava attentissima. Aveva
congiunto le mani per la gioia, il suo sguardo era
intenso, il suo sorriso raggiante.
— È bello, è grande, non è vero? — disse Mon-
talto lasciando il suo posto; — ma ora dobbiamo
sacrificare le cose ideali allo studio.
La marchesa prese un libro e si mise in di-
sparte; il maestro e la scolara tornarono da capo
colla scala di do.
^ % *
Montalto dava una lezione quotidiana a Vio-
lante. Così, tolti i cinque mesi che la marchesa
soleva passare in villa, ove d’altronde era spesso
invitato, egli s’avvezzò a godere tutti i giorni, in
casa B.iace, quell’ora che lo compensava larga-
mente delle fatiche per lui gravi dell’in segnare,
quell’ora di raccoglimento, nel silenzio della stanza<noinclude></noinclude>
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da studio, ove nulla più si sapeva della vita
esterna, accanto ad una signora seria, buona, com-
passionevole e ad una bambina intelligente che
nel suo rapido sviluppo intellettuale e sotto quella
vigile direzione si veniva sempre più infiammando
d’amore per la musica.
Montalto, pur seguendo un corso regolare e se-
vero di studi musicali, non aveva trascurato nè la
letteratura italiana nè quella delle lingue straniere,
e il lungo soggiorno fatto da giovinetto in Ger-
mania gli era tornato molto utile a questo scopo.
Egli aveva saputo così bene scegliere le sue letture
nel vasto campo della scienza e dell’arte e, come
musicista, s’era fornito di tali cognizioni che la
sua solida cultura, avvalorata da idee larghe e da
un gusto raffinato per le cose belle, gli dava una
vera squisitezza di giudizio.
Avveniva spesso che, parlando colla sua sco-
lara di Beethoven, egli ricordasse Michelangelo
del quale, come d’altri grandi, conosceva perfetta-
mente le opere, o che, passando altra musica, fa-
cesse dei confronti fra l’Angelico e il Pergolese
per la prevalenza ch’è in entrambi del sentimento
sulla forma : Schumann gli ricordava il Leopardi
i cui versi qualche volta si compiaceva di recitare,
intercalandoli fra i periodi musicali.
Violante provava gran diletto nella sua lezione
di pianoforte. Nata per diventare una donna su-
periore, ella aveva giá manifestato, senza venir
meno alla semplicitá infantile, una tempra ri-<noinclude></noinclude>
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flessiva e profonda in cui tante future virtù mo-
rali e intellettuali ogni momento s’annunziavano
con una parola efficace, con uno sguardo dicente,
con un atto generoso; e le idee piuttosto gravi
che il giovine, condannato dalla sventura a pre-
coci amarezze, le veniva esprimendo sulle cose
della vita e degli uomini, filtravano sicure in quella
piccola anima donde un eco sempre più armonico
e più forte rispondeva.
Ogni anno, alla fine di novembre, al ritorno
dalla campagna, Mòntalto trovava la sua scolara
cresciuta e mutata, ma i volubili cambiamenti di
quel volto d’adolescente non contradicevano mai
all’immagine che il giovane s’era formato di Vio-
lante a diciott’anni e che gli stava sempre dinanzi
come una visione.
Sebbene fosse molto magra e sottile, e avesse le
braccia lunghe e quella sproporzione nelle gracili
forme che toglie alle volte ogni eleganza alle gio-
vinette, Violante serbava pur sempre nella sua dolce
fisonomia, nei grandi occhi d’un colore indefinito,
fra il grigio, il ceruleo e il nero, nel sorriso, ora
lievemente malinconico, ora spiritoso, una singolare
attrattiva: il fascino intellettuale al quale pochi
uomini sono sensibili ma tanto più intensamente.
A sedici anni la signorina di Piace era giá
una buona dilettante di pianoforte ; sapeva fraseg-
giare ed accentare efficacemente; suonava con se-
veritá di stile i classici e con raro buon gusto i
romantici. Montalto aveva coltivato, a preferenza,<noinclude></noinclude>
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fra tutte le sue elette attitudini, quell’originale
talento d’interprete, convinto com’ era che, pur
restando ligi fino allo scrupolo alla volontá del-
l’autore, v’ ha sempre un modo individuale d’in-
tendere la musica, pes i rapporti ch’essa ha col-
l’infinito.
Il suo tocco èra per natura rotondo, pastoso, pene-
trante, e Montalto s’era preso cura di conservarglielo
come un dono preziosissimo. Spesso maestro e sco-
lara suonavano a quattro mani e non s’udiva alcun
distacco fra i due tocchi: robusto l’uno, l’altro pieno
di grave dolcezza, essi si confondevano negli ac-
cordi come si fonde il pensiero di due anime affini.
Quell’esercizio, utilissimo a Violante anche per la
lettura a prima vista, le forniva il mezzo d’impa-
rare a conoscere e di studiare le opere sinfoniche
degli antichi e dei moderni Tedeschi e tutto il re-
pertorio della musica da camera istrumentale che
sì bene prepara all’audizione dei concerti. Spronata
da una vera aviditá d’istruirsi, ella s’era resa fa-
miliare coi migliori autori per il pianoforte, specie
con Clementi, con Scarlatti e col Padre Martini, de-
plorando insieme al maestro che tanta bella mu-
sica italiana giaccia ancora sepolta ed inedita
negli archivi, analizzando a fondo tutte quelle
creazioni mirabili del talento e del genio che
aprono al pensiero i luminosi orizzonti d’un altis-
simo ideale.
Più tardi il giovine, per assecondare un desi-
derio da lei frequentemente espresso, cominciò a<noinclude></noinclude>
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darle qualche lezione d’armonia e di’contrappunto,
e dischiuse al suo facile ingegno, con la nobile
scienza dei suoni, un mondo di diletti nuovi.
Quanto pareva grande a Violante anche la
semplice scala armonizzata, quale attrattiva tro-
vava nei bassi geniali di Mattei e com’ era felice
di poterli suonare coi numeri! Ella procurava al
maestro delle continue sorprese per ii chiaro an-
damento delle parti: raro pregio che sempre più
appariva nei suoi compiti musicali.
Anima più elevata che fantasiosa, Violante
amava molto anche i risultati degli studi positivi.
Come l’allettavano le regole della prospettiva e i
problemi dell’aritmetica, così le leggi prime della
scala e dell’armonia, derivanti da calcoli matema-
tici e fondate sopra basi fìsse, non potevano a
meno di darle un’acuta sodisfazione, e di fare
ingigantire dinanzi alla sua limpida mente il con-
cetto primo della musica. Le sembrava che proce-
dendo da principi universali, la musica dominasse
vittoriosa sulle arti imitative, come un divino ele-
mento di conforto, che ha le sue fonti nell’eternitá
delle cose.
La diversitá degli anni che aveva stabilito fra
i due giovani una inevitabile distanza,. andava ap-
parentemente cancellandosi, e benché Montalto non
cessasse d’insegnare con un certo fare autorevole
e Violante non venisse meno alla piacevole sogge-<noinclude></noinclude>
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zione di scolara, il loro legame, senza che se ne
accorgessero, diventava a grado a grado quello di
una forte e leale amicizia.
Per la signorina di Piace il maestro costituiva
una specie di coscienza artistica; ella dissentiva
rare volte dal suo parere, anche negli argomenti
estranei all’arte, e se non subito, se non in modo
palese, finiva quasi sempre con l’accettarlo come
un verdetto assoluto
— Montalto ha in orrore l’opera comique, poiché
la ritiene una fonte pericolosa di pervertimento
per la musica italiana ; Montalto preferisce Brahms
a tutti gli autori di musica istrumentale moderna,
— diceva ella, convinta che quelle opinioni fos-
sero indiscutibili.
D’altronde, il giovane maestro non cessava di
studiare, seguendo con curiositá ardente i pro-
gressi dell’arte, meditando la sua missione in faccia
agli ardui problemi delle rivoluzioni sociali, cer-
cando sovrattutto quella serena imparzialitá di giu-
dizio, scevra da sistemi e prevenzioni, che consente
di apprezzare il bello sotto qualsiasi forma esso si
manifesti.
Era, più che un maestro, un artista sincero che
la lode non ha corrotto, che la gloria oblia. Degno
di sorte meno modesta, egli sentiva aspramente
l’ingiustizia della fortuna ; ma lungi dall’ ingene-
rare in lui le amarezze d’un fallito destino, questa
ingiustizia, pur suscitandogli nell’animo un certo
disdegno degli umani squilibri, non vi aveva soffo-<noinclude></noinclude>
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cato il generoso istinto di ricercare prima di tutto
e unicamente il vero.
In breve tempo era riuscito a farsi un nome come
professore di pianoforte efficace e coscienzioso; ma
il suo spirito avvezzo a più alti, forse a più am-
biziosi sogni, non traeva alcuna speciale compia-
cenza da quella fama che gli aveva giá valuto le più
lusinghiere sodisfazioni.
Nei primi anni, un pianista tedesco, suo amico,
gli aveva fatto vive istanze onde si recasse in una
delle principali cittá della Germania, prometten-
dogli un ottimo successo morale e materiale; più
tardi gli era stato offerto un posto nel liceo di
Pesaro ; piovevano gl’inviti e ad ogni momento
gli si aprivano vie nuove, ma Montalto era sempre
pronto e reciso nel suo rifiuto. Perchè, perchè
preferiva a qualunque altro allettamento artistico
quella sua vita faticosa, che lo costringeva a pas-
sare parte del giorno in carrozza per recarsi da
un punto all’altro della cittá da scolari spesse
volte inetti o neghittosi, che lo condannava a con-
tinui sagrifìzi, soffocandogli perfino nell’anima, per
l’ariditá della professione, i più geniali istinti ?
Perchè? non lo sapeva forse egli stesso; sentiva
soltanto che una forza misteriosa e invincibile lo
teneva incatenato alle consuete abitudini.
Un giorno di gennaio, il cameriere di casa
Riace venne ad avvertirlo. che la signorina, indi-
sposta, non poteva prendere la solita lezione. Egli
fece subito attaccare il suo coupé e andò a vedere<noinclude></noinclude>
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di che si trattava : una bronchite leggera. Ma
la malattia non tardò ad aggravarsi, anzi di-
venne minacciosa, e dalle angosce del proprio cuore,
come dalla gioia violenta che loro successe per
l’insperata guarigione di Violante, il giovane com-
prese e confessò chiaramente a sè stesso qual fosse
la potenza arcana che lo tratteneva.
Gli era così dolce l’amicizia di casa Riace ì
Gli riescivano così grate quelle lezioni seguite quasi
sempre da artistici colloqui! Egli ne attendeva l’ora
con una certa ansietá : era sicuro di trovare la
fanciulla al pianoforte, sapeva ch’ella gli verrebbe
sempre incontro con la tenera deferenza, con l’atto
gentile dei primi anni, a levargli di mano la
gruccia; sapeva che avrebbe per lui un affettuosa
sorriso, un’ amorevole parola, forse un fiore pre-
ferito.
La marchesa, sempre bella ancora, sempre cor-
tese nel suo contegno un po’ rigido ma immutabile
di gentildonna, si affrettava a riprendere il suo so-
lito posto in un angoletto e si metteva a leggere o a
scrivere. Non stavano più ora nella camera di studio
di Violante, bensì in una sala destinata unicamente
alla musica ove non erano nè tende, nè quadri,
nè mobili inutili che potessero alterare la sonoritá
dei suoni. Alcuni soffici divani coperti d’una stoffa
color di rosa antico correvano lungo le pareti mar-
morizzate ; due Pleyel a lunga coda occupavano
il centro ; tra le finestre era un harmonium d’Ale-
xandre; poche seggiole, gli scaffali della musica e<noinclude></noinclude>
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alcune grandi Icentie, coltivate in va^i orientali,
completavano l’addobbo semplice e ricco sul quale
la sera tre fulgenti lampade elettriche diffonde-
vano la loro luce intensa e tranquilla.
Era nella genialitá artistica di casa Riace
qualche cosa di sommamente puro e signorile che
allettava lo spirito elevato di Montalto
Quanta serena felicitá in quelle ore confidenti,
quando le due creature nate per intendersi senti-
vano vibrare l’armonia delle loro anime all’unisono
con le armonie musicali, quando la nobile passione
dell’arte le trasportava al di lá di tutto ciò che
può esservi di terreno nella simpatia fra l’uomo e
la donna, insegnando alla loro austera giovinezza
la più alta, la più divina poesia ch’è quella del sen-
timento inconsapevole di sè stesso !...
%
Una volta, al solito ritorno dalla campagna, in
cui egli, quell’anno, non aveva potuto recarsi,
Montalto trovò la sua scolara mutata ; gli pareva
d’averla lasciata bambina e di rivederla donna,
tanto ogni traccia della fanciullezza era in lei
scomparsa. Violante s’era fatta un pochino più
alta ancora e, crescendo, aveva raggiunto, col
primo fiore della giovinezza, un’armonica e casta
leggiadrìa di forme ch’ era come un riflesso esterno
della sua anima.
Montalto, che aveva desiderato ardentemente<noinclude></noinclude>
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di rivederla, rimase, alla prima, un po’ attonito,
quasi triste, e due o tre giorni dopo l’arrivo delle
signore di Biace, quando la marchesa lo pregò di
riprendere le lezioni, fu con un senso affatto nuovo
ch’egli sedette al pianoforte accanto alla sua sco-
lara. La fanciulla gli suonava un preludio e una
fuga di Bach, che aveva imparato a memoria du?
rante il soggiorno in villa, e egli, per la prima
volta distratto dalla musica, la: guardava, senza
che se ne accorgesse, con una meraviglia profonda,
con uno strano turbamento. Era l’immagine della
sua visione, dinanzi alla quale il giovane ardente
durava fatica a ritrovare in sè stesso il maestro.
Un tempo, quand’era piccina, egli le aveva dato
qualche volta del tu, poi era passato al voi, adesso
non osava più nemmeno questo, e diceva lei
ma nel proferire quel pronome gli si stringeva il
cuore, come se una grande distanza all’ improvviso
li dividesse, come fossero divenuti tutt’a un tratto
estranei uno all’altra o cominciassero appena al-
lora a conoscersi.
A poco a poco però quell’impressione singolare
e dolorosa si dileguò e gli parve che l’antico affetto
tacesse luogo ad un legame diverso più forte an-
cora e più tenace.
In quell’anno, per amore della figliuola, la mar-
chesa cominciò a desistere dalla severitá del suo
lutto e, pur consacrando sempre un culto fedele
alla memoria del marito perduto, desiderò che Vio-
lante godesse di tutti i vantaggi che poteva offrirle
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la posizione in cui egli le aveva lasciate. S’impose
di accompagnare ella stessa la fanciulla ai con-
certi, frequentò i teatri ed aperse la sera il suo
salotto ad una scelta d’amici, di letterati e d’ar-
tisti.
S’ella avesse mai dubitato che la presenza gior-
naliera di Montalto nella sua casa potesse riuscire
pericolosa, il piano di accogliervi degli altri uomini,
ai suoi occhi forse più interessanti, l’avrebbe sol-
levata da questo scrupolo ; ma mai le era balenato
alla mente il pensiero che il giovane musicista
possedesse le qualitá necessarie per attrarre esclu-
sivamente l’attenzione della sua figliuola. Dotata
d’un carattere nobile e profondo, ma positivo,
ell’era poco suscettibile ai facili entusiasmi e af-
fatto priva d’immaginazione. La serietá precoce
di Violante e il fatto ch’ella conosceva il maestro
fino dalla fanciullezza l’avrebbero giá rassicurata
da ogni possibile timore o sospetto, senza riflet-
tere alla deformitá di Montalto, ostacolo per lei
assoluto.
Ma il giovane possedeva molti pregi che pote-
vano far dimenticare quella sua disgrazia ; la stessa
dignitá, con la quale aveva saputo sopportarne i
sacrifizi così gravi alla sua coraggiosa giovinezza,
lo rendeva degno della più alta considerazione.
Anima piuttosto altera, esclusiva e avvezza ai
patimenti silenziosi, egli lasciava trasparire da
tutta la persona una certa morale raffinatezza, che
nel volto, spirante un ardore contenuto, raggiun-<noinclude></noinclude>
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geva l’intensitá. Quasi imberbe, meno l’ombra forte
che dava una certa grazia virile al labbro supe-
riore, quel volto era disegnato a tratti larghi e no-
bili come un abbozzo d’artista.
Montalto portava i neri capelli ritti sull’ampia
fronte pensosa e aveva nella bocca un’espressione
quasi impercettibile, ma persistente, di fino sar-
casmo che solo il suo schietto sorriso sapeva discio-
gliere in un raggio di bontá. Bellissimi erano gli
occhi bruni, d’un bruno caldo e vellutato in cui
scintillavano luci più chiare, come piccole gemme :
occhi che sanno guardare profondamente, interro
gando; occhi nei quali certe volte tutta l’anima
rifulge in un lampo, o che sotto l’impero della
volontá rimangono impenetrabili e muti.
Invitato fra i primi a quelle geniali riunioni
della sera, Montalto divenne uno dei più assidui
frequentatori dell’elegante salotto della marchesa.
Egli era stato eletto da poco professore al liceo della
cittá, e, rinunziando quasi per intero alle lezioni
private, la sera poteva concedersi con poc i fatica
un sì piacevole svago.
Alla prima, egli aveva accolto con vera affli-
zione quel totale cambiamento nelle abitudini
quasi claustrali di casa ffciace ; gli doleva di veder
sollevato agli occhi di tanti che gli sembravano
profani, il poetico velo di solitudine che aggiun-
geva per lui un grande fascino alla dolce intimitá
delle due signore. Ma il contegno di Violante non
poteva che rassicurarlo : il suo riserbo era quasi<noinclude></noinclude>
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eccessivo : pareva ch’ella si studiasse attentamente
di sottrarsi all’investigazione, spesso non disinte-
ressata, dei suoi molti ammiratori.
Per accondiscendere a un desiderio della mar-
chesa, nelle serate in cui c’era minore concorso
di gente, ella cominciava a farsi sentire al piano-
forte in una piccola cerchia di amici, deliziandoli,
ma non suonava mai le cose predilette per non
tradire troppo la commozione sempre. viva del-
l’animo, e di quella ritrosia il maestro le era grato,
in silenzio, come se gli ripugnasse di veder pale-
sati ad altri i meriti artistici dei quali eglì solo,
fino allora, aveva goduto le squisite primizie e le
compiacenze dolcissime.
Quei ritrovi venivano qualche volta interrotti
dalle prime celebri o da produzioni musicali o
drammatiche scelte alle quali la marchesa non vo-
leva che la sua figliuola avesse a mancare ; a Mon-
talto era stato assegnato un posto fisso nel palco
Edace,. e egli ricordava sempre con sommo diletto
le belle ore d’intensa vita intellettuale in cui le
delicate e un pò timide impressioni di Violante,
passando a traverso il suo virile temperamento,
prendevano forma e si completavano.
In quell’inverno la signorina Eiace fu presentata
in societá e ricevette molti inviti. Benché non di-
mostrasse alcuna propensione pér i divertimenti
giovanili, la marchesa manifestò tuttavia il desi-
derio di condurla al ballo dei duchi Samoclevo
ch’erano loro parenti e amici intimissimi.<noinclude></noinclude>
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Quando Montalto seppe ohe Violante sarebbe
andata a quella festa, per quanto la cosa gli sem-
brasse giusta e ragionevole, si sentì fremere da
capo a piedi ed ebbe un impeto di selvaggio do-
lore. Seppe tuttavia dissimularlo, ma la sera in
cui le signore dovevano recarsi al ballo, incapace
di privarsi per tante ore della loro vista, egli passò
da casa ftiace, colla scusa di riprendere una ro-
manza dimenticata.
La marchesa stava vestendosi, e Violante, giá
pronta, aspettava nel salotto. Ella ricevette il suo
maestro colla solita amabilitá, gli tolse di mano la
gruccia ed ebbe cura di accostare per lui un seg-
giolone al camino ove ardeva uno di quei buoni
fuochi così graditi al giovane freddoloso. Egli se-
dette, sforzandosi di parere disinvolto, ma in realtá
era come trasognato.
La fanciulla gli stava dinanzi nel suo candido
vestito stellato da mazzolini di fresche viole,
stringendosi alle spalle una mantelletta bianca.
Semplicissima, non portava nulla in testa, fuorché
lo splendido ornamento dei suoi capelli castani,
stretti in un ricco nodo, ma il suo volto era
insolitamente suffuso di colore, il suo bel sorriso
luminoso aveva una speciale irradiazione.
Montalto, non visto, la guardò intensamente,
mentr’ella s’allacciava i lunghi guanti.
— È felice di questo ballo, marchesina ? — disse
alfine, dopo un lungo silenzio, smorzando in una
frase qualunque il ribollimento dei propri pensieri.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Io? felice? ... Ma perchè mi chiama marche-
sina, stasera? ... Non saprei dire in veritá se sono
felice — rispose Violante, ridendo. — E una cu-
riositá che m’attrae, un desiderio strano di cono-
scere il mondo e la vita...
— Ha ragione. Sono i diletti della sua etá!...
concluse il musicista con uno sforzo. — Ha suo -
nato, oggi? — domandò poi, mutando rapidamente
discorso.
— No, maestro, non ebbi tempo, dopo la lezione.
— E il suo tema con variazioni l’ha finito?
— Quello sì... anzi l’ho scritto ed è qui — disse
la fanciulla, prendendo da un tavolino il foglio di
carta da musica.
E mentre lo spiegava per porgerlo al gio-
vine, la piccola spilla di perle che aveva puntata
nei lembi del cappuccio s’aperse e la mantel-
le tta le scivolò dalle spalle sul tappeto. Vio-
lante s’affrettò a raccoglierla, non senza che le
sue brune ciglia s’inarcassero, ciò che indicava
una viva contrarietá ; ma intanto eli’era apparsa
un minuto a Montalto in tutto lo splendore della
sua snella e giovanile figura, nella casta e sedu-
cente eleganza del candido vestito scollato.
A quella vista il giovane si turbò e una parola
di ammirazione ardente insieme e dolorosa gli
venne alle labbra, ma per un delicato riguardo si
trattenne dal proferirla, e subito il suo turbamento
si tramutò in una gravissima amarezza. G-uardava
alla sua gruccia pensando che mai, mai gli sarebbe<noinclude></noinclude>
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stato concesso di stringere fra le sue braccia la
gentile e simpatica creatura, ma che molti altri
indifferenti forse o indegni, nel ballo, l’avrebbero
fatto per la prima volta, profanando collo sguardo
indiscreto una verginale purezza fino a quell’ora
sì gelosamente custodita. E si ribellava Montalto
all’umano convenzionalismo, che ammette licenze
pericolose e affetta severitá inefficaci, prestandosi
alle più singolari contradizioni; ma un violento
sforzo del pensiero lo rese subito arbitro di sè,
e scorrendo collo sguardo la musica domandò sol-
tanto :
Perchè ha fatto quest’ultima variazione in
tempo di waltzerì
— Di ioaitzerì... non saprei... forse avevo in
mente il ballo, ed esso mi ha suggerito quel ritmo
senza volerlo...
Ma appena ebbe detto questo la fanciulla intuì
più che mai l’acerbo patimento del suo maestro,
e, pur rifuggendo dall’ indagarne la cagione, provò
in cuore una vaga inquietudine commista alla più
affettuosa e profonda pietá. E subito venne a sedere
sopra uno scanno, accanto a lui, e dandogli del
voi, ciò che faceva qualche volta, gli disse con
grande amorevolezza:
— Come siete triste stasera, maestro! che cosa
avete ?
— Io ? nulla, signorina. Sono forse un po’ affa-
ticato... — E sotto il dominio della volontá gli
occhi gli si fecero indifferenti e freddi.<noinclude></noinclude>
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La fanciulla lo guardò un momento, con una
muta interrogazione, e egli, comprendendo subito,
s’affrettò a soggiungere :
— Sono strano qualche volta, lo sa, mi com-
patisca...
Ad un tratto il pensiero della festa divenne
uggioso a Violante che non ebbe mai a sentire
più dolorosamente il confronto fra la sua flo-
rida giovinezza e la vita travagliata di Montalto.
Ella aveva deposto sopra uùa seggiola, col venta-
glio, un mazzolino di giacinti bianchi, i suoi fiori
prediletti, per portarli seco.
— Vi lascio questo ricordo... — disse dolcemente
e semplicemente, porgendo i giacinti al suo maestro
— e in ricambio mi segua il vostro pensiero.....
Montalto molto commosso non potè rispondere.
Fu una scena silenziosa ed innocente, ma quante
volte egli la rammentò più tardi !
La marchesa ancor bella, nel suo ricco vestito
nero, non tardò a sopraggiungere, e mentre il
maestro prendeva commiato disse ad entrambi:
— Temo che domani Violante dovrá rinunziare
alla sua lezione; sarai stanca ed assonnata, non è
vero, figliuola mia?
— Oh no, — mamma, rispose la fanciulla ama-
bilmente, — non ballerò tanto, nè sì a lungo da
stancarmi...
E l’indomani, quando, fedele all’ora convenuta,
Montalto comparve, ella gli corse incontro festosa,
esclamando :<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>.— Avete ragione mio buon maestro, il ballo è
una grande follìa.
— Io non ho detto questo...
— Non l’avete detto, ma ve l’ho letto negli
occhi..
Perchè pensava ella così? Aveva forse sentita
in mezzo alla folla quel vuoto amaro, quella man-
canza inesplicabile e quasi angosciosa che per certe
anime profonde rende spesse volte nulli i più at-
traenti diletti della vita?
— Ella è molto buona — mormorò Moltalto,
con uno dei suoi profondi sorrisi, — ma non
deve lasciarsi influenzare dalle mie idee nere...
ne avrei rimorso.. glielo dissi giá altre volte,
il destino mi costringe ad. essere diverso dagli
altri...
Poi rasserenandosi, egli soggiunse: — Suo-
niamo, suoniamo, signorina ! Prenda le nostre care
«Danze norvegesi» a quattro mani e la «Ouver-
ture della G-rotta di Fingallo.»
Subito sedettero al pianoforte, e le mirabili
ispirazioni di Grieg e di Mendelssohn, evocando
simultaneamente nella loro fantasia la bellezza dei
paesaggi nordici, facendoli spaziare insieme nel
cielo e nell’oceano e nelle verdeggianti foreste,
concessero più che mai ai due giovani quella mi-
stica trasmissione del pensiero ch’è un privilegio
elettissimo della musica.<noinclude></noinclude>
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Montalto, essendo alquanto cagionevole di salute,
aveva promesso anche quell’anno alla marchesa e
a Violante di passare almeno un mese in villa con
loro. Era il tempo più dolce della sua esistenza,
quando, dopo avere accompagnato la mamma e la
sorella,ch’egli adorava, in qualche remoto ango-
letto di montagna onde vi godessero, mercè le sue
solerti ed affettuose cure, alcune settimane d’aria
alpestre, egli si concedeva in un breve soggiorno
a Villa Vittoria i diletti della campagna che la
premurosa amicizia delle due signore gli raffinava
dei più dolci conforti.
Erano limitati assai per lui quei piaceri campe-
stri ma tanto più deliziosi: qualche trottata nei
boschi, la contemplazione giornaliera del paesaggio
dalla terrazza, e perciò quell’intima comunione
colla natura che riesce sì benefica allo spirito del-
l’artista; raramente una gita sul lago della villa,
in una barca a due remi con Violante. Era un
lago piccolo ma intensamente azzurro come molti
laghi alpini, e così limpido che vi si discerneva,
in certi punti, la roccia della riva scendere a
picco, aspra e profonda.
Come le carrozze non potevano andare fino
alla spiaggia, cinta in parte da boscaglie, Montalto
si sforzava di raggiungerla a piedi prendendo una
scorciatoia.
E vero che quel giorno dopo la remata, nè mae-<noinclude></noinclude>
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stro nè scolara non potevano più suonare, tanto le
loro mani rimanevano incerte e quasi tremanti per
il faticoso esercizio ginnastico, ma la breve gita sul
lago era anch’ essa una musica, anzi più di una
musica.
Una sera, la marchesa essendo scesa ella pure
fino alla sponda, i due giovani ottennero la grazia
di andare in barca al chiaro di luna
Era un’ora luminosa e tutto taceva all’intorno.
I caprifogli che Violante aveva piantati fra gli
arbusti, sopra il lago, ] asciavano penzolare a fior
d’acqua i loro lunghi rami, carichi di fragranti
umbelle ; uno sfavillìo d’argento rifletteva fulgi-
damente nella placida conca il raggio lunare.
Quando furono giunti in mezzo al lago essi
abbandonarono i remi e la piccola barca rimase
quasi immobile sulle acque tranquille.
— A che cosa pensate, maestro? — chiese Vio-
lante al giovane che taceva.
— A che penso? alla sonata in do diesis mi-
nore di Beethoven, a quel sublime adagio che mi
dá impressioni diverse, secondo i giorni in cui lo
sento. V’ha in esso un angosciato dolore e anche
una calma ineffabile... oggi, se una mano di fata
ali’improvviso lo suonasse, io proverei un senso di
pace arcana.. nel silenzio che ci circonda giá si
svolge un’armonia infinita piena di Una sopran-
naturale letizia.
— È strano — mormorò Violante — perchè
noi abbiamo qui presso la morte... la barca sta in<noinclude></noinclude>
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bilico, ma forse, per poco che uno di noi si spin-
gesse a destra o a sinistra... è profondo il lago
E colla mano sfiorava l’acqua fresca e cupa.
— Una volta, nella mia giovinezza, ero un
forte nuotatore. Dopo quella disgrazia non ho più
tentato di nuotare... credo però che troverei la
forza di salvarla. Ma non pensiamo a tristi cose :
è questa un’ora divina, Violante.
La fanciulla sorrise al suo maestro nel quale
aveva una fede intera, come nel più sicuro amico
e da cui non le era mai venuto turbamento al-
cuno, e egli si compiacque di riposare lo sguardo
su quella leggiadra figura, su quel volto dall’e-
spressione penetrante insieme e angelica che, nella
poetica ora notturna, gli appariva pallido e sempre
più spirituale come il volto d’un buon genio.
— Sará meglio che facciamo il giro — propose
ella, finalmente, dopo alcuni minuti di dolce si-
lenzio. E i due remi tornarono a battere in ca-
denza sullo specchio tranquillo del lago.
Nel risalire alla villa, Montalto accettò il brac-
cio che uno degli ospiti gli offriva ; la marchesa
s’appoggiò al dottor Bruni, vecchio medico e amico
di casa, e Violante, seguendoli, udì quasi senza
volerlo, alcuni brani d’un dialogo.
Il medico diceva alla marchesa:
— Crede ella che la sua figliuola sia superiore
a qualùnque umana passione?
— Superiore? oh no certamente. E non sarebbe
nemmeno il termine da scegliersi, questo. L’amore<noinclude></noinclude>
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è un sentimento nobilissimo ohe or innalza e ci
completa specie quando è posto in un essere degno.
Farei torto a Violante se non la credessi capace
d’amare ma è una fanciulla governata dalla
ragione ; più volte mi espresse il suo disgusto per
certi folli amori della giovinezza. Io credo che
amerá santamente e fedelmente l’uomo che .la Prov-
videnza vorrá destinarle a compagno e che sentirá
ella stessa il bisogno ch’egli accolga in sè tutte
le qualitá convenienti alla sua condizione, oltre
le morali attrattive alle quali ella ha diritto.....
d’altronde, caro amico, io non ci penso mai a que-
st’uomo; lo pavento, perchè verrá a rapirmi l’u-
nico mio bene. Quantunque nella sua dolorosa bre-
vitá io abbia conosciuto una perfetta contentezza
coniugale, non sono fra quelle madri che sognano
il matrimonio ... È un fatto che si considera sempre
con grande leggerezza. Ma di ciò non temo, Violante
sarebbe forse anche troppo sottile nella scelta....
— Io so ch’ella e Violante sono due creature
eccezionali — mormorò il dottor Bruni ; — tuttavia
e, forse appunto per questo, io soggiungerò come
Jago: Vigilate.....
— Vigilerò, ma non abbiate paura. Ella lo co-
nosce fino dall’ infanzia e Montalto aveva vent’anni
quando la mia figliuola, ancor bambina, cominciò
a studiare con lui ..... furono troppo a lungo buoni
amici, per diventare altra cosa e poi, scusate,
Bruni, è un giovane stimabilissimo, simpaticis-
simo, ma con quella disgrazia<noinclude></noinclude>
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— Le donne sono assai spirituali
— Non a quel punto....
Ma qui Violante, ohe giá si rimproverava aspra-
mente d’avere ascoltato, rallentò il passo e perdette
il filo del discorso.
Le pareva che sua madre avesse ragione, non
così nel giudizio espresso sopra Montalto, come
nel concetto che s’era formato di lei. Si sentiva
molto tranquilla, molto equilibrata, molto felice.
C’era nel mondo qualche cosa d’arcano che le ali-
mentava inconsapevolmente il pensiero ed il cuore,
che le rendeva più apprezzabili tutte le cose belle
della natura e dell’arte. Ella viveva senza sognare,
senza abbandonarsi alle aspirazioni fantasiose
della giovinezza, poiché la stessa sua esistenza
fra l’amore materno e l’affezione del maestro era
un sogno. La delicatezza di Montalto e il suo
casto ritegno avevano difeso il sogno dal con-
tatto pur sempre pericoloso della realtá: nati uno
per l’altro, i due giovani erano rimasti sempre
fedeli alla loro confidente ma severa relazione di
maestro e scolara, e Violante provava, senza ana-
lizzarle, le gioie ineffabili di quella nobile ed ele-
vata amicizia che pur potendo abbandonatisi
onestamente, non si è mai lasciata sorprendere da
alcun vaneggiamento amoroso.
% ^
Quell’anno, in inverno, Violante fu richiesta,
con molte istanze, di suonare in un concerto di be-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
neficenza, ma prima di aderire all’invito domandò
il consiglio di Montalto. Il giovane ben sapeva
quanto la sua vanitá potesse essere lusingata dalla
comparsa di quella sua geniale allieva fra la piccola
cerchia degli esecutori, ma all’ambizione prevaleva
in lui il sentimento opposto, una certa gelosia
del pubblico, una ripugnanza strana al pensiero
che l’anima di lei, effondendosi nella musica, do-
vesse rivelarsi troppo a chi l’ascoltavá.
Tuttavia egli non ebbe il cuore di dissuaderla,
e sperando trovare una buona alleata nella mar-
chesa, chiese a Violante che cosa ne dicesse sua
madre.
— Mamma si rimette al vostro parere
— E lei, Violante, lo desidera? lo vuole?
— Se avessi la coscienza di poterlo fare con
buon successo sì, lo desidererei
— Proprio ?
— Proprio. Ma perchè ve ne meravigliate? 11
pubblico esercita una grande attrattiva, un lascino
quasi
Ma non appena ebbe proferite queste parole,
Violante s’accorse d’aver toccato una corda dolorosa,
e, per discacciare la triste rimembranza, subito
propose di desistere dal suo progetto ; ma Montalto
aveva giá vinto quella piccola lotta interna e adesso
era lui che insisteva.
— Accetti, accetti, signorina — concluse egli,
così rivivranno in lei le speranze della mia gio-
vinezza.....<noinclude></noinclude>
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— Caro maestro, siete voi olio non avete più
voluto assecondare quelle speranze !
— Sì, non ho più voluto. Forse mi sono disii-
luso del’ pubblico senza affrontarlo. E poi, uno
zoppo rappresenta un ritmo sbagliato : sarebbe una
cattiva raccomandazione per un concertista.
Egli scherzava qualche volta con Violante sopra
la propria sventura, ma vedendo che in quel giorno
anoor più del solito ella se n’affliggeva, tornò al
primo argomento e chiese.
Dunque suonerá Bach, non è vero?...
— Bach ? temo che piacerebbe a pochi, è un
uditorio elegante, non è un pubblico di artisti.
— Non e meglio piacere a pochi?...
_ . Ma, maestro mio, perchè parlate così ! Non
siete contento ch’io suoni? Confessatelo franca-
mente..... \
No, no, tutt’altro. Mi perdoni, sono così
brusco, certe volte..... Bach non è egli uno dei suoi
prediletti?
— Oh certamenté. È fra i più cari. Ma sapete
quando mi piace Bach ? quando ho bisogno d ispi-
rarmi. Lo suonerò molto qui in casa il . giorno del
concerto. Èsso è una fonte inesauribile d’ispira-
zione. In Bach vi. è il germe di tutta la "musica
immortale, come nelle fresche sorgenti si trova
l’origine dei fiumi e dei mari..... Anche quando
contemplò una bell’opera architettonica devo, pen-
sare a Bach.... le cattedrali gotiche della Germania
sembrano fatte al suono della sua musica.<noinclude></noinclude>
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— Sono d’accordo, signorina.
— Ma..... dopo butto, non è Bach che vorrei
suonare, suonerò Beethoven, suonerò Schumann,
Chopin suonerò anche Montalto — soggiunse
ella con un amabile sorriso.
— Oh Violante ! confondere Montalto con questi
grandi !
— Montalto è molto modesto, è troppo modesto.
A me piace anzi sceglierò la piccola barcarola
che mi ha dedicata
Grazie, marchesina ! non ho la coscienza di
meritare questa distinzione — mormoro il musicista,
che diventava sempre cerimonioso quand’era com-
mosso; ma ella gli fece un cenno gentile di pro-
testa, e i due giovani si misero subito a passare
alcuni pezzi per fissare il programma.
{{asterism}}
Un mese più tardi, quando la fanciulla com-
parve nella sala del Circolo filarmonico, acccom-
pagnata dal presidente, vestita d’un languido color
di viola, un po’ timida dinanzi alla gente che s’affol-
lava, ma affatto sicura disè, Montalto provò un senso
misto di trepidanza, di gioia, d’affanno. Il cuore
gli palpitava benché fosse certo che la pianista,
superata la prima impressione eccitante del pub-
blico, si concentrerebbe tutta nel pensiero dell’arte,
ma egli sentiva la fierezza degli esseri schivi che
una circostanza inevitabile costringe a profanare da-
vanti agli estranei la gelosa intimitá del sentimento.
3<noinclude></noinclude>
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E quando, da una stanza attigua alla sala del
concerto, egli la vide presentarsi allo sguardo e al
giudizio di quel mondo clie, fatte poche eccezioni,
gli pareva composto di esseri frivoli, ignoranti,
radunati dalla curiositá o dalla moda, quando udì
il battimano che raccolse, dovette soffocare con
violenza un grido d’ira o di ribellione che gli
sfuggiva dal petto.
Ma ella suonava giá, suonava colla strana magia
della sua geniale natura d’artista.
Era la sonata appassionata di Beethoven, scelta
di comune accordo col maestro, per il suo carat-
tere; drammatico.
Ormai dimentica di quanto la circondava la fan-
ciulla, ispiratissima, pareva irradiata da una luce
interna, e sul suo fine volto aristocratico, nell’in-
conscio e lento volgere degli occhi, nel vago e
quasi tremulo sorriso, una bellezza strana era ve-
nuta gradatamente a rifulgere.
Suonava a memoria, sicurissima, sollevando
ogni qual tratto la testa, come volesse concedere
al suo pensiero la libera visione delle immagini
evocate dalla musica.
E il maestro, pur non osando guardarla sempre,
non vedeva che lei, la dolce e cara figura di donna
e di suonatrice trionfante nella grande sala gre -
mita di ascoltatori, nello sfavillìo di migliaia di
fiammelle che sembravano cingerle d’un’aureola la
bianca fronte.
Un subisso d’applausi seguì l’ultimo tempo della<noinclude></noinclude>
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sonata, e quand’ella tornò presso a Montalto che
l’aspettava colla marchesa, e si vide circondata da
alcuni valenti musicisti che andavano a gara ad
esprimerle la loro ammirazione, il primo suo sguardo
fu per il maestro e, stendendo la mano a lui, ri*
spose con effusione agli altri:
Quel poco ch’io faccio, lo devo a Montalto,
tutto a Montalto!
Poi soggiunse piano : — Com’è fredda la vòstra
mano, maestro! Vi sentite male?
— No, no, è il guanto.....
Ma subito tacquero per ascoltare un bellissimo
quartetto ad archi di Sgambati che avevano giá
ammirato alla prova, e il cui suono, velato dalla
breve distanza, giungeva loro come un’armonia
celeste.
Adesso era la volta della barcarola di Montalto.
^— Udrete come la suonerò — disse Violante;
— voglio mettere tutto il mio cuore nella vostra
musica.
Grli occhi del giovane lampeggiarono. Egli era
uno scrittore corretto ed elegante, ma pubblicava
poco e la sua migliore scolara era la sola persona
che conoscesse tutti i segreti delle sue malinconiche
ispirazioni.
La barcarola piacque assai e il pubblico, applau-
dendo fragorosamente, ne chiese il bis. Violante
rifece di buon grado la flebile e squisita cantilena,
interrotta da uno sprazzo di lieto umore che ri-
velava lo spirito vivace del musicista. Pareva che<noinclude></noinclude>
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sotto la pressione delle sue morbide dita di fata
il grande Bòsendorfer cantasse : difatti qualche
cosa cantava anche entro il cuore della suonatrice.
Ad ogni pezzo ella ottenne crescenti ovazioni,
e quando ebbe eseguito, con accento toccante, la
morte d’Isotta «Isolden’s Liebestod», trascritto
da Liszt che faceva sempre impallidire Montalto,
e l’uditorio, esaltato, espresse con insistenza il
desiderio di udirla ancora, non sapendo affrontare,
due volte di seguito l’emozione quasi penosa che
le destava nell’anima quello squarcio potente del
dramma d’amore wagneriano, Violante attaccò, al-
l’improvviso, uno scherzo vivacissimo e assai dif-
ficile del suo maestro, il cui trio pieno di passione
era una vera trovata del compositore e anche
dell’interprete.
Allorché la fanciulla colle mani ricolme dei fiori
cbe le avevano offerto e che voleva portare ella
stessa, raggiunse sua madre, Montalto le apparve
commosso, scolorato in volto.
— Mi perdonate? — diss’ella, con un arguto
e luminoso sorriso, — ci ho trovato tanto gusto
a farvi questa sorpresa!...
— Grazie, Violante! — mormorò il giovane
contenendo negli occhi, più dicenti della parola,
la sua emozione quasi angosciosa.
% % %
In quell’anno però Violante non volle più pro-
dursi in pubblico, e il maestro si guardò bene dal<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
proporglielo. Egli pensava: Perchè sprecare i té-
sori del proprio intelletto ? Non è forse il pubblico
un elemento tirannico e crudele al quale appena
il genio, e anch’esso soltanto col tempo, arriva ad
imporsi ?...
— Al concerto non rimasi sodisfatto dei vani
applausi della gente, — diceva Montalto alla mar-
chesa, — bensì della conferma ch’io m’ebbi, in
quella non facile prova, delle attitudini superiori
della signorina.
Se nel loro intimo tacito accordo la madre e
il maestro gradivano che la fanciulla non facesse
alcuno sfoggio del proprio talento dinanzi alla
societá frivola e convenzionale, essi riconoscevano
però entrambi il dovere di concedere a quella
mente assetata di cose alte e belle tutti i nobili
diletti che potessero efficacemente appagare le sue
aspirazioni ; perciò le serate invernali di casa Riace
vennero in gran parte dedicate alla musica.
Il salotto della marchesa accolse, oltre i soliti
amici, vari artisti forestieri ed illustri e qualche
cantante di grido ; un celebre violoncellista belga
si compiacque di trovare nella fanciulla un’intel-
ligente accompagnatrice ; nella sala da musica ri-
suonarono peregrine canzoni e nobili ritmi di
quartetti e quintetti classici e sul volto trasfigurato
di Violante si vide spesso rifulgere quel raggio di
mistica esaltazione, quel riflesso esterno delle gioie
divine che l’arte concede soltanto ai propri eletti.
I due giovani andavano facendo una collezione<noinclude></noinclude>
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delle opere letterarie musicali e di quelle in cui si
parla di musica o che l’hanno ispirata : poeti, filo-
sofi, romanzieri, tutti fornivano loro argomento di
studi gravi, di commenti e discussioni. Presso i
due Pleyel, ora stavano raccolti, sopra una larga
tavola, fra le riviste d’arte, i libri prediletti:
Shelly, Swinburne, il Manfredo di Byron, il Faust,
qualche volume di Victor Hugo, le critiche del
Bellaigue, gli scritti di Schumann, alcune novelle
di Hoffmann e di Fogazzaro.
Essi conoscevano a fondo tutte le opere di
Wagner, avevano fatto molte ricerche intorno alle
origini delle fantastiche leggende nordiche, e il
loro sogno più ardente era quello d’andare insieme
a Bayreuth, non solo per le rappresentazioni me-
ravigliose del Parsifal, ma anche per l’attrattiva
speciale di quel teatro singolare il cui raccogli-
mento solenne pensavano dovesse schiudere nuovi
orizzonti e procurare compiacenze nuove al loro
intelletto.
— Vi ricordate quand’ero piccina? — doman-
dava Violante al suo maestro.
— Come lo ricordo!....
— Mi davate una grande soggezione. Alla
prima m’avevate piaciuto tanto, ma pòi mi sem-
braste d’una severitá ! quando non avevo studiato,
che viso buio !
: — Davvero? ero proprio così terribile? e<noinclude></noinclude>
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adesso lo sono ancora? — chiese il giovane scher-
zando.
— Adesso? credete essere di facile contenta-
tura ? il vostro giudizio mi ha sempre imposto,
non solo nella musica, ma anche nelle altre cose,
siatene certo...
— Nelle altre cose? non capisco, signorina.
— Ecco, per esempio, la sèra che andai a quel
ballo, vi rammentate? una muta ma viva disap
provazione era nei vostri occhi.,. non so perchè...
mi sembrò che mi consideraste assai frivola...
— Che idea, Violante! non ispettano a me
questi giudizii. Ella mi tiene per un selvaggio,
mi fa torto...
— No, non intendo farvi torto. Voi non vi
esprimete mai, ma io vi leggo in faccia quello che
pensate, lo sento perfino nella vostra voce. Vi
trovo molto sottile, Montalto, molto raffinato. E
vero che tutte le fanciulle vanno al ballo, è una
cosa assai comune, e il non andarvi formerebbe la
più strana delle eccezioni... ma chi sa... appunto
per questo... confessate... non siete forse un idea-
lista?...
— No, signorina, non mi ritengo tanto sot-
tile ... e se sia un idealista, l’ignoro. So soltanto
che la mia sventura mi ha costretto a considerare
molte umane cose come uno spettatore, ed è ben
diverso, lo creda, il recitare in una commedia, dallo
stare a sentire . . .
i— È dunque tutta una commedia la vita ?<noinclude></noinclude>
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Press’a poco.
— E l’arte?
— Oh l’arte è una cosa celeste, specie nel si-
lenzio di questa stanza. Mi faccia dunque sentire
qualche cosa...
Violante prese un volume di Schumann, e, se-
dendo al pianoforte, lo aperse, a caso, al fascicolo
della Krèisleriana
Era vestita di velluto bruno; le. sue forme gio-
vanili si modellavano castamente nel corpetto che
saliva ad accarezzarle la nuca con un orlo di pel-
liccia ; la manica era stretta al polso dalla stessa
guernitura, e le mani lunghette, uscendo dalla
morbidezza della lontra, parevano ancora più
bianche e più. affilate...
Maestro e scolara si chinarono una volta con-
temporaneamente sulla musica, per osservare un
accordo, e uno dei riccioli fulvi e ribelli che con-
tornavano la pura fronte di Violante d’un’aureola
piena di luci dorate, sfiorò lieve lieve la guancia
del giovane, che si sentì impallidire e s’affrettò a
rialzarsi, col cuore in tumulto.
% % %
La fanciulla aveva trovato in Montalto una
guida morale.
Spirito profondo e ardente ricercatore del véro,
senza volerlo forse, l’artista andava modificando i
concetti un po’ falsi, un po’ superficiali ch’ella po-
tesse avere attinti nell’elemento in cui era nata e<noinclude></noinclude>
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destinata a vivere ; ma pur essendo privo d’illu-
sioni, egli si guardava nondimeno dal contaminare
con un pericoloso scetticismo, l’anima candida e
confidente della fanciulla, e soltanto la esortava a
cercare in se stessa, nella coscienza, nel carattere,
nei gusti intellettuali le prime fonti della conten-
tezza.
Entrambi possedevano al più alto grado 1 istinte
della pietá, perciò dallo scambio vivace delle loro
idee era scaturito una tacita ma ardente aspirazione
ai principii ùanitarii.
Violante sentiva il bisogno dell’approvazione
di Montaito, perfino nelle sue acconciature. Ben-
ché non solessero mai intrattenersi di simili
argomenti, ella capiva subito da uno sguardo,
per il gusto squisito delle cose che nel giovane
era innato, se il vestito che indossava, se quel
colore e quella forma corrispondessero alla sua fi-
gura e al suo carattere.
E pure in tanta dimestichezza spirituale il la-
tente amore non s’era ancor mai tradito.
In Violante un tale riserbo era naturale : an-
cora ignara delle lotte angosciose fra il cuore e la
ragione che spesso torturano la giovinezza, ella go-
deva serenamente di quel profondo ma tranquillo
affetto che crescendo con lei s era fatto ùn dolce
compagno, una cara necessitá, della vita.
Montalto invece era travagliato dal tormente
d’una dominatrice ed invincibile passione, e dalla
paura di tradirsi, come se una volta pronunziata<noinclude></noinclude>
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la divina parola dell’amore dovesse inesorabilmente
c per sempre dividerlo dalla creatura ch’egli ado-
rava. Infinita e qualche volta crudelissima soffe-
renza. Ben sentiva Violante ch’egli/il suo devoto
■e fido maestro ed amico, non muterebbe mai,
che nel volgere degli anni lo avrebbe sempre tro-
vato eguale a sè stesso. Ma un’altrettale certezza
non poteva rassicurare l’animo irrequieto di Mon-
talto, e quando la sua scolara ebbe compiuti i
vent’anni, egli non trovò più un giorno di pace.
Non era giusto che come tutte le altre fan-
ciulle ella prendesse marito? Anzi non. possedeva
ella, in confronto alle altre, meriti maggiori, più se-
ducenti attrattive? Non era giusto che anche la
marchesa che ora aveva il buon senso di non
preoccuparsene, col tempo, formasse, nel suo cuore
generoso dei voti per l’avvenire di Violante ?
D’altronde a una tempra eletta come quella della
fanciulla la vita doveva rivelare presto o tardi tutti
i suoi misteri....
Così egli pensava, e quant’erano dolorosi quei
pensieri! quale tortura! e come gli sembrava
vuota, inutile la sua esistenza, nella crescente ap-
prensione d’un fatto inevitabile!
Ogni giorno s’incrudivano i timori di Mon-
talto; ad ogni apparire di persona nuova in casa
Riace, ad ogni maggior frequenza nelle visite dei
soliti amici, quella penosa fissazióne lo martoriava,
trovando pascolo incessante alle più strane fantasie.
Durante i lunghi mesi della campagna il tor-<noinclude></noinclude>
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mento si faceva sempre più grave, perchè, dalle
lettere che gli andava scrivendo, di tratto in tratto,
la marchesa, egli risapeva tutti gli avvenimenti
della vita alpestre, le gite, le escursioni, i ritrovi,
i nomi degli ospiti, senza poter venire a cogni-
zione dei particolari atti a schiarire i suoi dubbi ;
e quando si recava egli stesso a Villa Vittoria, il
piacere di quel soggiorno gli era poi . turbato, alla
partenza, da tristissimi rimpianti e da un’incer-
tezza senza fine.
Il contegno di Violante era sempre eguale con
tutti, molto cortese e molto riservato; eppure
quante volte giá l’avevano fatta sposa! quante
volte al circolo, al liceo, nelle case dei suoi sco-
lari gli avevano chiesto se la signorina fosse
realmente fidanzata come si narrava, ed egli, pur
negando, s’era sentito tremare e impallidire sotto
l’impressione violenta di quella domanda !
& & *
Violante aveva compiuto i ventidue anni e il
pericolo cresceva. Senza essere bella, eli’aveva rag-
giunto tutta la pienezza del fiore giovanile e la
più alta ed intensa intellettualitá dello spirito tra-
luceva dal suo volto delicato e nobile, come una
fiamma viva.
Era sorto ancora una volta il triste giorno della
separazione estiva. Oppressa dall’afosa atmosfera
di luglio, la marchesa non dissimulava la sua con-
tentezza per l’imminente viaggio che doveva tra-<noinclude></noinclude>
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sferirla in più omogeneo clima. Violante era al-
quanto pensierosa. I pochi amici rimasti in cittá
avevano preso congedo; solo Montalto, riluttante
più che mai al doloroso distacco, s’era trattenuto
fino a tarda sera in casa Riace.
Stavano tutti e tre nella grande sala da mu-
sica, colle finestre aperte; le giardiniere erano
vuote e i pianoforti giá coperti con la loro tela;
un gran mazzo di papaveri finiva d’appassire in un
vaso indiano, e molti petali bianchi, violacei, scar-
latto, giacevano sul pavimento. I libri, la musica
erano stati spediti in villa, la sala aveva preso l’a-
spetto sconsolato delle ore di partenza e d’addio.
Violante, seduta al pianoforte, appoggiava la
testa alla mano, con atto meditabondo, cosa inso-
lita in una natura attiva e vivace come la sua. Ella
portava in seno un mazzolino mezzo appassito di
gelsomini la cui fragranza penetrante, ad ogni suo
movimento, veniva da lontano, soavissima, in volto
a Montalto. La marchesa che doveva finire una
lettera, s’allontanò per un momento, ed egli andò
a mettersi al suo solito posto accanto alla fan-
ciulla. Poi scopersero insieme la tastiera, vi posero
le mani e si misero involontariamente a cercare
degli accordi consonanti. Montalto aveva toccato
il tono di fa diesis minore, il prediletto di en-
trambi: Violante accennò ad una tenue melodia,
egli vi mise il basso è così improvvisarono alcun
tempo, come spesso solevano, senza parlarsi e con
mirabile unitá d’ispirazione.<noinclude></noinclude>
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— Verrete a trovarci maestro ? — domandò al-
fine la fanciulla.
— Grazie, verrò, ma che giova ? sono cinque
mesi di lontananza... è una nuova stagione che
si chiude; chi sa se essa potrá rinnovarsi, se ci
ritroveremo come ci lasciamo!
— Io lo spero, lo credo... preghiamo Iddio, —
disse Violante, pensando semplicemente alla con-
tinuazione di quella sua vita serena, irradiata dal-
l’affetto della madre e degli amici e dai diletti
dell’arte.
— Sì, preghiamo ! — mormorò Montalto, che
la fede profonda della fanciulla aveva sempre in-
tenerito.
E stettero ancora alcun tempo seduti, uno ac-
canto all’altro, senza proferire parola, senza che le
loro mani, forse desiderose di stringersi almeno
una volta, si fossero mai incontrate, tinche all’oro-
logio della torre vicina suonò la mezzanotte.
Quei suoni squillanti sembravano entrare come
lugubri rintocchi dalle finestre. Poco dopo la
marchesa ricomparve. Il maestro s’accomiato con
brevi, soffocate parole e partì con un senso di
strazio nel cuore.
% & ^
La cittá era deserta, Montalto aveva sospeso
le sue lezioni private e anche il liceo doveva
chiudersi tra poco. Benché vivesse m famiglia, gli
sembrava d’essere molto solo; cogli alunni si sen-<noinclude></noinclude>
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tiva distratto; non trovava pace in alcun luogo;
l’atmosfera estiva gli dava un’oppressione insop-
portabile, dalla musica stessa non traeva conforto;
appena gli riesciva di leggicchiare qualche giornale
o qualche libro senza ricavarne alcuna sodisfazione
dello spirito.
Le signore di Edace avevano risolto di fare una
breve cura a Viareggio prima di recarsi a Villa
Vittoria’ le loro notizie erano brevi e scarse.
Compiuti gli esami e il saggio finale al liceo,
Montalto si sentì preso da maggiore affanno, capì
che non poteva più reggere in cittá e andò a sta-
bilirsi con sua madre e sua sorella in un villino del
Cadore, che giá da qualche anno soleva prendere
a pigione. Poco tempo appresso, insensibile al be-
nefizio dell’aria alpestre, egli ammalò di neura-
stenia e ci volle lo sforzo eroico della sua volontá
per reagire contro l’irritazione nervosa che lo aveva
sopraffatto. Egli sofferse assai e la lunga conva-
lescenza gl’impedì d’accettare l’invito della mar-
chesa, che s’era sempre informata col più vivo
interesse della sua malattia e che ora lo chiamava
insistentemente a Villa Vittoria.
Montalto era afflitto di quella grave privazione
e del mutamento subentrato per necessitá nei suoi
più cari progetti, ma era meno scoraggiato, meno
abbattuto d’animo.
La contemplazione continua della natura e dei
grandi paesaggi alpini, che rinforzando la fibra
fìsica inrobustiscono anche l’anima, il continuo<noinclude></noinclude>
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esercizio della volontá sulla materia, lo avevano
reso più tranquillo, più rassegnato e più forte.
Ma, la sera istessa del suo ritorno in cittá, es-
sendo egli andato al circolo degli artisti per rive-
dere gli amici, quella quiete conquistata con tanta
fatica fu subito messa alla prova.
— E nulla mi racconti di casa Edace — gli
domandò a bruciapelo, dopo i primi saluti, uno
scultore che aveva cominciato quell’anno a frequen-
, tare il salotto della marchesa.
— Di casa Eiace? non so nulla — rispose Mon-
talto, fremendo giá da capo a piedi; — io torno
dal Cadore.
— Allora capisco. Stavolta credo non si tratti
di ciarle. La marchesina ha trovato finalmente il
proprio ideale.
Benché Violante fosse una fanciulla superiore
a qualsiasi osservazione, il suo sistema di vita un
po’ originale, la suá riservatezza, la noncuranza
che mostrava dei divertimenti e l’indifferenza versa
gli uomini strappavano) qualche volta ai suoi stessi
ammiratori certi commenti non privi d’un leggera
sarcasmo.
Montalto non rispose. Grli era piombato addossa
un gran freddo.
— Ah! dunque non sai nulla! — insistette lo
scultore. — Sicuro, dicono che sia una conoscenza
fatta ai bagni di Viareggio: il figlio d’un amba--
sciatore, se non erro...
Sará benissimo — balbetto finalmente Mon-<noinclude></noinclude>
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talto, fingendo di osservare un giornale illustrato
per coprirsene il viso.
Egli ingollò in fretta il caffè che aveva, ordi-
nato e, per sottrarsi alla loquacitá del suo inter-
locutore che si perdeva ingenuamente in fantastiche
induzioni, partì subito dal circolo. Egli aveva il
cuore in tumulto, il cervello in disordine.
Ma in quel disordine, una subita luce si fece,
una risoluzione improvvisa.
Gli rimanevano ancora quattro giorni di va-
canza... dunque egli doveva partire, partire sen-
z’altro, andare a Villa Vittoria a vedere da se, a
convincersi della realtá del fatto. Tutto, piuttosto
che quella crudele incertezza!
Guardò il suo orologio : era giá tardi, non arri-
vava più in tempo a prendere il diretto della sera.
Villa Vittoria era alquanto lontana : ci volevano sei
ere per raggiungere l’ultima stazione ferroviaria
e poi un’ora e mezzo di carrozza per salire la
montagna. Egli passò una notte agitata ed in-
sonne; il domane, resistendo alle amorose istanze
della madre, che forse da lungo tempo indovinava
lo stato del suo animo e voleva trattenerlo ad
ogni costo, si fece condurre alla stazione. Quando
si trovò in viaggio, per buona ventura affatto
solo nel suo coupé, gli parve di respirar meglio,
d’essere più tranquillo, quasi rasserenato. Saprebbe
almeno... non rimarrebbe due mesi in quell’ap-
prensione angosciosa....
Piovigginava e la giornata d’ottobre era ma-<noinclude></noinclude>
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linconica. Egli si provò di leggere la Gazzetta mu-
sicale clie aveva presa seoo, ma non gli riuscì di
trovarvi alcun interesse. S’accostò al finestrino e
guardò a lungo il paesaggio monotono e nebbioso.
Così mesta, incolore, desolata gli appariva la sua
vita, nella minaccia di perdere Violante. Egli si
faceva un acerbo rimprovero di non potersi dedi-
care per intero alla madre sua e alla sorella, a
quelle due così sicure e immutabili affezioni, e ne
sentiva un rimorso gravissimo ma inefficace. Im-
maginava sempre Violante fidanzata, poi sposa.
Certamente ella sarebbe rimasta una buona e fe-
dele amica, ma i loro rapporti per necessitá do-
vevano mutarsi; altri impegni, altre cure l’avrebbero
distolta dalla musica e perciò da lui, costringen-
dola forse a cambiar dimora, e allora la separa-
zione diventava assoluta. Insopportabile pensiero !
eppure gli era forza accoglierlo in se, abituarvi sì,
anzi convincere la propria ragione, dissimulare
quella folle battaglia che lo rendeva ridicolo.
Nel pomeriggio cessò di piovere, una zona di
luce infiammò il vasto orizzonte, il tramonto gli
parve un grande incendio.
Giunto finalmente all’ultima stazione, egli prese
una carrozza e si fece condurre alla villa. Era giá
l’ora del crepuscolo quando gli apparvero da lon-
tano, sfumati nell’ombra, certi gruppi noti di al-
beri giganteschi che adornavano il parco. Aveva
percorso con grande trepidanza quella valle alpe-
stre il cui paesaggio gli era familiare e caro; av-
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vicinandosi alla dimora di Violante, gli sembrò che
da ogni parte, dalle cime eccelse ch’era solito con-
templare con lei, dalle vie, dalle piante, dalla croce
d’un campanile che fino a quel momento aveva
brillato da lontano, gli venissero incontro ricor-
danze dilettoso che la sua angoscia rendeva ancor
più vive. Non si vedeva il lago, ma s’indovinava
in un’insenatura di rocce.
Montalto volle scendere al cancello e, conge-
dato ivi il vetturale, si fermò alcuni ’minuti a
guardare intorno a se, con un improvviso senso
di meraviglia, aspettando che si acquetasse un
poco il battito violento del suo cuore. Poi, men-
tre dolcemente annottava, egli prese con passo
lento e faticoso il viale dei platani secolari che
conduceva diritto alla villa. Un profumo di rose
autunnali veniva dal giardino colla brezza della
sera, e egli vide ancora biancheggiare fantastica-
mente. fra gli arbusti, dei grandi cespi di crisan-
temi in fiore. Entrò da una porta secondaria, la
porta di servizio, e il vecchio cameriere di casa
Riace, immaginando qual gioconda e gradita sor -
presa quella venuta improvvisa «dovesse recare
alle sue due signore, lo pregò di presentarsi senza
essere annunziato.
Il pianterreno della villa era occupato in parte
da un immenso salone che divideva dall’antica-
mera una parete a cristalli. Leggeri cortinaggi
interni velavano i vetri, ma non così la porta, che
in quel momento era socchiusa e sul cui limitare
Montalto si trattenne alcuni secondi.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— 51 —
Intorno alla marchesa Vittoria, s’aggruppavano,
quel momento, varie persone: Violante, un po’ di-
scosto dagli altri, un po’ abbandonata sulla sua
seggiola discorreva animatamente con un signore
che le stava dinanzi e ch’egli non conosceva.
Montalto entrò, sforzandosi d’essere calmo.
Violante fu la prima a vederlo. Ella balzò in
piedi esclamando: — Oh mamma, il maestro! —
e gli corse incontro festosa.
La marchesa e gli altri ospiti, a lui noti, si
alzarono e gli si strinsero intorno per dargli il
benvenuto e per informarsi della sua salute, solo
quello sconosciuto rimase in disparte aspettando
una presentazione. E subito la marchesa disse :
— Il professore G-abriele Montalto, il Conte
G-olis...
Montalto avvolse con un solo sguardo la figura
più che corretta, elegante e diplomatica, di quel-
l’estraneo ch’era un bellissimo giovane, e sfiorò
appena la mano ch’egli gli porgeva.
Violante s’affrettò di farlo sedere, lo accolse con
una certa effusione, con Una cordialitá ancor più
affettuosa del solito, e gli si mise accanto facen-
dogli molte domande sulla sua malattia, chieden-
dogli premurosamente notizie di sua madre.
Poco appresso, il , cameriere aperse la porta
della contigua sala da pranzo e gli ospiti anda-
rono a raccogliersi intorno alla tavola gioconda
di freschi fiori, di vasellami d’argento, di porcel-
lane antiche, di vetri limpidissimi. Violante stava<noinclude></noinclude>
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fra il suo maestro e il conte Golis, che parlava molto
e che non tardò a fare uno sfoggio più o meno
felice delle sue molteplici cognizioni. Quella sera,
forse allo scopo di guadagnare il maestro che sa-
peva molto affezionato alla casa Riace, egli avviò,
con destrezza, il discorso sulle arti e si perdette
in un facondo confronto fra la musica teatrale e
la musica istrumentale, volgendosi quasi sempre
a Violante.
— La musica istrumentale — concludeva egli
— è meno accessibile al pubblico e più elevata ma
mi dá l’idea d’un paesaggio solitario senza traccia
di figure umane...
— La musica è bella sempre, sotto qualunque
forma il genio si compiaccia di manifestarcela, ma
io trovo —- rispose Montalto — che qualche volta
la figura dell’uomo turba con un triste ricordo di
meschinitá e di miseria l’imponente grandezza
della natura...
— Passi per l’uomo — riprese ridendo G-olis,
cbe voleva apparire molto garbato e conveniva
per principio — ma se fosse una figura di donna?
non mi negherá che la donna abbellisce tutto...
— Oh nemmeno la donna — replicò fredda-
mente Montalto — un’unica donna, sì, lo credo,
ma non la donna in genere.
— Il suo professore è molto esclusivo, marche-
sina! — disse il conte Golis a Violante, che sor-
rise, mentre sul suo volto profilato una rosea
fiamma si diffondeva.<noinclude></noinclude>
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Il nostro buon maestro è un filosofo, ma è forse
un po’ pessimista — esclamò la marchesa con un
benevolo sguardo.
— Me n’ero accorto!
Montalto s’era fatto pallido. Mai aveva egli
espresso, su quel delicato argomento, un’opinione
cotanto recisa e se ne rammaricava acerbamente;
ma come il dottor Bruni, che si trovava fra gli
ospiti, s’affrettò a deviare il discorso, egli non aperse
più becca concentrandosi nel raccoglimento che gli
era abituale in presenza di molta gente.
Dopo il pranzo Violante fu richiesta di suonare.
Ella si rivolse a Montalto:
— Volete farmi il basso d’una sinfonia di
Brahms ?
— Mi dispensi, cara signorina, sono stanco e...
d’altronde...
— Siete un po’ cattivo, stasera, maestro mio?
— Può darsi, anzi sará, se ella lo dice. Quella
lunga malattia m’ha lasciato per ricordo una grande
irritazione nervosa. Ho bisogno d’ascoltare più che
di suonare, ascoltando diverrò buono...
Violante lo guardò con un sorriso arguto.
— Una ninna nanna desiderate?... E una cosa
nuova, ascoltatela voi solo, mentre gli altri par-
lano.
E cominciò a suonare a memoria una delle ul-
time pagine di Grieg.
— Mi piace — osservò Montalto — l’autore si
riconosce, ma è molto lamentevole...<noinclude></noinclude>
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— Non è fatta per un bambino, è fatta per
assecondare il lamento d’una creatura che soffre.
Ero triste anch’io quando la studiai, in settembre...
— E ora?
— Ora non più. Perchè lo sarei ? Eravate amma-
lato in quel tempo e io stavo in gran pena.
Il conte Golis, male informato da Bruni, si
avvicinò dicendo che veniva ad ascoltare la ber-
ceuse di Montalto. Violante voleva rettificare l’er-
rore, ma il maestro, preso da un ghiribizzo arti-
stico, la pregò, con uno sguardo, di tacere.
— Bene, bene. Come si sente l’autore italiano!
- sciamò il giovinotto. — Io, per veritá, sono
amantissimo di quei ritmi vaghi, di quelle ar-
monie delicate che distinguono gli autori nordici
moderni...
— Difatti — rispose Montalto, molto serio —
quei musicisti sono altamente poetici.
— In grazia, signorina, vorrebbe ripeterla an-
cora una volta ? — domandò Golis ; ma dopo poche
battute egli interruppe la compiacente ma un
po’ stizzita suonatrice :
— Mi compatisca, professore, non sente questo
accordo? non le sembra un po’ duro, un po’ ar-
rischiato forse? siamo in la minore, e, se non erro,
passiamo in...
— Scusi, signor conte — osservò pacatamente
Montalto, imponendo questa volta, con uno sguardo
quasi imperioso,. il silenzio a Violante che insor-
geva per difendere il torto che gli veniva fatto,<noinclude></noinclude>
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sotto il nome di Grieg, e frenando a stento l’ac-
cesso d’intolleranza artistica che lo aveva preso —
eravamo in sol minoreì ma c’è un pedale ed ella
sa meglio di me che sul pedale passano tutti gli
accordi...
Golis simulò di tacere per cortesia, si morse le
labbra e ascoltò in silenzio la fine della berceuse,
ebbe una parola amabile d’encomio per l’esecutrice,
poi si volse a parlare con altri. ,
— Come m’avete fatto soffrire, Montalto! —
osservò la fanciulla, rammaricata.
Non ne vale la pena davvero. Fu un piccolo
esperimento sulle umane prevenzioni e non il primo
che faccio, un capriccio momentaneo del quale
mi pentii subito, per lei che è così pietosa... ma
non ero più in tempo a rimediarvi, senza fare un
male maggiore...
Siete stato generoso anzi. ,.
— Oh no, Violante ! — disse il giovane che si rim-
proverava d’aver approfittato di quell’equivoco con
un po’ di malvagitá virile ; — nè generoso, nè gar-
bato. Ho fatto male a venir qui, lo sento; oh! mi
perdoni, mi perdoni ! Avevo tanto bisogno di ri-
vedere lei e la marchesa dopo questi lunghi mesi !
— E noi? quanto v’abbiamo aspettato ! Ma io
vorrei sapervi contento, sereno . . .
— Lo sono, marchesina ■— rispos’egli con una
certa fierezza. — Il lavoro mi fará bene. Quell’ozio
forzato mi umiliava. Ma non parliamo di me, par-
liamo piuttosto di lei. Che cosa legge ora ? . . -<noinclude></noinclude>
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— Rileggo Shakespeare, o per meglio dire lo
studio. Poi Grolis ha portato da Parigi qualche vo- i
lume di Maupassant, di G-yp, le novelle di Coppée .. .
— Spero che fará una scelta fra questi libri...
— Perchè? non avete detto altre volte che io
potrei leggere qualunque cosa?
— E vero, signorina, ho forse pensato che nulla
dovesse recar meraviglia alla sua indulgente bontá...
d’altronde qual diritto avrei di giudicare delle sue
letture ? Soltanto mi sembra che se il genio ha
in se il potere d’attutire l’effetto delle proprie li-
cenze, i prodotti del talento contengono spesso
delle malvagitá latenti che nessuna forza purifica-
trice, nessuna grandezza riesce ad elidere. Non
turbi la sua anima, Violante.
Egli era stato poco con lei, appena due o tre s
ore, e giá la fanciulla sentiva in sè l’impero strano
delle sue idee, dei suoi giudizi, come un’aura di
protezione invisibile che la circondasse.
{{asterism}}
Prima di ritirarsi nelle proprie stanze, la mar-
chesa, rimasta sola per caso con Montalto, gli do-
mandò :
— Che cosa vi pare del conte Grolis ?
— Non saprei, signora, l’ho veduto così poco..
— Vi è simpatico?
Il giovane esitava a rispondere. 1
— Ditelo francamente.<noinclude></noinclude>
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— Ella mi costringe ad una sinceritá poco cor-
tese, marchesa. No, non mi è simpatico.
— Perchè?
— Ohe vuole. .. non saprei... certe cose non
si possono definire. È un’ impressione personale :
sará erronea, certamente.
— Credo difatti che stavolta il vostro giudizio
non abbia la solita perspicacia. Grolis è un giovane
per bene, colto, d’ottima famiglia, occupa giá un
posto ragguardevole al Ministero e ha dinanzi a sè
un brillante avvenire...
— Lo credo, marchesa. Io fui richiesto e risposi
quanto mi pareva.
Dunque egli non vi sembrerebbe un com-
pagno adatto per Violante?
— Non posso esser buon giudice nemmeno in
questo — disse il giovane celando l’improvvisa
pallore del suo volto dietro il grande cappella
della lampada; — ora intendo . . . egli aspira alla
mano della signorina? — soggiunse con voce tre-
mante.
— Pare. Devo questa confidenza alla vostra
sicura e provata amicizia. Mi rincresce che non vi
sia simpatico, perchè fra tutti quelli che mostra-
rono una certa inclinazione pe? Violante è l’unica
che mi piaccia, capitemi bene, quanto può piacermi
l’uomo che mi vuol rapire la mia figliuola ... Tut-
tavia vi sará facile comprendere che la speranza
di vederla felice mi farebbe accettare di buon grado
qualunque sacrifizio ...<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Dunque la signorina ... — mormorò Mon-
talto.
— Non si è mai espressa chiaramente. Sapete
che Violante è alquanto originale, un po’ chiusa
forse... e poi si tratta di determinazioni così
serie Però se dovessi giudicare dalle appa-
renze ... per lievi che siano ...
— Concluderebbe... ?
— Per il sì. Del resto c’ è tempo a riflettere.
Violante è molto saggia. Ella deciderá a norma del
suo buon senso. Io la lascio libera adatto... non
voglio esercitare influenze, nè assumermi respon
sabilitá troppo gravi. Chissá che non vi faccia una
qualche confessione ?
Montalto non rispose. Egli si sentiva male e
non desiderava altro ohe la fine di quel colloquio
per potersi ritirare, per poter esser solo prima che
la sua angoscia lo tradisse.
La marchesa, preoccupata giá da altri pensieri
non s’avvide dell’alterazione che il giovane, d’al-
tronde, faceva ogni sforzo per dissimularle. Appena
gli tu possibile egli s’affrettò a lasciarla, e cammi-
nando a stento si ridusse nella propria stanza, nè
mai più grave gli sembrò la deformitá che lo inca-
tenava, che lo privava perfino dell’agognato sollievo
di andar fuori nell’aperta campagna, d’errare senza
posa per i luoghi più solitari, d’effondere nei mi-
sericordiosi silenzi della natura la sua desolazione.
Fu una notte di delirio, di pazzia.
La mattina, affacciandosi alla finestra, vide Vio-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
laute passeggiare col conte Golis, dinanzi alla
villa, nel largo piazzale soleggiato e fra le aiuole
ove, favorite dal mite autunno, fiorivano ancora,
rigogliosamente, le begonie, le olezzanti vaniglie,
le salvie di fuoco.
La fanciulla lo scorse tosto e gli fece un
cenno gentile con la mano, ma egli si ritirò ap-
pena ebbe corrisposto al saluto. Mai gelosia più
atroce e torturante aveva assalito cuore d’uomo.
Non era la gelosia crucciosa e volgare del sospetto,
era la gelosia dolorosa e desolata di colui che si
vede strappare da un estraneo, incapace di apprez-
zarne il valore, l’unico suo bene, la vita istessa ;
era la gelosia che non può accusare nessuno, che
non può trovare sfogo, che si sente irragionevole,
ingiusta, quasi malvagia e la cui violenza cresce a
misura della propria follìa.
Che cosa domandava egli a Violante ? che cosa
s’aspettava da lei? ... non era giá un bene inspe-
rabile la dolce amicizia, la confortevole fraternitá
artistica che gli veniva concessa? Aveva egli di-
ritto d’interporsi, di desiderare che Violante non
si sposasse? Non sarebbe questo il frutto del più
mostruoso egoismo? No, no, egli l’amava troppo,
l’amava al di lá di qualunque umana debolezza,
sentiva che avrebbe dato volentieri la esistenza
per saperla felice
Ma perchè quel conte Golis lo irritava tanto ?
Gli sembrava così vanitoso e superficiale ! Un altro
forse non lo avrebbe irritato a quel modo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
E Montalto cercava, cercava, ma sempre in-
darno, nella sua mente, l’uomo adatto per Violante.
E forse quella sua contrarietá quasi selvaggia non
era figlia dell’egoismo.
Profondo ed assiduo osservatore, come tutte le
anime solitarie, egli conosceva molto gli uomini e
le loro depravazioni e aveva la facoltá singolare
di giudicarli a prima vista, dai tratti della fisio-
nomia, da un atto, da una parola. E poi, nel suo
pensiero, aveva posto quella creatura così in alto,
che nessun uomo, compreso sè stesso, stimava degno
di conquistarla.
{{asterism}}
Egli discese assai tardi. Era sempre un poco
lento nella sua toilette, e Violante, che s’alzava
spesso all’alba, soleva qualche volta canzonarlo
amorevolmente per quella pigrizia.
Il cameriere gli disse che le signore erano an-
date con gli altri ospiti in un boschetto non lon-
tano dalla casa, e che speravano volesse ivi rag-
giungerle.
Montalto preferì d’aspettarle nel salone, e prese
in mano lo spartito del Siegfried, ma ne aveva
appena sfogliate alcune pagine quando comparve
la signorina di Piace.
Il volto di Violante era insolitamente turbato.
Il giovane s’accorse subito ch’ella si trovava in
preda ad una forte agitazione: senza fallo quella
mattina Golis s’era dichiarato anche con lei. Egli<noinclude></noinclude>
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si concentrò quindi in sè stesso e raccolse tutte le
proprie forze per poter apparire tranquillo.
— Buon giorno, marchesina ! — esclamò con una
forzata giovialitá.
— Buon giorno, caro maestro. Non avete voluto
venire nel bosco ?
— No, signorina, mi stanco facilmente e perciò
mi son fatto lecito di rimanermene in casa.
Violante gli sedette accanto e gli porse un fio-
rellino che aveva trovato per via, un colchicum
autumnale.
— I Tedeschi danno a questo fiore un nome
intraducibile — disse Montalto, — Herbstzeit-
lose . . .
— Ah sì, proprio intraducibile — mormorò la
fanciulla, con aria distratta, poi soggiunse:
— Io venni qui con un pretesto qualsiasi, perchè
ero sicura di trovarvi e perchè vi devo parlare .. •
Il giovane si sentì venir meno. «Ora me
lo dice» pensò «ora mi dá la morte
E come Violante esitava, per non attendere
troppo a lungo l’inevitabile ferita egli coraggiosa-
mente la prevenne :
— E il suo matrimonio che vuole annunziarmi,
signorina ?
—• Il mio matrimonio? no no, Montalto, non
siamo ancora a questo punto! Venivo piuttosto a
domandarvi un consiglio perchè poi, entro la gior-
nata, non ci troveremo più soli e ...
— Un consiglio? a me? Oh, per caritá, Vio-<noinclude></noinclude>
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lante, me ne dispensi. Ella è una creatura che non
ha bisogno di consigli. Non è sicura di ciò che
sente ? non ha interrogato il proprio cuore ?
— Il mio cuore è così strano... — mormorò
la fanciulla, chinando il volto, sul quale si diffon-
deva il pallore d’una commozione profonda.
— Ella lo sa, lo abbiamo detto tante volte — con-
tinuò Montalto a cui la visione angosciosa del pros-
simo sacrifizio dava una nobile alterezza — nelle
anime elette l’unica cosa che giustifica il matri-
monio è l’amore.
— Lo so, Montalto — rispose molto piano e con
singolare accento la fanciulla, sollevando verso di
lui lo sguardo smarrito.
— Ebbene, rifletta, rifletta molto, non decida
se non dopo avere pensato assai ... — disse il gio-
vane con calma grave. — La felicita, Violante, è
un bene che sta qualche volta nel nostro arbitrio
di cogliere o di respingere... dipende dalla pro-
fonditá dell’intuizione.
— Ma voi, voi, Montalto, che avete idee così
rette e sagge, voi che solevo chiamare la mia co-
scienza ... perchè non volete esprimervi ?
In veritá, marchesina, la sua domanda è
singolare. Ho detto anche troppo per ciò che mi
spetta, e in quanto alla mia coscienza essa si tace ...
Era in quel giorno memorando, dinanzi all’in-
calzante problema della sorte, che la veritá, forse
mai indagata, doveva illuminare l’anima di Violante
d’una gioia nuova e senza confine.<noinclude></noinclude>
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Ella certo non esitava, ma era giunta all’ora
estrema e decisiva in cui necessita la parola rive-
latrice che determina il concetto nebuloso del sen-
timento e ne afferma il possesso.
Montalto non poteva dirla quella parola, mai
non la direbbe.
Un silenzio di morte gli era piombato in cuore.
— Si calmi, di grazia/ si calmi, Violante! —
implorò egli, soltanto, quando vide che la fanciulla,
all’apparire della marchesa e degli altri ospiti,
s’andava sempre più fortemente turbando.
La colazione fu poco animata. Qualche cosa di
pesante, di oppressivo sembrava regnare sulla mensa
e sugli invitati, per quanto G-olis e il dottor Bruni
si studiassero di ravvivare il discorso.
Appena alzata da tavola, la marchesa invitò
Montalto ad ammirare i suoi nuovi crisantemi giap-
ponesi, poi, il conte essendosi ritirato per atten-
dere alla propria corrispondenza, il vecchio medico,
entusiasta di Wagner, insistette alquanto onde Vio-
lante suonasse Non senza riluttanza, la gentile
fanciulla si mise al pianoforte, esortando il suo
maestro di venirle accanto.
Sul leggìo stava ancora lo spartito del Siegfried,
e i due giovani cominciarono a passarne qualche
brano.
Montalto, esaltato dall’eroica e fiera risoluzione
di vincersi e di dissimulare, parve tutto assorto dalla
musica. Egli aggiungeva con la mano destra
qualche nota del canto, oppure lo veniva lieve-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>»
— 64 —
mente accennando con la voce, una voce debole,
ma così eguale e così intonata che nell’udirla Yio-»
lante provava sempre un vivo diletto.
Quel giorno ella ne sentì vibrare i suoni do-
lorosi e toccanti entro se stessa. Le sue mani
tremarono sulla tastiera, ma a poco a poco ella si
rincorò, e il grande dramma wagneriano finì per
affascinare col suo inebriante impero, fino all’oblio
d’ogni cosa presente, quelle due anime che l’arte
vincitrice deliziosamente allacciava.
Era il terz’atto, era la scena meravigliosa quando
Sigfrido va a ridestare sulla roccia, in mezzo a
una cerchia di fiamme, la dormente Brunilde,
condannata dal padre a quel sonno espiatorio fin-
che non l’avesse vinta un uomo ignaro della paura ;
era l’ardentissima scena in cui la superba Valchiria, *
giá invaghita dell’atteso liberatore, del sognato
eroe, esclama : «Se tu sapessi, gioia dell’universo,
come t’ho amato sempre, come sempre sei stato il
mio pensiero e il mio tormento...»
E ad un tratto tutto quanto li circondava sem-
brò sparire agli occhi dei due giovani: essi non
videro più che la vetta incandescente e incantata
ove la bellissima figlia degli dèi effondeva i suoi
vergini ardori nell’anima tumultuosa del mortale
guerriero, più non udirono che quella musica fre-
mente d’una irresistibile passione.
I loro occhi, che fino ad un certo punto s’e-
rano sfuggiti, s’incontrarono senza volerlo, quando
la trepida amante dice: «A me di Sigfrido la stella<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
in cielo appare» ed egli risponde: «Brunilde è
l’unica mia, è il tutto, l’eterno,» e in quello
sguardo un’unitá celeste rifulse.
Una quiete profonda era scesa nel cuore di
Violante, un senso strano d’appagamento e di te-
nera pace; le sembrava che anche per lei, come
per Brunilde, fosse venuta l’ora solenne che deter-
mina il destino.
Montalto, ripreso dal dubbio, rimase ancora in
preda ad una crudele e furiosa tempesta. Nè più
si parlarono in quel giorno.
Nel pomeriggio il maestro chiese ad un ca-
meriere a qual’ora il diretto passasse dalla cittá
vicina.
A questa domanda si sollevò un coro di pro-
teste diverse.
— Montalto parte? ma volete lasciarci ormai?
non è possibile! non lo permettiamo!
Fra le altre, il giovine potè discernere una voce
un po’ eccitata, ma pur dolcissima, ch’esclamava
inconsciamente, obbedendo ad un intimo impulso :
— Ma G-abriele!
Egli non aveva mai udito Violante proferire in
tal guisa il suo nome e si volse come trasognato,
anzi lo credette un sogno. Ma non si lasciò smuo-
vere dal proposito di partire, ben comprendendo
nella delicata coscienza che la sua volontá poteva
esser vinta dall’indomato amore.
Un’ora dopo la carrozza di casa Biace lo accom-
pagnò alla stazione.
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Egli viaggiò solo, nel buio della notte, col mar-
tirio di quella pena atroce, che solo confortava di
tratto in tratto, nel vaneggiamento dell’esaltata
fantasia, l’ineffabile dolcezza d’un ricordo : la voce
prediletta che lo chiamava col suo nome.
{{asterism}}
La madre di Montalto era una donna di media
etá, che le cure è i patimenti avevano precoce-
mente invecchiata. Piccoletta di statura e bianca
di capelli, vestiva sempre con semplicitá ricercata
e quasi claustrale, possedeva quella grazia parti-
colare che dá il candore dell’animo congiunto alla
nobiltá del sentimento, quella quieta soavitá di
modi che deriva dall’abitudine del rassegnato sof-
frire: era il tipo delle gentildonne d’un tempo che
l’avversa fortuna condanna alla reclusione e all’o-
blio. Adorata da suo figlio, lo adorava, vegliando
come una fata benigna sulla piccola casa geniale
oh’egli s’era procurata, col frutto del suo lavoro.
Ricordi d’arte, ritratti di musicisti colla firma au-
tografa, schizzi di pittori celebri formavano il più
bell’ornamento di quell’appartamentino modesto
ma spirante un’aura di onesta serenitá. V’era an-
che qualche memoria di Violante, certe trine, certi
ricami di stile antico, eseguiti con mano maestra
e con gusto perfetto, poiché ella ci veniva tal-
volta, con la madre, in quella casa, attratta dal-
l’angelica bontá della signora Montalto, chiamata<noinclude></noinclude>
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forse da una simpatia misteriosa verso colei che
aveva dato la vita a Gabriele.
Quando il maestro vi tornò, inaspettato, all’alba,
la vigile signora era giá alzata e stava innaffiando,
con amorosa cura, alcuni suoi vasi di fiori sul da-
vanzale della finestra, nella stanzetta da pranzo.
Ella fece un’esclamazione dì gioia nel rivederlo,
ma subito s’accorse ch’era pallido in volto e, in-
terrogandolo ansiosamente cogli occhi, lo trasse
seco , in un angolo, sopra un sofá. Il giovane non
rispose, ma le si abbandonò fra le braccia con un
singhiozzo così disperato, che senza più parlare
ella comprese il segreto.
{{asterism}}
Furono quelli due lunghi, penosi mesi d’aspetta-
zione. Alcune lettere della marchesa vennero ad in-
terromperne l’insopportabile monotonia. Ogni volta
Montalto ne lacerava la busta con mano febbrile,
tremando di trovarvi l’annunzio «Violante è .fi-
danzata». Non era sì forte in lui la tema che la
fanciulla potesse spontaneamente corrispondere
alla simpatia di Golis, quanto il sospetto che, da
sviscerata figlia quale s’era dimostrata sempre, ella
finisse per sacrificarsi al tacito desiderio della
marchesa. Ma da quelle lettere nulla di speciale mai
trapelava, e domandare egli non avrebbe osato;
anzi, per paura di dover udire una di quelle
notizie vaghe che formano il pascolo dei curiosi e<noinclude></noinclude>
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degli indifferenti, s’era messo perfino ad evitare i
ritrovi e gli amici.
Nelle due ultime settimane di novembre non
seppe più nulla, ma informatosi al palazzo Riace,
intese dal portiere che le signore erano presso a
tornare, e un bel giorno, una cartolina della mar-
chesa lo avvertì che la sera sarebbero giunte e che
lo aspetterebbero.
Non fu mai con tale e sì angosciosa incertezza
che Montalto varcò la cara soglia di quella casa
ove aveva trascorso le più belle ore della sua vita.
Sulle scale dovette soffermarsi a lungo, per ripren-
dere fiato e coraggio. Introdotto nel salottino fa-
miliare ove, in mezzo al geniale disordine dell’ar-
rivo, le signore Edace ricevevano giá alcuni in-
timi amici, Montalto v’ebbe la solita accoglienza
gentile e piena d’amorevolezza, ma nulla egli potè
leggere in volto alla marchesa, nè nello sguardo
concentrato di Violante. Non osò nemmeno trat-
tenersi più a lungo degli altri ; ma; mentre s’acco-
miatava, la fanciulla gli disse:
— Spero che m’avrete serbata la mia ora, mae-
stro. Sono una vecchia scolara, ho ventitré anni,
ma non rinunzio alle mie lezioni...
Montalto s’inchinò sorridendo, alquanto rin-
corato.
Ma quella dell’indomani non fu una lezione, fu
un colloquio, come sempre avveniva al ritorno
dalla campagna.
Appoggiato al pianoforte, Montalto di solito si<noinclude></noinclude>
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dilettava ai vivaci racconti della fanciulla intorno
alla vita campestre, intorno ai suoi studi sulla na-
tura, alle sue osservazioni e ai suoi esperimenti
nel campo pietoso della caritá, a tutte quelle in-
time gioie di cui egli solo forse godeva la fraterna
confidenza. A poco a poco il discorso volgeva sulle
cose d arte, e allora il dialogo si faceva sèmpre
più animato, perchè ciascheduno vi portava la sua
parte d’idee nuove e degne di completare la somma
dei comuni criteri artistici.
Montalto, pero, non era raggiante come di con-
sueto a quel ritorno. Una nube fosca gli ottene-
brava la fronte e, come volesse discacciarla, egli
vi passava di tratto in tratto una mano, sollevando
i folti capelli nella cui nerezza, per la prima volta,
due o tre fili bianchi erano venuti a luccicare.
Finalmente, sentendosi incapace di sopportare più
a lungo quell’angoscia, egli domandò, con voce
lenta e un po’ alterata:
— E di lei, marchesina, di lei non mi dice
niente?...
— Ohe cosa dovrei dirvi?
0 era forse un senso d’innocente astuzia fem-
minile nella reticenza di Violante, ma, all’improv-
viso, volgendo gli occhi verso di lui, ella scorse
quei capelli bianchi, e un’immensa, una infinita
tenerezza le rifluì nel cuore.
- No, Montalto — disse con improvvisa se-
rietá non ho nulla di particolare a comunicarvi.
Non ha accettato? — balbettò il giovane,
facendosi smorto in volto.<noinclude></noinclude>
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No, non avrei potuto accettare.
— Oh Dio! — esclamò egli,inconsapevolmente,
sentendosi soffocare dalla gioia.
— Siete contento, Gabriele?
— Io contento ? — mormorò il giovane ripren-
dendo tosto possesso di se ; — è la sua felicita che
deve farmi contento, essa e il mio più ardente
desiderio.
— Lo credo, amico mio — disse Violante, vol-
gendogli uno sguardo velato di lagrime, vi co-
nosco così bene!
— Dunque è tutto finito?
— Tutto finito.
— Per ora ella rimane fra noi?...
— Per sempre, Gabriele.
E, quasi senz’accorgersi, ella gli pose una mano
sulla fronte, sui capelli: una sicura, innocente ca-
rezza, ma così grave, che diceva tutta l’intensitá
di quel pietoso amore.
Egli prese la piccola mano e se la posò sul petto
onde sentisse il battito violento che sembrava
squarciarlo; ma poi angustiato dal dubbio che un
solo detto inopportuno potesse scemare o rapirgli
una sì divina e sì insperata dolcezza, e separarlo
dalla fanciulla, egli represse eroicamente la piena
dell’affetto presso ad erompere in infiammate pa-
role, e mettendosi un dito alla bocca, implorò:
— Violante, Violante, ve ne supplico, suonate...
è necessario per la mia quiete, per la mia co-
scienza!<noinclude></noinclude>
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La fanciulla, commossa, ma altamente tran-
quilla, pose le mani sulla tastièra.
— Vi farò sentire una cosuccia che v’ho dedi-
cata, disse col più tenero sorriso.
E nel silenzio della grande sala, in mezzo ai
fiori rari portati dalle serre di Villa Vittoria, il
suono d’una patetica melodia si diffuse.
Cantava più che mai sotto le dita dell’appas-
sionata suonatrice il pianoforte, e Montalto rapito
ascoltava. Quando l’ultimo accordo si fu smorzato
egli la pregò di tornare da capo e due volte insi-
stette con tenerezza infinita:
— Ancora, ancora, ancora
Finalmente egli disse sempre più piano: — Non
è vero, Violante, è una canzone senza parole?...
— Come volete, Gabriele! — ella rispose — la
chiameremo una canzone senza parole.<noinclude></noinclude>
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Natalia andava sa e giù in panta di piedi nel-
l’elegante salotto, spolverando con cura 1 quadri,
i mobili, i gingilli e canticchiando, con voce som-
messa, uno stornello.
A.veva vent’anni; era alta, bruna e bella I suoi
grandi occhi castani, risplendenti d’una gentile,
sincera bontá, parevano sempre un po’ commossi ;
la sua bocca larga ma ben disegnata s’apriva, mi-
rabilmente, nel dolce sorriso, sopra due file di den-
tini candidi e perfetti.
Ella stringeva i capelli neri e ondulati in due
grosse trecce, non potendo in altro modo soste-
nerli, tant’erano folti, e portava con semplicitá ma
con una certa grazia innata il suo vestitino di lana
nera orlato al collo e ai polsi da filetti bianchi.
Quando suo padre, l’onesto ragioniere dei conti
di Pallano, era morto di malattia infettiva, quasi con-
temporaneamente alla moglie, lasciandola sola, ap-
pena adolescente e priva di mezzi, la contessa si
era dato premura di collocarla m un istituto, col-
l’intenzione di assumerla più tardi al suo servizio.<noinclude></noinclude>
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Se le precoci sventure avevano educato, più di
ogni altra dottrina, il cuore leale della giovinetta, *
la vita tranquilla, regolare e serena del collegio
era stata favorevole al suo fìsico sviluppo, e l’in-
segnamento della scuola era riescito efficace al suo
aperto intelletto, alle sue piccole mani per natura
abilissime.
Una profonda riconoscenza verso la famiglia
Pallano, un desiderio ardente di corrispondere, con
tutte le sue forze, al beneficio ricevuto avevano
reso meno spiacevole a Natalia il suo passaggio
dal convitto al palazzo signorile, dal posto di allieva
distinta a quello di cameriera protetta dalla padrona. , -
La contessa di Pallano viveva molto sola.
Suo marito, deputato influente e assorto dalla
politica, passava parte dell’anno a Roma ove certe
ostinate sofferenze nervose le impedivano di se-
guirlo e i suoi due figliuoli stavano spesso assenti
da casa. Marcello, il maggiore, addetto alla lega-
zione italiana a Pechino, mancava da due armi • il
più giovine, Lodovico era tornato in quei giorni da
un lungo viaggio in Inghilterra al quale lo studio
aveva servito di pretesto e lo sport di scopo prin-
cipale.
Il personale di servizio era sempre molto nu-
meroso, ma Natalia o Natali, come spesso solevano
chiamarla, passava la giornata fra l’appartamento
della padrona e la sua cameretta, vedeva poco i
compagni e per uno speciale favore mangiava a
parte.<noinclude></noinclude>
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Nessuna nube aveva mai offuscato la nativa
serenitá della sua mente, soltanto ella sentiva nel
l’anima un innocente bisogno d’amare che la
vita solitaria fomentava e al quale il temperamento
piuttosto freddo della contessa non offriva che uno
scarso sfogo.
Donna Clara, certamente, non poteva dirsi cat-
tiva, ma il suo ingegno era più accorto che eletto,
il suo spirito, un tempo assai frivolo, mancava di
distinzione e il suo cuore, chiuso agli altri affetti,
si concentrava in un amore materno commisto
d’orgoglio e di cecitá.
Al ritorno del conte Lodovico, Natalia si sentì,
all’improvviso, turbata dalle più strane emozioni.
Il giovane nel vederla s’era mostrato assai cor-
tese, le aveva fatto un complimento sulla sua av-
venente giovinezza e, ora, si tratteneva qualche
volta con lei a parlare di cose diverse e indiffe-
renti ma con un accento pieno di simpatia.
Quel giorno, Natalia s’era accorta che il suo
pensiero ricorreva con insistenza verso di lui e
pur facendosene un casto rimprovero, non riesci va
a distrarlo da quel punto fisso e quasi involon-
tariamente passava e ripassava dinanzi una men-
soletta sulla quale Donna Clara aveva posto la
fotografìa del conte in costume da alpinista.
Era una faccia un po’ insipida, un po’ spavalda,
ma non priva d’una fisica bellezza: la fanciulla
non sapeva saziarsi dal contemplarla.
Ella ne stava ripulendo l’ultima volta, con lo<noinclude></noinclude>
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spazzolino, la cornice d’argento ossidato quando
Lodovico Pallano comparve sulla soglia e le chiese :
— Hai veduto il mio libro, Natali?
— Quello che stava leggendo stamane? Folles
cwiouvs? eccolo ! —■ disse la fanciulla porgendogli
un volume d’Ollendorf colla copertina gialla.
Bravissima! conosci dunque il francese? sai
ciò che vuol dire : Folles amours t del resto, la pa-
rola amore si capirebbe in qualunque lingua, non
è vero, Natali ? — soggiunse il giovinotto, avvi-
cinandosi a lei e tentando di cingerle con un braccio
la svelta persona.
Ella si schivò con uno sguardo così pieno di
sommessi ma intensi rimproveri che Lodovico
dovette cedere e non senza un lieve imbarazzo.
— Non ti credevo così severa — mormorò egli
mi piaci... Natalia, ti sei fatta una gran bella
figliuola! dimmi, ce l’hai l’innamorato?
— Oh signor conte!
— Qual meraviglia! Non l’hai? davvero?
— Davvero.
— A me dunque un po’ di bene, lo vorrai
Sono affezionata a tutta la famiglia
— Dico a me a me particolarmente ....
Non so — balbettò la fanciulla molto agitata.
— Non sai?... ti vorrò bene io per darti il buon
esempio.... sei d’accordo, Natalia?....
Un cameriere entrando, interruppe lo scabroso
colloquio.
La fanciulla riprese le sue occupazioni. Il cuore<noinclude></noinclude>
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le martellava in petto. Ella capiva che mai avrebbe
dovuto dare ascolto ai vani discorsi del giovine
signore, ella si studiava con tutte le sue forze di
rivolgere altrove la mente, ma, nella piccola lottar
l’istinto prevaleva alla ragione e il suo pensiero,
sempre più rapito da un’arcana dolcezza, tornava
costante alla stessa immagine, agli stessi trepidi
ricordi
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La contessa aveva mandato due persone di ser-
vizio in campagna ad allestire la casa per un breve
soggiorno di primavera. Il piccolo cottage di Villa
Clara dominava, da una lieve altura, una ricca di-
stesa di vigneti che si perdevano nel piano, sulle
rive d’un placido fiume. Le prossime adiacenze
erano Coltivate ad uso di giardino inglese; a ter-
reno della casa s’aprivano delle grandi porte a cri-
stalli sopra un bellissimo prato tutto contornato
con arabeschi di gerani rosa e bianchi.
Da quattro giorni Natalia e un vecchio servi-
tore s’affaccendavano al lavoro e la sera, finito il
compito che s’era proposto, la giovane andava
sulla terrazza, in fondo al prato, e seduta su un
muricciuolo aspirava con diletto la fragranza dei
fiori primaverili e guardava lontano lontano verso
la cittá che di notte si discerneva chiaramente, nel
largo piano, come un’oasi di luce. In quei momenti
di tranquilla solitudine ella dimenticava le cure e
le fatiche della giornata e si compiaceva d’ascoltare<noinclude></noinclude>
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-colla sua piccola anima i fantastici sogni della
giovinezza.
Un pomeriggio, ella si trovava nel salotto della
sua padrona, tutta intenta a rinnovare le gale di
un cuscino di seta, quando due mani profumate
le si posarono, all’improvviso, sugli ocelli e una
bocca ardente le mise un bacio sul collo. Ella cacciò
un grido, si volse sdegnata e si trovò in faccia a
Lodovico Pallano. Dinanzi al bel volto allegro del
giovinotto, il suo corruccio si fece più mite, non-
dimeno, reprimendo l’invincibile tenerezza che l’era
rifluita in cuore, ella disse con gravitá :
— Mi sono molto spaventata. Questi modi non
mi convengono.
— Dunque ti rincresce di vedermi, Natalia?....
— Non dico questo, ma....
— Andiamo, sii cortese e non ti confondere con
simili sciocchezze. Pensa piuttosto che ho una fame
-da morire
— Ci penso subito — rispose Natalia, rassere-
nandosi — ma deve contentarsi d’un desinaretto
«Ila buona
E scansando una nuova carezza, s’avviò, di corsa,
«Ila casa del fattore in cerca d’aiuto e di consiglio.
Lodovico fece molto onore alle vivande squi-
site nella loro sobrietá: un piatto fumante di mal-
tagliati e una pollastra al pomodoro; volle che
Natalia lo servisse invece del domestico e divise
oon lei le fragole moscatelle dell’orto, mettendo-
gliele in bocca ad una ad una.<noinclude></noinclude>
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La ragazza si schermiva, ridendo, e quando il
giovane signore ordinò che gli portassero il caffè
in giardino, sotto un pergolato, ella riuscì a sfug-
girgli, per andare al solito posto sul muricciuolo
della terrazza. Ma Lodovico non tardò a scoprirla e
a raggiungerla; le sedette daccanto e si mise a farle
le più bizzarre, le più insinuanti e scherzose do-
mande, godendo della grazia ingenua, ma piena
di buon senso, con cui si difendeva. Poi cominciò
a strappare dei gelsomini da una siepe vicina e a
gettarglieli a manate. Era una pioggerella fra-
grante di piccole corolle bianche che le si posa-
vano sulle braccia, sul collo, tra le falde della ca-
micetta azzurra.
Ella continuava a ridere innocentemente e il
giovine signore si divertiva a ornar] e i capelli
neri di tenui fiori, a comporle delle ghirlandette
sulle morbide trecce.
— E dunque non ho ancor saputo quali sono
gli ordini della signora disse Natalia, per distrarlo.
— Mia madre mi crede a Castel Cassino, dai
Ricciardi
— Non sa ch’è venuto quassù? perchè non glielo
ha detto?
— Ho preferito tacere. Sono venuto per te Na-
tali, per farti una sorpresa.
— Oh giusto, per me!...
— Per te, unicamente per te.
— Sono una povera figliuola... — ella mormorò,
non sapendo dir altro nella sua improvvisa gioia.
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— Una bella figliuola sei e devi essere anche
buona, devi volermi bene... io te ne voglio tanto... ,
giá lo sai, te l’ho detto ancora...
Natalia chinò la testa, senza rispondere. Una
grande dolcezza le inondava il cuore.
Sulla campagna, sul largo piano, calava lento
il crepuscolo di maggio, la cittá lontana s’illumi-
nava rapidamente d’una luce che pareva rossastra
dinanzi agli ultimi pallidi chiarori del cielo.
Il giovane prese il bráccio di Natalia.
— Yieni, passeggiamo un poco, andiamo lag-
giù nel boschetto, qui si soffoca dal caldo — egli
mormorò.
La ragazza si scostò con risolutezza.
— No, laggiù non vengo — diss’ella.
— Sei scompiacente e indocile, Natalia.
— Si fa notte e non si conviene.
— Hai proprio la coscienza così sottile?
i— La mia coscienza è l’unica mia ricchezza.
— Oh! che frase da vecchia commedia...! Sei
ingrata verso di me, Natalia. Gruarda, t’avevo por-
tato un regalino...
E trasse di tasca un astuccio con un anello di
piccole perle.
— Ti piace? lo vedi? — continuò, tentando di
metterglielo nel dito.
-r- Sì, mi piace, è molto carino... — disse la
fanciulla, alzandosi di scatto, e scuotendo involonta-
riamente dalla snella persona i gelsomini —è molto. - 1
carino, ma non lo accetterò mai, conte Lodovico.<noinclude></noinclude>
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Perché ? non capisco
— Ella lo sa il perchè.
E gli occhi buoni di Natalia lampeggiarono
d’una fierezza viva.
— Eia un ricordo.
— Grazie, come se l’avessi accettato.
— E nulla mi concederai tu, nemmeno una
piccola carezza, mai?...
Ella scosse la testa, senza rispondere; le ghir-
landette di gelsomino si disfecero tra i capelli on-
dulati.
Nemmeno... nemmeno un po’ d’affetto, Na-
talia ?
La voce del giovine signore era così dolce che
gli occhi della ragazza s’empirono di lagrime.
— E meglio che non me lo domandi, conte
Lodovico —t ella disse con un accento di tene-
rezza infinita. — Desidera che Valentino selli il
suo cavallo ? Si fa tardi.
— Vuoi anche mandarmi via, adesso ? e se mi
piacesse di restare?
—, Il padrone è lei — però...
Il giovine sorrise.
— Hai paura Natalia? chiese egli.
— Di che cosa dovrei aver paura? — rispose la
fanciulla con grande alterezza -— ella non ignora
che il mondo è cattivo e che la gente onesta è co-
stretta a difendersi anche quando non occorrerebbe.
T’hanno calunniata forse ? t’hanno fatto
qualche torto ?<noinclude></noinclude>
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■— Può darsi — rispose Natalia con un bri-
vido.
Lodovico sapeva benissimo che i domestici di
casa, vedevano di mal occhio la sua predilezione
per lei.
— Partirò, non ti crucciare ! — di ss’egli final-
mente, — ma devi convenire che sono buono,
molto buono...
— Abbiamo l’obbligo d’essere buoni. Iddio ci
vede — ella concluse, con semplicitá.
E ritornarono insieme verso la villa. Scendeva
la notte sul campestre silenzio e lo sfavillìo delle
stelle sembrava un palpito nell’immensitá del fir-
mamento.
Tacevano, turbati entrambi da una di quelle
forti commozioni giovanili che nelle brevi ore
dell’oblio sembrano cancellare, dinanzi all’eterna
legge, ogni differenza di casta.
Alcuni minuti più tardi, Natalia seguiva, con
una trepidazione deliziosa, il trotto del sauro vi-
vace fuggente nel bujo della lontananza e l’animo
di Lodovico Pallano era contrastato, nella caval-
cata notturna, fra l’ira sorda della fallita vittoria
e un sentimento diverso e meno ignobile ch’egli
non sapeva ancora definire a se stesso.
#
Fu un capriccio, un capriccio violento che gli
occhi sagaci di donna Clara videro senz’appren-
sione, che i domestici biasimarono, per bassezza o<noinclude></noinclude>
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per invidia, pur fìngendo, il più delle volte, di
non accorgersene.
I primi giorni la corte insistente e un po’ au-
dace del giovine signore aveva recato aspra offesa
a Natalia, ma la sua anima era giá così profon-
damente innamorata ch’ella non cessava di com-
patire e di perdonare, ad onta di quell’amarezza.
Poi, il capriccio sensuale di Lodovico, dinanzi
all’inalterabile severitá del suo contegno, sera
elevato, a grado a grado e in virtù della contra-
dizione, alla nobiltá dell’affetto.
Quel vincolo singolare non impediva certa-
mente al giovine di godere la vita che gli si of-
friva spensierata e gioconda, ma pur frenava, senza
ch’egli se ne avvedesse, il soverchio ribollimento
dell’etá, temprando anche quel po’ di diffidenza
verso la donna ch’è comune a vent’anni, con la
convinzione, parte incresciosa parte piacevole, che
Natalia fosse proprio onesta.
Il rispetto che Lodovico aveva finito per pro-
fessarle era come una conquista, un possesso, un
bene infinito nell’umile esistenza della fanciulla.
Egli le dimostrava una fiducia illimitata e se le
sue confidenze s’arrestavano dinanzi al delicato
capitolo delle distrazioni amorose non mancava di
farle parte d’ogni altro suo intimo pensiero, con
l’abbandono d’un amico.
Il contatto con un giovine che, ad onta della
sua leggerezza, poteva vantare una certa distin-
zione di forme e di coltura aveva raffinato i modi<noinclude></noinclude>
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di Natalia, svegliando la sua facile intelligenza,
ravvivando la sua bellezza d’un nuovo fascino.
Ella visse alcun tempo in una intensa felicitá
dello spirito, in quel singolare oblìo delle cose
che inganna l’amore nelle sue prime, trepide ri-
velazioni. Ma inquietudini gravi e segrete angosce
non tardarono a offuscare quella serena contentezza.
Le precoci esperienze della sua posizione le
avevano insegnato a soffrire e quell’affetto, dop-
piamente virtuoso, divenne, in breve, come la
maggior parte dei profondi, immutabili amori un
sentimento commisto di devota tenerezza, di cieca
ammirazione e di sacrifizio.
Nella sua muta adorazione ella sapeva essere
generosa ed eroica, chè per quante pene le deri-
vassero da Lodovico, mai ella avrebbe osato do-
lersene. Vedeva spesso il padroncino corteggiare
le signore, far pompa della sua elegante avve-
nenza e di quei piccoli talenti di societá che nel
mondo tanto s’apprezzano e doveva contentarsi il
più delle volte, d’un’occhiata furtiva, mentr’egli
prodigava tanti sguardi lusinghieri alle donne
della sua casta, d’una stretta di mano scambiata
in un corridoio, delle briciole che cadevano dalla
mensa di quel gaudente senza riflessione.
Di quando in quando veniva un raggio di
luce, veniva l’ora delle effusioni confortatrici, dei
confidenti colloqui nel giardino della villa o nel-
l’appartamento di donna Clara quando la delicata
signora, spesso indisposta, sonnecchiava.<noinclude></noinclude>
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Ma la coscienza sottile di Natalia era turbata
anche per quei ritrovi da un grave cruccio : il
silenzio assoluto che Lodovico l’aveva costretta a
serbare yerso sua madre.
Qualche volta ella si faceva perfino uno scru-
polo d’ascoltare le ardenti parole del giovine, ma
la sua volontá s’indeboliva dinanzi a quella deli-
ziosa tentazione.
Erano parole così dolci per la sua anima
solitaria !... e ella ben sapeva che ad altri compensi
non le sarebbe mai stato, lecito d’aspirare. Che
cosa poteva aspettarsi dall’avvenire? nulla. Nel
suo cuòre non erano vane illusioni nè sciocche
speranze : eli’amava per la compiacenza d’amare,
forse per quella strana voluttá di patimento che
certe nobili creature celano nel loro profondo
segreto.
{{asterism}}
Donna Clara soleva svernare spesso in Sicilia
o sulla Riviera ligure, conducendo seco un vecchio
servitore e Natalia. Quell’anno la scelta cadde su
un villino dei dintorni di Pegli e Lodovico vi rag-
giunse sua madre ai primi di gennaio. La vici-
nanza di Genova gli procurava frequenti e sva-
riate distrazioni, le strade littorali gli offrivano
un vasto campo per esercitare i suoi cavalli e la
presenza di Natalia non era certamente l’ultima
attrattiva di quell’ameno soggiorno. ^
Egli si trovava da un paio di settimane in<noinclude></noinclude>
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Riviera quando cominciò a frullargli per il capo
il desiderio di fare una qualche scappata segreta
colla fanciulla, e un bel mattino le propose, sen-
z’altro, di recarsi con lui, la notte seguente, al
veglione del teatro Carlo Felice.
Alla prima, Natalia si mise a ridere come se il
giovine le parlasse d’una cosa impossibile, impen-
sabile ; ma le istanze di Lodovico furono così affet-
tuose, ch’ella ne rimase fortemente turbata. Credendo
tuttavia nel suo delicato ritegno, nella sua persi-
stente saggezza, di mettersi sotto l’usbergo d’un
sicuro ostacolo, ella dichiarò che non avrebbe mai
accettato senza il consenso della sua padrona.
Ma la contessa, guidata dal suo spirito d’op-
portunismo, dalla sua superficialitá bonaria, sicura
dell’onoratezza di Natalia, si lasciò debolmente
strappare il consenso dal figliuolo, per la tema
ch’egli potesse scegliere di peggio.
E così avvenne che Natalia, incoraggiata da
quella colpevole indulgenza, trascinata dalla ten-
tazione irresistibile ormai, accogliesse con trasporto
il lusinghiero e seducente invito.
Quale incanto la trottata notturna sulle rive
del mare, la misteriosa intimitá della carrozza
nelle vie della cittá rigurgitanti di allegre ma-
schere e splendenti di luce! qual gioia intensa il
passeggiare con Lodovico Pallano tra i fulgori della
festa, tutta ravvolta in un domino di raso bianco,
col cappuccio adorno da una ciocca di vividi
garofani! com’era piacevole quel loro incognito<noinclude></noinclude>
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nella folla spensierata! Quanti dolci colloqui
nel palco, quale impeto di confidente effusione!...
Non era più lei, Natalia, l’umile fanciulla, era la
dama eletta fra tante dal suo cavaliere. E quella
sera il bel cavaliere le era stato scrupolosamente
fedele, non s’era occupato che della sua dama.
Aveva ascoltato con indifferenza il chiacchierio
delle mascherette che gli si stringevano dintorno,
l’aveva condotta a cena, in un elegante restaurant
circondandola d’attenzioni gentili, senza venir meno
all’affettuoso rispetto ch’ella era riescita ad im-
porgli
Quando rientrarono nella villa, la mattina allo
cinque, con una violenta ebbrezza di suoni e di
luce e un po’ di vapore di sciampagna nel cer-
vello, Lodovico accompagnò Natalia fin sulla so-
glia della cameretta ch’ella occupava, dirimpetto
all’appartamento di donna Clara.
11 cappuccio bianco era caduto sulle spallo
della ragazza, i garofani rossi, quasi appassiti ma.
esalanti ancora un’acuta fragranza, s’erano impi-
gliati fra le treccie mezzo disfatte ; un’espressione
di gioia appassionata faceva ardere i suoi grandi
occhi neri, nel delizioso languore d’un ricordo che
nessun pensiero triste contaminava.
Appoggiato al muro, di faccia a lei, nello stretto-
corridoio, con le braccia conserte, il giovine signoro
la guardava intensamente. Non si muovevano per
non far rumore, parlavano sommesso, e quello
stesso bisbiglio, quell’apparente mistero si face-
vano complici dell’ora pericolosa.<noinclude></noinclude>
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— 90 J .
Ad un tratto Lodovico le disse:
— Non sei stata mai così bella, Natalia, ma sei
crudele — e prendendola per le mani e fissan-
dola nelle pupille con tutto il fuoco dei suoi ven-
t’anni tentò d’attrarla a sè.
Vinta da una molle stanchezza, sempre più af-
fascinata da quell’amore che la cercava con ine-
sauribile insistenza, la fanciulla era presso a ce-
dere: quasi inconscia della realtá ella dimenticava
all’improvviso, lì sulla soglia della sua verginale
cameretta, il suo passato innocente e l’onore custo- .
dito con sì gelosa cura. Ma mentre la sua testina
bruna, dai capelli scomposti, s’abbandonava sul
petto anelante del giovane per accoglierne alfine
la desiderata carezza, una campana argentina
suonò da lontano.
Era l’Angelus, il pio saluto alla Vergine.
Natalia stette un secondo in ascolto e sbarrando
gli occhi, con un fremito di spavento, tentò svin-
colarsi.
Un lampo d’ira balenò nello sguardo torbido
del giovine, che divenne ad un tratto imperioso,
quasi brutale nel suo accecamento, ma sul volto
atterrito di Natalia apparve allora un’angoscia così
supplichevole, così disperata ch’egli allentò suo
malgrado le braccia e la disciolse.
La fanciulla rientrò, vacillando, nella sua stanza.
Dalle persiane aperte penetrava la blanda luce
dell’alba, un’alba fredda e grigia d’inverno.. Ella 4
si strappò con le mani tremanti il domino bianco,<noinclude></noinclude>
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si riannodò le trecce disfatte e cadde in ginocchio
accanto al suo tettùccio, con un singhiozzo soffocato-
Tutto quanto pochi minuti prima l’aveva esal-
tata e illusa d’una folle ebbrezza adesso si mutava
in dolore. I ritmi voluttuosi della musica da ballo
le risuonavano ancora all’orecchio con una penosa
insistenza; ella sentiva le voci bizzarre delle ma-
schere, le loro risa sguaiate, il frastono dell’orgia
che incalza prima di volgere alla fine; ella rive-
deva l’eleganza licenziosa e spesso abbietta del
mondo femminile; le pareva di respirare quel-
l’aria carica di profumi malsani, di polvere e di
miasmi in cui aveva passato la notte accanto a
tante donne volgari, presso a perdersi ella stessa-
La diletta presenza di Lodovico aveva coperto
d’un fitto velo, al suo sguardo, la sinistra visione
che doveva apparirle cosi chiara nel brusco risve-
glio del suo sogno.
Natalia sentiva ora più che mai l’infinita tri-
stezza di quell’amore che non potendo tendere al
giusto suo fine, l’unione. legittima, minacciava
sempre di profanarsi con la colpa ma non era in
grado di spiegare la condiscendenza della sua
padrona che l’aveva esposta senza riguardo al
pericolo, non riesciva nemmeno a comprendere per
quale strana aberrazione ella stessa lo avesse con
insolita leggerezza affrontato; le pareva d’essere
sola al mondo, abbandonata, senz’appoggio, senza
conforto<noinclude></noinclude>
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Lodovico s’alzò molto tardi, la salutò fredda-
mente, ripartì subito per G-enova e si dette alcuni
giorni alla pazza gioia del carnevale, senza met-
terla a parte di nulla, affettando di non curarla,
mostrandole quasi un certo disprezzo. Ma fu uno
sdegno di breve durata. L’abbattimento di Natalia
e la cupa mestizia che le traspariva dal volto non
tardarono a commuoverlo, infiammando l’amore
insodisfatto, suscitandogli nella coscienza un certo
rimorso. Anzi, la sua passione si fece per alcun
tempo così violenta che non trovando altro mezzo
per appagarla, egli lasciò correre follemente qual-
che parola di matrimonio.
Stupefatta, alla prima, da una rivelazione così
imprevista e contrastata nell’animo da sentimenti
affatto opposti, la fanciulla s’avvezzò nondimeno
assai presto alla nuova idea e, dopo un breve pe-
riodo d’esaltamento, cominciò a subirne le torture.
Il pensiero d’essere legata per sempre a colui che
adorava, fors’anche di dividerne la condizione si-
gnorile e indipendente, non poteva a meno d’at-
trarla, ma il suo fine intuito di donna le raffigu-
rava con chiarezza tutti gli scogli che s’incontrano
nel pericoloso mare delle disuguaglianze sociali.
Oltre a ciò, non sapendo ella immaginare che la
contessa si fosse accorta di quell’amore e lo tolle-
rasse per opportunismo, non era in grado di affron-
tarne lo sguardo senza provare un senso di pena<noinclude></noinclude>
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e di rimorso come fosse una traditrice, mentre
stava piuttosto per diventare la tradita.
In primavera, quando Donna Clara lasciò la vil-
letta di Pegli, per ritornare col figliuolo alla sua
casa e alle consuete abitudini, l’amore di Natalia
s’accrebbe di nuovi tormenti.
Le persone di servizio, specie dopo la scappata
del veglione che il cocchiere s’era affrettato di
raccontare, non credendo realmente più alla sua
onestá, coglievano qualunque pretesto per ferirla
con allusioni maligne e con sospetti ingiuriosi. I
più ingiusti, i più crudeli erano il cuoco e la guar-
daroba che giá da due anni conducevano una vita
irregolare.
Natalia sopportava e soffriva in silenzio quella
grande angoscia ma la sua salute cominciava a
risentirsene e élla riesciva a mala pena a sbrigare
i suoi impegni con la solita scrupolosita.
Verso l’estate la contessa, come spesso soleva,
propose al figliuolo delle cospicue nozze. Lodovico
non solo si mostrò indifferente ma fu anche reciso
nel rifiuto, poi, mal reggendo all’insistenza materna.
, confessò d’essere innamorato, si lasciò perfino sfug-
gire il nome di Natalia.
Donna Clara sorpresa, non giá della notizia che
s’aspettava, ma della forma con la quale il figliuolo
gliel’aveva comunicata, seppe nascondere abilmente
la sua meraviglia sotto lo scherzo, si mise a ri-
dere di cuore, poi, visto che il giovinetto non era
incline ad arrendersi, andò in collera, accusandolo<noinclude></noinclude>
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quasi d aver sedotto la ragazza, minacciando di
licenziarla.
Lodovico impiegò tutta la sua eloquenza per
difendere 1 onesta di Natalia e per dimostrarne la
severa illibatezza, finì coll’accennare alle sue vel-
leitá di matrimonio.
— Le hai promesso di sposarla? — domandò
la contessa, cominciando a turbarsi.
— Promesso? no, non ancora. Gliene ho par-
lato.
— E quella sciocchina t’ascolta!., non avrei
mai creduto che corrispondesse in questo modo ai
miei benefìzii... ecco l’umana gratitudine! Ma questo
poco importa, tutti gl’innamorati parlano di ma- .
trimonio. Natalia non può pensarci seriamente,
non può pretendere che se il suo padroncino si è
degnato di farle un po’ di corte le dia poi anche
il suo nome. Sarebbe una cosa assai comica, caro
Lodovico.
Donna Clara si valse così abilmente del ridi-
colo per rovesciare i vaghi piani di suo figlio che
il giovane ne rimase atterrito. Ella conosceva a
fondo il suo carattere debole, la sua morbosa paura
dell’opinione pubblica, l’irresolutezza che aveva
fatto di lui un uomo di scarsa volontá.
Ancorché l’umano istinto della contradizione
avesse rinvigorito, per alcun tempo il desiderio di
Lodovico, le idee della madre non tardarono molto
a sembrargli giuste, logiche, chiare;, egli si con- ì
vinse presto, d’aver immaginato una cosa indegna<noinclude></noinclude>
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d’un Pallano, una vera follia. Perciò la sua lottar
contro l’inesorabile ragione materna fu breve e
finì con un patto reciproco. Donna Clara promet-
teva di non allontanare Natalia dal suo servizior
egli dava la parola di staccarsi, sé non subito, a
poco a poco da lei, e anzi a tale scopo accettava,,
di buon grado, la proposta d’un piacevole giro al-
l’estero.
L’inattesa notizia del viaggio fu per Natalia il
primo, amaro sintomo della freddezza. In quegli
ultimi anni, il conte Lodovico èra stato assente
parecchie volte ma sempre per ragioni necessarie
o per lo meno importanti, e nelle sue lettere te-
nerissime, negli arrivi sospirati e pieni d’effusione
eli’aveva sempre, trovato un dolce compenso alle
acerbe pene della lontananza. Adesso era lui, pro-
prio lui che ambiva di viaggiare per divertirsi.
Alla prima lunghissima assenza parecchie ne
seguirono, se più brevi non mai chiaramente giu-
stificate e. la corrispondenza epistolare si fece più
rara e più stentata. Pareva quasi che la propria
casa, il cui soggiorno gli era stato così gradito
per l’addietro, riescisse noiosa a Lodovico, ma in
fondo egli cercava tutti i mezzi per distrarsi da
quell’amore forse non vinto ancora.
Natalia ch’era passata, da gran tempo, dar
brevi giorni della nuova, dolcissima speranza,
al periodo angoscioso dei dubbi, delle paure, delle
incertezze che suscita la ragionenei suo lento ma
sicuro risveglio, viveva in una ansietá febbrile<noinclude></noinclude>
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per la quale l’intermittente ritorno di Lodovico
alle antiche, amichevoli abitudini non poteva più
darle che uno scarso, incompleto conforto.
Egli la cercava di quando in quando, nei si-
lenzi del giardino a Villa Clara o al solito posto
sulla terrazza, egli sentiva ancora il bisogno di
•certe effusioni dell’animo per le quali la fan-
ciulla soleva essere una piacevole confidente, nè
aveva cessato di rivolgerle, se per caso la incon-
trava, quegli sguardi in cui tanta segreta tenerezza
pareva racchiusa. Ma queste dimostrazioni anda-
rono gradatamente scemando, per l’abile sorve-
glianza della madre, e colla freddezza crebbe un
senso d’imbarazzo cruccioso che il giovine non fu
più capace di dissimulare.
Nell’inverno, per distrarsi, egli si diede a una
vita ancor più brillante e più leggera del solito.
Natalia sola sapeva l’ora in cui Lodovico rinca-
sava ; spesse volte, per compiacere al suo egoismo,
•ella s’era fatta sua umile complice dinanzi alla
contessa nel segreto di quelle notti perdute ; ma
il suo cuore sanguinava e si struggeva d’una im-
potente gelosia. Mai ell’aveva osato attribuire a
se stessa il diritto d’esigere la fedeltá
Una mattina di gennaio il conte Pallano tornò
a casa verso le quattro, e passando dinanzi alla
cameretta di Natalia e scorgendo un po’ di luce
dallo spiraglio dell’uscio, la chiamò.
La povera fanciulla vegliava spesso, tendendo
l’orecchio ad ogni piccolo rumore che potesse darle
speranza del suo ritorno.<noinclude></noinclude>
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Il giovine signore era sparato, annoiato e le
disse soltanto:
_ Yuoi prepararmi un buon thè caldo, Natalia?
— Come comanda, signorino.
Ma la voce era strozzata e egli riprese subito.
— Perchè piangi? che hai?
— Non ho nulla — disse la ragazza, scoppiando
in un singhiozzo.
— Ti prego, Natalia, non farmi scene. Io le
detesto le scene, lo sai.
La fanciulla era così avvezza a vincersi che
seppe subito frenare le lagrime e, senza dir altro ?
s’avviò in punta di piedi verso la camera da pranzo
per accendere una lampada e bollire l’acqua.
Egli la seguì a lento passo, s’abbandonò in un
seggiolone dinanzi al caminetto ove finiva di con-
sumarsi un grosso tronco di querciuolo del giorno
addietro.
Natalia gli offerse macchinalmente un astuccio
di sigarette e gli accese un fiammifero, poi stette
immobile, dinanzi al tavolino di lacca cinese, con
gli occhi fissi sul bricco ove l’acqua cominciava a
gorgogliare. . #
Di solito, quando erano soli, Lodovico l’invi-
tava a sedere, ma quella volta non fiatò.
Egli si mostrava molto stanco e infastidito e
il suo volto così baldo un giorno di gagliarda gio-
vinezza, portava le tracce visibili d’una vita sre-
golata.
Nondimeno il suo sguardo si fermò, con quel-
7<noinclude></noinclude>
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l’intensitá che una muta carezza, sulla snella fi-
gura di Natalia, sulla sua faccia dimagrita ove gli
occhi vellutati e più grandi del solito ardevano
d’un fuoco cupo in un grande pallore di passione.
L’orologio suonò le quattro e mezzo.
— Oggi ti sei alzata prima del solito, Natalia,
— disse il giovine.
— Non avevo sonno.
Ma che fai dunque in queste lunghe ve-
glie?...
— Penso...
— A chi pensi?...
Ella esitò un secondo, poi si fece coraggio ©
mormorò:
A lei, signorino... a lei che non ritorna
mai...
— Anche tu adesso i rimproveri, come mia
madre! Ma che cosa credete? che la casa sia una
prigione?... Io sono libero, figliuola mia, e non
intendo essere ammonito da nessuno. Se t’ho vo-
luto bene non è una ragione perchè tu sorvegli
tutti 1 miei passi... hai capito? Guai a te se da
qui innanzi starai alzata... te lo proibisco. Io voglio
tornare quando mi pare e piace..
Pareva contento d’aver trovato un appiglio per
sfogare la sua sorda irritazione, e per esercitare la
sua autoritá.
Il cuore di Natalia si spezzava. In capo ad al-
cuni minuti ella trovò la forza di balbettare:
Il thè è pronto... lo desidera?<noinclude></noinclude>
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— Me lo preparerò da me, il thè.
La ragazza non rispose, ma versò con mano
tremante l’aromatica bevanda nella chicchera di
sottile porcellana, v’aggiunse qualche cucchiamo
di cognac, accostò il tavolino alla poltrona, e do-
mandò con voce sempre più rotta :
— Posso ritirarmi?
— Sì, buon giorno, ti ringrazio.
Ella gli rivolse un ultimo sguardo supplichevole
e uscì col passo affaticato d’una persona esausta
di forze. ...
Le pareva che qualche cosa di terribile fosse
avvenuto nell’intimo del suo essere, come un crollo,
come l’annientamento d’una speranza alla quale
non aveva mai osato abbandonarsi, ma che forse
viveva latente nel fondo del suo cuore.
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Il giorno seguente, l’aspetto rasserenato di Lo-
dovico valse ancora a confortarla.
Ella perdonava sempre, senza accorgersi che
fosse un perdono: il suo ingegnoso amore sapeva
giustificare tutti i torti, obliando.
L’umore di Lodovico, mal governato dall’incerta
volontá, passò ancora per le più bizzarre alterna-
tive di benevolenza e d’irritazione. Ma ora il più
delle volte egli si mostrava freddo, indifferente,
avido di nuovi appigli per acquetare la sua co-
scienza ; un giorno non sdegnò nemmeno di ricor-
rere all’arma ignobile del dubbio, del sospetto,<noinclude></noinclude>
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della simulata gelosia. Poi finì coll’evitare qualun-
que incontro con la fanciulla.
Una inattina, Natalia seppe in un negozio, da
un fornitore della casa, che si trattava di dar
moglie al conte Lodovico. Tornò in fretta, angu-
stiata, palpitante, al palazzo, e come il postino le
aveva consegnata una lettera nell’atrio, colse quel-
l’occasione per portarla ella stessa nell’apparta-
mentino del giovine signore.
Egli stava fumando dinanzi alla sua scrivania e
quando vide, sul piccolo vassoio d’argento, la busta
elegante con le cifre e una corona di marchese,
arrossì. Ma Natalia si fece animo e gli chiese,
senz’altro, se fosse vero quanto si narrava.
— Ohi ti dice queste cose?„.
— L’ho inteso fuori... mi dica, è vero? — ella
ripetè tutta ansante.
— Quello che si racconta fuori è una ciarla,
Natali. Nessuno lo sa...
— Dunque...
— Sono i miei che lo desiderano...
— E... lei, conte Lodovico?...
— Finirò per arrendermi. Che vuoi, figliuola
mia, avrei la guerra in casa. Non ti pare... che in
fondo... faccia bene?...
— Fa benissimo — rispose la ragazza con una
improvvisa calma.
— Sei un po’ gelosa, Natali?
— Io no! oh no! — mormorò ella con un filo
di voce.<noinclude></noinclude>
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— Non sono punto innamorato, sai. E un ma-
trimonio di ragione. Vuoi vederla ?... Ecco il suo
ritratto... — e apriva il cassetto segreto della seri-
vania.
— No, no... non voglio.
Ma il giovane avendo giá cominciato a ferire,
per non tornar da capo un’altra volta, nel suo
freddo egoismo virile, insisteva : ^
_ G-uarda... non è bella, ma è d’illustre fami-
glia... e... molto ricca.
Natalia chinò, senza volerlo, lo sguardo spento
sulla platinotipia d’una donna bionda dalla faccia
impassibile e sdegnosa. ,
_ Non è italiana... — disse, come fra se.
— No, hai indovinato, è di Bruxelles.
_ Ah!... e... quando saranno le nozze?
— Vuoi che te lo confidi? a te, a te sola? tutti
lo ignorano. Saranno a maggio. Dovevo finire cosi,
Natalia, lo sai. Avevo giá rifiutato tante proposte...
Ella gli volse uno sguardo così profondo che
Lodovico fu costretto, suo malgrado, a chinare la
testa. ,,
Quante cose diceva, quello sguardo. «on
potevi tu lasciarmi nell’ombra, nel silenzio, pm -
tosto che suscitarmi nell’anima questa tempesta
di dolore?... Tu hai giuocato col mio cuore, ora
lo spezzi senza misericordia e quello che u per
te un sì breve trastullo, sará il patimento di tutta
la mia vita...» -.ni?
Ma se lo sguardo parlava, le labbra del a an-<noinclude></noinclude>
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oiulla si tacquero e incoraggiato da quella bontá
generosa, Lodovico le chiese:
Non vuoi nemmeno augurarmi un po’ di
bene?
Oh si, tanto, tanto bene le auguro — ella
mormorò.
Il giovine l’aveva presa per le mani con l’an-
tica tenerezza.
Mia povera Natali ! che cosa devo farci ? se
avessi potuto sposarti... ma non era possibile, lo
sai, lo capisci, non è vero?
— Lo capisco — rispose la fanciulla nella sua
umile dignitá — e ella abiterá qui, nel palazzo...
naturalmente...
— Sì, al secondo piano.
Dopo una breve pausa, il giovine riprese non
senza una certa esitazione:
— Sarei contento se col tempo... anche tu ti
facessi sposa...
— Io? — ella esclamò con un fiero lampo di
disgusto nello sguardo, poi nell’ánsia di nascon-
dere il suo tormento, soggiunse:
— Può essere...
— Ma intanto rimarrai, non è vero, rimarrai
presso mia madre?
— Che cosa posso sapere? - mormorò la fan-
ciulla, come trasognata.
— Natalia, non mostrarti così triste! ., io sarò
sempre un buon amico per te, devi starne si-
cura...<noinclude></noinclude>
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E preso da un impeto dell’antico affetto, egli
l’attrasse con trasporto sul suo cuore.
Natalia non ebbe nemmeno la forza di scher-
mirsi, come sempre soleva, ma rimase frédda e
muta nell’ultima oarezza di Lodovico.
Idee strane le abbuiavano il cervello. Ella ab-
bassava con atto involontario lo sguardo sulla
gelida immagine della straniera chiusa nella sua
cornice antica e pensava: § costei è la sua fidan-
zata e sono io ch’egli bacia, la povera reietta ca-
meriera... costei lo tradirá forse... ma che importa!
è nobile e ricca... E le nozze saranno a maggio,
a maggio quando quattro anni or sono egli mi
disse le prime parole...» .
E nello straziante ricordo di quel passato per-
fiuto per sempre, un’ambascia cosi forte le strinse
il petto, una pietá cosi triste dell’umana miseria
le toccò le viscere che, non reggendo più al suo
dolore, fuggi dalla stanza, pazzamente.
{{asterism}}
Quando si diffuse la notizia del matrimonio di
Lodovico Fallano, Natalia senti esacerbarsi l a-
marezza del suo animo per il contegno delle per-
sone di servizio. L’invidia corrompe spesso anche
il naturale istinto della solidarietá di casta, e se
la paura di cadere in disgrazia del giovine pa-
drone le aveva trattenute fino allora dall espri-
mere troppo chiaramente il loro pensiero, la oom-<noinclude></noinclude>
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piacenza per il disinganno della fanciulla non
metteva più freno ai loro malvagi sarcasmi.
Il cuoco la chiamava per dileggio «la contes-
sala» e in sua presenza tutti andavano a gara a
parlare delle nozze del conte, a comunicarsi i più
lievi particolari di quel prossimo avvenimento che
sembrava colmarli di gioia.
Addolorata, inasprita, incapace di reggere più
oltre a quella doppia tortura, Natalia si recò un
giorno nell’appartamento della contessa colla ferma
intenzione di licenziarsi, ma giunta in presenza
di Donna Olara, non riesci che a balbettare delle
frasi incoerenti e vaghe fra cui predominava la
parola : partire.
Colpita dal suo aspetto sofferente, dalla palli-
dezza del suo volto, un giorno così florido di co-
lore, la contessa si commosse un poco e la trattò
con benevolenza, ma non seppe dissimularle che
la causa di quella sua afflizione le era nota e che
si faceva non lieve meraviglia che una semplice
leggerezza di suo figlio avesse potuto dar luogo a
si strane e ingiustificate illusioni. Finì col chie-
derle perchè volesse partire, mentre in quella casa
tutti la stimavano e le volevano bene.
Un sorriso strano sfiorò le smorte labbra di
Natalia che aveva ascoltato tutto quel discorso in
attitudine impassibile, senza muovere palpebra,
con gli occhi vitrei e sbarrati.
Ella non rispose, soltanto ripetè con voce fie-
vole: — partire, partire...<noinclude></noinclude>
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Donna Clara, spaventata, le prese una mano,
sentì ch’era ardente, la guardò in faccia e vide
ch’era stravolta, afferrò il campanello per chia-
mare aiuto, ma Natalia, perdendo all’improvviso
i sensi, era giá caduta sul tappeto.
Fu una febbre violenta che al principio i me-
dici ritennero mortale, che si risolse in una com-
plicata e lunga tifoide.
Quando Lodovico Pallano partì per il Belgio,
pochi giorni prima delle sue nozze, Natalia non
aveva ancora superato il pericolo. Il giovine si
affacciò sulla soglia della sua cameretta per salu-
tarla, ma ella non lo riconobbe.
{{asterism}}
G-li sposi arrivarono un’afosa sera d’agosto dal
loro lungo viaggio di nozze.
La casa s’era messa in festa per riceverli. Dal-
l’atrio al secondo piano era tutto un giardino di
piante fiorite sulle quali le numerose lampade elet-
triche spargevano una quieta e fulgida luce.
Per non disgustare la padrona che l’aveva cu-
rata con molta sollecitudine, Natalia, appena uscita
di convalescenza, aveva dato una mano ai dome-
stici negli ultimi preparativi.
La fanciulla era molto mutata. Intorno alla
sua bella testina non s’avvolgevano più le trecce
superbe, orgoglio dei suoi vent’anni, soltanto pochi
riccioli le disegnavano, con un morbido contorno,
la fronte pallida e pensosa.<noinclude></noinclude>
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A prima vista la si avrebbe giudicata più gio-
vane, ad onta dell’ombra grave che le offuscava il
volto dimagrato, ma della sua fiorente bellezza non
restavano più che poche malinconiche tracce.
Perchè fosse rimasta ancora in casa Pallano non
lo sapeva ella stessa, forse per un sentimento di
nuova gratitudine per le premure di donna Clara,
forse per un fascino arcano, per una strana voluttá
di patire.
Appena le carrozze furono giunte nell’atrio si
seppe che Honorine la cameriera della sposa, una
elegante signorina francese, scendendo dal vagone,
s’era storto un piede ed era costretta d’affidarsi su-
bito alle cure del medico.
La giovane contessa di Pallano, nel salire le
scale coll’appoggio dello sposo, si mostrava molto in-
fastidita dell’accaduto. Nell’imbarazzo del momento,
donna Clara guardò, con atto indeciso ma signifi-
cante, Natalia che si teneva molto in disparte.
La ragazza capì subito che le si chiedeva di
sostituire l’inferma e, presa da un istinto di ribel-
lione, si mosse per allontanarsi, ma in quel mo-
mento i suoi occhi smarriti incontrarono lo sguardo
supplichevole di Lodovico e la voce di lui che la
salutava, rallegrandosi con cordiali parole, per la
ricuperata salute, le giunse all’orecchio. Il bisogno
d.’esacerbare la propria ferita ch’è comune a molti
infelici le fece chinare il capo e accettare in si-
lenzio la proposta.
Gli sposi salirono nel loro appartamento e senza<noinclude></noinclude>
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degnare di alcuna speciale attenzione il mobilio
disposto con una premurosa ricerca del gusto mo-
derno, la giovane signora entrò nella camera da
letto.
Mentre si levava il berrettino da viaggio ella
volse un’occhiata sprezzante e un freddo saluto a
Natalia che rabbrividiva per aver varcato la soglia
della stanza nuziale
La sposa di Lodovico ora le stava dinanzi, in-
carnazione viva dell’immutabile realtá e il suo
aspetto le pareva ancor più impassibile, ancor più
altero che nel ritratto: una figura troppo sottile,
quasi stecchita, una faccia chiusa, nordica, dalle
labbra strette e fine, dagli occhi piccoli, grigi, pe-
netranti come gelide punte d’acciaio.
Lodovico, molto occupato di lei e di tutti i ser-
vigi che potessero occorrerle, le si affaccendava
dintorno, non senza mostrare un certo imbarazzo.
— Ah, come sono affannata! —esclamò la con-
tessa di Pallano, con forte accento straniero, sten-
dendosi su un’ottomana — fa un caldo tropicale,
Lodovico, si soffoca.
— Andremo subito in campagna, se così ti
piace, Alfonsina — rispose il giovane, dolcemente
— i miei hanno voluto riceverti qui, nella mia casa
paterna... lo sai... E non m’hai detto ancora se l’ap-
partamento è di tuo gusto — soggiunse egli, con
premura, — questa stanza l’ho scelta io.....
— E un po’ comune il rosa avrei preferito
un colore più fino o degli affreschi come usa<noinclude></noinclude>
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adesso ma non importa, si potrá cambiare. Il
resto lo vedrò più tardi. Mi sento morire in que-
sta temperatura — disse ella, agitando nervosa-
mente un piccolo ventaglio antico — sará meglio
che metta un vestito più leggero.
Natalia che aveva aspettato ritta, immobile, che
aveva assistito con una muta esasperazione a quel
dialogo, s’accostò a un grande baule e chiese, con
voce alterata:
— E qui, forse?
— No. Voi non sapete. Lo prenderá il conte.
Lodovico fammi il piacere. Mon Dieu qu’elle est
’pâle, qu’a t-elle donc?
— Prends garde, ma chérie, elle comprend le fran-
çais! — mormorò il giovane, aprendo una cesta
tutta foderata di seta e chinandovisi sopra.
A forza di frugare egli ne trasse un accappatoio.
— Ma Lodovico, non vedi ch’è un saut de lit?
è l’abito bianco che voglio, con le trine d’Alen-
çon cerca ancora e non sciuparmi la roba. La
mancanza d’Onorina è un bell’impiccio, devi con-
venirne. Credi che possa guarire presto?
— Speriamolo! — disse il compiacente marito,
con un sospiro, sempre pescando fra le stoffe e i
merletti senza che la giovane signora si muovesse.
— Bada, hai tirato fuori per sbaglio le mie
scarpette dammele.
Natalia, pallida, contraffatta tolse le minuscole
calzature dalle mani di Lodovico, le pose dinanzi
ad Alfonsina.<noinclude></noinclude>
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Allora la giovane signora, sempre sdraiata nel-
l’ottomana, sporse il piccolo piede stretto negli
stivalini altissimi e disse freddamente:
Cominceremo da questi......
— Lo farò io ! — esclamò Lodovico, avvicinan -
dosi di scatto, con un senso di vergogna.
— No, no, permetta, signor conte.
E Natalia, sempre più alterata in volto, s’ingi-
nocchiò, e con le mani tremanti si diede a scio-
gliere i bottoncini neri sulle calze di seta grigia.
Vedendo che Lodovico aveva finalmente tro-
vato gli oggetti desiderati, la giovane cominciò a
fare la sua toilette e parve strano a Natalia che
ella si svestisse così familiarmente in presenza sua
e del conte. Esaurito coll’aiuto d’entrambi il diffi-
cile compito Alfonsina s’adagiò in una poltrona e
mormorò a fior di labbro :
— Potete andare, per ora. Vi chiamerò più tardi.
Dite alla contessa che la raggiungeremo subito.
. — Grazie Natalia — mormorò quasi involonta-
riamente, Lodovico.
Ella non rispose e s’avviò con passo mal fermo
per uscire, ma quando fu sulla soglia le sovvenne
che aveva lasciato in camera il vestito da viaggio
e gli stivalini da pulire e si volse per prenderli.
Il giovane s’era chinato teneramente sulla spal-
liera del’ seggiolone e giá dimentico di lei, stava
baciando la sua sposa.
Natalia si sostenne allo stipite, poi fuggì con
l’animo straziato.<noinclude></noinclude>
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{{asterism}}
Trasportata con grandi riguardi a Villa Clara,
mademoiselle Honorine faceva vita nella sua stanza,
leggendo romanzi. Natalia ne teneva le veci, assi-
duamente, ma era cupa e sparuta in volto. Lodo-
vico le si dimostrava riconoscente e riguardoso,
per quanto glielo concedesse la sua posizione dif-
ficile ; Alfonsina, ignara di tutto, non dava alcuna
importanza alla presenza della cameriera e sempre
gelida a suo riguardo, s’abbandonava collo sposo
a tutte le bizze del suo temperamento di donna
ricca e viziata. Pallano ne soffriva e cercava di
trovarsi solo con la fanciulla per compensarla con
qualche buona, consolante parola.
A Villa Clara tutto rammentava a Natalia le gioie
del tempo passato e perduto per sempre, non v’era
angolo o viale del parco che non avesse per lei
delle care e innocenti ricordanze, e particolarmente
quel muricciuolo della terrazza ove Lodovico le
aveva gettato le corollette dei gelsomini, dicendole
tante gentili cose. Ma come certe dimostrazioni di
speciale benevolenza da parte del conte ripugna-
vano al suo animo onesto, così quelle memorie tanto
dolci ancora nella loro infinita tristezza le sem-
bravano un illecito conforto.
Nondimeno, ell’amava di cercare, tutte le sere
nella solitudine del giardino un’ora di raccogli-
mento e di riposo; ella sedeva sul muricciuolo,
contemplando la vasta pianura, la linea bianca del<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Ili —
fiume tra i vapori notturni. Nessuno la interrom-
peva mai nelle sue meditazioni perchè la famiglia
Pallano aveva l’abitudine di raccogliersi, dopo il
desinare, in una veranda annessa alla villa.
Ma una volta, verso la fine d’agosto, ella vide
venire gli sposi da lontano e, volendo evitare Rin-
contrarli, si ritirò in un vicino boschetto di lauri.
L’era sembrato in quel giorno, che una nube
avesse offuscato la loro felicitá: subito s’accorse
ch’essi cercavano quel luogo solitario per effondere
la loro rinnovata tenerezza, e invece di allonta-
narsi rimase immobile fra gli arbusti, incatenata
non solo dalla paura di tradire la sua presenza
ma anche da una morbosa, arcana attrazione.
Ella udì un mormorio di baci, ella udì la voce
penitente di Lodovico ripetere sdolcinate parole;
poi li seguì con gli occhi, aridi di lagrime, men-
tre, stretti uno all’altro, si dileguavano fra i fiori
al chiaro di luna, mentre il giovane, punzec-
chiato forse da una qualche bizza di gelosia retro-
spettiva, andava rassicurando la sposa:
— Stanne certa, Alfonsina, le passioncelle gio-
vanili non sono che fuochi fatui i quali presto si
spengono e subito s’obliano
Natalia andò errando follemente, senza dire-
zione, fra le ombre buie del parco.
Laggiù, in mezzo alla pianura il fiume placido
scorreva. Ell’era stata più volte sulle sue rive, più
volte ella aveva contemplato con un certo fascina
il tranquillo corso dell’acqua. Nella sua mente con-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
fusa non v’era che una sola, lucida idea. Scompa-
rire per sempre. Che cosa offriva a lei la vita, ol-
tre il suo doloroso attaccamento alla famiglia Pal-
lano? Nulla. Nessun uomo poteva piacerle dopo
Lodovico; il matrimonio di ragione le faceva or-
rore ; non aveva parenti, non aveva amici ; la sua
nobiltá d’animo, il suo carattere integro le aliena-
vano tutti i corrotti compagni di servizio. Ella si
sentiva sola al mondo. «Sola, sola, sola!» andava
ripetendo fra se nello straziante dibattito del suo
alterato cervello.
Dopo una lunga lotta, il sentimento cristiano
prevalse sulla tentazione imperiosa. Sfinita, ella
ritornò con passo lento alla villa, ma aveva ap-
pena varcato la porta di servizio, quando nel-
l’atrio, scarsamente illuminato, le si drizzò dinanzi,
tentando d’impedirle il passaggio, un giovine che
da qualche giorno la veniva perseguitando con le
sue sguaiate parole.
Era Cesarino, il nuovo ed elegante cameriere
del conte, un mariuolo che si sforzava in tutto di
imitare il suo padrone, che si riteneva autorizzato
a succedergli anche nelle sue simpatie per la fan-
ciulla.
Vedendola corrispondere anche quella sera con
palese disprezzo alle sue audaci proposte, egli si
irritò e le disse, perfidamente:
— Pai tutto bene, anche la commedia! È nel
tuo impiego di vicecontessina che hai imparato
la fierezza e la ritrosia? Gonzo chi ci crede!<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
Natalia non trovò nè uno sguardo, nè una pa-
rola di risposta, ma si sentì rinvigorire da una
forza improvvisa e attraversando l’atrio di corsa,
infilò un corridoio e andò a picchiare allo studio
del conte.
Lodovico Fallano stava suggellando una lettera
con un grande stemma di famiglia. Egli si volse
c rimase sorpreso e spaventato dall’aspetto della
ragazza, dal suo pallore di morte.
— Dio buono, che cosa accade? — esclamò.
— Quello che non deve assolutamente accadere,
signore. Io vengo a domandarle giustizia, affinchè
ella impedisca alle sue persone di servizio d’insul-
tarmi e di rinfacciarmi il passato, come una colpa
— Parla piano, Natalia, per caritá, Alfonsina
potrebbe sentirti
— Io non ho paura di nessuno.
— Silenzio, silenzio, te ne scongiuro! forse in-
dovino è stato il mio cameriere....
— Che non vi sia nulla di sacro per la po-
vertá! -^ esclamò Natalia esasperata.
— Ti prego, calmati, sii buona. Tutti ti rispet-
tano, io per il primo. Questa sera stessa se vuoi,
lo manderò via
— È il suo dovere di licenziarlo, conte Lodo-
vico, è il suo dovere — ella ripetè fieramente.
— Lo farò, Natalia, te lo prometto, sebbene....
sia un abilissimo servitore. Ma voglio che la ca-
gione s’ignori, capisci? Inventerò un pretesto qua-
lunque
8<noinclude></noinclude>
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{{asterism}}
Il giorno seguente, donna Clara era ancora a
letto, quando Natalia, dopo averle versato il caffè,,
le espresse di nuovo l’intenzione di lasciare il suo
servizio, accertandola che non dimenticherebbe mai
i benefìzii ricevuti in casa Pallano.
La contessa ch’era una donna di fine accorgi-
mento e che, non avendo mai mancato di tener
d’occhio la ragazza, s’aspettava a una tale soluzione,
si mostro afflitta della notizia, disse che non vo-
leva tuttavia contrariarla in quei piani, dettati,
senza dubbio, da giusti motivi, ma che s’attribuiva
il diritto di vegliare sulla sua inesperta giovi-
nezza e di guidarla nella scelta del nuovo posto.
Natalia, appagata nell’amor proprio, acconsentì
di buon grado a questo patto e stette subito in
traccia d’un opportuno collocamento.
Quando un’occasione si presentava ella ne fa-
ceva subito cenno alla padrona, la quale si dava
premura di metterle dinanzi ostacoli e difficoltá
insormontabili.
Questo accadde due o tre volte, durante l’estate.
Intanto, Onorina aveva potuto riprendere i suoi
impegni, il cameriere era partito, e una certa tran-
quillitá triste era scesa nell’animo di Natalia prima,
ch’ella fosse riescita a prendere una definitiva ri-
soluzione.
In autunno, gli sposi si recarono nel Belgio
per passarvi parte dell’inverno e alla fanciulla<noinclude></noinclude>
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sembrò trovare nel silenzio ch’era successo alla
loro partenza e nella palese benevolenza della pa-
drona, un senso di pace.
In gennaio, Natalia era ancora in casa Pallano
e aiutava donna Clara ad allestire il corredino per
il primo figlio di Lodovico. Ella lavorava assidua
intorno ai minuscoli arredi dWeleganza vaporosa :
le sue mani abilissime producevano a dozzine le
camiciuole di batista guernite di trine, le cuffiette,
i guancialini della culla, o ricamavano con arte
mirabile il velo bianco e le cifre colla corona co-
mitale, sulle piccole lenzuola.
Passavano i giorni monotoni e tranquilli e l’u-
niformitá della vita sembrava assopire in una dolce
rassegnazione il cuore della fanciulla.
Quando gli sposi annunziarono il loro ritorno
ella sentì un brivido correrle per fossa, un nuovo
smarrimento alterarle il cervello e il pensiero di
partire le si affacciò più imperioso che mai.
Ma Alfonsina arrivò dal Belgio in uno stato
di salute così deplorevole da destare le più serie
apprensioni. Per molto tempo la casa Pallano non
s’occupò che di lei e Natalia, dimenticando sempre
se stessa, fu vinta ancora una volta dalla propria
generositá.
{{asterism}}
Verso la fine di marzo, una notte, le parve che
vi fosse del rumore sulle scale e si mise in ascolto.
Erano passi discreti, voci sommesse, a cui succede-<noinclude></noinclude>
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vano, lunghi silenzi. Ella s’alzò in fretta e, passando
per scendere al primo piano, s’accorse che l’appar-
tamento degli sposi era aperto e entrò nell’antica-
mera. Il medico di casa e un professore della cli-
nica, appena arrivati, stavano deponendo i loro
mantelli e ragionando a bassa voce. Ma subito
comparve Lodovico per introdurli dall’inferma. Era
contraffatto in volto.
Poi venne di sfuggita Onorina, la quale le disse
che la sua padrona si trovava in. condizioni piut-
tosto gravi. Dopo alcuni minuti Lodovico ritornò,
s’avvide della sua presenza, le prese le mani e le
disse con angoscia:
—Natalia, va male, molto male!
— E i dottori? — chiese ella, subito intenerita
da una grande pietá.
— I dottori vi sono adesso e anche la mamma,
io non ho potuto reggere... — e il giovane si gettò
su un divano, si mise a piangere dirottamente.
La fanciulla molto commossa, si dava tutte le
premure per rincorarlo.
— Povera Natalia, tu sei buona, tanto buona!
— egli mormorò con affetto, ma subito soggiunse :
— Anche qui non resisto... devo andare... devo
tornare presso di lei...
Due donne passavano e ripassavano portando
oggetti di biancheria, tazzine di brodo.
Rimasta sola, Natalia si ritirò in un gabinetto
e si mise a pregare. Di tratto in tratto ella usciva,
aspettava qualcuno, domandava notizie... ancora<noinclude></noinclude>
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niente. Alcune volte la chiamarono in fretta per
andare a prendere dei cordiali.
Finalmente, verso le otto del mattino il conte
Lodovico, ch’ella non aveva più riveduto, uscì
dalla camera nuziale, pallidissimo ancora, ma rag-
giante. .
— Natalia! — esclamò egli — mi è nato un
figlio! il pericolo è scongiurato!
La fanciulla si fece bianca in volto e gli sorrise.
— Sia ringraziato Iddio! — rispos’ella nella
sua grande bontá.
— Ho subito telegrafato alla balia — proseguì
il giovine con la voce ancora tremante, — ella,
potrá arrivare col diretto di questa sera. E una
Brianzuola... le informazioni sono ottime, rassicu-
ranti... tuttavia, non sarei tranquillo se non le stesse
sempre al fianco una persona di mia assoluta fi-
ducia... tu sola, Natalia, tu sola potresti....
— Signorino ella sa che ho fissato di par-
tire...
— Me lo disse la mamma, ma non ho voluto
crederlo... e poi adesso! in questo momento!
— Io non sono necessaria... devo partire...
— Non sei necessaria!... ma se tutti ti amiamo
come se tu fossi di famiglia! e poi, si tratta della
mia creatura! Natali, te ne scongiuro!
Era la voce dolce, insinuante del tempo pas-
sato, ma ella resistette, con fermezza. .
1— Non posso, non posso, conte Lodovico.
Il giovane tornò sconsolato nella camera della<noinclude></noinclude>
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puerpera, ma da lì a pochi minuti ricomparve, ac-
compagnando i medici che partivano.
— Vuoi vederlo? — egli domandò alla fanciulla.
— No, no, adesso no.
— Non vuoi vederlo? è un bel bambino —
diss’egli, non senza orgoglio — andiamo, Natalia,
vieni...
Ella lo seguì, macchinalmente, come trasognata.
Nella camera nuziale, color di rosa, stile di
transazione, sotto l’elegante padiglioncino, nel suo
letto tutto stellato di ricami, giaceva la giovane
signora, smorta, sfinita, ma con un insolito sorriso
sulle labbra. E accanto, nella culla di seta ròsa,
coperta dal velo che Natalia aveva trapunto, il
bambino robusto e paffutello dormiva coi pugnini
stretti.
Natalia s’avvicinò in punta di piedi, senza pro-
ferire una parola, stette un minuto immobile, collo
sguardo perduto.
— È troppo buio, non puoi vederlo bene —
disse il conte — aspetta, voglio mostrartelo io, — e,
resistendo alle fievoli proteste della sposa diffidente,
lo sollevò con l’aiuto dell’infermiera, e lo portò
presso alla finestra, dietro un paravento. Poi, sco-
stando la pesante cortina, lo porse all’ammirazione
della fanciulla.
Natalia si chinò con atto involontario di fem-
minile tenerezza sul fragile corpicciuolo del neo-
nato, lo prese fra le sue braccia, contemplò a lungo
la testina rotondetta e un po’ livida ancora, e ve-<noinclude></noinclude>
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dendo che il bimbo si disponeva a vagire, si mise
a cullarlo amorosamente.
— Sono i suoi occhi, signorino, proprio i suoi
occhi! — ella mormorò, osservando le pupille del
piccino che cercavano la luce — Caro, caro
— E tu avresti il cuore d’abbandonarlo, dim-
mi... lo avresti...?
Il volto della fanciulla era inondato di lagrime.
— Natali, vuoi proprio lasciarci? — egli insi-
stette, guardandola con intensitá.
— No, no... non ne ho la forza. Resto... ma è
unicamente per questa creatura — esclamò Natalia
stringendosi al petto, con un generoso impeto di
passione, il figliuolo primogenito di Lodovico Pal-
lano.<noinclude></noinclude>
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Ella m’aveva scritto così: «Chissá, forse mi
«sará concessa la gioia di rivederti presto, forse
«potrò parlarti finalmente e stringerti al cuore...
«Il mese venturo ci rechiamo nel Veneto ; se mi
«riesce, io affretterò d’un giorno la partenza da
<( Padova per andare a Venezia sola, col tram e
«col vaporetto di Fusina. Ti farò sapere la data
«e l’ora. Attendi mie istruzioni... > .
Quante e quante volte io rilessi queste poche,
benedette parole e mi strinsi alle labbra, pian-
gendo, il biglietto profumato! con quale ansietá
contai le settimane, i giorni, le ore, privandomi di
tutto, perfino delle cose più necessarie, onde rag-
granellare i quattrini occorrenti per un viaggio,
forse per un breve soggiorno a Venezia ! Colei che
mi scriveva, invitandomi a quel ritrovo, era mia
madre, mia madre che non avevo mai conosciuto
& % ^
Un sincero e modesto artista che consumava la
nobile sua vita sul bulino, aveva protetto la mia<noinclude></noinclude>
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malinconica giovinezza, dicendomi che i miei ge-
nitori erano morti entrambi.
Sulla tomba di mio padre, a Campo Verano, avevo
sillabato più volte il nome di «Andrea Giuria pit-
tore,» ma quando chiedevo ove fosse sepolta mia
madre, nessuno sapeva dirmelo con precisione, e
le risposte vaghe, appena valevoli ad appagare la
curiositá infantile, più non riuscivano a convin-
cere il tumultuoso desiderio del giovane. M’era giá
entrato nella mente il sospetto che la mia nascita
fosse avvolta in un certo mistero e alcune parole
pronunziate un giorno, non so se per caso o con
qualche intenzione da Dino Gozzoli l’incisore, ave-
vano confermato questo dubbio, infiammandomi in
cuore la speranza che mia madre esistesse ancora.
Era un giorno d’autunno sereno e mite. Nel
nostro piccolo giardino fuor di porta, che cingeva
una siepe di bignonie e di passiflore, la festa dei
colori aveva raggiunto il colmo: le malve innal-
zavano presso all’acanto i loro fusti guerniti di
sessili fiori; i crisantemi primaticci, i gerani ca-
richi di umbelle illuminavano di ciocche bianche,
gialle, rosse il verde ancor vivo degli arbusti e,
sulla facciata della casetta, le rose bengalensi cele-
bravano una seconda primavera. Una ninfa antica,
corrosa dal tempo, mezzo vestita d’un muschio
smeraldino, versando dalla sua anfora un tenue
filo d’acqua entro la piccola urna di porfido che
avevamo scavata in un’ajuola, sotto le lattughe,
sembrava cantarellare con quel lieve gorgoglìo una
dolce cantilena.<noinclude></noinclude>
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Io guardavo lontano, verso la linea molle dei
monti che si perdeva nei fulgori del sereno oriz-
zonte, guardavo i paesi e le ville biancheggianti
sui colli, in un sorriso di morente sole, e il divino
paesaggio di Roma mi pareva nuovo. Mi tenevo
una mano al petto ove il cuore martellava, mi
sentivo mancare il respiro, nell’affanno di una gioia
quasi angosciosa, d’un desiderio senza nome, e
alle labbra assetate mi veniva la tenera parola,
continuamente, come il balbettio d’un bambino che
soffre: Mamma, mamma, oh mamma!...
Non so quant’io rimanessi nel piccolo giardino,
con quella trepidazione nell’anima, con quella spe-
ranza che non osavo ancora esprimere, per la tema
che mi svanisse dinanzi! Assorto in una specie
d’estasi interna, contemplavo quasi incosciamente
il creato : i colori e le forme erano più belli, i pro-
fumi più soavi e penetranti e i misteri delle lon-
tananze vaghe non turbavano più colla stessa in-
quietudine l’intimitá del mio pensiero.
Quando mi scossi e in’alzai dal cippo ove stavo
seduto, la notte era discesa lentamente sul mira-
bile paesaggio; il primo quarto della luna viag-
giando entro il purissimo spazio, accarezzava con
un blando chiarore il volto corroso e deturpato
_ della ninfa boschereccia e i crisantemi bianchi
come fantastici spettri florali, dominavano col loro
candore immacolato la fredda penombra.
Più tardi, a notte inoltrata, quando la casa fu
tutta immersa nel silenzio, incapace ormai di<noinclude></noinclude>
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sopportare quell’incertezza, bussai allo studio di
Grozzoli che soleva vegliare, leggendo i suoi poeti
classici, entro quei quattro muri coperti d’inci-
sioni celebri, suoi unici tesori, e senz’aspettare
che rispondesse, mi precipitai nelle sue braccia
implorandolo, fra i singhiozzi, di dirmi la mia
storia. Il buon uomo mi guardò stupefatto, fìnse
d’andare in collera, volle rimandarmi colle brusche,
per cavarsi d’impaccio, ma le mie lagrime, forse
le prime che dall’infanzia mi vedesse versare e che
cadevano cocenti sulle sue mani raggrinzate lo
vinsero e, interrompendosi spesso per una mal re-
pressa commozione, egli narrò:
— Volevo attendere qualche anno ancora prima
di rivelarti tutto quello che hai diritto di sapere
intorno alla tua origine e alla tua famiglia... Vo-
levo che tu fossi più maturo e più forte per ap-
prendere un grave segreto e per custodirlo, ma tu
mi previeni con tale insistenza che non posso
tacere più a lungo.
Hai indovinato, Mariano... la tua nascita non
fu regolare... non impallidire, ragazzo mio, e non
giudicare troppo severamente chi ti diede la vita...
Le creature più rette vengono talvolta fuorviate
dalla passione, e tu sei un figlio della passione...
Quando nascesti i tuoi genitori non potevano
sposarsi per un’assoluta mancanza di mezzi. Tua
madre apparteneva ad una numerosa famiglia, tuo
padre domandava indarno un appoggio all’arte sua.
Un giudice imparziale avrebbe battezzato giusta-<noinclude></noinclude>
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mente eoi nome d’innovazioni certi suoi arditi
tentativi che la fortuna, obliosa dei modesti, la-
sciava giacere incompresi nell’ombra.
Una malattia violenta lo fulminò sul fiore
dell’etá tu avevi appena due anni: egli s’era
privato di molte cose per mantenerti in cam-
pagna. a Marino, ove passasti la prima infanzia,
lo sai. Sai anche che tuo padre ed io eravamo in-
timi amici: alla mia amicizia egli t’ha affidato,
insieme al suo segreto, e io non cesserò d’essergli
riconoscente di questa fiducia. Dopo averti legal-
mente riconosciuto al suo letto di morte, mi diede
l’incarico di vendere quanto possedeva e di rag-
granellare un piccolo peculio per il tuo sostenta-
mento e per i tuoi studi. Mi raccomandò con in-
sistenza d’ispirarti l’amore dell’arte, che gli fu
sacra sopra ogni cosa e di sollevare il tuo pensiero
verso i più puri ideali della vita ; mi ripetè più volte
che t’insegnassi a disdegnare le volgaritá dell’oppor-
tunismo ; in poche parole, mi espresse la speranza
che tu divenissi un sincero artista e la ferma vo-
lontá ch’io facessi di te un uomo veramente buono.
La vendita dei suoi quadri ebbe un risultato ab-
bastanza lusinghiero. La morte li aveva abbelliti
allo sguardo del pubblico, sempre bisognoso d’in-
diretti incitamenti, la voce che parlava dal se-
polcro di cose alte e belle, in mezzo alla putredine
del trionfante naturalismo, commosse qualche raf-
finato amatore. Piacquero molto il suo «Funerale
del suicida, o la sua «Sant’Agnese,» i paesaggi<noinclude></noinclude>
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dell’Umbria... i prezzi salirono, e, per non venir
meno alle sue ingiunzioni, io dovetti abbandonare
tutto, tutto ai compratori Eaccolsi quindi il
tuo piccolo patrimonio, e com’egli mi aveva ordi-
nato, l’adoperai in parte per sopperire alle spese
del tuo soggiorno a Marino e a quelle dei tuoi
studi privati, poiché tuo padre le accademie non
voleva nemmeno sentirle a nominare... ; l’altra
parte te la consegnerò quando avrai compiuto i
ventiquattr’anni. T’assicuro che mi sono separato
a malincuore da quelle belle tele... ah! se non fossi
stato così povero!... Mi rincresceva sovrattutto per
te : ho potuto conservarti solamente la testina che
tieni appesa sovra il tuo letto e che rammenta un
poco...
— La mamma? Oh! Dio mio! parlatemi della
mamma! esclamai con angoscia.
— Tua madre...
— Oh parlate, parlate per pietá!
— Un’altra volta...
— No no, adesso, adesso! è viva dunque, è
viva?
— Sì, è viva.
— Dove, dove..?
— Lontana da qui... in Piemonte...
— Dunque?
— E maritata.
— Maritata!...
— Un anno dopo la morte di tuo padre ella fu
chiesta in isposa da un ricco signore, un ban-<noinclude></noinclude>
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chiere di Torino... Una mattina ella venne segre-
tamente da me, mi disse che aveva confidato tutto
a quel signore e ch’egli, impietosito delle sue tristi
circostanze, non rinunziava al proposito di spo-
sarla, ma esigeva tuttavia la promessa che non
gli parlerebbe mai di te, che tu non appariresti
mai nella loro vita comune...
— Ella promise!
— Accettò e promise...
Mi pareva che il mio cuore cadesse nel vuoto,
mi pareva che io stesso dovessi sprofondarmi.
Tacemmo a lungo. Finalmente io domandai :
—r Vi sono dei figli?
— Un ragazzo e due fanciulle. — La risposta
era stata lenta a venire.
Io sentivo un delirio di baci, sentivo le ineffa-
bili dolcezze della mano materna che accarezzava
quei legittimi figli ed esclamai:
— Di me dunque non si è mai curata ?...
— Ella non avrebbe potuto far nulla per te...
era contenta di saperti affidato alle mie cure. Due
tre volte alFanno le scrivo per mandarle le tue
notizie...
Una mortale tristezza dev’essere apparsa sul
mio volto, perchè Gozzoli soggiunse con bontá:
— Mariano, non mostrarti troppo ingiusto nel
tuo giudizio... tua madre ha trovato un uomo che le
porgeva la mano per riabilitarla, per metterla in
una posizione decorosa e sicura... s’ella ha affer-
rato quella mano soccorrevole con trasporto non
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è da farsene meraviglia. Ciò ohe la condanna è il
tuo egoismo, non è il tuo istintivo amore... Vor-
resti vederla senza sostegno, sola, abbandonata?
— Sarei stato io il suo sostegno, avremmo vis-
suto uno per l’altro...
— Tu non avresti potuto darle che una posi-
zione falsa, Mariano... invece tua madre occupa-
ora un posto ragguardevole in societá... è stimata,,
contenta... E tu vorresti condannarla?
— Oh no, me ne guardi il cielo.
— E dunque?
— Dunque per me la mamma è morta-
lo dissi questo partendo, perchè avevo bisogno
d’essere solo nella mia cameretta, e il buon Goz-
zoli non tentò nemmeno di seguirmi. Egli sapeva
che le mie interne battaglie avevo bisogno di sfo-
garle nella solitudine.
Ahimè, quali e quante grida di ribellione eccheg-
giarono entro quelle quattro pareti! Io giacqui
per molte ore bocconi sul mio letticciuolo in un
parossismo di disperazione. E sempre mi pareva
che giù nel piccolo giardino la ninfa continuasse
a cantare le sue flebili note.
Ma quando mi sollevai da quel giaciglio, abbat-
tuto e vinto da una notte d’insonnia e di febbre,
quando, nella luce incerta dell’alba, cominciò a di-
segnarsi vaporosamente, nella sua cornice antica,
la testina bionda dipinta da mio padre, il volto
candido, sorridente e dolce che ricordava la mamma,
nello sfinimento dell’aspra lotta, io mi sentii do-<noinclude></noinclude>
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minato da un solo, da un unico, ardente desiderio
che tutte le altre impressioni vinceva imperioso :
il desiderio di vederla, almeno una volta, di ve-
derla, non foss’altro da lontano....
Gozzoli s’adirò, mi fece osservare che mi man-
cavano i mezzi per viaggiare, che, scoperto, avrei
potuto essere, per mia madre, la cagione di molte
amarezze, anzi dell’infelicitá stessa, ch’ella non
approverebbe certamente, che io agivo da fanciullo
insensato...
Nulla valse a trattenermi. Accumulando sforzi
e sacrifizii, misi da parte un gruzzolo di monete,
andai a Torino, corsi nella via ov’ella dimorava,
chiesi con mille precauzioni di lei...
Era partita per un lungo viaggio.
Un periodo di grande sconforto tenne dietro a
quella grave delusione Mi sentivo affranto e inetto
al lavoro : il mio maestro si lamentava con ragione
di me, la mia salute cominciava a soffrirne.
Qualche mese appresso, Gozzoli mi pose in
mano, non senza preamboli, questa lettera, che
con reiterate preghiere (me lo disse poi), era riu-
scito a farmi scrivere da mia madre :
Caro Mariano,
«So che pensi a me e questo mi fa molto pia-
«cere. So anche che ameresti di vedermi ma,
«pur troppo, non è possibile. Di tanto in tanto
«ci scriveremo. Rivolgi le tue lettere ferme in
«posta alle iniziali A. A. N. 2000. Io ti risponderò<noinclude></noinclude>
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Canzone senza parole (raccolta)
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| Nome e cognome dell'autore = Giulia Turco Turcati Lazzari
| Nome e cognome del curatore =
| Titolo = Canzone senza parole
| Anno di pubblicazione =
| Lingua originale del testo =
| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = letteratura
| Argomento = raccolta di novelle
| URL della versione cartacea a fronte = Indice:Turco - Canzone senza parole.djvu
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== Indice ==
* {{testo|Canzone senza parole}}
* {{testo|Una cameriera}}
* {{testo|Salvatrice (1901)|Salvatrice}}
* {{testo|La passione di Curzio Alvise}}
* {{testo|La cura di Manuela}}
* {{testo|Vinta}}
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«per compiacerti. Duoimi però di doverti dire che
«una regolare corrispondenza fra noi non può
«aver luogo. Addio, ti benedico e ti abbraccio.
«Ama sempre tua madre... •>
A questa lettera così stentata e fredda che pur
mi riempì di gioia,, io risposi con un delirio di
effusione, parlandole di tutto il mio passato, delle
mie speranze d’arte, sovrattutto dell’infinito desi-
derio che avevo sempre sentito di lei.
Dopo avermi fatto a lungo e angosciosamente
aspettare, ella alfine mi riscrisse, esortandomi ad
essere più tranquillo e più ragionevole, ma in quel
tempo la ragione non aveva alcun potere sovra
di me ; il bisogno di parlarle si faceva così tormen-
toso che non ero più capace di tenere il pennello
in mano nè di chiudere occhio in tutte le notti.
Il buon Gozzoli si diede premura di avvertirla
del udo stato e di pregarla che per amore della
mia salute mi concedesse almeno la grazia d’un
breve convegno. Fu allora ch’ella mi propose di
raggiungerla a Venezia: quel primo cenno fu poi
seguito da notizie più sicure e. finalmente della
precisa indicazione del giorno in cui ella forse vi
sarebbe andata sola.
{{asterism}}
A Padova, alla stazione del tram, non avevo
visto nessuno ; nel convoglio nemmeno. La via da
Padova a Fusina che fiancheggia il monotono ca-<noinclude></noinclude>
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naie del Brenta mi parve interminabile. Nel mio
ardente desiderio della mèta guardavo, con occhio
distratto, ai paeselli, alle borgate sparse nel piano,
alle ville, ove l’arte dell’affresco ha profuso un
tempo i suoi tesori e che un po’ tristi ora e ne-
glette si nascondevano dietro i rami dei salici
spruzzati d’un tenero verde novello.
Un vaporetto giallo attendeva, placidamente
ancorato, allo scalo primitivo di Fusina. Un’unica
persona, una signora era scesa dal treno prima di
me, m’aveva preceduto nella cabina, senza voltarsi.
Il primo momento il mio cuore ebbe un tale sus-
sulto che mi parve di venir meno : desideravo quasi
che non fosse lei, come se mi mancassero le forze
per affrontare quel sospirato incontro. E nello
smarrimento mortale della mia anima le rivolsi un
timido sguardo.. Ah no, no, non poteva essere la
mamma. Era una donna molto giovane, forse una
fanciulla che le circostanze costringevano a viag-
giare sola.
Il vaporetto aveva appena salpato quand’ella
s’alzò e uscì quietamente dalla cabina. Alla mia
violenta agitazione succedeva una profonda ama-
rezza. Ove si trovava in quel momento mia madre ?
ove la raggiungerei? Incapace di starmene così
rinchiuso, con quei dolorosi pensieri, volli cercare
i conforti della natura, uscii sul ponte e andai a
cercarmi un posto a poppa, in vista del paesaggio.
Con viva sorpresa m’accorsi che quella signorina
m’aveva preceduto. Senza curarsi del disagio élla<noinclude></noinclude>
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rimaneva in piedi, tutta assorta nella sua contem-
plazione. Un pescatore, appoggiato alla ringhiera,
guardava anch’egli con occhio benevolo, fumando
la sua pipa, alla linee amiche del largo piano.
Il battello s’inoltrava nell’estuario, turbando
coll’elice la placida distesa dell’acque e suscitando
un subbuglio d’ondate alterne bianche e nere entro
quel turchino monotono e forte in cui il cielo po-
teva mirare liberamente il suo volubile disegno.
L’orizzonte era diviso in due semicerchi: una fosca
nebbia rossiccia squarciata da una zona di fuoco
ne copriva una parte, l’altra andava dilagando in
una mite uniformitá cerulea che le secche, appena
visibili, interrompevano a tratti con qualche lunga
pennellata grigia. Sopra, una nube immensa, ma
leggera, si librava, come un velo.
— Ecco San Giorgio in Alga e le fortezze!
disse il pescatore desideroso di dare spiegazioni e
additando le isole che si delineavano, nere nere,
nella laguna incrostata d’argento.
— E laggiù San Clemente e San Servolo...
quanta tristezza in quel paradiso! rispose la fan-
ciulla al marinaio — quello è il campanile di Ma-
lamocco... — soggiunse sporgendo la sua piccola
mano verso il lontano orizzonte, verso la spiaggia
ove l’Adriatico si frange.
Una vela passava in distanza e pareva nera
anch’essa nella fulgidezza dello sfondo ; un agile
sandolo, vogato a due remi, ci raggiunse e si di-
leguò ) come cose morte e reiette molti piccoli<noinclude></noinclude>
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topi da pesca giacevano perduti, tra la sabbia,
nella malinconica solitudine. Io guardavo a quello
spettacolo con ardente pensiero, e spesso anche
guardavo alla nostra singolare compagna, così
tranquilla, così serena nella giovanile gravitá del
suo aspetto. Aveva vent’anni e la sua bellezza
intelligente e pittoresca sembrava fondersi cogli
incanti del creato. Il suo vestito semplicissimo,
verde scuro, il suo cappello guernito da un velo
bianco, formavano una macchietta simpatica, co-
stituivano un valore nel grande quadro.
Nella nostra comune ammirazione scambiammo
a poco a poco qualche parola.
Ell’aveva una voce di contralto armoniosa e
dolce.
Il vaporetto, lasciando dietro a sè una lunga
traccia spumeggiante in cui, adesso, il colore si
rimescolava, con strana volubilitá, in tutti i toni,
dal celeste all’indaco, procedeva sicuro nella via
tracciata dai bianchi pali. Uno di quei pali reg-
geva una piccola lanterna: entrambi fummo col-
piti da quel debole lume smarrito come un sim-
bolo nell’immensitá delle acque.
Nella lontananza scorgevamo il profilo d’una
catena di monti ancor tutti striati di neve ; a
oriente brillavano due fari corno stelle sorgenti dal
mare; il cielo s’era fatto di viola, ma la laguna
fiammeggiava ancora di chiarori biondi.
Dinanzi ai divini allettamenti della natura, nella
quiete infinita e quasi sovrumana di quell’ora, mi<noinclude></noinclude>
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pareva che un senso nuovo e arcano di pace scen-
desse sulla mia travagliata giovinezza. Solo m’ac-
corava la brevitá del tempo.
Non tardò infatti ad apparirci il lungo ponte
che congiunge le isole alla terraferma; alcuni
campanili emersero da una fascia variopinta e irta
di alberi: era la stazione marittima, la G-iudecca,
Venezia cinta di navi, era l’antica malinconica
signora su cui si stendevano mollemente i veli
gemmati del crepuscolo.
Entriamo nel canale tra due file di navigli i
cui riflessi gialli, verdi, neri, tremolano sull’acqua
ancor vibrante di luce, e dopo brevi soste, corriamo
ancora, corriamo lungo la riva delle Zattere, di-
nanzi ai ponti, agli squeri, ai rii che s’internano
in mezzo alle case, con un mistero profondo. Centi-
naia di fanali s’accendonó sulle banchine, ma nel-
l’aria perdura una luminositá trasparente, un tran-
quillo ed estatico prolungamento del giorno che
si rasserena, mentre il colore degli edifizii e delle
navi si è giá annullato nella fredda uniformitá
della sera.
Il pescatore era sceso alle Zattere, io ero ri-
masto solo colla mia compagna che stava appog-
giata alla parete della cabina colle mani strette e
abbandonate lungo la persona in attitudine di
raccoglimento profondo. Soltanto quando fummo
giunti alla riva degli Schiavoni ella si mosse per
uscire e mormorò colla sua voce penetrante e
grave : — Ci siamo....<noinclude></noinclude>
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Nel salutarla io le diedi il mio biglietto ed ella,
rispose :
— Grazie, signore: io mi chiamo Anna Iorio.
Il vaporetto approdava : la fanciulla usci rapi-
damente ; la vidi passare sul piccolo ponte e spa-
rire nella folla. L’impressione di solitudine che
avevo per un -momento dimenticata, mi ripiombò
sul cuore, come se un sogno delizioso svanisse al
mio sguardo. .
Annottava. Io feci alcuni passi sul molo, seguii
il movimento della gente, mi trovai nella Piaz-
zetta e un senso strano di magìa mi abbagliò.
Sulla sua colonna di granito il leone alato ve-
gliava fieramente nella notte. L’orientale basilica
stava immersa in una dolce penombra ma la piazza
era tutto uno sfavillìo di fiammelle e una molti-
tudine di gente sconosciuta vi ondeggiava come*
in una sala.
Ov’era in quel momento mia madre ? Era arri-
vata p era ancora lontana?
Il pensiero di poterla incontrare senza ricono-
scerla mi dava la febbre. Corsi subito alla posta..
— Vi sono lettere per Mariano Giuria ?
Sì, v’era una lettera, una delle solite buste fra-
granti. L’apersi con indicibile trepidazione. Ella
scriveva :
«Mi trovo a Venezia coi miei tre figli. Il pro-
«getto di Eusina è andato a vuoto. Siamo venuti
«colla ferrovia e alloggiamo alYHotel Danieli. Non
«potremo vederci subito. Fra due giorni i ragazzi<noinclude></noinclude>
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«andranno forse soli a Chioggia e io t’avvertirò...
«Ricordati che la massima prudenza è necessaria,
«che un passo inconsiderato mi comprometterebbe.
«Ti saluto con tutta la tenerezza....»
Dunque pochi passi mi dividevano da lei, dun-
que, in quella piazza, in quella folla, forse ella
passeggiava tranquillamente in mezzo ai suoi fi-
gliuoli !
Dovetti appoggiarmi al parapetto d’un ponte
per reggermi in piedi.
Appena ebbi la forza di muovermi, m’affrettai
a deporre in un alloggio qualunque la mia valigia
e tornai alla piazza, tornai alla riva, cercai 1 al-
bergo Danieli che conoscevo da una fotografia, che
mi ricordava l’amore infelice d’un poeta per una
donna crudele.
Passai, ripassai venti volte dinanzi alla piccola
porta, sperando ch’ella uscisse o rientrasse, guar-
dando con una straziante intensitá di desiderio alle
finestre illuminate... Oh Dio, mia madre, mia
madre !...
Nell’albergo era un continuo andirivieni di fo-
restieri tedeschi e inglesi ; io mi sforzavo di co -
gliere a volo le loro parole, e d’indovinare la loro
nazionalitá : ad ogni nuova comparsa un’ansia in-
superabile mi soffocava ... Verso le nove uscirono
due signorine accompagnate da un giovmotto e
s’avviarono verso la Piazzetta.
Io li seguii per un breve tratto. Parlavano il
dialetto piemontese e il giovane diceva alle so-<noinclude></noinclude>
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relle : — Non è che la stanchezza del viaggio, do-
mani stará bene.
Erano loro, certamente erano loro e parlavano
della mamma ! Io tornai indietro, palpitante. Te-
mevo che fosse indisposta, per 1’ agitazione cagio-
natale dalla mia presenza. Forse un minuto, alcuni
minuti avrei potuto vederla.... Il mio desiderio si
accrebbe fino al delirio, fino alla pazzia e senza
pensare a nulla, senza riflettere che un’imprudenza
poteva riescirle fatale, entrai follemente nell’al-
bergo e chiesi della signora Adelaide Salgari. Do-
vevo essere così pallido che il portiere mi guardò
stupefatto e mi rispose con un fare brusco ch’era
arrivata in quel giorno.
— E in casa? chies’io tutto tremante.
— Le signorine sono uscite poc’anzi, ma la si-
gnora vi è...
— Sola?
— Credo, ma no, aspetti ! c’è una visita : il
commendatore de Rozas. Non riceverá certamente...
se vuol lasciare il suo nome? — soggiunse egli
squadrandomi con mal celata diffidenza.
— Tornerò domani — diss’io tristamente e me
n’andai. Andai peregrinando per calli e ponti per
campi e campielli, senza direzione alcuna, guidato
soltanto da certi brani mirabili d’architettura che
m’attraevano, quasi incosciamente, nelle penombre
dei rii misteriosi.
Una serenata di mandolino e chitarra, una me-
lodia in minore, piena di semplicitá popolare e di<noinclude></noinclude>
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amorosa dolcezza, mi. trattenne a lungo sovra un
tetro ponte, dinanzi ad un alto palazzo dalle fine-
stre trilobate.
Nella mezza luce duna piazza intravidi il no-
bilissimo e fiero cavaliere del Verrocchio, poi i
miei passi vaganti mi ricondussero quasi inconsa-
pevole alla riva degli Schiavoni.
Nell’ampio bacino di San Marco tutto dormiva
sulla nerezza turchina delle acque, le barche, i ba-
stimenti, i vapori. Dormiva un yacht bianco, fan-
tastico, ancorato presso alla chiesa di San Giorgio.
Si taceva, assorto nelle sue memorie, il palazzo
ducale.
Udii ad un tratto il tonfo d’un remo e un
fruscio simile a quello delle stoffe di seta : era una
gondola che guizzava furtiva sotto il ponte dei
Sospiri e che subito scomparve nel canale tene-
broso. Quel canale e quel memore ponte mi misero
un brivido nell’ossa.
I caffè si spopolavano; la riva era ormai de-
serta, la notte alta, mite, sciroccale.
Mi ridussi lentamente dinanzi all’albergo Da-
nieli ove ogni lume era spento, m’avvicinai alla
riva che l’onda accarezza con un mormorio lieve.
Nulla più s’udiva fuori di quel mormorio dolcissimo
e un rombo lontano, la voce sorda del mare un po
burrascoso. L’armonia indefinita della notte m av-
volse. Le tempie m’ardevano, il mio cervello era
in subbuglio, visioni continue e diverse mi pas-
savano dinanzi al pensiero come fossero portate
da un’interna bufera.<noinclude></noinclude>
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Erano i tempi antichi quando la selva fetontèa
si stendeva sulle spiagge dell’Adriatico, quando
i primi Veneti scorrazzavano a cavallo lungo le
dune e le veritá delia storia non avevano ancora
profanata la poesia agreste e marinaresca della
leggenda. Poi vedevo tutte le etá, dalle più gloriose
alle più tristi e quella poesia sopravvivente di
ricordi e di rimpianti esaltava con uno spasimo
nuovo la mia mente eccitata.
Non ebbi una nozione giusta del tempo. L’al-
bergo Danieli mi teneva incatenato in una con-
centrazione febbrile, come se dovessi vegliare sul
sonno di mia madre.
Una nebbia densa era scesa sulla laguna e
l’aurora s’annunziava muta e malinconica. S’in-
travedevano nella fitta caligine, con forme e linee
incerte i campanili, i palazzi, gli alberi delle navi ;
l’acqua aveva preso un aspetto strano di piombo
in fusione ; i battelli, solcandola, sembravano rime-
stare un liquido incandescente e ridestarne l’ardore
nascosto sotto l’opaca superficie. A tratti, pareva
ch’emergessero, dalle onde, delle lamine d’argento,
dei tersi frammenti di specchio e i gabbiani, in-
quieti, si tuffavano voluttuosamente in quel luc-
cichio, agitando le candide ali. Ma il sole che sor1
geva pallido e scialbo, a somiglianza d’una grande
luna, all’ improvviso trionfò, come uno squillo
di tromba sopra una placida orchestra; il grigio
velario si sciolse e l’incantevole cittá uscì da
quella fumante atmosfera con un abbagliamento<noinclude></noinclude>
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di luce. L’infinita serenitá del cielo si riprodusse,
con un tono più forte, nel bacino ; l’azzurro riebbe
il dominio ; l’aria istessa prese una trasparenza
azzurrina, e il sole vibrò sulle onde un lungo ri-
flesso, come una pioggia di diamanti, che danzas-
sero, follemente, nella spensierata gioconditá del-
l’ora mattutina.
L’albergo Danieli si destava anch esso, s apri-
vano i balconi e la mia trepidazione si faceva an-
gosciosa.
M’allontanai per timore di tradirmi. Era affranto
e mi sembrò che la giornata non finisse mai.
Andai tre volte alla posta, indarno.
Le cose dell’arte, per quanto bramate dal mio
spirito, non avevano più la forza di distrarmi, il
mio pensiero fisso era quello d’incontrarla o di ve-
derla almeno da lontano ! Errai parte del dì nei
luoghi più frequentati della cittá, col cuore in
sussulto, collo sguardo ansioso: nulla.
Nel pomeriggio mi recai al Lido, colla stessa
speranza. L’Adriatico era placidissimo, e il cielo
era quasi interamente sóreno, solo una nebbia leg-
gera fasciava la curva maestosa dell’orizzonte. Al-
cune vele molto bianche brillavano in lontananza
sul chiarore opalino e i pali color cinabro dello
stabilimento balneario erano l’unica macchia che si
vedesse suda tranquilla immensitá del mare. Due
ondate dolci, monotone solcavano lo specchio ni-
tido delle acque: una era orlata d’azzurro sma-
gliante, l’altra più vicina, più bassa e glauca, ve-<noinclude></noinclude>
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ni va a deporre regolarmente sulla sponda delle palle
di schiuma che subito si scioglievano in candidi
fiocchi. Le alghe segnavano con una sottile listarella
di trasparente smeraldo, la linea vaga ove l’onda
placida moriva.
Solitudine e silenzio ovunque.
Io sedetti sulla rena tempestata di conchiglie
perlacee, gentili avanzi di vite spente che il mare
getta, sdegnoso sulla sponda.
Un’ora dopo, un vecchio straniero e una fan-
ciulla passarono dinanzi a me, camminando len-
tamente, con gli sguardi affascinati dal paesaggio.
Egli era bianco di capelli, ella bionda e il suo velo
turchino un po’ rialzato sulla fronte tremolava per
la brezza marina e pareva sempre involarsi. Un
pescatore entrava intanto fino al ginocchio nel-
l’acqua ancor fredda, vi s’immergeva, vi si tuffava
quasi, per raccogliervi le ca[>pe lunghe, il pane della
giornata. Quelle tre figure, forse altrove indiffe-
renti, disegnandosi, con una certa distinzione sullo-
sfondo grandioso e sublime, assorgevano alla no-
biltá d’un soggetto d’arte.
Ma ben presto forestieri e pescatore si dilegua-
rono e io rimasi ancora fermo ad aspettare, in-
consciamente, sulle dune.
Da lì a poco tempo una leggiadra figurina di
donna apparve da lontano. Ella portava una gran
pianta di cardo selvatico, e seguiva adagio adagio
la spiaggia, raccogliendo conchiglie. Ebbe un mo-
mento d’esitanza, poi venne innanzi tranquilla,
verso di me, con gli occhi fissi al mare.<noinclude></noinclude>
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Ricordai il vestito scuro, il piccolo mantello,
il cappello velato di bianco e la riconobbi subito : *
«ra Anna Jorio. Ci salutammo, io non senza tur-
bamento, e mentre passava ebbi l’ardire di rivol-
gerle la parola:
— Buon giorno, signorina. Qual mirabile pae-
saggio !
Ella si volse con una certa fierezza nello sguardo,
<jon una fiamma in viso e rallentando appena
appena il passo, ripetè freddamente:
— Buon giorno.
Quella voce profonda e dolce aveva un lieve
accento di rimprovero, ma io non mi trattenni dal
domandarle :
— Le piace molto il mare, non è vero ?
— Mi piace tanto che sebbene la mia amica
Tion avesse tempo d’accompagnarmi ci sono ve-
nuta sola — ella mormorò come per giustificare
quella sua passeggiata.
La signorina non dimora a Venezia?
— Oh no.
XJna breve fermata allora?
— Brevissima... — ella concluse, chinando la
desta e passando oltre.
Non so che cosa io provassi nell’anima. Nes-
suna donna vi aveva mai lasciato quell’impressione
di sicurezza insieme e di soavitá. Mi pareva che
se avessi potuto prenderle una manina e farla se-
dere accanto a me sulla rena, in faccia al grande
mare, se avessi potuto narrarle la storia della mia<noinclude></noinclude>
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vita e scorgere una lagrima nei suoi profondi e
ardenti occhi neri io sarei stato felice....
M’ostinai ad attenderla al ritorno, sulla spiaggia
di Santa Elisabetta.
Due vaporini partirono senza ch’ella venisse.
Dopo essere stato lungamente in aspetto, la vidi
alfine comparire nel viale col suo passo svelto e
leggero.
S’affrettava, s’affrettava verso il pontone, ma
quando vi giunse, il terzo battello aveva giá sal-
pato e filava rapido verso la cittá. Ella s’affacciò
alla ringhiera, e. volgendosi spontaneamente :
— Giá partito !.— esclamò con vivo rammarico,
— ma come si fa, era così bello, stasera il mare !
Il suo volto esprimeva una grande contrarietá
ed io temetti essere la cagione principale di quel
disappunto. Ma a poco a poco, ella sembrò rassicu-
rarsi e allora parlammo insieme, interrottamente,
del paesaggio che ci stava dinanzi.
Ella lo conosceva benissimo e m’andava di-
cendo :
— Vede quel bosco brullo e quel campanile
che s’erge tutto bianco fra le case rosse? E San
Nicolò. E laggiù San Pietro di Castello coi suoi
camini e i suoi alberi di nave ? E poi quel fino e
vaporoso frastaglio dei giardini ? Non sembra una
visione d’Oriente?
E nominava le cupole e i campanili, nè mai si
saziava di contemplare nello sfondo la Piva degli
Schiavoni: uno sfavillìo di colori sui quali pioveva
10<noinclude></noinclude>
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dall’alto, armonizzandoli, una luce bianca, quasi
irreale.»
— Ella non conosceva Venezia? domandò, ad
un tratto la fanciulla.
— No, è una poesia che il mio sguardo igno-
rava. Vengo da Roma per trovare dei parenti...
— Ah!... ed è pittore?... — ripigliò ella con un
lieve sorriso.
— Sì.... come lo sa?
— Si capisce subito, dalle sue parole, dai mo-
vimenti delle sue mani. Esporrá... qui in Venezia ?
*
— Non ancora....
— Bisogna avere coraggio, nella vita.
— Ne ha lei del coraggio?
— Ho dovuto averne molto. Sono istitutrice —
diss’ella, senz’altro commento. ì
Mi parve che pochi minuti fossero trascorsi
quando il vaporetto che avevamo veduto sguisciare
da lontano, fra i bastimenti del bacino di San
Marco, venne frettoloso a prendere gli ultimi pas-
seggeri del Lido. Vi salimmo insieme, insieme se-
demmo sopra una panca di prora.
Sul canale di Chioggia, fra i gruppi di pali
biancheggianti, si vedeva una fila di barche da
pesca dalle vele gialliccie o ranciate, d’una tinta
finissima, quali lisce, quali adorne di figure alle-
goriche, di simboli che equivalgono a stemmi di
nobiltá. Erano cariche di masserizie, di canestri o
di gente e tutte sembravano immobili e pur len-
tissime procedevano, abbandonate all’instabilitá<noinclude></noinclude>
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del vento, trasportando i marinai stanchi e son-
nacchiosi in un’estasi di cadente sole. In un pic-
colo burchio stava una donna vestita di nero, ve-
lata, e come assorta da un grave dolore. Un bam-
bino giuocava cogli attrezzi da pesca dinanzi a lei
e un uomo, il marito, le cingeva amorosamente
con un braccio la persona, senza curarsi della gente
che potesse vederlo. Anna Iorio osservò in silenzio
queldatto di tenerezza protettrice e il suo volto si
suffuse di rossore.
Dalle secche si levò uno stormo d’uccelli e nel-
l’aria ch’ essi battevano rapidissimi coll’ ali ap-
parve un improvviso luccichio d’argento. Ma il sole
cominciò a declinare proiettando sulla laguna una
larga , spera di luce che a poco a poco si franse e
si trasformò in due grandi chiazze sfolgoranti. Il
fulgore si stendeva sull’acqua picchiettata di mac-
chie color del rame e le chiazze, impicciolendosi a
poco a poco, si affocavano, abbagliantissime. Poi,
non rimase più, all’orizzonte, che un immenso globo
giallo, senza palpito di raggi Lo splendore dell’acqua
si venne attenuando e il globo si fece rosso come
una bragia.
Io guardavo al dolce profilo della mia compagna
che un vivido riflesso aveva illuminato d’un chia-
rore caldo, guardavo a quel volto puro la cui vo-
luta placiditá celava un tumulto di nobili entu-
siasmi.
Eravamo giá rientrati nel bacino, ove guizza-
vano, in mezzo ai fermi navigli, leggiadre gondole<noinclude></noinclude>
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0 sandolini, lasciando una lunga traccia, una specie
d’allumácatura più chiara sulla laguna, ora semi-
nata di pagliuzze d’argento, or fiammeggiante di
carminio.
Vi sono, nella natura, dei momenti di passione,
e a Venezia, nell’ora poetica del tramonto, sembra
spesso che un dramma si compia, che una sangui-
nosa battaglia si dia sulla terra e nel cielo fra gli
splendori fuggenti e le grandi ombre che discendono.
Anna Iorio ed io ne sentivamo il fascino come
se dal profondo delle nostre anime i misteri quasi
paurosi del creato suscitassero un’arcana rispon-
denza.
Scendemmo insieme dal vaporetto e ci fer-
mammo uno accanto all’altro presso la riva.
Un polverio d’oro era piovuto sull’acqua ; fuochi *
strani s’accendevano qui e lì fra i cristalli delle
bifore snelle, e si consumavano rapidamente, la-
sciandovi una velatura rosata. Anche dall’orizzonte
il rosa sfumava verso lo zenit, tutto era color di
rosa, una tinta delicatissima che persisteva e lot-
tava contro il crepuscolo come una speranza che
non sapesse disperdersi.
Anna Iorio, per prendere commiato, mi stese
la sua manina stretta nel guanto nero.
— Mi permette d’accompagnarla? — osai chie-
dere, non potendo sopportare il pensiero ch’ella mi
lasciasse così.
— Grazie, accetterei volentieri, ma non con-
viene — diss’ella con grande semplicitá.<noinclude></noinclude>
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— Nessuno ci conosce qui, e la convenienza
può essere una volgare convenzione... almeno al-
cuni passi, fino alla piazza....
— Ebbene andiamo ! ripigliò la fanciulla, colla
sua solita dolcezza dignitosa.
Gli angeli dalle ali dorate clie stanno ingi-
nocchiati fra i pinnacoli sull’arco della facciata
di San Marco, risplendevano ancora misticamente,
come se ardessero di pietá nell’ aere amaran-
tino.
La notte, lenta, calava, da tutte le parti s’in-
nalzavano suoni di campane, fusi ed armonizzati
in un grave concerto e la gloria antica sembrava
risorgere dalle ombre misteriose.
Prima di lasciarci, molto commossi entrambi,
noi ascoltammo insieme quella musica. La fanciulla
s’era giá avviata, per risalire la piazza, sola, quan-
d’io domandai:
— Anna, quando ci rivedremo?
Ella mi guardò, un po’ smarrita.
— Non so, rispose tristamente.
— Mi dica dove va domani?
Il suo sguardo profondo ebbe una tale espres-
sione di rimprovero che ne arrossii.....
— Ha ragione..... sono ardito e indiscreto. ...
esclamai — ma d’altronde, non havvi nessuna
legge che assolva di questo fatto per sè stesso
così innocente?
— Dipende dalla voce interna — disse Anna
— sono convinta che la sola coscienza debba re-<noinclude></noinclude>
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golarci. Non cedo ad un pregiudizio, seguo piut-
tosto un istinto
— Dunque, nel suo pensiero ella mi con-
danna ?
— Oh no... io non ho alcun motivo di condan-
narla .... ma ci conosciamo così poco..
— Ci conosciamo da poco, non poco... ci vo-
gliono spesso degli anni per penetrare nel mistero
delle anime, ma, talvolta, basta un’ora sola perchè
una creatura umana inconsciamente si disveli...
A me sembra d’averla sempre conosciuta, Anna...
forse la sua immagine era in me da gran tempo...
come un sogno...
Ella non rispose alle mie parole ma mi stese
la punta delle dita dicendo risolutamente : — Vado.
— Io le dispiaccio! ben me n’accorgo Mi
consenta di dirle una sola cosa ancora... Non le
chiederò più ove va domani dove va gli altri
giorni, ma se dovessi incontrarla per caso, se
l’istinto mi riconducesse sulla sua via, mi permette
di avvicinarmi e di parlarle?....
Ella esitò.
— Non mi risponde... lo chieggo come una
grazia !
Allora ella assentì con un lieve cenno del capo,
e senza stendermi la sua manina, mormorò: «Buo-
nasera» in fretta, e quasi vergognosa dell’assenti-
mento, mi lasciò, con un fare brusco, e rapida
scomparve sotto le Procuratio, in mezzo alla folla.<noinclude></noinclude>
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Da un’ora, non avevo più pensato a mia madre.
Ne sentii un rimorso cocente, corsi alla posta, e
vi trovai il seguente biglietto :
Caro Mariano,
«Domani i miei figliuoli vanno a Chioggia.
«T’aspetto alle undici, qui all’albergo. Ti presen-
<«terai come il signor Adriano Delfiore. Ricordati
«che una somma cautela è necessaria. Distruggi
«subito la mia lettera... Addio
tua Madre.»
Alla lettura di queste righe il mio cuore co -
minciò a palpitare e palpitò tutta la sera e tutta
la notte. Passai molte ore dinanzi all’albergo Da-
nieli senza veder nessuno: uno spossamento pro-
fondo mi ricondusse sfinito al mio alloggio. Ogni
tanto rileggevo lo scritto di mia madre, lo baciavo
anche, tentando trovare fra le righe un’espres-
sione di tenerezza. Mi sembrava che il laconismo
di quelle parole derivasse da un naturale riserbo,
e il mio affetto s’infiammava d’una pena crudele.
Ma il pensiero di dover prendere un nome falso
mi destava nell’animo un senso di ribrezzo, il
nome volgarmente romantico, che mi era stato
imposto, mi faceva orrore, e allora la piccola busta
profumata, nei miei ardenti baci, mi bruciava le
labbra come un oggetto clandestino.<noinclude></noinclude>
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M’alzai all’alba, andai errando per la cittá.
L’istinto mi trasse entro S. Marco.
Un cardinale celebrava l’uffizio divino dinanzi
alla pala d’oro di Ordelafo Ealier ove sta effigiato
il simbolo dell’Eterna Sapienza ; ardeva, fra gli
aurei splendori della basilica, la bella lampada bi-
zantina e, dall’alto della cantoria, un coro di gio-
vinetti, con voci angeliche, purificate da ogni ter-
rena passione, diffondeva sulla navata, sugli altari
e sulla folla, un’onda di ritmi fugati, una musica
mista di pietá grave e di pace infinita.
Io mi volsi a destra e a sinistra in quella folla,
cercando Anna lorio poiché sentivo la sua pre-
senza. Non tardai difatti a scorgerla. Era inginoc-
chiata in una panca e abbandonava la testa fra
le mani in atto di fervente preghiera. Non vedevo
che il nodo pastoso dei suoi capelli neri sotto le
falde del piccolo cappello. Aspettai che si solle-
vasse per salutarla: da lontano ella rispose gra-
vemente al mio saluto. A poco a poco mi ridussi
dietro a lei onde potessimo ascoltare insieme la
musica consolatrice che scendeva, scendeva sempre
più mistica sugli astanti. Ma per tema di dispia-
cerle, non osavo nemmeno guardarla e quando si
appressò l’ora del mio convegno fui costretto a
partire, così senz’averle detto una parola
Una muta, una doppia angoscia era scesa sovra
di me quando m’avvicinai, tutto tremante, all’al-
bergo Danieli, per chiedere di mia madre. Balbet-
tai, colle labbra strette, il mio nome, il mio falso<noinclude></noinclude>
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nóme, poi seguii, con passo mal sicuro, il came-
riere. Egli m’introdusse in un salotto ove regnava*
una certa oscuritá e abbagliato com’ero dalla luco
della Riva non vidi più nulla. Aspettai un minuto,
indi una porta s’aperse piano e una figura di donna-
m’apparve confusamente nel vuoto, colle braccia prò*
tese. Io mi precipitai follemente entro quelle brac-
cia e, per la prima volta, gustai l’ineffabile dol-
cezza dei materni baci... Oh! quel divino momento
non tosse mai trascorso !
Ella sedette, mi chiamò a se dappresso e ci
guardammo l’un l’altro con intensitá. Il mio
sguardo ormai avvezzo a quella penombra, di-
stinse chiaramente il materno sorriso... Mia madre
era una donna piccola, delicata, gentile d’aspetto,
mi sembrò ancor giovanissima. Un’aureola di ca-
pelli circondava lo squisito ovale del suo volto,
ma quei capelli erano rossi, d’un fulgido colore
tizianesco, e, nel ritratto, apparivano biondi e
biondi me l’aveva descritti Gozzoli. Me l’ero im-
maginata bionda la mamma, e quella chioma fulva
mi faceva un senso strano di meraviglia, mi di -
straeva quasi dalla mia muta adorazione. Ci guar-
davamo ancora tenendoci per le mani, ma io mi
sentivo così agitato dalla gioia, che temevo, ad
ogni istante, di venir meno fra le sue braccia. Mi
erano saliti dal cuore alle labbra i più dolci nomi
da dirle, a conforto del turbamento che, non senza
una segreta angustia, m’aspettavo di scorgerle in
viso, ma ella non era punto smarrita, e dinanzi ad<noinclude></noinclude>
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una tale franchezza non potei che balbettare sin-
ghiozzando :
— Mamma, mamma, oh mamma!
Ella mi considerava attentamente, mi esami-
nava anzi e disse:
— Sei cresciuto bene, Mariano... soltanto un
po’ magrino, un po’ pallido...
— Io sono felice di trovarla così fiorente,
mamma, m’aveva tanto parlato di lei, quel cuor
d’oro di Grozzoli... e io avevo tanto pensato e so-
gnato e sospirato, oh sì, pazzamente sospirato
questo momento !
Sentivi la gran voglia di vedermi, povero
ragazzo.. e anch’io, sai, lo desideravo sempre; ma
e così difficile, cosi pericoloso per me... sono segreti
gelosi da custodirsi... Io non posso mai allontanarmi
sola da casa e guai se i miei figli sapessero...
Quelle parole «miei figli», che, scritte, mi
avevano fatto tanto male, pronunziate mi trafis-
sero, ma risposi subito:
— Oh non tema, mamma, io non abuserò di
nulla, io nulla tradirò... ma lasci soltanto che la
vegga, che la contempli, un poco... mamma, ado-
rata mamma!
Ella mi mise una mano dolcemente sulla fronte.
Oh l’infinito benefizio di quella carezza!
Poi, spinto da un impulso irresistibile, io sog-
giunsi:
— Vede... Grozzoli non l’aveva descritta bene..*
m’aveva detto ch’era bionda, e lei...<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
— Ero bionda, — rispose mia madre, sorri-
dendo, — ma quell’ insipido colore mi stancava e
mi tinsi i capelli... Tutte lo fanno ora, Mariano, tu
forse non lo sai.. hai vissuto sempre così ritirato,
così lontano dalla societá, si vede anche dal tuo
vestire che non ci sei avvezzo..
Io mi raddrizzai istintivamente.
— Non è un rimprovero che ti faccio, caro
ragazzo, figurati! devi avere così pochi quattrini!
è una semplice osservazione, sai-
io la guardavo, molto sorpreso e all’improvviso
mi parve d’intravedere qualche cosa d’artefatto
nelle sue gote, nelle sue ciglia, nelle sue labbra,
in tutta la sua persona, insomma, che trattenni a
stento la dolorosa esclamazione che mi sfuggiva
dal petto. Ahimè! quelle labbra che m’avevano
dato il santo bacio materno erano tinte, erano
tinte!
— Che hai? - domandò ella — che cosa posso
averti detto di spiacevole?
— Nulla mamma, nulla. Io sono un figlio del
popolo e ignoro certe raffinatezze.
— Ebbene Mariano, parliamo d’altro. Dimmi
dei tuoi studi, progrediscono %
— Lo spero, mamma.
— Che cosa stai facendo ora?
— Un quadro simbolico.
— Su quale soggetto?
— «Grli Orfani.»
— Come li raffiguri?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— In un modo strano forse... sono dei fanciulli
perduti in un bosco selvaggio che rappresenta l’u-
mana vita...
Subito mi pentii d’aver detto questo e com-
presi d’essere stato crudele, ma ella non mostrò
d’aver capito e rispose soltanto:
— Bada di non divagare troppo..
Poi subito soggiunse:
—■’ Hai qualche speranza di guadagno?
— Fin qui non ho pensato che allo studio.
— Tuttavia, se t’affidassi ai negozianti...
— E vero, potrei fare degli acquerelli a cin-
quanta lire e delle copie di quadri celebri... oh
certamente potrei, ma se mi ci mettessi, sono si-
curo che il pennello mi cadrebbe dalle dita. Prefe-
risco vestirmi male e mangiare peggio, piuttosto
che prostituire la mia arte ad uno scopo d’inte-
resse... vi sono delle cose sacre, mamma
— Sei fiero, — riprese ella sorridendo, — ma
colla fierezza si fa poca strada... e allora, dimmi,
questo piccolo viaggio a Venezia, t’avrá costato un
grande sacrifizio?
— Oh mamma, mamma, un sacrifizio dopo che
l’ho tanto desiderato!
Ella parve commossa, mi strinse a sè con una
certa effusione e io le abbandonai la testa ardente
in seno fra le trine fragranti e i gioielli, ma quel-
l’abbraccio, tanto sospirato, mi dava adesso un
senso di arcano dolore.
Continuando a seguire il corso dei suoi pen-
sieri, ella disse:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
—- Sará necessario ch’io ti risarcisca un poco
delle spese che hai fatto per me, vorrei offrirti di
più, ma tu accetterai il buon cuore...
S’avvicinò quindi ad una piccola scrivania, ne
trasse una busta, che certamente era giá stata
preparata, e me la porse
— Io non sono venuto per mendicare del de-
naro! — esclamai in un impeto di ribellione —
Sono venuto per vederla e per prendermi quella
piccola parte della sua tenerezza, alla quale ho
diritto, mamma, null’altro.
^ Mariano... sei... sei collerico come tuo padre!
— balbettò ella scoppiando in un pianto dirotto.
Allora mi sembrò che il rimorso mi soffocasse,
mi gettai in ginocchio dinanzi a lei, le baciai
le mani, le baciai il lembo della veste, ma un
grande specchio stava in faccia a noi e mentre io
studiavo, con ansia, il suo volto per vedervi ri-
comparire un dolce, indulgente sorriso, m’accorsi
ch’ella vi si mirava per rilevare forse quanto le
lagrime l’avessero alterata...
Io mi sentivo diventare un giudice inesorabile
e avevo ribrezzo di me e della mia suscettibilitá
morbosa e pur non ero capace di vincermi...
Ella mi sollevò con una certa bontá e accor-
gendosi dell’amarezza che mi trapelava nuova-
mente dal volto, si sforzò di rasserenarsi e di
dirmi qualche amorevole parola ; ma a me parve
che nel suo segreto ella attribuisse la cagione del
mio turbamento alla goffaggine dell’educazione<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
borghese ; mi parve, Iddio me lo perdoni, ohe si
vergognasse un poco di me. La sua voce aveva un
accento di benevola compassione non giá l’ardore
represso dell’affetto spontaneo; s’ella accondiscen-
deva a rivedermi era unicamente per un vago
istinto di dovere e di pietá: la sua anima non
sentiva alcun desiderio della mia tenerezza, ben
me n’ero convinto!
Rimanemmo muti entrambi. Ma ella ruppe su-
bito il silenzio, domandando ancora:
— Dunque non accetti?....
— No, mamma. La ringrazio con tutto il mio
cuore, ma non ne ho bisogno.
— Come vuoi, Mariano. Bada però di non es-
sere troppo orgoglioso.... — mormorò dolcemente.
— È vero, sono orgoglioso, mi compatisca! —
diss’io con tristezza, sentendo che non avrei mai
potuto giustificarmi.
— Non se ne parli più. Hai fissato di rima-
nere qualche tempo a Venezia?...
— Oh no. Devo affrettarmi di tornare allo stu-
dio soltanto.... se mi fosse concesso di rivederla
ancora una volta.....
— Ci pensavo anch’io pensavo ad un altro
luogo di ritrovo, perchè qui tu non puoi rimanere
a lungo, nè ritornare senza pericolo di dar so-
spetto
Oh! l’orrore di quell’incontro segreto!
— Forse sabato, — continuò ella, i miei figli an-
dranno al Lido a far colazione, io diro loro che<noinclude></noinclude>
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non mi sento di seguirli e t’indicherò ove tu
possa trovarmi.
— Farò tutto ciò ch’ella desidera, — balbettai,
— ora è tempo ch’io parta, non è vero?
— Sì, ragazzo mio. Noi abbiamo molti cono-
scenti qui e se qualcuno giungesse
— Ha ragione.
Ci abbracciammo un’ultima volta, la lasciai,
scesi le scale a precipizio, uscii fuori sulla riva,
come un pazzo. Avevo la febbre, m’ardevano le
tempia, il cuore mi martellava furiosamente. Il
sole mi dava fastidio: corsi a chiudermi in casa,
ma quella fredda camera d’albergo mi parve in-
sopportabile e dovetti tornare subito all’aperto.
Mi sentivo male, la mia mente era confusa,
mi sembrava che il cuore si fosse vuotato ad un
tratto, sanguinando, e non volevo analizzare me
stesso, nè spiegarmi la cagione di quell’affanno.
Passai due giorni nella desolazione, errando
a caso senza trovar conforto.
La prima sera, sulla riva, una voce, nella folla,
mi fece sussultare.
Era la voce di mia madre. Ella passeggiava
tranquillamente in mezzo ai suoi figli, dando il
braccio a uno di loro. Io li seguii alcun tempo, a
qualche distanza, non visto, nell’ombra, poi do-
vetti fuggire.
L’indomane, nel pomeriggio, al pontone della
Cá d’oro essi salirono tutti sul vaporetto col quale
io tornavo dalla stazione. Le panche erano occu-<noinclude></noinclude>
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paté e io cedetti il posto a mia madre, come uno
■sconosciuto qualunque. Ell’aveva arrossito nel ve-
dermi, io, con uno sguardo, avevo cercato di rassi-
curarla Non so come reggessi alla vista di que-
gli stranieri che pur erano miei fratelli, di quella
donna che pur era mia madre, come sopportassi, io
orfano reietto, la visione per me straziante di quella
famiglia! Mia madre temeva certamente che mi
tradissi. Ma io volli crudelmente rimanere fino
all’ultimo, e saziarmene lo sguardo, volli udire le
loro voci commiste e vedere i loro reciproci sor-
risi e leggere loro in faccia la baldanza della feli-
citá. Così, risalimmo insieme per il glorioso Canal
grande le cui acque riflettevano, un giorno, dalle
facciate degli storici edilìzi, gli affreschi del Ti-
ziano e del Griorgione, che in quel sereno pome-
riggio rispecchiavano ancor sempre una magìa di
forme e di colore. Io vedevo tutto a traverso un
velo e la mia anima era torbida e sconsolata.
sfc sfc %
Più tardi, alla posta, trovai una lettera in cui
la mamma mi esortava a recarmi il giorno ap-
presso, alle nove del mattino, in piazza dei Santi
Giovanni e Paolo ove mi avrebbe senza fallo
raggiunto. Aspettavo da più d’un’ora, con un
senso d’inesprimibile desiderio, quand’ella com-
parve col suo passo cadenzato e sicuro. La sua
figura era così snella, così elegante e giovanile da
Sembrare quella d’una fanciulla.<noinclude></noinclude>
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Ella venne dritta verso di me, senza mostrare
alcun imbarazzo e stendendomi la mano disse
subito :
— Sará meglio che prendiamo una gondola,
Mariano.
Per buona sorte ne trovai una nel canale vicino.
Ella vi discese, chiuse senz’altro le tende del felze
e, convinto torse che si trattasse d’un convegno
furtivo d’innamorati, il barcaiuolo sorrise, facen-
domi impallidire <li sdegno.
— Chissá per chi ci prendono ! — disse mia
madre, tranquillamente, mentre io soffrivo anche
di quel lieve sospetto d’avventura romantica che
le alitava intorno.
Il gondoliere aveva l’ordine di fare un giro in
cittá e di ritornare al punto di partenza e la barca
leggera scivolava, scivolava sulle luride acque fra
le alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Ella stava seduta accanto a me e una voce
lontana come un tenero ricordo d’infanzia, una
invincibile brama di fanciullo mi spingeva ancora
follemente fra le materne braccia, avido delle so-
spirate carezze; sentivo il bisogno di attrarre la
sua testina sul mio petto anelante, di sfogare tutta
la piena di quel figliale trasporto: il nuovo im-
peto di gioia aveva cancellato dal mio pensiero
ogni dubbio, ogni triste esitanza. Ma un rispetto
profondo mi frenava; temevo ch’ella potesse farsi
meraviglia di quell’appassionato amore di figlio,
forse a lei ignoto, e che desiderasse sottrarsi alla
11<noinclude></noinclude>
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mia ardente tenerezza, e null’altro osando, le co-
privo di baci le piccole mani strette nei guanti
bianchi, e la chiamavò, senza fine, col dolce nome
che la mia solitaria giovinezza aveva ignorato.
Ella sorrideva d’un blando, compiacente sorriso,
ma non tardò molto a ritirare le mani e accomo-
dandosi, quasi inconsciamente, le trine delle ma-
niche, disse con bonarietá:
— Tu sei molto impetuoso Mariano: in tutte
le cose ci vuole moderazione.....
— Mamma, mamma! come può dirmi così
ella non sa, ella non conosce i desiderii, i sospiri,
i singulti della mia vita travagliata, ella non sa
quanto io abbia lamentato e sofferto e pianto. E
ora che quest’unico momento mi è concesso, per-
chè, perchè non devo poter esprimere tutto quello
che ho dentro qui nel cuore, che mi tortura, che
mi soffoca Non sono io dunque nulla per lei?
non sono come gli altri la creatura delle sue vi-
scere e del suo sangue? Che cosa domando io se
non la briciola che cade dalla sua mensa, se non
una piccola parte di sentimento in tanta dovizia
di affetti e di contentezza?
— Calmati, calmati, Mariano, te ne scongiuro !
— diceva ella con una certa inquietudine, quello
che è avvenuto non può mutare, lo sai. Ciò non
toglie che ti voglia molto bene credo anche di
avertelo dimostrato in questo momento istesso
te lo dimostro
— E io gliene sarò eternamente grato, madre
mia<noinclude></noinclude>
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— Sì, ma la tua tempra ardente mi fa paura,
sei imperioso, non sei cauto abbastanza, una tua
parola potrebbe tradirmi e compromettermi per
sempre .... anche ieri mi hai fatto tremare . ...
— Ho mancato, lo sento, dovevo allontanarmi
ma non potevo, ero incatenato
— Hai fatto male, Mariano, e dovresti meglio
comprendere i riguardi che mi devi....
Ella m’amava, lo aveva detto, ma il suo affetto
era dominato dalla ragione, dall’opportunismo, dalle
esigenze sociali, e la mia folle brama di vederla
somigliava all’indiscrezione d’un estraneo
Un singhiozzo disperato mi strozzava la gola e
la gondola continuava a scivolare sulle luride acque
dinanzi alle alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Finalmente mi sovvenni d’essere uomo, com-
presi la stoltezza della mia folle illusióne e, raccò-
gliendo tutta l’energia rimastami, frenai le lagrime
che mi bruciavano le guancie, soffocai l’angoscia
che mi torturava, mi sforzai d’apparire tranquillo
e risposi con quiete alle domande ch’ella mi andava
rivolgendo, forse per distrarmi. Erano domande
vaghe, un po’ frivole forse e io le ascoltavo con
uno scoramento profondo.
Ad un tratto, ella disse, guardando il suo pic-
colo orologio:
— È trascorsa un’ora, Mariano, ove siamo ?
Io scostai la cortina.
— Presso al punto di partenza, mamma, alla
piazza di San Giovanni e Paolo.<noinclude></noinclude>
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—. Sará bene ch’io scenda, i miei figli potreb-
bero tornare
Prima che uscissi, per aiutarla, ella mi baciò,,
mi fece qualche raccomandazione convenzionale,
s’asciugò sulle ciglia una lagrima fuggevole.
— Dobbiamo lasciarci, Mariano, e chi sa quando
ci vedremo ancora ... —- mormorò ella risalendo
nella piazza.
Io la seguii senza rispondere e volli accompa-
gnarla per un breve tratto ma, avevamo fatti ap-
pena pochi passi, quando apparvero da lontano, i
tre giovani Sálgari. Essi ci avevano giá scorti.
10 la interrogai collo sguardo ; ella disse rapida-
mente :
— Rimani e sii prudente.
Sorpresi di vederla con un estraneo, i tre fi-
gliuoli s’affrettarono incontro alla madre:
— Faceva tròppo vento al Lido! .... Siamo
tornati subito.... De Rozas ci ha detto ch’eri ve-
nuta da questa parte.... T’ha riconosciuta in di-
stanza! — esclamarono tutti insieme.
Ella li salutò affettuosamente, appena appena
turbata dal pericolo, e disse, con franchezza, pre-
sentandoci a vicenda:
I miei figliuoli... Maurizio, Cecilia, Evelina...
11 signor Adriano Delfiore figlio d’un amico di mio
padre. Ci siamo incontrati qui in piazza
Le due fanciulle scambiarono un sorriso. Mau-
rizio Sálgari, un giovanotto molto elegante di
diciannov’anni, diede subito un’occhiata. poco be-<noinclude></noinclude>
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nevola alla mia persona modestamente vestita, poi
mi stese la punta delle dita ch’io appena toccai.
Dovevo essere pallido come un morto.
— Se non m’inganno, il signore si trovava ier-
sera sul vaporetto e tu forse non l’avevi ravvi-
sato? — domandò una delle due fanciulle.
— Difatti, Evelina. Ci pareva ad entrambi di
conoscerci ma lo credemmo un errore, non è vero,
signor Adriano ? . . . .
Io chinai la testa smarrito, e Evelina mi guardò
con una certa curiositá.
Era ancora adolescente e dalla sua fisonomia
gentile, dai suoi occhi grandi e azzurri spirava una
delicata bontá. Anche il suo sorriso mi parve be-
nevolo c un senso di fraterna tenerezza mi toccò
il cuore. Non era mia sorella ? non erano tutti fra-
telli miei?
Ma la madre, la madre nostra trovò il coraggio
di dirmi :
— Ella intendeva visitare la chiesa, non è vero ?
non vorrei che indugiasse per noi....
|— Non andiamo tutti a San Giovanni e Paolo ?
— domandò Evelina.
— Oggi no, bimba mia. Io ci fui poc’anzi e mi
sento stanca.
— Se permette, signora, mi ritiro, — diss’io con
la voce strozzata.
— Quando... quando tornerá a Milano ? — chiese
mia madre, ingiungendomi collo sguardo, di non
contradire a quella domanda che aveva lo scopo di
disperdere le mie traccio.<noinclude></noinclude>
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— Partirò domani, — risposi laconicamente,
con un brivido d’orrore per la menzogna alla quale
non ero capace d’associarmi.
Ella mi porse la mano, io le diedi tremando la
mia, la diedi ai miei fratelli, m’allontanai vacil-
lante, colla mente in disordine.
L’uomo può rassegnarsi a qualunque disillusione
ma il dolore d’aver perduto la fede nella propria
madre è un dolore mortale.
L’universo m’appariva scolorato, tutto mi si
oscurava dinanzi, le più dolci speranze della vita
sembravano sommergersi in un mare di dubbiezze,
e la donna che avevo tanto sognato anch’essa nei
miei vaneggiamenti giovanili, discendeva, discen-
deva, nella fosca caligine dell’ incredulitá. Dal
fondo dell’esser mio io sentivo sorgere ribelli pen-
sieri. io sentivo il freddo cinismo minacciare e
invadere la mia ragione.
Mi ridussi spossato all’albergo e, come la notte
in cui avevo inteso per la prima volta che mia
madre era circondata da un’altra famiglia, mi
buttai sul mio letto, in un impeto di desolazione
e piansi tutte le lagrime degli occhi miei. E come
allora, verso l’alba, il desiderio di vederla aveva
assorbito e vinto tutte le mie pene, così adesso,
ad un tratto, una visione confortatrice mi apparve,
e la serena e onesta figura di Anna Jorio s’im-
pose alla mia esaltata fantasia, con un’efficacia
salvatrice. Sentivo ch’ella sola avrebbe potuto re-
dimere la mia anima dall’oscuritá profonda in cui<noinclude></noinclude>
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era caduta, ma io non avevo più riveduto Anna,
non mi rimaneva più alcuna speranza d’incontrarla
e le mie circostanze mi costringevano a partire il
giorno seguente.
Mi pareva che nè la natura nè l’arte avessero
più il potere di consolarmi, nonpertanto un senso
di dovere mi trasse in alcune chiese, alla scuola
di San Rocco e al palazzo Labia perchè non vo-
levo partire da Venezia senz’avere portato il mio
umile tributo d’ammirazione ai nostri grandi. Sce-
glievo i rii più ombrosi, le vie più remote, agitato
dal timore d’ incontrarmi colla famiglia Sálgari.
Mi pareva che non avrei più avuto la forza di sop-
portarne la vista. Dopo il mezzogiorno un istinto
strano mi ricondusse all’Accademia che avevo vi-
sitato una volta al mio arrivo. Entrai nel primo
salone grande e con un improvviso smarrimento
vidi Anna che stava contemplando, in fondo, il
quadro di Jacobello del Fiore. Eli’era assorta in
quella contemplazione, coll’estasi mistica che dá a
certe donne l’arte dei primitivi, e io non osai tur-
barla. Soltanto quando si mosse m’avvicinai.
Mi salutò gravemente, ma il suo sguardo ebbe
un raggio d’infinita dolcezza.
_ Vede — diss’io, è proprio il destino che mi
ha condotto qui presso di lei, è il cuore che m ha
guidato .... Mi permette di esserle compagno in
questa sua visita alle cose gloriose del passato,
poich’ella arriva, non è vero?
r- Sì, arrivo.<noinclude></noinclude>
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L’Accademia era quasi vuota ; salimmo insieme
a quella specie di tribuna ove domina l’Assunta»
Io guardavo il Miracolo di San Marco ma la fan-
ciulla si volgeva spesso verso le divine Sante del
Carpaccio.
Dinanzi a quei grandi quadri noi ci comuni-
cammo molte idee.
Figlia d’un artista ella stessa, Anna aveva una
intuizione sottile del bello e il suo gusto per le
cose elette dell’arte, s’era squisitamente raffinato
fra le malinconie feconde d’una giovinezza dolo-
rosa. M’era noto il fascino ch’esercitavano su di lei
gli spettacoli della natura, adesso la vedevo esta-
siarsi davanti alle opere dei grandi antichi e la sua
anima candida e ardente di nobili aspirazioni, si
rivelava così chiara agli occhi miei che mi pareva
di leggervi come in un libro prezioso.
Guardammo insieme e studiammo diverse me-
ravigliose opere d’arte: la Presentazione al Tempio
che restituita al suo primo posto di tanto s’avva-
lora, il Cristo di Cima da Conegliano, le ancone
dei Vivarini, le Madonne di Gian Bellino, i pa-
stelli di Rosalba.
Anna era stata la mattina nella chiesa di Santa
Maria Mater Domini a vedere la Santa Cristina
di Vincenzo Catena che nel suo celestiale rapi-
mento sembra illuminare il piccolo tempio d’una
fiamma d’amore, e adesso aveva collocato la sua
seggiolina dinanzi alla dolcissima Sant’Orsolá del
Carpaccio che reggendo soavemente con una mano<noinclude></noinclude>
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la pura fronte, circondata da una treccia bionda,
posa tranquilla sul casto guanciale e sogna forse
il martirio che il fulgente angelo sta per annun-
ziarle.
— Vede, mi diceva Anna, la spirituale bellezza,
di queste due Sante, in tanta meraviglia di cose
grandi, mi tiene un impero sull’anima: il senti-
mento, non è forse la potenza più durevole nel-
l’arte ?
Eravamo soli, nella sala del Carpaccio. Io lessi
ad Anna la leggenda di Jacopo da Yaragine, poi
ci trattenemmo ancora discorrendo, ella seduta, io
in piedi presso di lei. E a poco a poco accadde
che, nel ragionare su quella sua domanda, si ve-
nisse ad un colloquio più confidenziale. Io mi sentii
convinto di lei come d’una luminosa veritá ; una
tenerezza infinita mi prese e il mio cuore esulce-
rato effuse abbandonatamente il proprio affanno:
io narrai alla cara creatura tutta la mia storia,
l’amara storia che a nessuno avrei voluto confidare.
Anna sollevò verso di me gli occhi umidi di
pianto, senza proferire parola. La sua tacita pena
mi consolava. Poi, ella pure raccontò tutto il pas-
sato dell’orfana sua vita e gli studi compiuti fra
gli stenti e il tormento di quella sua incompresa
missione d’educatrice, fra bambini viziati, in casa
di gente altera e fredda. A Venezia era venuta,
durante le sue brevi vacanze, per salutare una
vecchia amica della sua famiglia, per sodisfare
un vivo desiderio di diletti intellettuali.<noinclude></noinclude>
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La confidenza larga, sincera andava con effu-
sione crescente dall’una all’altra delle anime nostre
all’improvviso affratellate nella vasta solitudine
del mondo. Mi pareva che il mio dolore, passando
nell’anima innocente della fanciulla, si depurasse
di tutta la parte più terrena e più colpevole.
Oh sì ! innocente e pura ella era come il giglio
del campo, ma non ignara dell’umana miseria;
severa con sè stessa ella sentiva quella generosa
pietá del fallire altrui che è la virtù degli animi
superiori. Da lei ho imparato a non giudicare mia
madre. Da lei ho imparato a rispettarne in silenzio
la memoria. #
{{asterism}}
Quando tacemmo, paghi dell’intimo, grave col-
loquio, ci si affacciò una luminosa visione. Non
avevamo mai amato e dinanzi a noi era la gran-
dezza infinita dell’onesto amore. Ma la minaccia
della prossima separazione ci fece rabbrividire en-
trambi. Allora io dissi:
— Anna, Anna, si ricorderá ella di me ?...
— La ricordanza è uno dei migliori beni
— mormorò la fanciulla
L’Accademia ormai si chiudeva, dovevamo uscire.
— Andiamo all’aperto. Anna, andiamo a con-
templare insieme il cielo di Venezia, torniamo al
Lido a vedere il tramonto, non m’abbandoni, per
caritá, non m’abbandoni !...<noinclude></noinclude>
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Ella mi guardò dolcemente mentre scendevamo
le scale e disse con risolutezza.
— Io non posso venire con lei al Lido...
— Non mi ritiene degno d’accompagnarla ?
— Non lo dica nemmeno
— Dobbiamo dunque lasciarci imporre dal con-
venzionalismo sociale ? Le anime nostre non sono
diverse dalle altre ? non l’abbiamo detto poc’anzi !
— Ah sì, Giuria, molto diverse!
— E allora, ci lasceremo così ? Anna, Anna !
Ella mi guardò con tristezza.
— Senza una parola, Anna, senza una spe-
ranza ?
— Facciamo un po’ di strada insieme, — dis-
sella allora pietosamente, avviandosi verso il ponte
dell’Accademia.
Io la seguii, e assorti nel nostro colloquio,
giungemmo fino alla piazza di San Marco. In
mezzo ad una folla di forestieri, la banda suonava,
in quel momento, l’intermezzo funebre del Crepu-
scolo degli Dei. La musica mi parve straziante.
Avevamo entrambi gli occhi pieni di lagrime. Lei,
la donna, la più forte pronunciò la parola decisiva :
— Addio, Giuria.
— Mi chiami almeno Mariano !...
— Sì, Mariano.... addio.... che il Signore
l’accompagni.
— Mi consente di chiederle una cosa, in que-
st’ora suprema?
Ella annuì collo sguardo.<noinclude></noinclude>
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— Non qui in mezzo alla gente, fra tanti sco-
nosciuti che ci guardano... Entriamo nella chiesa J
di San Marco, non sará una profanazione.
Anna non volle negarmi quest’ultima conten-
tezza: ella s’avviò verso la basilica e io la seguii.
Il bellissimo tempio era quasi deserto e nella mite
penombra la lampada ardeva dinanzi all’altare.
Io presi la fanciulla per la mano e le domandai
con voce tremante:
— Anna, ella mi ha detto che la sua anima è
sola ?
— Molto sola.
— Non v’ha dunque nessuna più intima affe-
zione, nessun vincolo che la lega alla vita ?
— No, Mariano.
— Siamo soli entrambi, Anna. Non potrò io
guardare incontro al mio avvenire con una lontana
speranza ?.... non mi concede questo conforto,
l’unico ch’io mi abbia ?
Ella mi rivolse le sue pupille nere, velate, con
una muta interrogazione.
— Anna, mi vuole un po’ di bene?...
— Usciamo di qui, Giuria; questo è il tempio
del Signore.
— Non è nel tempio del Signore che si fanno
i voti più sacri? vede Anna, noi siamo due soli-
tari perduti nel mondo.... la sorte volle che c’in-
contrassimo, ella per consolarmi, io per conoscere
il benefizio della sua pietá. Ella pianse delle mie
afflizioni, ella ebbe misericordia del mio spirito esa-<noinclude></noinclude>
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cerbatò, io penetrai collo sguardo desioso di pu-
rezza entro il dolce mistero della candida sua anima,
io vi lessi delle divine gioie... A me pare di averla
sempre conosciuta, Anna, io l’ho sempre veduta
nel mio pensiero, ella era il sogno della mia triste-
giovinezza, ella è l’ardente visione dei miei ven-
tanni .... ella non è Anna Iorio.... per me è la
donna che in* se i più grandi affetti accoglie in
cui rifulge una spirituale maternitá....
— Siamo in chiesa, Mariano, mormorò la fan-
ciulla molto commossa.
— Lo so, lo sento. Non tema. Una domanda
ancora prima di lasciarci ! Mi consente di lavorare
con una fede inspiratrice nel cuore?.... il ricordo
di lei, Anna, infiammerá il mio intelletto, ravvi-
verá la mia fantasia troppo turbata.. Avevo cessato
di credere nella virtù e se non l’avessi incontrata,
Anna, forse, mi sarei perduto.
— Oh Mariano ! mi lasci pregare ! — e s’ingi-
nocchiò sul pavimento.
Io le rimasi dappresso col cuore in tumulto.
Dopo un lungo raccoglimento la fanciulla s’alzò,
mi stese la sua manina, balbettando con tremula
voce:
— Lavoreremo entrambi.
— Sì, Anna, lavoreremo. Apparteniamo al nu-
mero dei lavoratori. E mentre saremo material-
mente lontani, ahimè ! quanto, quanto lontani !
l’affettuoso pensiero saprá ricongiungerci evocando
l’ineffabile visione del ritrovo. Non è vero, Anna?<noinclude></noinclude>
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Ella non rispose, ma i suoi occhi grandi, dolci
e fedeli dissero con un casto sguardo la tenera,
consenziente parola.
Poi volle partire.
La notte non era lontana. L’accompagnai, per
suo desiderio, soltanto fino alla porta della chiesa.
Anna mi rivolse l’ultimo saluto, s’allontanò e scom-
parve nella penombra, portando seco il mio cuore,
tutta la mia vita.
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Questo è il racconto che mi lece Mariano
Giuria in un giorno di confidente abbandono.<noinclude></noinclude>
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Nella prima giovinezza, Curzio Alvise ed io,
eravamo stati intimi amici, poi gli studi ci ave-
vano divisi: egli seguiva a Firenze un corso di
belle lettere, io frequentavo un’ Universitá tedesca
per poter restare in Germania quale assistente in
una clinica medica. M’era pervenuta, a Berlino, la
partecipazione del suo matrimonio con la signo-
rina Subeiras, ch’io non conoscevo; avevo letto
nei giornali italiani qualche recensione lusinghiera
intorno ad un suo dramma; poi il silenzio episto-
lare, nella lunga lontananza, m’aveva fatto per-
dere le sue tracce. Ma la memoria d’Alvise viveva
nel mio cuore col desiderio degli antichi confi-
denti colloqui. Tornato stabilmente in Italia, mi
affrettai di cercarlo, e mi dissero ch’egli dimorava
in Piemonte, nella villa Subeiras presso N... Man-
dai alcune righe a quell’indirizzo e egli mi rispose
con un breve telegramma :
— Vieni, sono solo.
Curzio Alvise era figlio d’una gentildonna de-
12<noinclude></noinclude>
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caduta e d’un popolano salito in buona condi-
zione per virtù del suo ingegno, o accoppiava
l’energia incorrotta dell’uomo primitivo all’innata
cortesia del patrizio. Sognatore inquieto ma riso-
luto all’opera, tempra imperiosa e ribelle al con-
venzionalismo, egli possedeva il fascino di certe
vergini nature in cui l’individualitá del carattere
rifulge limpida e geniale, fra le battaglie dello
spirito, i focosi ardimenti, e la nobiltá delle riso-
luzioni estreme.
Come l’intelletto, così chiara egli aveva la
fronte ben disegnata dai capelli neri fqlti e ric-
cioluti; sulle labbra tagliate superbamente, come
un modello di scuola, era una lanugine lieve; ne-
gli occhi grandi e grigi, uno sguardo lontano che
rispondeva all’intemo sogno, che destato all’atten-
zione delle cose, si faceva all’improvviso acuto,
sfavillante; in tutto il volto d’un colore bruno e
sano, un’irradiazione di virile bellezza varia quanto
il pensiero.
Dal padre egli aveva ereditato la vigoria del
corpo alto, forte e snello, dalla madre la grazia
delle forme.
Le poche persone ch’egli veramente amava su-
bivano, senza volerlo, il più dolce impero, perchè
alla sua indifferenza sdegnosa verso il mondo egli
sapeva contrapporre, negli affetti d’elezione, un ap.-
passionata intensitá di sentimento.
Durante il viaggio, io pensavo con piacere a
quest’amico dei miei vent’anni, fra tanti prescelto,<noinclude></noinclude>
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ne rivedevo con lo spirito impaziente, la simpatica
figura.
Quando scesi alla stazione di N..., ove dovevo
prendere una carrozza per recarmi a Villa Su-
beiras, un uomo, sul fiore degli anni, ma d’aspetto
sofferente, vestito di nero e coi capelli un po’ briz -
zolati, mi si avvicinò, stendendomi le braccia.
— Andrea!
— Curzio! Sei tu!
— Son io. Non mi riconosci più eh? È di gran
tempo che non ci vediamo!
Alvise mi sembrò difatti molto mutato. Il suo
volto così baldo un giorno di ardente giovinezza
era assorto in una severa concentrazione, gli occhi
conservavano il lóro sguardo or distratto, ora sfa-
villante, ma sull’ampia fronte, fra i sopraccigli un
pensiero fisso, angoscioso forse, aveva tracciato
una piega di dolore.
Egli m’accolse con affetto, evitando di parlarmi
di sè, chiedendo invece con premura delle cose mie.
Alcuni minuti dopo, correvamo insieme in un
elegante landò, lungo vie polverose, nella vasta
pianura fertile di messi ondeggianti. In capo ad
un’ora apparve, fra i campi, una macchia pitto-
resca d’alberi e di grandi cespugli e i cavalli si fer -
marono dinanzi ad un cancello dalle punte dorate
sul quale stava scritto con grandi lettere : Villa
Emilia.
Vedendomi intento a quel nome, egli disse
semplicemente :<noinclude></noinclude>
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— Era la mia signora.
— L’hai perduta?
— Perduta.
— La molto tempo?
— Sono due anni.
Le sue risposte laconiche non mi permisero di
interrogarlo più oltre.
Intanto avevamo preso un lungo viale di tigli
in fondo al quale appariva la facciata grigia della
villa. Era una costruzione di buono stile, arieg-
giante il castello medioevale. Il largo fosso che
una volta la circondava era stato colmato di terra
e ridotto ad uso di giardino.
La carrozza s’inoltrò, passando sugli avanzi di
un antico ponte levatoio, in un porticato che met-
teva al cortile interno tutto verde di rosai rampi-
canti, i quali salivano fino alle finestre, circon-
dando le persiane di fiorite ghirlande. Smontammo
e, subito, Curzio m’introdusse nell’appartamento a
terreno, ch’era adesso, oltre i quartieri dei dome-
stici, l’unica parte abitata della casa.
Vidi una camera da letto di stile antico, un
gabinetto da bagno, un ampio studio e un salotto
messo con femminile eleganza. In un angolo di
questo, sovra un tavolino, era un paniere con entro
non so qual ricamo cominciato. Scorgendo nel mio
sguardo un’altra involontaria domanda, egli spiegò
brevemente :
— Era il lavoro d’Emilia, qui è rimasto tutto
al medesimo posto.<noinclude></noinclude>
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Poi aperse una bellissima porta di nóce scol-
pito, e subito soggiunse:
— Questa è la biblioteca di casa Subeiras: vi
troverai molte cose interessanti, anche delle opere
moderne di medicina Ma lascia che prima ti
conduca al tuo alloggio.
Salimmo la bella scala di marmo scuro e, infi-
lando dei larghi corridoi, giungemmo all’ala destra
ove Un cameriere vestito di nero ci aspettava.
Trovai due stanzette deliziose. Affacciandomi alla
finestra, sentivo l’olezzo d’una pianta di gelsomino
azorico che allargava i suoi rami, tutti stellati di
bianche corolle, sulla facciata; vedevo, nel sotto-
stante giardino, le aiuole color di fiamma dei ge-
rani e delle begonie e fra due gruppi di quercie
secolari un lembo d’orizzonte ove la linea verde
della pianura si perdeva nel cielo.
— Tu ami molto i fiori? — io chiesi.
— Non so... Ho forse imparato ad amarli e sono
avvezzo a vederli... Emilia li coltivava con pas-
sione. Ciò che li abbellisce ai nostri occhi è senza
dubbio il gentile rapporto ch’essi hanno con la
donna... T’aspetto nel parco — riprese egli, tron-
cando in fretta il discorso.
Quando scesi, Curzio fumava all’ombra di un
platano gigantesco, con un bellissimo cane danese
accovacciato ai piedi. In un boschetto, á poca di-
stanza, un cameriere stava preparando la tavola.
Desinammo così all’aperto, uno in faccia all’altro.
— Dunque tu vivi qui proprio solo? —■ osai
dqmandargli.<noinclude></noinclude>
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— Solo, sempre. Questo cane è il mio fido com-
pagno.
— Lavori?
— Quando posso, quando sono tranquillo... spe-
cialmente la notte.
— Una commedia?
— No, sto scrivendo un romanzo.
Io temevo che la mia presenza potesse disto-
glierlo dalle sue occupazioni, ma egli mi pregò di
restare qualche tempo con lui.
— Voglio confidarti la mia storia — diss’egli
ma non oggi, nè domani...
Intanto egli mi mostrò la villa con tutte le sue
adiacenze, il parco, la serra, le fattorie, le cascine.
Nato con un’anima d’artista e con una forte
ripugnanza alle cose positive, egli abbandonava la
cura dei suoi beni ad un onesto amministratore,
esigendo soltanto che intorno a lui tutto proce-
desse come nel passato, che il giardiniere colti
vasse con la stessa solerzia gli alberi ed 1 fiori,
che le persone di servizio attendessero con la
stessa scrupolosa esattezza all’ordine della casa.
All’entrata del paese d’Arvaz, il più prossimo alla
villa, sorgeva da un anno un asilo infantile che
la signora Alvise, nel suo breve testamento, aveva
pregato il marito di far erigere e al quale egli
dedicava indefesse cure.
Un giorno Curzio mi condusse anche nel cimi-
tero del paese ov’era la tomba di casa Subeiras ;
m’additò un semplice cippo, adorno di freschi fiori,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
con una breve e severa epigrafe in memoria d’E-
milia Alvise de Subeiras. Essa finiva con le pa-
role del rito nuziale :
— Quod Deus conjunxit homo non separet.
— Ha voluto essere sepolta qui — mi disse —
accanto ai suoi cari e presso la chiesuola ove
sposammo.
— Ella t’amava molto?
— Molto.
Grli occhi di Curzio erano fìssi, con una strana
intensitá, sul piccolo sepolcro.
— Non ne fui degno... — continuò egli, come
fra se. — Ti farò la mia confessione. Non ne ho
mai parlato con nessuno.
Ma non ebbe mai la forza di narrarmi la sua
storia. Una sera mi portò un rotolo di carte.
— Ecco — disse — ho scritto minuziosamente,
quello che mi sarebbe impossibile di raccontare.
L’ho scritto per te, mi sono aperto e confessato
perchè tu mi giudichi e mi condanni.
La notte, chiuso nelle mie camerette, io lessi
con attenzione il racconto che fedelmente tra-
scrivo cambiando soltanto i nomi.
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Venivo da Firenze, per raggiungere mia madre
a Torino, quando, in un giornale, dimenticato da
un viaggiatore nel mio compartimento, mi cadde
sottocchio l’avviso di concorso per il posto che<noinclude></noinclude>
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occupai presso il padre d’Emilia, qui nella villa.
Si trattava di riordinare una biblioteca di circa
10,000 volumi e buon numero di codici ch’egli
aveva ereditato da un suo fratello, uomo di scienze
morto a Parigi. Il lavoro era lungo e non poteva
durare meno di due anni, ma siccome la perdita
prematura di mio padre ci aveva lasciati in con-
dizioni poco buone io non esitai a offrire 1 miei
servigi al signor de Subeiras e accolsi, con gioia
la notizia ch’egli m’aveva prescelto fra diversi
concorrenti. Un mese dopo, misi il piede per la
prima volta in questa villa ove m’aspettava, invece
d’un semplice compito letterario, l’arduo problema
del mio destino.
La famiglia non si componeva che di tre per-
sone: l’ex banchiere Filippo Subeiras, la sua fi-
gliuola Emilia, fanciulla di vent’anni e la signora
Alwine Fruhman, signora tedesca e un po’ an-
ziana.
Un’epidemia difterica avendo rapito quasi Con-
temporaneamente, al signor Subeiras la moglie e
due figliuoletti, egli s’era ritirato con la figlia su-
perstite in campagna per vivere, in silenzio, di
quell’unico affetto e del suo dolore. Alwine, la dama
di compagnia, non aveva esitato a seguire nella
solitudine quei poveri derelitti e a dividere un’esi-
stenza dedicata in gran parte all’esercizio della
caritá.
Informato di questi particolari, io partii per
villa Subeiras coll’animo predisposto a trovarvi un<noinclude></noinclude>
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ambiente piuttosto serio, ma l’immaginazione fu
di gran lunga superata dalla realtá.
Quando giunsi, in un nebbioso giorno d’au-
tunno, padre e figliuola stavano giuocando agli
scacchi, dinanzi al caminetto, e Fráulein Fruhman.
lavorava per i poveri accanto a loro.
L’accoglienza gentile ma compassata mi fece
provare, subito, un senso d’arcana mestizia.
Filippo Subeiras non era privo d’ingegno, ma,
égli aveva impiegato tutte le sue facoltá mentali
nell?onesta speculazione e adesso le dedicava da
buon dilettante a continui e fortunati esperimenti
agricoli sulle sue terre. Conservatore ostinato,
s’occupava di politica e di scienze sociali solo per
trovare sempre nuovo argomento ai suoi instanca-
bili rimpianti del passato, alla sua acerba disappro-
vazione del presente, al suo invincibile terrore del
futuro.
Ma se l’intelletto di Subeiras era chiuso al sen-
timento della bellezza e dell’arte, egli confessava
però volentieri la propria ignoranza e quest’è un
merito che pochi possono vantare.
Emilia amava suo padre d’una tenerezza svi-
scerata, governava la casa con precoce accorgi-
mento, faceva dei lavori meravigliosi ed era una
appassionata cultrice di fiori. D’indole ordinata,
paziente, riflessiva, ell’aveva saputo trar profitto
dai suoi modesti studi e possedeva delle solide
cognizioni, ma parlava poco e sempre sopra sog-
getti familiari. Severa, anzi un po’ intransingente<noinclude></noinclude>
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nei principii, temperava quella naturale rigidezza
<con una saggia ed efficace bontá, coi nobili istinti
dell’animo compassionevole e incline al sacrificio.
Solo dinanzi alla ingiustizia e alla menzogna ve-
niva meno il dolce riserbo di Emilia. Una volta,
in mia presenza, entrò in una violenta collera,
perchè una cameriera aveva mentito, ma seppe
subito reprimere lo sdegno con la pietá. A tutti
il suo cuore era prodigo d’attenzioni cortesi ; ne
facevo io stesso l’indiretta esperienza: la sua per-
sona, nondimeno, non esercitava sopra di me la
più lieve attrattiva.
Alwine era la creatura più originale che avessi
mai incontrata. Più che renitente, refrattaria allo
studio della lingua italiana, ella parlava quasi
sempre il tedesco o l’inglese. Molto alta, d’una ma-
grezza eccessiva, con mani e piedi più grandi del
vero, la sua figura era dominata da un naso enorme
sul quale, a conforto dell’esagerata miopia, certi
occhialoni azzurri avevano messo stabile dimora.
Ella raccoglieva sulla sommitá della testa, in un
povero ciuffo, i suoi radi capelli rossicci e aprendo
la bocca mostrava due file di denti lunghi, spor-
genti e d’un abbagliante bianchezza. Ma su quella
bocca il sorriso era soave com’era soave l’anima
d’Alwine ; dai piccoli occhi, sotto le lenti, parlava
un vivo intelletto d’amore.
Io ero troppo giovane, troppo inesperto per ap-
prezzare le qualitá dello spirito disgiunte dai pregi
della forma esterna. Vivevo concentrato nelle mie<noinclude></noinclude>
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occupazioni, attendendo, nelle ore libere, ad uno
studio sulla commedia italiana nel seicento, per
il quale la biblioteca mi forniva valide notizie.
La sera si raccoglievano nella villa gli alti fun-
zionari dei paesi vicini, qualche sindaco di buona
famiglia, un paio di sacerdoti, il medico, alcuni
signori dimoranti in campagna. Durante quelle riu-
nioni Emilia mi guardava, di tratto in tratto, con
una certa insistenza, ma mi rivolgeva di rado la
parola ; due o tre volte, però, mi chiese con grande
interesse di mia madre, e a Natale, quando andai
a Torino per salutarla, volle che le recassi una
focaccia fatta proprio con le sue mani.
Dicevasi, in quel tempo, che la mano della si-
gnorina Subeiras, la quale portava seco un ric-
chissimo patrimonio, tosse ambita da molti più o
meno sinceri ammiratori. Io ne vidi comparire
parecchi alla villa e partirsene senza speranza :
Emilia non voleva abbandonare suo padre.
Mi trovavo da sei mesi circa, in casa Subeiras
quando il signor Filippo, còlto in mia presenza,
da sincope cardiaca, stramazzò al suolo e spirò fra
le braccia della sua atterrita figliuola, lasciandola
sola al mondo. L’infelice fanciulla desto in me
una viva compassione, e non potendo offrire mi-
glior conforto al suo tacito dolore, vegliai insieme
a lei la salma ch’ella aveva pietosamente composta
tra i fiori.
Straziata, ma sempre presente a se stessa,
Emilia dava prova d’una mirabile fortezza d’animo.<noinclude></noinclude>
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IJn vecchio cugino lontano che Subeiras aveva
scelto quale esecutore delle sue ultime volontá,
venne a stare qualche tempo nella villa e mi co-
municò il desiderio della signorina ch’io condu-
cessi a termine il lavoro iniziato. Non ebbi il co-
raggio di rifiutarmi, ma domandai un mese di ri-
poso, non sembrandomi opportuno di rimanere in
casa Subeiras in quei momenti di sì grave lutto.
Quando vi ritornai, Emilia era sola con Fraulein
Alwine ; a me era stato assegnato un bell’appar-
tamentino di tre stanze, nel quale, un cameriere,
addetto alla mia persona, mi serviva anche nelle
ore della mensa.
Tolta qualche escursione nelle cittá vicine, vi-
vevo solitario come un trappista, e i convegni
della sera non contribuivano certo a distrarmi.
Dopo aver adempiuto ai più stretti obblighi della
convenienza, Emilia pareva concentrarsi nel lavoro
■per i poveri, al quale attendevano con lena instan-
cabile, quasi febbrile, le sue piccole mani, ma in
realtá, ella stava tutta raccolta nel culto ardente
e geloso della propria afflizione. Soltanto qualche
volta io sentivo ancora posarsi sovra di me il suo
sguardo con un’espressione di curiositá benevola,
quasi di muta domanda.
Era trascorso un anno. Il riordinamento faticoso
della biblioteca volgeva al termine e, siccome un
lontano parente di mia madre, morto in quel<noinclude></noinclude>
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frattempo, aveva pensato, con atto generoso, a
procurarmi una modesta ma sicura indipendenza,
avido di libertá, io raddoppiavo il lavoro, divi-
sando di lasciare la villa fra poche settimane.
Accadde allora un fatto strano e decisivo per il
mio avvenire.
Qualche volta, per un’antica consuetudine, do-
vuta al desiderio amorevole del signor Filippo,
lavoravo in giardino. Un giorno d’aprile, mentre
stavo decifrando certe pergamene interessanti per
l’archivio di famiglia, in un capanno giá tutto
vestito di verdura, mi vidi comparire dinanzi la
signorina de Subeiras, sola. Credevo avesse a chie-
dermi, come talvolta soleva, un qualche consiglio
intorno alle sue letture, ma, al contrario dell’usato,
ella si mise a sedere nella poltroncina che sempre
indarno le offrivo e alle mie parole : — In che cosa
posso aggradirla, signorina? — rispose con voce
tremante :
— Dovrei parlarle.
Nelle aiuole fiorivano a gara i giacinti, i tuli-
pani e i narcisi; fra i boschetti si nascondevano
le fragili corolle degli anemoni ; intorno a noi era
tutta una fragranza di viole, un fremito di prima-
vera gioconda. Io posai il codice che m’era rimasto
fra le mani sul tavolino e ritto dinanzi a lei mi misi
in ascolto. Ella comincio con grande titubanza.
Jt colloquio che sono venuta a chiederle,
Alvise, è molto grave e può avere una notevole
influenza sulla mia vita<noinclude></noinclude>
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Io la guardai sorpreso e non seppi che cosa
rispondere. Emilia proseguì:
— Io mi trovo in una condizione difficile, do*
lorosa e assai diversa da quella delle altre fam
ciulle. Sono sola al mondo: non v’ha peggiore de-
stino di questo. Avrei potuto sposarmi, parecchie
volte, ma ho sempre temuto, lo confesso, che la
simpatia che mi si dimostrava fosse giustificata
più che dalla mia persona dal triste patrimonio
che tante crudeli sventure mi hanno lasciato in
ereditá. Preferii rimanere libera. Sola tuttavia non
posso vivere, lo sento, e piuttosto che fare il sa-
crifizio della mia anima orgogliosa ad un calcolo
volgare, ho risolto di transigere, con quelle leggi
che condannano la donna a soffocare passivamente
le proprie inclinazioni. Ho molto meditato e sofferto,
Alvise, prima d’uscire dal silenzio e dal riserbo e
vorrei che fin d’ora, ella sapesse comprendermi e
anche compatirmi se non agisco con la correttezza
che si compete ad una fanciulla mia pari.
— È saggio consiglio quello di seguire il pro-
prio impulso senza rendersi schiavi delle conven-
zioni sociali — risposi, con crescente meraviglia,
— d’altronde a me, signorina, non spetta di dare
alcun giudizio.
— A lei più che a qualunque altro — ella disse,
con un dolce sorriso, arrossendo.
Io m’inchinai ma rimasi impassibile e freddo e
vi fu nel colloquio una breve, penosa pausa, dopo
la quale, ella riprese alquanto turbata:<noinclude></noinclude>
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— Fra gli uomini che ho conosciuti, uno solo
ha saputo ispirarmi quel sentimento di stima e di
amicizia che deve destare in noi il compagno della
nostra vita. Questo giovane non s’è mai curato di
me, se non per debito di cortesia, ma nei giorni
più strazianti del mio dolore ha voluto dividero
meco, tacitamente, molte ore terribili e indimenti-
cabili. A lui mi vincola, oltre quell’istinto del
cuore che non si spiega, una riconoscenza pro-
fonda... a lui sacrifico volentieri la naturale ritrosia
dell’animo e rivelo con coraggio il mio segreto o
la mia cara speranza...
Lo sguardo della signorina Subeiras mi cercava,
timidamente. Povera Emilia, ella m’appare ancora
qualche volta com’era quel giorno, ritta nella sua
poltroncina di giunchi (non s’abbandonava mai ad
alcuna posa languida o molle), vestita a bruno,
colle mani convulse e strette... Vedendo ch’io me
ne stavo silenzioso, ella proseguì con la voce ^alte-
rata da una forte commozione:
— Devo esprimermi ancora più chiaramente?
devo dirle anche il nome ?...
— Io? sono proprio io? — balbettai con anime
non solo attonito ma anche renitente.
Ella annuì chinando gli occhi e soggiunse, non
senza un certo imbarazzo:
— Non volevo scrivere nò farle parlare da altri,
perciò ho dovuto venire io stessa...
— Sono così confuso, così sbalordito, signorina,
che non trovo parole...<noinclude></noinclude>
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Mi pareva infatti di dover richiamare da quel-
l’apparente sogno il mio pensiero alla realta della
vita. Il cuore agitato mi martellava in petto.
— Non posseggo alcuna esterna attrattiva, lo
so, ma il mio cuore è assetato d’affetto e s’ella
non ricusa la mia proposta, troverá in me una
louona e tenera moglie — disse Emilia, coraggio-
samente.
— Io sposare la signorina Subeiras! — escla-
mi _ no, no, è un onore, una distinzione di cui
mi sento affatto immeritevole.
Ella fece un cenno espressivo con la mano e
continuò, non senza amarezza:
— Non dica così, Alvise. Un uomo come lei
deve avere la coscienza del proprio valore.
— È appunto dinanzi alla coscienza che un tale
matrimonio avrebbe bisogno di giustificazione.
Crudeli, crudeli parole erano le mie ma io sen-
tivo un feroce istinto di sinceritá. Ebbi anche il
cuore di guardarla freddamente. Dalla sua fisono-
mia scorretta ma caratteristica, traspariva più che
l’intelligente pensiero, la pura, quasi austera onesta
dell’anima. Nondimeno ella mi sembrò, come sem-
pre, assai brutta. Piccola e tozza, Emilia mancava,
nelle forme, di ogni grazia, d’ogni leggiadria fem-
minile. L’unica sua bellezza erano i capelli lunghis-
simi, bruni e folti, ma scevra affatto di vanitá,
-ella li stringeva sulla breve fronte, come una benda,
senza un ricciolo, senza un’ondulazione; negli
occhi neri era una dolce espressione di tenerezza<noinclude></noinclude>
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fedele, contradicente alla curva fiera dei soprac-
cigli, alla piega un po’ tenace delle labbra.
— Durante il mio soggiorno alla villa — io
ripigliai, vedendola molto contristata da quelle
parole — la sua benevola cortesia a mio riguardo,
non si è smentita un solo momento, ma l’accerto,
signorina che nulla, nulla mai m’avrebbe fatto pen-
sare alla preferenza lusinghiera ch’ella volle accor-
darmi.
— E pure — disse Emilia, con un filo di voce
— io mi sentii damarla il primo giorno ch’ella
entrò in questa casa. E quando morì il mio caro
babbo, che la teneva in grande considerazione, il
mio affetto si confermò fra le angoscie della sven-
tura. Non sono donna da amare due volte nella
vita. Le cose forti sono le più profonde, Alvise, e
non vengono così facilmente alla superfìcie.
Dinanzi a quella confessione così schietta e
così nobile, il mio turbamento s’accrebbe fino allo
spasimo, ina non seppi proferire la gentile, l’affet-
tuosa parola alla quale Emilia aveva diritto. Ella
vide quant’ero perplesso e angustiato, e, subito
dimentica di sè, disse con grande bontá:
— M’accorgo che non è in grado di darmi una
risposta.. se crede, Alvise, aspetterò. Qualunque
decisione ella vorrá prendere, sono sicura che non
avrò mai a pentirmi della confidenza che le feci,
perchè la credo un uomo d’onore. Aspetterò due
o tre giorni — riprese, vincendo nobilmente la
giusta alterezza dell’animo. E, alzatasi, si mosse
13<noinclude></noinclude>
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per rientrare in casa. Aveva la bócca contratta, il
passo incerto e un grande pallore nel volto.
— È necessario ch’io possa riflettere — mor-
morai — ma vorrei che fin d’ora, signorina, si
tenesse certa della mia devota gratitudine.
Ella mi rivolse un tristissimo sorriso. Povera
Emilia, quant’era buona, quant’era magnanima! ..
Ma io mi sentivo inasprito contro me stesso, con-
tro il destino e contro di lei. Avrei bramato poter
corrispondere almeno con una deferente affezione
a quel suo generoso amore, ma il cuore mi s irri-
gidiva in petto.
L’accompagnai un piccolo tratto, poi ella s al-
lontanò a lento passo con una malinconica dignitá
nello sguardo.
{{asterism}}
Dopo quel colloquio, io non ebbi un minuto
d’esitanza. Vedevo tutte le cose con chiarezza e
ancorché non potessi restare insensibile a una,
proposta che doveva mutare per intero la mia.
sorte, sentivo che, nell’accettarla, io sarei di-
sceso al livello dei volgari speculatori ai quali
Emilia accennava e forse più basso ancora. Ma la
sera, quando andai ingiardino e vidi, fino a notte
inoltrata, trasparire il lume dalle persiane nella
camera della signorina Subeiras, il pensiero di
quella creatura infelice che nella solitudine della
sua vita, nell’amarezza di tante sventure m’aveva
prescelto spotaneamente a compagno mi turbò, mi<noinclude></noinclude>
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fece vacillare nella presa risoluzione. Ella forse
vegliava, colla mente fìssa nell’incerto avvenire,
sperava forse che la mia titubanza fosse derivata
dalla meraviglia o da un delicato riguardo del-
l’animo, e io ero costretto invece a rappresentare
una parte da scortese cavaliere. La mia lotta non-
dimeno fu breve. Non è sempre vero, ahimè, che
amore
a nullo amato amar perdona.
Io non potevo offrire ad Emilia quella corri-
spondenza di affetti ch’ella aveva il diritto d’esi-
gere, la mia lealtá m’imponeva d’esprimermi fran-
camente. Trascorso appena il secondo giorno le
scrissi:
«Signorina,
«Dall’ ora memorabile del nostro colloquio,
non ho cessato di riflettere e d’interrogare me
stesso La coscienza m’accerta ch’io non posseggo
le qualitá necessarie per renderla felice, egregia
signorina, quant’Ella merita, e un sentimento d’o-
nestá e di delicatezza ch’Eli a non vorrá, spero,
disprezzare, mi costringe a ripetere che non mi
ritengo degno della nobile e lusinghiera proposta
che tanto m’onora. In questo momento doloroso,
mi conceda d’esprimer! e, ancora una volta, la mia
riconoscente e immutabile devozione.
«Attendo i di Lei ordini per poi lasciare al più
presto questa casa ospitale alla quale mi legano<noinclude></noinclude>
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tante care memorie e implorando un benevolo
compatimento mi segno, ecc.»
Consegnai la lettera al cameriere e un’ora dopo
mi pervenne la seguente risposta:
«Signore,
«Dimentichi, La prego, il colloquio ch’ebbe
luogo fra noi. Io pure mi studierò di cancellarne
dal cuore la penosa memoria. In quanto al la-
voro della biblioteca, desidererei, se ciò non Le
riesce di troppo grave disturbo, ch’Ella si com-
piacesse di condurlo al termine. Mi creda sempre
di Lei
«Obbl.ma Emilia Subeiras».
Queste righe, così laconiche, così blande, mi
rassicurarono sul conto della signorina Subeiras. Le
mandai subito un biglietto in cui le dicevo che
mi farei un dovere di compiere con la massima
sollecitudine l’opera mia. E mi ci rimisi di lena.
Due tre volte, dalla finestra, vidi Emilia aggirarsi
fra le aiuole del giardino, ma non ebbi più il co-
raggio di scendere la sera. Un giorno m’imbattei
nel corridoio in Fraulein Alwine che mi rivolse
uno sguardo addolorato e un freddo saluto.
a È informata d’ogni cosa» dissi fra me, e
mi studiai d’evitarla. Durante un’intera settimana
non incontrai più nessuno, ma una mattina scorsi
il medico entrare ad ore insolite nella villa, e,
avendo chiesto al cameriere se vi fossero amma-
lati in casa, colui mi rispose:<noinclude></noinclude>
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— Come ? non lo sa ? c’è la signorina con la
febbre.
— Colla febbre?
— Sissignore. Il dottore poc’anzi faceva il viso
bujo.
— Dov’è Fraulein Friihman ?
— Sempre dalla signorina.
— Dite alla cameriera che la preghi di venire
in sala.
E scesi, agitatissimo. Fraulein Alwine non
tardò a raggiungermi. Era molto angustiata.
— Dio buono — esclamai — che cos’è acca-
duto ?
Ella fece un cenno espressivo con le mani.
— Febbre, febbre — mormorò — grossa febbre,
Herr Doktor.
— Da quando? — domandai.
— Oh ! tre giorni.
— E il medico è venuto soltanto ieri?
— Ja! io chiamato, non voleva, non voleva.....
— E che cosa dice il medico ?
— Tice febbre infettivo...
— Ha fatto qualche strapazzo ? ha preso freddo ?
è stata forse da qualche ammalato ?
— Oh no.
Ella mi guardava con gli occhi pieni di la-
grime e con una tale espressione di tacito rim-
provero che ne rimasi mortificato.
, — Voi sapete, voi sapete ! — proseguì, pren-
dendomi amorevolmente per un braccio.<noinclude></noinclude>
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— Io?
— Sì. Non dovrei tire, mein lieber Herr Doktor1
aber es muss dock sein... Voi non avete cabito niente.
Voialtri uomini non cabite mai niènte. Scusate.
Non dovrei tire... aber nei\i, das ist za grausam...
crudele, si dice, crudele.
Fraulein Alwine sempre così prudente, così ri-
servata doveva avere delle forti ragioni per farmi
quelle confidenze. Io non seppi che cosa rispon-
derle, avevo l’attitudine d’un delinquente.
— Eine gute Seele — continuò — and so allein!
— povera Emilia, così solo!
— Non è solo chi possiede una buona amica
come lei...
— Oh! io vecchio, Herr Dohtor. Voi siete gio-
vane. Oh ! se signorina sapesse ! weh mir, weh mir I
Io me n’andai col cuore in tumulto, ma non
trovavo pace in nessun luogo.
Quando il medico venne, a mezzogiorno, lo
aspettai, per interrogarlo.
— È una forte febbre d’infezione — mi dis-
s’egli. — Da qualche tempo la signorina Subeiras
aveva perduto la sua consueta serenitá. La set-
timana scorsa la trovai in preda ad un grande
abbattimento.. non può rassegnarsi alla perdita
di suo padre...
— Non vi sará pericolo, spero ?
— Pericolo ? Mah ! Non si può dir niente... Se
la febbre incalza...
Difatti essa incalzò, rapidamente. Alle nove<noinclude></noinclude>
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della sera il termometro segnava quaranta gradi.
Nella casa cominciava a diffondersi un senso di
spavento e d’angoscia. Io stava sempre nell’anti-
camera. Alle tre del mattino Fráulein Fruhmann
uscì per ordinare del ghiaccio e passando, mor-
morò :
— Ho detto ad Emilia che siete qui, , ella vi
prega di coricarvi.
— Non posso. Non reggerei lassù. Vorrei fare
qualche cosa anch’io, Fráulein. Mi mandi fuori,
dal medico, in cittá, ove crede... disponga di me.
— Oh, crazie Voi potete stare a casa e far
molto lo stesso. Voi potete cambiare vostra riso-
luzione e non esser tanto superbo. Vostra parola
vale più di rimedio. Clrinin, antipyrin... tutto niente,
questo ci vuole! — E additava vivacemente il
cuore. Poi soggiunse ancora una volta:
— Se la povera Emilia sapesse! toeh mir, weh
mir! - si mise un dito alla bocca e scappò via.
Sotto una forma esterna quasi ridicola, Al-
wine nascondeva un cuor d’oro : durante il mio
soggiorno a villa Subeiras avevo avuto spesso
l’occasione di convincermene.
Incapace d’un volgare pensiero, ch’agiva evi-
dentemente per l’impulso d’un desiderio affettuoso,
d’una gentile speranza. Forse, nel suo cervello
romantico di tedesca, ell’aveva immaginato che la
felicitá dello spirito potesse costituire per la si-
gnorina Subeiras un elemento di fìsica salvezza.
Comunque fosse, il solo amore del bene induceva<noinclude></noinclude>
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certamente la signorina Fruhman a transigere col
suo solito riserbo, con la squisita delicatezza del
suo animo.
Il dubbio ch’Emilia avesse a soffrire nella sa-
lute per colpa mia non m’era mai balenato al
pensiero, e senza fallo l’avrei respinto come uno
sciocco suggerimento della vanitá, ma le parole
d’Alwine dovevano per forza turbarmi ed esse fi-
nirono col destare in me un senso strano di ri-
morso, una specie d’apprensione dolorosa.
L’inferma continuava a peggiorare e quella
notte istessa, nell’angustia delle ore interminabili
e tristi, io rivelai ad Alwine la tortura del-
l’animo mio. L’affetto d’Emilia cominciava a lu-
singare il mio amor proprio e ad impietosirmi il
cuore.
Vi sono momenti fatali che decidono di tutta la
vita, momenti in cui la veritá delle cose ci sfugge
e lo spirito si addormenta in ingannevoli sogni.
Non voglio dilungarmi su ciò che accadde, su
quella pericolosa dedizione di me stesso alla gra-
vitá incalzante dei fatti.
Il giorno appresso vi fu un notevole migliora-
mento nello stato dell’ammalata; la febbre dimi-
nuì, le condizioni generali divennero buone. Alwine
mi recava, di tratto in tratto, notizie e saluti, mi
prodigava sorrisi’ di benevolenza. Quando la gua-
rigione fu assicurata, andai a Torino per parlare
colla madre mia. Ella si sentì subito attratta da
un vivo sentimento di gratitudine verso la signo-<noinclude></noinclude>
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rina Subeiras che le sembrava il mio angelo tu-
telare nel mondo pieno di tentazioni.
In quel tempo, sperai anch’io di poter amare Emi-
lia e fu con una sicurezza strana, con una specie
d’esaltamento che la rividi dopo la sua malattia.
L’avevano trasportata in giardino, sopra una sedia
a sdrajo, in mezzo ad un boschetto di philadelphus
fioriti e fragranti e Alwine era venuta a dirmi
che, se volessi scendere, mi vedrebbe volentieri.
Al mio apparire la signorina Subeiras arrossi vi-
vamente e mi rivolse uno sguardo in cui si leg-
geva insieme all’ansietá una fierezza dolorosa. Io
mi avvicinai sorridendo e dissi piano:
— Emilia ! cara Emilia !
Non avevo mai osato chiamarla col suo nome.
Ella ne parve commossa, i suoi occhi bruni si
velarono di lagrime e dalle labbra ancora pallide
esci come un soffio la timida domanda:
— E dunque?..
Io mi chinai a baciarle la mano.
Eravamo fidanzati e intorno a noi sorrideva
la primavera nelle fiorenti aiuole, nei gorgheggi
delle capinere, nella serenitá luminosa del cielo.
* *
Siccome la cerimonia nuziale doveva aver
luogo soltanto in ottobre, non parlammo con nes-
suno della nostra promessa di matrimonio ; io
rimasi alla villa e non tardai a riprendere la vita
consueta alle cui monotone abitudini non s erano<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
aggiunte che due visite giornaliere ad Emilia.
Invece di trattenerci in casa o nel giardino anda- i
vamo spesso a passeggiare nei dintorni insieme
alla buona e fida Alwine che non capiva in sè
dalla gioia.
Come si mostrò felice, Emilia, in quel tempo !
Liet della sua contentezza, io mi lasciavo sfug-
gire. qualche tenera parola, vivevo in una incom-
prensibile illusione sopra me stesso. Furono tre
mesi strani che il silenzio della campagna avvolse
in un velo di pace apparente e traditrice.
Quando partii per Torino, alcune settimane
prima del matrimonio, il distacco mi costò una
certa fatica: Emilia ne soffriva assai, ma, come
sempre, cercò di vincersi per non turbarmi.
Non so perchè, quel breve soggiorno in una
grande cittá mi destò subito dall’inganno in cui
ero caduto. Tornai alla villa, la vigilia delle nozze,
e passai la serata con Emilia e con Alwine. Verso
mezzanotte, prima di lasciarci provammo entrambi
una intensa, ma ben diversa commozione : Emilia era
tranquilla, fidente ; nel mio cuore invece cominciava
ad agitarsi una fiera tempesta. Feci tutti gli sforzi per
dissimulare l’interno affanno, mi chinai sulla pura
fronte della mia fidanzata e la baciai per la prima
volta, ma appena fui solo, nelle mie stanze, mi
gettai sul letto in un impeto di disperazione. In
quella notte terribile lo stato della mia anima mi
si rivelò con una spaventosa chiarezza. Vedevo,
disteso sopra un mobile, come una fantasma di<noinclude></noinclude>
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morte, il mio frac ; la cravatta bianca, tutti gli
altri oggetti bianchi mi sembravano anch’essi sim-
boli di morte e di sepoltura; ini rimproveravo
acerbamente d’essére stato troppo debole, d’aver
dato l’intera mia vita per la vanitosa speranza di
rendere felice una donna, quando il primo elemento
della felicitá, l’amore mi mancava; mi pareva di
trovarmi in una cella senza uscita, fra quattro
muri contro i quali dovessi infrangere la testa,
come un pazzo travagliato dalla più funesta allu-
cinazione. Alcune volte fui sul punto di scendere,
di chiamare Emilia, di confessarle tutto... L’avessi
pur fatto! Ma l’idea d’affliggerla e di cagionare
anche a mia madre un grave dolore, bastò per
trattenermi.
All’alba, dopo aver passeggiato su e giù con
questo martirio nell’anima m’affacciai alla finestra,
e la cruda brezza del mattino, soffiandomi brusca-
mente in faccia, mi ridestò all’immutabile realtá
delle cose.
Mandai il cameriere a prendere le notizie della
mia fidanzata con la quale non dovevo incontrarmi
che al momento della partenza per il paese d’Arvaz.
Ella mi fece dire da Alwine che aveva dormito
tranquillamente. Da li ad un’ora ci rivedemmo
nell’atrio. Non volendo tornare alla villa dopo la
funzione civile, Emilia portava giá il vestito bianco,
il velo da sposa, la ghirlanda di fiori d’arancio
in testa, ma la piccola figura nuziale che doveva
commuovere in quel momento il mio cuore d’una<noinclude></noinclude>
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infinita tenerezza, non ebbe per me alcun raggio
d’idealitá.
Nella carrozza ov’ella aveva preso posto con
Alwine, montarono il cugino Subeiras e il medico
del paese, nella mia un avvocato di N... e due
amici venuti da Milano. Non avevamo fatto alcun
altro invito.
La scena, nella piccola stanza dell’ufficio comu-
nale ove un sindaco balbuziente ci unì dinanzi
alla legge, mi parve un poco grottesca, per for-
tuna fu breve e l’impressione rimastami nell’animo,
si dileguò quando, nell’entrare in chiesa mi giunsero
all’orecchio i suoni mistici di un mirabile preludio
del padre Martini. Al mio amico Marcello Nocera,
ottimo musicista, era venuta la felice ispirazione
di suonare l’organo. Quella musica mi scese nel-
l’anima, suscitandovi un ardente bisogno del bene.
Guardai Emilia che saliva i gradini del presbi-
terio, con passo fermo, sorreggendo con una certa
cura il lungo strascico del candido vestito. Prima
d’inginocchiarsi, ella sollevò verso di me le brune
pupille, dallo sguardo fedele, ove una serena con-
tentezza rifulgeva, ma non mostrò alcuna commo-
zione per la geniale sorpresa di Marcello.
Il prete di campagna, un pio vecchio, pronun-
ziava con voce tremula ma solenne le belle parole
del rito nuziale
— Quod Deus conjunxit homo non separet.
Questa sentenza mi diede un brivido di tristezza
e di paura.<noinclude></noinclude>
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All’uscire della chiesa, mentre Nocera improv-
visava una marcia di nozze, Emilia mi mormorò
con tenerezza:
— Caro Curzio, come sei pallido!...
— Questi accordi penetrano neiranima...
— Il tuo amico suona bene, non è vero? —
ella rispose — peccato, io non capisco la musica.
E subito mi parve che nell’ora più memo-
randa della nostra vita, una grande distanza ci
separasse.
{{asterism}}
Dopo una breve colazione tra gli evviva dei
pochi amici, partimmo per il nostro lungo viaggio
lasciando la villa in custodia di Fráulein Alwine.
Eravamo soli, e il treno correva, correva come
incontro ad un ignoto destino. Penso spesso ái
momento in cui presi Emilia fra le mie braccia,
in cui cercai le sue prime innocenti carezze.
Ero sincero e nessun rimorso turba per me quella
ricordanza. Nelle infinite e strane fluttuazioni del
mio pensiero, mi parve allora che la tenerezza
fraterna e protettrice ch’Emilia m’ispirava, po-
tesse tenermi luogo dell’amore. Ma fu breve
inganno. La sua anima non aveva misteri per
me. Natura integra e scrupolosamente onesta, ma
punto elastica, Emilia si rivelava in un sol
giorno. Le lotte dello spirito le erano ignote e la
poesia infinita della sognante giovinezza si ridu-
ceva per lei ad una stretta cerchia di rette ma<noinclude></noinclude>
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positive idee. Era come un libro, composto di
poche, candide pagine sulle quali stavano scritte,
in caratteri d’oro, delle grandi veritá. Non vi erano
nè pagine chiuse, nè pagine vuote, nè pagine ve-
late, io avevo letto tutto, tutto sapevo chiaramente
a memoria.
A me, un folle ardore palpitava in petto con
la giovanile curiositá della vita ; non potevo com-
prendere la grandezza d’animo che si nascon-
deva entro quell’umile forma; lo stesso affetto di
Emilia così vergine e spontaneo, così sicuro ed
immutabile nelle sue promesse, non suscitava nel
mio cuore che dei sensi di blanda gratitudine;
Quella creatura, priva di fantasia, non possedeva
alcun fascino per me.
La donna che avevo sognata era bionda, slan-
ciata, leggiadra e squisitamente sensibile alle arti.
Fu in quel viaggio di nozze ch’io ne vidi sorgere
più spesso che mai l’immagine pericolosa dinanzi
al mio esaltato pensiero.
Lungo il Reno, nel Belgio, specie a Parigi,
certe figure di donne destarono in me dei fremiti
che prima non avevo mai provati.
Mi dedicavo ad Emilia, studiandomi di darle
un’impressione di felicitá, cercando di prevenirla
in tutto, ma sebbene fosse cresciuta in mezzo alle
ricchezze, mia moglie nulla esigeva per la sua per-
sona. La cameriera non l’aveva voluta, perchè anche
a casa se ne serviva pochissimo; accurata nel ve-
stire non aveva mai una falda, un nastro, una<noinclude></noinclude>
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trina fuori di posto ; si pettinava da sè, con grande
diligenza, ma sdegnava come una vanitá colpe-
vole, l’eleganza femminile e la passione della moda.
Era un modello di lindura, ma mancava affatto
di gusto.
Nei bauli regnava un ordine perfetto. Emilia
non usciva dall’albergo senz’aver posto scrupolo-
samente in assetto tutta la roba nostra. Nelle
spese stesse ella si lasciava dominare da questa
esattezza; generosa in tutto, avrebbe ricusato di
pagare un arancio qualche centesimo di più del
suo valore per una invincibile ripugnanza all’in-
ganno.
Dotata d’una grande resistenza fisica e d’una
forte volontá, ella stava fuori da mane a sera
senza provare stanchezza; bramosa di veder tutto,
d’andare al fondo di tutto, ella consultava parecchie
guide, prendeva delle note, voleva accertarsi del
nome d’un pittore, del carattere d’uno stile, della
precisione di certe date storiche. Prediligeva i
libri di storia per l’amore della veritá ch’era in
lei ardente, e la sua tenacissima memoria asse-
condava con efficacia questa passione; apprezzava
gli oggetti d’arte soltanto per il loro valore sto-
rico, ma era. incapace di comprenderne la vera
grandezza; dal padre aveva ereditato una viva
contrarietá per l’arte moderna come fosse un ele-
mento di corruzione; amava poco il teatro che
non era stata avvezza a frequentare, perchè nella
commedia il soggetto le andava rare volte a genio,<noinclude></noinclude>
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perchè la musica parlava un linguaggio per lei
incomprensibile.
Era una donna nata per essere madre. Dal
modo con cui guardava i bambini, da certe sue
parole vaghe compresi giá nei primi giorni quanto
lo desiderasse; più tardi anche me lo disse con
una commozione profonda. Io ero troppo giovane
per aspirare alle gioie intime della famiglia : altre
e ben diverse idee mi frullavano nel cervello. La
vita febbrile di Parigi acuiva quell’interna esal-
tazione fino al parossismo. Avevo assistito ad
una prima trionfale al Gymnase; un antico sogno
di scrivere per il teatro cominciava a solleticare
la mia nascente ambizione, tipi nuovi m’ondeg-
giavano come fantasmi nel pensiero, e la donna
bionda e leggiadra v’appariva con un’ insistenza
così tormentosa che certi momenti mi pareva
perfino di udirne il respiro lieve, d’aspirare il
profumo dei suoi capelli d’oro.
Eravamo a Parigi da tre mesi, vivendo in
tranquillo accordo, quando Emilia fu còlta da un
insolito malessere e il medico mi consigliò di ri-
tornare a villa Subeiras, affinchè la mia sposa
potesse condurvi una vita tranquilla e metodica
in attesa della sua futura maternitá. Ella accolse
quella speranza con un trasporto di gioia, e seb-
bene soffrisse molto, non l’udii mai movere un
lamento. Il suo stato destava in me dei sensi di
apprensione e di pietá; la consideravo come un
essere fragile e sacro affidato alle mie cure, ma<noinclude></noinclude>
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quanto dovetti sorvegliare il mio spirito ribelle
per non venire mai meno a quella costante vigi-
lanza !...
Quando vidi Emilia nella quiete della casa pa-
terna, fra i comodi e gli agi del suo appartamento,
con la fida Alwine al fianco, le visioni d’arte tor-
narono affascinanti, impetuose al mio pensiero e,
resistendo alle affettuose proteste di mia moglie
che rimpiángeva l’intimitá dei giorni trascorsi,
m’abbandonai con trasporto al piacere del lavoro.
Chiuso nel mio studio, immerso nella meditazione
del mio soggetto, andavo abbozzando le scene
d’una commedia e la mia fantasia, obliosa di tutte
le domestiche cure, divagava nei campi infiniti
della passione umana.
Qualche volta un passo un po’ grave s’avvici-
nava, mi destava dal mio sogno ; una mano bianca,
fregiata dal solo anello nuziale, veniva a posarsi
sulla mia spalla; una voce dolce ma un po’ do-
lente mi diceva:
— Che fai Curzio? Scrivi sempre... sempre
chiuso in questa stanza, non ti vedo mai...
— Volevi che fossi un uomo ozioso, Emilia?
— Oh no! non ozioso, avrei voluto soltanto che
tu vivessi un pochino anche per me...
— Sono tuo, lo sai, Emilia, — rispondevo io
amaramente — ma devo scrivere perche ho qui
dentro una febbre che mi divora..
— Non l’avevi, una volta...
— Occupavo un posto in questa casa e mi stava-
14<noinclude></noinclude>
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a cuore d’adempiere lealmente al mio incarico; la
febbre di scrivere c’era ma il dovere la teneva re-
pressa. Ora non ho più alcun impegno fìsso, sento
il bisogno di fare qualche cosa.. una cosa bella,
nuova, grande vorrei fare, e se me ne derivasse
un po’ di gloria, la gloria sarebbe tutta tua, la
metterei come una corona, sul tuo capo, Emilia ..
— La gloria è una cosa mutabile e capricciosa,
ma gli affetti della famiglia sono un bene che
nessuno ci può rapire — diceva ella con la più
sincera convinzione — io non mi sento ambiziosa,
io non aspiro alla tua gloria, Curzio, io aspiro
all’amor tuo!
— Tu sei una donna e non puoi compren-
dermi ! — esclamai, una volta, reprimendo a stento
l’irritazione che mi sorgeva dal fondo dell’anima.
Ella mi guardò tristamente e mormorò:
— T’amo tanto !... è forse per questo mio
grande amore che tutte le altre cose mi sembrano
vane.
Io l’accarezzai, cercando d’acquietarla, poi su-
bito la seguii in giardino ma fui lieto di veder
sopraggiungere alcune signore del vicinato le
quali costrinsero Emilia ad entrare nel salotto e
permisero a me di tornare allo studio.
Avevo lasciato una scena nel punto culmi-
nante e volevo finirla, ma la visione m’era sfug-
gita, il dialogo che prima mi si svolgeva facile e
chiaro nella mente diventava scialbo e stentato,
la corrente era interrotta, non mi trovavo più in<noinclude></noinclude>
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grado di scrivere e finii collo stracciare la pagina
in un impeto di sdegno.
Quel giorno mi sentii, per la prima volta, pro-
fondamente infelice. Emilia avrebbe voluto ch’io
fossi il compagno indivisibile delle sue letture, delle
sue passeggiate, d’ogni suo diletto. Sebbene questo
bisogno, così naturale all’amore, avesse per me l’ap-
parenza d’una indiscreta pretesa mi sforzavo d’as-
secondarlo affinchè la serenitá della nostra vita
non avesse a intorbidarsi.
Ell’era molto sofferente e alterata in volto, solo
nei suoi buoni occhi fedeli, ardeva, come un rag-
gio, l’animosa speranza della maternitá.
Fu in una nebbiosa mattina di novembre, dopo
due giorni di gravi ambasce, che nacque il povero
figliuoletto mio. Quando presi fra le braccia quel-
l’esile bambino provai nell’anima uno schianto di
tenera tristezza : egli somigliava a me, ma nelle
piccole e scarne membra era appena un soffio di
vita, la sua fragile esistenza non pareva alimen-
tata dalla fiamma vivificante dell’amore.
All’udire i primi vagiti della sua creatura,
Emilia s’illuminò d’un sorriso d’ineffabile ma
tanto più fuggevole gioia. Il piccino visse appena
un mese : nè le cure degli specialisti, nè lo svi-
scerato amor materno valsero ad agguerrirlo per
le battaglie della vita.
Come tutti i dolori profondi il dolore d’Emilia
era calmo e muto. Ella si vinceva per amor mio,
ella sapeva nascondere e reprimere le sue lacrime<noinclude></noinclude>
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cocenti per non affliggermi, ma spesse volte la
trovai col corpo abbandonato sulla piccola culla
dalla quale non aveva voluto ad ogni costo sepa-
rarsi. Se quel bambino non fosse morto, torse l’amor
materno avrebbe dato ad Emilia la forza di vivere
per lui. Oh! con quale amarezza ricordo il giorno
in cui Alwine ed io andammo ad accompagnare
al eamposanto d’Arvaz la piccola bara bianca in
cui erano sepolte, per sempre, tante dolci speranze !
% & &
Il mio dramma era finito. Avevo atteso a quel
lavoro con tutto l’entusiasmo che può dare una
tempestosa giovinezza infiammata dalla passione
dell’arte.
Alla protagonista Èva Arnim avevo dedicato
tutto il mio intelletto e tutto il mio cuore. Era
una figura selvaggia che non ammetteva altra
legge fuori dell’amore, che all’amore aveva dato
ciecamente sè stessa fino alla morte.
Emilia s’era mostrata un po’ diffidente verso
l’opera mia, nondimeno, quando seppe che ne
avevo scritto l’ultima pagina, mi chiese di far-
gliela conoscere.
Eravamo soli, una sera, in un gabinetto, quando
mantenni l’impegno. La buona Emilia allestiva una
vesticciuola per i poveri. Il movimento e il ru-
more dei ferri da calza mi davano una tale mo-
lestia che dovetti pregarla di smettere.<noinclude></noinclude>
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Ardeva ancora in me la febbre della creazione ;
nella lettura ad alta voce il mio lavoro m’esaltava ;
mi pareva che la figura d’Eva si disegnasse sullo
sfondo come una cosa viva. Emilia ascoltava con
un’attenzione intensa, ma s’era fatta pallida, le
mani le si agitavano convulse in grembo.
Dopo il second’atto ella m’interruppe:
— Il soggetto mi sembra molto arrischiato...
ma forse., nella conclusione...
— La conclusione è ancora più forte, cara
Emilia — io risposi tranquillamente.
— Dunque la tua Èva è una donna senza
principii, senza coscienza, e tu la difendi, tu l’as-
solvi come un complice.
— Il dramma è oggettivo. Io non la difendo, nè
la condanno. Èva Arnim è un tipo, Uno studio, è
una donna perla quale l’unico principio è l’amore.
Ella non è priva di coscienza, soltanto la sua co-
scienza è diversa dalla tua...
Ella mi guardò, meravigliata e disse, con dol-
cezza :
— Continua, Curzio.
Il dramma correva rapido al suo fine ch’era la
volontaria morte d’Èva.
Emilia m’aveva seguito sempre con la stessa
intensitá. Quando riposi il manoscritto ella do-
mandò soltanto :
— L’hai destinato alla scena ?
— Certamente, Emilia; non saresti contenta
se questa mia speranza s’avverasse?<noinclude></noinclude>
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— Tu mi domandi, Curzio, e io ti rispondo
sinceramente : no, non sarei contenta.
— Perchè, dimmi perchè ?
— Le produzioni artistiche che non hanno uno
scopo morale mi ripugnano, lo sai. Perchè tu,
proprio tu devi creare una figura così ripulsiva?
una suicida?....
— Le passioni esclusive e indomite non sono
prive di grandezza...
— Grandezza tu dici ? mi sembra grande colui
che sa soffrire e morire in silenzio quando Iddio
10 chiama... (oh quelle parole !).
— L’arte, Emilia, secondo me è fatta per rap-
presentare, non per insegnare... tu non vorrai ch’io
scriva delle commedi ole per gli asili d’infanzia..
— Ciò che non mira unicamente al bene mi
sembra inutile — concluse Emilia con un involon-
tario rimprovero nello sguardo.
Io riposi il manoscritto con grande amarezza,
m’alzai e andai a passeggiare in giardino. Mi sen-
tivo più che mai infelice, mi pareva che mille le-
gami diversi mi vincolassero da tutte le parti, che
11 mio cervello dovesse dibattersi entro una cer-
chia di ferro.
Questi accessi di ribellione e di tristezza non
erano rari ; Emilia me li leggeva in volto e cer-
cava di rasserenarmi con carezze e con dolci pa-
role. Ma quella sera ella non venne, e quando
tornai in casa per darle la buona notte, la trovai
nella sua camera da letto, inginocchiata dinanzi<noinclude></noinclude>
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ad un antico Crocifisso d’avorio ch’ella teneva
in gran pregio. Mi parve che avesse pianto e le
lagrime che cercava indarno di reprimere, invece
di commuovermi, m’irritarono.
— E inutile che tu pianga, Emilia, — le dissi
freddamente — il mio dramma è finito, l’ho scritto
per il teatro : esso deve andare in scena. Se tu mi
chiedessi di rinunziare a questo mio divisamenfco,
non potrei compiacerti, perchè non mi credo in
dovere di cedere ad una femminile debolezza... E
necessario ch’io abbia una mèta nella vita.
— Non ho mai pensato a chiederti dei sacri -
fizii, Curzio, — ella disse con grande bontá, al-
zandosi, — il tuo piacere è sempre stato la mia
massima gioia. Credevo soltanto che tu potessi
scegliere una mèta migliore. Temo sempre che
l’arte diventi un ostacolo alla nostra contentezza.
Non so perchè io abbia questo senso di paura,
questo presentimento ch’ essa debba dividerci
Sarebbe così dolce la nostra intima vita lontani
dal mondo....
— La famiglia, la quiete, la solitudine sono
conforti che l’Uomo apprezza soltanto dopo la bat-
taglia.... io anelo ad una vita intellettuale, larga,
intensa — esclamai; — quand’ho lavorato, ho bi-
sogno d’attingere idee ad una fonte viva, non
posso disperdere tutta l’energia della mia giovi-
nezza nei languidi ozii della campagna.... Ma è
meglio che, su questo, non ragioniamo, Emilia,
perchè non c’intenderemo mai...<noinclude></noinclude>
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— Fa, come ti piace, Curzio, — ella rispose
sommessamente, sollevandosi per baciarmi in fronte.
Oh! quanto è penoso il ricordo di quelle carezze!
{{asterism}}
Il direttore della compagnia drammatica C...
che recitava al teatro Manzoni, aveva acconsen-
tito ch’io gli leggessi il mio dramma. Andai ap-
posta a Milano, ma dovetti attendere parecchi
giorni prima ch’egli trovasse un’ ora opportuna
per quella lettura, finita la quale sollevò varie ob-
biezioni intorno al soggetto e non seppe darmi
una risposta decisiva.
Facevano parte della compagnia lo Z attore
notissimo per il suo talento, e Irene Saradia, un’at-
trice giovane che il direttore aveva scoperto in
provincia, in un teatrino di filodrammatici. Inco-
raggiata dalle sue istanze, ella s’era messa in car-
riera, aveva esordito, con successo, da più d’anno
e studiava indefessamente. La sua squisita tempra
artistica le faceva presagire da tutti un glorioso
avvenire.
L’ «Èva Arnim» fu accettata in grazia sua.
Ell’aveva scorso il mio lavoro, la parte della pro-
tagonista le era piaciuta e continuava a insisterò
perchè si facesse la prova del dramma.
Scrissi ad Emilia che m’occorreva di restare
assente qualche giorno da casa, poi pregai Z...,
che avevo conosciuto a Firenze, di presentarmi alla
signorina Saradia. Eli’alloggiava all’albergo Milano,<noinclude></noinclude>
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con una cugina, sua solita compagna nella vita
errante dell’arte. .
Non dimenticherò mai il giorno in cui il mio
sguardo s’incontrò per la prima volta con quella
d’Irene.
La trovammo intenta a studiare lá parte di
Magda nella «Casa paterna», Era distratta e ci
accolse con una certa freddezza. Poi la conversa-
zione s’andò gradatamente animando.
Dal suo talento originale, dalla magìa della sua
parola, dalla sua intellettuale e per me fulgida
bellezza io rimasi ammaliato come da una scono-
sciuta gioia.
Eli’era bionda di quel biondo argenteo e fino
che s’ attribuisce alle fate ; gli occhi grandi, d’un
azzurro cupo, pronti a rispecchiare il perspicace
pensiero, avevano dei riflessi verdi e neri come
la laguna nelle ore misteriose del tramonto ; il
puro ovale del volto era s’affuso d’un pallore appas-
sionato e, nella bocca mobile, ove il raro sorriso
somigliava a un raggio d’amore, tutte le impres-
sioni passavano, rapidamente, alternando una
certa alterezza triste con la più schietta ama-
bilitá.
Uscii dal salotto d’Irene Saradia con l’animo
fortemente agitato : ella m’aveva detto che aspet-
tava con impazienza la prima della mia «Èva >>
e questo pensiero mi destava nell’anima una con-
tentezza quasi angosciosa.
Il giorno appresso la udii recitare per la prima<noinclude></noinclude>
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volta, nelle «Anime solitarie» e ebbi da Anna
Marr un’impressione violenta, indimenticabile.
Quando la udii e la vidi nelle prove dell’Èva
un fremito m’invase da capo a piedi: ella si rin
novava nelle sue parti per una mirabile potenza
intuitiva. Non era più Irene Saradia, era Èva
stessa, la creatura selvaggia e primitiva, figlia
del libero pensiero, che aveva tormentato la mia
fantasia, come un’insistente visione, e che mi stava
dinanzi viva e palpitante.
Molto indocile, Irene si concedeva spesso la
libertá di fare dei cambiamenti, che io accettavo
di buon grado, m’aveva perfino suggerito d’abbre-
viare un dialogo, per la rapiditá dell’azione, e io
l’avevo tagliato, senz’altro.
Dopo l’ultima prova, mentre mi rallegravo con
lei nell’effusione dell’animo, Irene mi guardò coi
grandi occhi di fuoco e mi disse:
— Vedete, Alvise, Èva era una cantante, io
sono un’attrice, v’è poca differenza : come lei sono
sola, senz’affetti, coll’arte mia...
— E col vostro sogno...
— Il sogno ha condotto Èva alla morte... e noi
tutte morremmo se ci fosse dato leggere chiara-
mente nel cuore dell’uomo. Voi avete delineato la
figura d’Eva per un istinto artistico, Alvise, ma
forse non potete interamente comprenderla... bene,
l’uomo non c’intende mai.
‘— Difatti ho conosciuto Èva oggi soltanto e
l’ho veduta viva...<noinclude></noinclude>
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— Eppure io non l’ho ancora trovata in tutta
la sua efficacia. Domani, Alvise, domani io sarò
Èva, assolutamente...
Irene parlava, parlava e, a poco a poco, una
vertigine mi annebbiava il cervello. Mi parve
tutt’a un tratto, che Emilia non avesse mai vis-
suto, che villa Subeiras fosse scomparsa, che per
me non esistesse più nulla fuorché il teatro, il
mio dramma e quella donna seducente. Mia Emilia
doveva arrivare, quella sera stessa, con Fráulein
Friihman e io avevo promesso d’andare alla sta-
zione. L’ora passava: mi destai, con uno sforzo
da quella strana ebbrezza, pigliai una carrozza,
esortai il fiaccheraio a sferzare il cavallo e giunsi
appena in tempo per ricevere le due viaggiatrici.
Mi parve che Emilia venisse da un paese lontano,
da un paese che non era il mio. La sua preoccu-
pazione eccessiva per certi nonnulla della vita,
per una cinghia rotta, per una macchia del suo
ombrello, cominciò giá ad infastidirmi. La con-
dussi con un senso di riluttanza all’albergo Milano
ove alloggiavo da qualche giorno io stesso.
Emilia mi rivolse poche domande intorno al-
l’esito delle prove, s’informò piuttosto, con un
certo interesse, degli attori e delle attrici, ma
quando le dissi che Irene Saradia abitava li
presso di. noi, allo stesso piano, tradì, suo mal-
grado, la viva contrarietá dell’animo per tutto
quello che riguarda il teatro. Mi chiese subito se
■ avessi gradito ch’ella facesse la conoscenza della<noinclude></noinclude>
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prima attrice, ma si rallegrò udendo ohe non esi-
gevo quel sacrifizio. Il giorno appresso fui co-
stretto di accompagnarla in varii negozi; non
vedevo nè capivo nulla. Ella mi guardava, di
tratto in tratto, con un’aria di tristezza. Verso le
quattro mi feci annunziare dalla signorina Saradia
ma eli’era sofferente, non poteva ricevermi. Quella
sera doveva andare in scena il mio dramma.
Un’angustia mortale mi prese, un terrore dell’in-
successo e di tutte le sue conseguenze: mi pareva
di soffocare. Tornai da Emilia, dissimulando la
mia pena e la seguii macchinalmente ai giardini,
ove aveva espresso il desiderio di fare una passeg-
giata. Era un giorno mitissimo di marzo: il pae-
saggio risorgente alla vita, nella freschezza del
verde novello, nella fragranza degli alberi in fiore,
faceva palpitare il mio cuore fino allo spasimo. Alle
otto andai al teatro Manzoni, affidando Emilia ed
Alwine alla cura dei miei amici. Prima ch’io par-
tissi, ella mi abbracciò, mi fece un augurio; era
forse più turbata che commossa. La sua presenza
in un palco di seconda fila, per quanto ella si
studiasse di rimanere nascosta, lungi dall’animarmi,
mi toglieva il coraggio, mi faceva perdere anche
quel po’ di fiducia in me stesso che m’era rimasta.
Nel primo atto ove la figura d’Eva comincia a de-
linearsi, Irene fu profondamente umana e vera.
Nel secondo e nel terz’atto le situazioni un po’
ardite suscitarono qualche contrasto, ma l’incar-
nazione d’Irene, nel tipo da me sognato, fu così<noinclude></noinclude>
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potente ch’ella vinse il pericolo e, trionfando con
efficacia sugli ostacoli, salvò il dramma. Se fu un
successo lo dovetti in gran parte a lei e quando
calò la tela io lo stesi ambe le mani, con un im -
peto di gratitudine ardente. Ella mi diede passi-
vamente le sue, fredde come il gelo. Era smorta
in viso, piangente, sopraffatta da un’emozione
profonda
— Credevo che non poteste nemmeno recitare,
stasera — le dissi — quanto, quanto m’avete fatto
soffrire, prima di darmi questa gioia!
— Io ho penato più di voi — ella rispose —
è la vostra Èva che mi fa star male.
Quella sera stessa invitai gl’interpreti del mio
lavoro ad una cena all’albergo Milano.
Nel pomeriggio avevo espresso ad Emilia quel
mio desiderio di raccogliere gli artisti, quel bi-
sogno di stare in mezzo a loro, chiedendole, timi-
damente, se non volesse prendere parte alla cena,
ma ella, con mia sodisfazione, aveva ricusato,
senza esitare. Quando la raggiunsi all’uscire del
teatro era ancor più turbata di prima e chiusa in
sè stessa. Non manifestava in alcun modo l’animo
suo. La lasciai nel suo appartamentino, con la
buona Eráulein Fruhman ch’era inorridita per il
soggetto dell’ «Èva Arnim», e non osando dire
di più, mormorava ogni tanto fra sè:
— Schrecklich, schrecklich!
La cena fu molto animata. Io sedevo accanto
ad Irene, che s’era riavuta ma che serbava in<noinclude></noinclude>
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volto una grande mestizia. Quel velo d’appassio-
nata malinconia rendeva la sua bellezza ancor più
meravigliosa. I suoi occhi possedevano una tale
magìa che ogni artifizio riusciva superfluo anche
per la scena; la sua voce di contralto aveva dei
fremiti improvvisi, degli accenti così profondi che
io la sentivo risuonare, entro di me, come sulle
corde d’un istrumento che vibrasse in virtù d’una
forza arcana; nella sua conversazione capricciosa
era un irresistibile fascino : ora languida come per
improvvisa stanchezza, ora ardente d’un fuoco
contenuto, quella strana creatura suscitava un tu-
multo nel cervello e nel cuore.
Sapevo che Irene aveva rifiutato una brillante
proposta di matrimonio per non rinunciare all’arte
sua, e ch’era rimasta insensibile all’omaggio di
molti ammiratori, ma sentivo, altresì che quella
gelosia di se stessa, quella persistente alterezza,
derivavano dalla solitudine dell’anima e che anche
ella al pari d’Eva, incontrando l’uomo atto a com-
prenderla, avrebbe tutto dimenticato, sentivo che
in quella superba e libera figlia della natura
l’amore doveva essere una cosa divina. La sua
presenza mi dava un senso d’ineffabile gioia. Sarei
morto volentieri in quell’ora, dopo quel successo,
lì accanto a lei, sotto l’impero del suo irresistibile
sguardo, piuttosto che tornare alla realtá della
mia vita.
Quando risalii le scale e rientrai nella camera
che occupavo vicino a quella d’Emilia, mi parve,<noinclude></noinclude>
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tutt’a un tratto, che la realtá mi piombasse con
un peso insopportabile sul capo. Emilia non dor-
miva, stava seduta sul letto con le mani conserte,
aveva dinanzi a sè il suo libro prediletto: L’Imi-
tazione.
Era affettuosa, ma molto seria; io l’abbracciai,
esortandola a riposare, portai il lume dietro un
paravento onde non potesse leggermi in volto lo
stato dell’anima, è le rimasi d’accanto finché si
addormentò.
Il giorno seguente incontrammo Irene nel cor-
ridoio e passammo senza fermarci.
Irene mi guardò con degli occhi strani.
— E molto bella anche da vicino, la Saradia
- disse Emilia tranquillamente — poverina, mi
±a compassione, quella bellezza le recherá sven-
tura.
— Sventura?... perchè? è una fanciulla onesta
che ama la sua arte sovra ogni cosa e che passerá
di trionfo in trionfo...
— Non dubito punto della sua onestá, ma non
credo che l’illibatezza del costume possa conciliarsi
a lungo con la vita dell’attrice, è una vita che io
non riesco a comprendere.
— Tu sei come un fiore dell’Alpe, Emilia —
diss’io sforzandomi, come sempre, di reprimere
l’irritazione ch’ella suscitava in me — tu hai bi-
sogno di vederti dinanzi il consueto paesaggio, il
noto e sereno orizzonte... questa vita piena d’emo-
zioni t’opprime, ti fa male, non è vero ?<noinclude></noinclude>
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— Hai ragione, Curzio, mi fa male. Quando
partiremo ?
— V’è ancora una recita del mio dramma,
Emilia, forse due, in questo momento non posso
allontanarmi, lo vedi anche tu...
— Se credi, potrò tornare a casa con Alwine
«tu verrai presto, non è vero, presto?...
— Appena sarò libero, Emilia...
Quella sera stessa ella ripartì alla volta di N
Per il mio lavoro, per gli applausi lusinghieri coi
quali era stato accolto, per quel mio primo passo
fortunato nella carriera dell’arte, non una parola.
L’abisso fra di noi era giá scavato, soltanto la sua
grande bontá fino allora era riescita a colmarlo.
La povera Emilia era costretta a quel freddo si-
lenzio dalla sua sottile coscienza, da un imperioso
bisogno di rettitudine e di sinceritá, ma ne soffriva
acerbamente ; io non potevo comprenderlo : dinanzi
a lei mi sentivo inquieto, inasprito e il rimorso
di quella mia intolleranza m’esasperava.
Appena tornato dalla stazione, il teatro essendo
chiuso, feci una visita a Irene. Eli’era circondata!
da vari artisti. TJn giovanotto che le sedeva accanto
mi cedette il suo posto. Si parlò dell’arte dramma-
tica, di letteratura, anche dell’amore. Genialmente
colta, ma spesso molto sobria nella parola, Irene
non aggiungeva che, di tratto in tratto, qualche
frizzo spiritoso alla conversazione; quando il di-
scorso cadde sull’amore, ella ammutolì.
— Vedi — disse un critico ad un giovane poeta<noinclude></noinclude>
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— Irene Saradia non ha mai voluto esprimersi su
questo scabroso argomento.
— Sente? — io soggiunsi.
— Per la donna l’amore è come il destino e sul
destino non si ragiona — ella rispose gravemente.
Erano le parole d’Eva queste e Irene le ripe-
teva con uno strano lampo di dolore negli occhi.
Poco tempo dopo tutti partirono e noi rima-
nemmo soli.
Sopra un tavolino, in un vasetto snello di Mu-
rano, alcune giunchiglie appassivano, mandando
un odore inebriante.
— Non vi fanno male questi fiori? — domandai.
— Oh no! io ho bisogno del profumo dei fiori...
Qual seduzione per me in quello sguardo, in
quel sorriso, in quella voce appassionata, profonda !
■ Irene vestiva di nero. La vita di trina, chiusa
da bottoni di brillanti, accollata ma un po’ traspa-
rente, lasciava intravedere la morbida bianchezza
delle spalle e delle braccia mirabili; i capelli, con-
torti in un nodo serpentino sulla nuca gentile, le
cingevano la fronte d’un leggero e dorato dia-
dema ; gli occhi grandi ardevano, nel nativo pal-
lore del volto, come due fiamme, e la bocca, dolce
insieme e sdegnosa, aveva dei moti involontari
quasi proferisse inaudibili parole.
Leggiadramente reclinata sul divano, ell’ap-
poggiava la testa ad un piccolo cuscino bianco,
sul quale erano ricamati degli strani cypripedium
bruni e gialli; due rose pallide illanguidivano,
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tra le falde del suo vestito come se le morissero
in seno.
Ella mi guardava intensamente, quasi per inter-
rogarmi sull’estatico silenzio in cui ero piombato e
anch’io mi sentivo morire Ad; un tratto Irene mi
disse :
— Alvise, voi siete molto infelice.
— Perchè? — esclamai, sussultando.
— Perchè avete sacrificato il vostro maggior
bene, la libertá.
— Come sapete voi? come potete saper questo ?
E il ricordo della buona Emilia, forse per l’ul-
tima volta, si ribellò nella mia coscienza, insor-
gendo contro l’inquisitivo colloquio. Ella se n’ac-
corse subito e riprese:
— Vi rincresce che v’abbia letto nell’anima ?
Voi forse non avevate il coraggio di confessarlo
a voi stesso. Eppure è necessario che guardiamo
bene in faccia al nostro destino, ond’esso non ci
sorprenda disarmati e ci soggioghi. La via tem-
pestosa dell’arte non s’accorda colla placida mo-
notonia della famiglia e le blande aspirazioni della
tiepida felicitá domestica non possono avvicen-
darsi colle gioie ardenti, coi dolori atroci della
vita pubblica. Vi rincresce che ve lo dica? non è
la veritá questa?
— E la veritá e perciò non può mutare.
Ella mi guardò con un enigmatico sorriso e
subito mi chiese:
— Tornate presto laggiù?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Dove laggiù?
— Nella vostra villa, fra gli ozii della cam-
pagna.
— Appena finite le recito del mio dramma. È
nel silenzio che si lavora e io corro al lavoro. La
geniale interprete d’E va mi stará sempre dinanzi
come una muta ispiratrice. Vorrei che mi riuscisse
di plasmare una figura ancor più degna di voi !
Se la troverò voi la farete rifulgere, voi le. infon-
derete il soffio vitale, non è vero ?
— Non so. Il desiderio mi porta lontana, molto
lontana! — diss’ella.
— Verso il sogno, Irene?...
— Oh! il sogno!.. il sogno mi fa paura!
Ella s’era alzata di scatto. Un profondo tur-
bamento le traspariva dal volto. Mi parve che
volesse congedarmi e m’avviai verso la porta. Ella
mi stese la piccola mano nervosa che sembrava
presa da un gelo di morte.
— Addio, Èva! — diss’io.
— Addio, Aùtari... — ma questo ch’era il nome
dell’amante d’Eva, le morì sulle labbra, con un
impercettibile suono, e volgendosi, ella scomparve
nella camera vicina. In quei giorni, sola, non potei
rivederla mai.
{{asterism}}
Richiamato ad Arvaz, dalle insistenti preghiere
d’Emilia, trovai la vita campestre molto monotona.
Non mi sapevo adattare alle solite abitudini, alle<noinclude></noinclude>
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ore fisse, ai colloqui col ragioniere e coi fattori
di.campagna, alle nostre conversazioni della sera.
A Milano avevo meditato il soggetto d’una nuova
commedia, ero impaziente di tracciarne la linea
generale, di distribuire certe scene, e il costante
silenzio d’Emilia, questa prova palese della sua
contrarietá, mi faceva male e nel tempo istesso,
per la contradizione delle umane cose, m’eccitava
a scrivere. Con Emilia mi sforzavo tuttavia d’ap-
parire ilare ed amorevole, ma quella simulata
contentezza mi dava rimorso e più volte fui sul
punto di dirle:
— Ho ceduto alla tua proposta generosa per
debolezza, per vanitá forse, soprattutto per il de-
siderio di renderti felice, ma io non posseggo gli
elementi di felicitá ai quali tu aspiri; bramerei
amarti e non so; il tuo cuore buono e semplice,
la tua mente retta e positiva non sono fatti per
comprendere i tumulti della mia indomita giovi-
nezza e io non posso piegarmi alle esigenze d’un
matrimonio di ragione. Tu hai creduto avvolgermi
in un serto di rose, e m’hai cinto, senza volerlo,
d’una pesante catena. Le necessitá della vita do-
mestica inceppano il mio pensiero, le abitudini mi
ripugnano, il mio ideale non è la pace, è la lotta ;
sono un ambizioso e ho bisogno dell’amore che
intende, non giá delle tiranniche affezioni che in-
ceppano la via.
Fors’ella, la mite Emilia sarebbe venuta meno
dinanzi a quella brutale dichiarazione, ma io avrei<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
detto la veritá... ali no, non sarei stato ancora in-
teramente sincero, ella avrebbe ancora ignorato
che, da tre mesi, un’abbagliante immagine s’era
impadronita degli occhi miei e che la vedevo
ovunque come una visione ispiratrice al cui fascino
più non mi riesciva di sottrarmi...
%
Un giorno, scorrendo la posta, mi venne fra
le mani una lettera con la scrittura larga, slan-
ciata e il mio cuore tremò d’una colpevole gioia.
Non v’erano che poche righe:
Caro amico,
La settimana ventura parto per l’America. Pri-
ma di lasciare l’Italia vorrei salutarvi.
Irene Saradia.
Io non ebbi il coraggio di mostrare quella let-
tera ad Emilia e fu la prima finzione.
Da qualche tempo le avevo manifestato il de-
siderio d’andare a Milano per parlare con un edi-
tore intorno alla ristampa di certi miei articoli
critici e colsi questo pretesto per giustificare la
mia partenza.
Appena giunto, m’affrettai di recarmi alla casa
ove Irene dimorava. Nel rivederci rimanemmo
entrambi commossi e senza parole.
— M’avete chiamato... eccomi — diss’io, final-
mente.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
. — Grazie. Non avrei potuto partire senza dirvi
addio. . . 0
— Perchè, perchè questa fatale risoluzione?
— Seguo il mio destino. Farò la vostra «Èva»
laggiù, al di lá del mare.
Ella mi guardava con gli occhi luminosi. Nel-
l’iride pareva che delle fiammelle s’accendessero,
piene di mistero. La minaccia di non rivederla per
molto tempo, forse mai più, mi metteva nell’animo
una muta ambascia.
— I trionfi di cui godeste fin qui non vi ba-
stavano? — domandai con grande amarezza.
Io non cerco i trionfi, cerco l’oblio delle cose.
Voglio rinnovare la mia vita.
— Vi segue parte della compagnia?
— Nessuno... tutta gente nuova.
— Sarete sola...
— La mia anima è sempre sola.
Vi fu un lungo, un pericoloso silenzio. Final-
mente trascinato dal dolore e dall’invincibile pas-
sione, io le dissi:
— Perchè dunque mi hai chiamato? non sen-
tivi da lontano tutte le angosce del mio amore?
Ella sollevò lo sguardo un po’ smarrito, le sue
gote impallidirono, ma serbando all’apparenza una
calma profonda ella rispose:
— Anch’io, Curzio, t’amo più della vita. Ma a
che giova? Dobbiamo separarci. Ho voluto vederti
ancora una volta prima che il mare grande e in-
finito ci divida..<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
Sembravamo sopraffatti entrambi da un abbat-
timento profondo. Forse un ricordo non ancora
interamente assopito sosteneva la mia volontá, ma
l’inevitabile destino di queirimperioso amore era
fra noi ; ci sentivamo. scolorire in volto, gli occhi
ci si empivano di lagrime.
Tutt’a un tratto, nello sguardo d’Irene lam-
peggiò un tale ardore di dolorosa passione, che la
vita mia, il passato, Emilia, tutto mi sfuggì dal
pensiero su cui quella creatura meravigliosa e in
cantatrice da gran tempo regnava.
Cademmo uno nelle braccia dell’altro in un
ineffabile esaltamento di follia.
{{asterism}}
Io rimasi alcuni giorni a Milano e indussi fa-
cilmente Irene a rompere il suo contratto per
l’America.
Come l’editore era assente e non avevo potuto
combinar nulla, scrivendo ad Emilia, mi valsi di
quella scusa per il mio indugio a ritornare. Ella
mi rispondeva dolcemente e tristemente, lamen-
tando di non potermi raggiungere, per certi lavori
di ristauro ch’erano cominciati nella villa e che
desiderava sorvegliare ella stessa, lo scorrevo ap-
pena le sue lettere, poi le bruciavo con un senso di
sgomento. In capo a due settimane, ella cessò di
mandarmi le sue notizie. Assorto com’ero, dalla
passione, alla prima, non m’accorsi nemmeno di<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
quell’insolito silenzio, ma un giorno mi balenò alla
mente il dubbio che qualche sospetto potesse es-
sere penetrato nell’anima di Emilia, e preso da
un’ improvvisa angustia risolvetti di ritornare, per
qualche tempo, a villa Subeiras, lottando contro
me stesso e resistendo all’amore esclusivo e quasi
feroce d’Irene la quale avrebbe voluto che spezzassi
ogni legame per lei.
Trovai Emilia alquanto abbattuta. Ella m’ac-
colse con la solita tenerezza ma io sentii che,
nell’affettuoso saluto, le sue piccole braccia tre-
mavano intorno al mio collo, vidi il suo dolce
sorriso offuscato da un’ombra grave. Per quanto
ella si sforzasse di dissimularla, ogni atto, ogni
movimento tradiva in lei una segreta cura del-
l’animo. Non vi fu, allora fra noi, alcuna spiega-
zione , ma una notte, mentre stavo scrivendo ad
Irene, Emilia eutrò inaspettatamente nel mio ga-
binetto. Al vederla, con l’accappatoio bianco, così
lieve nel passo, mi parve una fantasma.
— Ti disturbo, Curzio ? — Ella domandò con
la sua voce amorevole.
— Oh perchè? Soltanto m’hai fatto paura, a
quest’ora insolita; ti credevo addormentata da un
pezzo.
— No, non potevo dormire e sono venuta a
salutarti e a vedere quello che fai. A chi scrivi
così a lungo?
— A Irene Saradia —- io risposi, con un bri-
vido. — Devo parlarle della mia nuova commedia.<noinclude></noinclude>
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— Ah,!... dov’è la signorina Saradia?
— Ora è a Milano.
Quella specie di menzogna mi bruciava dentro,
come un fuoco. Se Emilia avesse letta una sola
frase di quella lettera la veritá le sarebbe apparsa
tutt’a un tratto.
La finzione mi ripugnava siffattamente, che
l’avrei quasi desiderato. Ma Emilia con atto de-
licatissimo, si studiò d’evitarne la vista. Ella venne
a sedersi accanto a me e mi disse :
— Curzio, bai dei nemici a Milano?
— No, ch’io sappia. Perchè?
— Perchè giorni sono ho ricevuto una lettera
infame. Io non ci ho creduto, sai, Curzio, oh no,
no, nulla potrebbe farmi dubitare di te, l’ho sola-
mente serbata, per il caso che tu riconoscessi la
scrittura... sarebbe una triste cosa che tu usassi
qualche cortesia ad un malvagio che forse ti per-
seguita per invidia...
— Dov’è questa lettera?
— Vuoi vederla? vado a prenderla subito.
Ella scivolò via e tornò subito con la busta in.
mano. Era uno scritto anonimo e volgare le cui
frasi banali io ben ricordo:
«Signora,
«Il cuore dell’uomo è mutabile e leggero. Dif-
«fidate e tenete gli occhi molto aperti, affinchè
«un giorno non cada, troppo alPimprowiso, la
«larva a quell’infedele cui consacraste la vostra
«vita innocente.»<noinclude></noinclude>
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— Ma quest’è un’indegnitá! — esclamai, rico-
noscendo la scrittura e lo stile d’un attore ch’era
perdutamente innamorato d’Irene e facendo il fo-
glietto a brani.
— Non è vero, Curzio? — rispostila, subito
rasserenata — io non diedi importanza a quelle
parole, tuttavia la vile allusione alla tua persona
mi fece così male che non ebbi più la forza di
venire a Milano... Volevo farti una sorpresa, sai...
la lettera giunse il giorno destinato alla partenza,
e non so perchè, mutai pensiero...
Così dicendo, si chinò sovra di me con rinno-
vata tenerezza.
Un sudor freddo mi bagnava la fronte, fui sul
punto di svelarle tutto, ma se da un lato un bi-
sogno violento mi spingeva a quella fatale confes-
sione, dall’altro mi paralizzava la tema del dolore
che le avrei recato. Finii col persistere nel silenzio,
mi studiai di corrispondere alla sua amorevolezza,
la esortai a coricarsi e a vivere tranquilla. Come
sempre, ella seguì docilmente il consiglio e io
rimasi lì dinanzi alla lettera, non ancora finita,
col rimorso nell’anima e col mio invincibile amore.
{{asterism}}
Il soggiorno di Villa Subeiras m’era divenuto
insopportabile. Non potevo stare vicino a mia
moglie, il suo sguardo innocente e fedele mi pe-
netrava nelle viscere, la sua serena virtù m’esá-<noinclude></noinclude>
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cerbava ; avrei voluto trovare degli argomenti di
corruccio contro di lei e sempre più vedevo ri-
splendere sulla sua fronte un raggio di generosa
indulgenza. Povera Emilia! ella conosceva il se-
greto dell’amore che non passa!
Irene mi scriveva lettere di fuoco. Indarno le
raccomandavo d’usare qualche precauzione : ella
non poneva mente a nulla. Tre o quattro volte
eravamo riusciti a combinare un incontro, di poche
ore, nelle piccole cittá vicine ove mi chiamavano,
di quando in quando, gli affari di casa. Dopo
questi ritrovi in cui il desiderio di r.vederci si
faceva sempre più violento, Irene aveva dovuto
andare con la sua compagnia a Torino e mi chia-
mava insistentemente per preparare una rappre-
sentazione della mia «Èva.»
Una sera comunicai ad Emilia questa notizia,
le dissi che dovrei recarmi fra breve a Torino
anch’io. M’aspettavo che mi proponesse di venir
meco, ma non vi pensava nemmeno.
Ella domandò soltanto:
— Sará un’assenza breve?...
— Non so, Emilia. Devo incontrarmi con degli
amici ai quali ho promesso di leggere il mio nuovo
lavoro.
— Temo sempre ohe tu sogni un bene che
quaggiù non esiste, — ella disse, persistendo nel
suo antico principio.
— Credo che tu abbia ragione, Emilia, e certo
il mio ingegno non asseconda le mie aspirazioni...<noinclude></noinclude>
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ma vi sono, vedi, per l’arte, delle ore che possono
valere anni di felicitá..
— Ah! quando spero averti ritrovato, allora
proprio mi sfuggi! — ella mormorò, appoggiando
la testa sul mio petto.
— Ti prego, non intralciarmi la via coi tuoi
continui lamenti., ho bisogno d’essere libero — io
risposi crudelmente.
— Perdona, Curzio. È il mio cuore che par-
lava... — ella balbettò — sollevando la testa, di
scatto, come se le facessi paura.
Troppo irritato contro me stesso per impieto-
sirmi di lei, non seppi dirle un’amorevole parola
di conforto, e non fu senza sforzo che le diedi
partendo il solito tenero addio.
{{asterism}}
A Torino, Irene era molto ammirata da tutti.
Il suo valore artistico s’era nuovamente affermato.
La prima sera la udii, recitare con Z... nella «Fe-
dora». In certe scene la sua bellezza rifulgeva,
quasi dolorosa, e io mi sentivo spesso torturato
dall’efficacia del suo magico sorriso sul pubblico.
Invano ella mi diceva nelle ore più dolci: — Non
sai che vivo per té, che recito per te, che ogni mio
pensiero e tuo ?... La passione insodisfatta cercava
sempre nuovi tormenti per alimentare se stessa.
L cc Èva Arnim» interpretata così sapien-
temente da Irene e dallo Z... mi valse un vero<noinclude></noinclude>
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trionfo, ma anohe stavolta la mia contentezza fu
in parte offuscata. Mia madre aveva voluto assi-
stervi in segreto. Più sensibile d’Emilia alle com-
piacenze dell’applauso, ma non meno severa nel
giudizio, ella non aveva saputo dissimularmi la
sua disapprovazione.
Crucciato da una nuova amarezza, presi la scusa
di certi impegni létterarii per allontanarmi anche
da lei. Io la vedevo pochissimo, non potevo udire
la sua voce, nè sostenere il suo onesto sguardo senza
sentirmi turbato da un’indefinibile pena ; e poi,
ella mi chiedeva continuamente d’Emilia e io non
ero in grado di parlarne.
Una sera d’agosto, dopo aver passeggiato in-
sieme nel parco del Valentino, Irene ed io era-
vamo tornati in carrozza al suo alloggio in via
Dora Grossa. L’arte era stato l’argomento princi-
pale del nostro colloquio, avevamo discusso la mia
nuova commedia di soggetto femminista e fissati
certi cambiamenti mercè i quali ella mi promet-
teva il successo.
Una lampada, velata di rosa e mezzo nascosta
fra due mazzi lussureggianti di fiori estivi, span-
deva una blanda luce nel salottino d’Irene; dalle
finestre aperte, a traverso le cortine, veniva, mi-
sterioso,, il chiarore lunare. Sdraiata in una pol-
trona, colle sue bianche mani fra le mie, ella mi
diceva tante frementi parole e io le baciavo paz-
zamente quelle belle mani gemmate, espressive
anch’esse come la parola. Le tuberose ch’ella por-<noinclude></noinclude>
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tava in seno/ tra le falde del vestito rosso, man-
davano nn effluvio inebriante e il mio amore in-
gigantiva per la voluttuosa complicitá dell’ ora
notturna.
Bussarono. Entrò la cameriera dicendo che una
persona chiedeva di me con grande premura.
Uscii. Era un messo che da parecchie ore mi atava
cercando da parte della madre mia ammalata.
Destato dal mio morbido sogno, come se una
mazzata m’avesse colpito in pieno petto, mi con-
gedai rapidamente da Irene e partii correndo.
Erano quattro giorni che non vedevo mia
madre. Il suo aspetto mi rivelò la fatale veritá.
Sempre un po’ debole di salute, ella soggiaceva
ad una bronchite cronica, la quale s’era incrudita
con acutezza mortale. Quando m’avvicinai al suo
letto, m’accorsi, tuttavia, che una morale angustia
esacerbava i patimenti della malattia e la consueta
tenerezza dello sguardo materno mi parve velata
da un’ineffabile mestizia. Da sua voce stessa aveva,
un altro accento ; la mano, solita ad accarezzarmi,
giaceva inerte sulle lenzuola.
Nella notte rimanemmo soli. Tutt’a un tratto
ella si sollevò con degli occhi che non dimenti-
cherò mai, tanto il loro sguardo veniva da lon-
tano, come dal mondo dei misteri, e disse:
— Io parto per sempre, Curzio,, e non rim-
piango la vita perchè sono stanca. Mi pesa sol-
tanto di doverti abbandonare, ma non ti lascio
solo, ti resta la buona Emilia.<noinclude></noinclude>
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Io chinai la testa con la più profonda amarezza-
Ella tacque un momento: pareva che pregasse.
Indi riprese con voce più forte, quasi autorevole:
—: Ricordati, Curzio, che la fede coniugale è
sacra.
— Mamma, perchè mi parli così?
— Perchè un uomo veramente onesto lo è in
tutte le cose, senza eccezione.
Un brivido m’assalse; mi trovai in ginocchio
e colla testa perduta fra le coltri in un singulto
disperato. La mano giá incerta della mia povera
madre mi cercò, la sentii errare fra i miei capelli
come quando ero bambino.
— Piuttosto di compiere Un tradimento — disse
ella — bisogna affrontare qualunque sacrifizio. La
vera forza virile sta nel dominio delle proprie
passioni. Le tue lagrime m’assicurano che la tua
coscienza non è corrotta: Con quest’ultima spe-
ranza,. Curzio, ti benedico.
Io sentii fluire entro di me, con una muta an-
goscia, la potenza strana dell’atto benedicente.
La monaca che avevo fatto venire per assi-
stere mia madre, entrò e non scambiammo altre
parole intime. Vedendo che la cara inferma rapi-
damente peggiorava, pensai di telegrafare ad
Emilia. Ella mi rispose subito e arrivò col primo
treno. Era accoratissima. Nel vederla, mia madre
si rasserenò e sorrise. Emilia dichiarò .di volerla
assistere senza l’aiuto della monaca, dicendo che
fra lei e me avremmo bastato a tutto. Passammo<noinclude></noinclude>
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quattro giorni e quattro notti al capezzale della
■diletta ammalata che s’andava lentamente affie-
volendo. Di tratto in tratto i suoi occhi velati ci
■cercavano, a vicenda, come se volessero unirci.
Ella morì tranquilla, colla bianca testa appog-
giata al seno di Emilia la quale raccolse, con fi-
gliale pietá, il suo ultimo respiro. Tre giorni dopo
ripartimmo per villa Subeiras senza che avessi
potuto rivedere Irene. Però le scrissi subito, le
confidai tutto lo strazio della mia situazione. Ri-
belle a qualunque freno, Irene mi mandò delle let-
tere ardenti in cui la sua anima selvaggia più che
mai si rivelava. Io leggevo e rileggevo pazza-
mente, nel silenzio del mio studio, le parole di
fuoco, le dolci e appassionate parole sature di malia.
Non era più Irene, era la mia Èva fatta viva e
palpitante che mi chiamava.
Intanto la buona Emilia vestita severamente
a lutto, grave ma serena, ormai, nella sua affli-
zione, vegliava intorno a me con raddoppiate
cure; ella s’occupava dei particolari materiali della
vita, circondandomi di squisite attenzioni, metteva
ogni giorno dei freschi fiori dinanzi al ritratto
■della madre mia, era tutta compresa del mio dolore.
— Curzio, perchè ti concentri così? perchè
non vieni un poco in giardino con me ? non senti,
il caldo è passato, l’aria è buona e vi sono tutte
le aiuole fiorite...
— Sto bene qui, Emilia, sto bene solo.
E ella se n’andava, con un sospiro, con lo
sguardo triste, col passo affaticato.<noinclude></noinclude>
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colai, con impeto, dalla dolce stretta di quelle pic-
cole braccia, le dissi delle parole incoerenti, le
ordinai fieramente di lasciarmi solo. Ella mi guardò,
sorpresa, si volse con un’impressione di terrore, e
tornò con lento passo, singhiozzando, alla casa.
Oh! quel singhiozzo!.... Non potevo sopportarlo e
m’inoltrai nel fìtto del bosco. Le ultime parole di
mia madre mi tornavano alla mente anch’esse con
un’insistenza tormentosa, ma, tutt’a un tratto, mi
parve udire il riso argentino d’Irene, e quel riso
fresco, squillante, musicale, vincendo ogni altra
sensazione dell’accesa fantasia, si sparse, come un
concerto, entro le ombre profonde del parco.
sfe sfc ^
Il giorno appresso, mentre stavo nel mio stu-
dio, inerte, spossato nel corpo e nello spirito,
Emilia, come di consueto, pian piano entrò.
— Non t’inquietare, Curzio — diss’ella, sfor-
zandosi d’apparire calma — non ho che a rivol-
gerti poche parole una domanda sola è ne-
cessario per la mia pace, fors’anche per la tua—
Dissi fra me : «Il momento estremo è giunto»
feci un sospiro di sollievo e con un cenno vago
l’invitai a parlare.
Io ero seduto alla mia scrivania, ella in piedi
a poca distanza. Mi sovvenne, con una straordi-
naria vivezza, del nostro primo colloquio in giar-
dino. La sua mano s’era posata sulla spalliera della<noinclude></noinclude>
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mia seggiola : sentii che tremava. Dopo un minuto
di sospensione ella ripigliò:
— E molto tempo che mi sono accorta della
tua.... freddezza verso di me. Ho creduto che fosse
un giuoco dell’immaginazione, indarno ho voluto
illudermi, Curzio, ancora uua volta. Interrogo il
mio cuore: non trovo che affetto; interrogo la mia
coscienza : la trovo tranquilla. Che cosa posso dun-
que aver fatto, io povera donna, io la tua sposa,
la madre del tuo figliuoletto morto, per ispirarti
quest’avversione?.... Un’ombra grave s’è posta fra
di noi: se tu non hai il coraggio e la forza di di-
sperderla, è necessario che noi ci spieghiamo, che
prendiamo una qualche risoluzione.... io non posso
vivere così....
— È giusto, Emilia, dobbiamo risolvere ; io sono
disposto a darti tutte quelle spiegazioni che credi....
È giusto.
Ella mi guardò atterrita; forse aveva fatto
quella proposta soltanto per mettermi alla prova.
— Tu sei una buona e virtuosa donna — io
continuai, determinato di andare sino al fondo —
ma io non sono degno di te. Te l’avevo detto. Tu
generosa m’ hai prescelto fra tanti, ma fu un cru-
dele inganno il tuo. Io non ero l’uomo che tu avevi
sognato e meritato. Io ero nato artista e tutte le
follie, tutte le ebbrezze dell’arte ardevano in me.
Tu ami la vita quieta dei campi, io i tumulti delle
grandi cittá, tu la regola, io l’eccezione, tu la
legge, io la libertá, tu sei la ragione e io la fan-<noinclude></noinclude>
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tasia, tu sei la virtù e io sono il peccato... La tua
proposta, Emilia, pur onorandomi non m’ha re?0
migliore: io ti promisi, sull’altare, una fede che
non ero certo di poter mantenere.
Un grido soffocato le sfuggì dal petto e quasi
inconsciamente ella esclamò:
— Dio santo! tu ami Irene SaradiaL.
La mano s’allentò dalla spallieia, la persona si
ritrasse con spavento
— Lo so — diss’io, esasperato contro me stesso
.— io sono crudele, sono perverso, ma dopo tutto,
l’ipocrisia è la peggiore di tutte le bassezze e il
mio spirito vi si ribella.
— Tu l’ami? ripetè Emilia guardandomi con
gli occhi smarriti.
Nella sua fisonomia v’era un’espressione così
disperata che mi parve di essere un malfattore
presso a commettere un delitto, ma stanco, sde-
gnato dalla lunga volgare finzione, non ebbi più
la forza di persistervi, e assentii tacitamente.
Ella indietreggiò sollevando le mani tremanti
con un atto non so più se di ribrezzo o di pietá,
ei nostri occhi s’incontrarono^ con un diverso, in-
definibile sguardo.
Emilia fu la prima a rompere il silenzio e disse
con una calma mortale:
— Ora soltanto comprendo il mio errore, ma
non v’è più rimedio, queste cose non passano che
colla vita.
Allora io mormorai pressoché inconsapevole:<noinclude></noinclude>
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Non potrai perdonarmi, Emilia, mai, mai
perdonarmi?....
Ella stette un momento esitante, un momento
solo. Poi, la sua fronte s’illuminò d’un raggio ohe
veniva dall’alto.
— Perdonarti? — ella disse amaramente — a
ohe giova perdonarti? Tu pensi a un’altra donna
e il fatto non muta. Ma io ti perdono Curzio,
perchè ti ho molto, molto amato!... A te sembra
ohe non t’abbia mái compreso, ma nemmeno tu
hai mai compreso me— Eravamo vicini, tanto.....
e ora, un’infinita distanza ci divide... per sempre.
Questo ti dico, che preferisco sapere tutto, cono-
scere tutto piuttosto che restare nelle angosce del
dubbio, piuttosto ch’essere ingannata....
Ella parlava gravemente e colla voce rotta, il
suo volto era d’un pallore spettrale.
Io stavo con la testa fra le mani, le tempia mi
martellavano come se qualche cosa dovesse spez-
zarsi entro di me.
— Oh Dio ! — ella gridò tutt’a un tratto — e
io che mi struggevo di tenerezza!
Io sorsi con impeto e — Lasciami partire —
esclamai — lasciami andare lontano, lascia ch’io
sfoghi tutta questa malvagia follia della mia gio-
vinezza..... forse un giorno tornerò rinnovato.... la
tua virtù potrá purificarmi....
— No, Curzio, te lo domando in grazia, non
partire. Tu lo sai, come non amo le scene volgari e
tutto quello che rivela indebitamente la parte più<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
debolé e più intima dell’anima nostra, così mi ri-
pugna che il mondo, sempre indiscreto, conosca
il mistero profondo delle nostre afflizioni... Sii li-
bero, ina rimani qui. In apparenza ... vivremo come
prima, io non ti recherò molestia, ora che so tutto
non mi resta più nulla a chiederti... — e si mosse
verso la porta.
— Emilia! — chiamai, fuori di me.
Ella si volse. Il suo volto da pallido s’era fatto
bianco.
— Che cosa vuoi dirmi ?
Era ancora la voce dolce degli altri tempi, ma
senza suono.
Io mi feci innanzi e non potendo prenderle le
mani ch’ella quasi involontariamente ritirava, le
baciai un lembo della veste.
Ella mi guardò meravigliata e a passo lento
uscì.
Mi sembrò all’improvviso che quella piccola fi-
gura fosse cresciuta, che ingigantisse dinanzi a
me. Mi sentivo venir meno. La sua grandezza
d’animo mi umiliava, senza salvarmi.
Oh ! se avessi potuto gettarmi fra le sue braccia
e dirle : «Io sono guarito da quella folle passione,
mi sento mutato, sento che potrò vivere tutto per
te ed essere un fido e devoto compagno...»» certa-
mente ella, la buona Emilia avrebbe trovato, oltre
la grandezza del perdono, anche quella dell’oblìo.
Ma io non ero ahimè, nè mutato nè guarito, Emilia
ben lo comprendeva!<noinclude></noinclude>
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Nel piccolo portafogli, sul mio petto, io te-
nevo il ritratto d’Irene, ve lo sentivo come una
bragia ardente; sentivo il fremito delle sue mani
morbide passare entro i miei capelli che manda-
vano scintille, e la voce armoniosa mormorare pa-
role nuove d’amore ; sentivo la fiamma del suo in-
cantevole sguardo in cui i miei occhi estasiati
si perdevano come in un orizzonte senza con-
fine ....
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Quando Emilia ed io ci trovammo alla mensa,
credo che a ciascheduno di noi paresse vedere, di-
nanzi a sè, lo spettro del passato. Per fortuna
Alwine era assente: non potemmo nè mangiare nè
parlare.
Più tardi, scendendo nel mio studio, incontrai
un domestico e una cameriera che portavano un
oggetto nella guardaroba. Era la culla del nostro
bambino che Emilia aveva sempre tenuta accanto
al suo letto ...
Entro la notte io risolvetti di partire. Non po-
tevo più vivere a Villa Subeiras, avevo bisogno
di andare in luoghi sconosciuti, fra gente stra-
niera. Scrissi alcune righe ad Emilia per comuni-
carle questa mia determinazione per scusarmi se
non potevo assolutamente acconsentire al suo de -
siderio. Ella ini rispose con la solita generositá:
«Va e che il Signore ti protegga, ma non dimen-
ticar mai che questa è la tua casa.» La scrittura<noinclude></noinclude>
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era tremante, ma io rimasi impassibile; il mio cuore
era come impietrito.
La mattina seguente lasciai la villa e andai
errando, più giorni, di cittá in cittá, di paese in
paese, senza direzione, senza scopo, senza veder
nulla e nulla comprendere. Un istinto indetermi-
nato, una vaga speranza mi spingevano verso
l’ignoto, ma non mi dava pace nè il tumulto dei
grandi centri nè il silenzio della natura. Ero andato
verso il nord fino ad Amsterdam : colla stessa vo-
lubilitá ridiscesi senza fermarmi sul Reno, per en-
trare nel Wurtemberg. Da dieci giorni non avevo
preso un giornale in mano, nè, per uno sforzo vio-
lento, avevo mai scritto ad Irene. A Stoccarda, in
un caffè nella Eònigsplatz mi cadde sott’oechio il
Corriere della Sera. Mentre ne scorrevo distratta-
mente le pagine, il nome della compagnia C....
m’attrasse lo sguardo. Essa dava a Venezia un
breve corso di racite, Irene Saradia aveva giá
suscitato, insieme al primo attore, un delirio d’en-
tusiasmo. Senza riflettere più oltre, io partii subito
per Bregenz, traversai, di notte, l’Arlberg e, per-
correndo rapidamente il Tirolo, mi recai nel Veneto.
Giunsi a Venezia verso le sette della sera, ap-
pena sceso all’albergo, mandai a prendere un palco
al teatro Rossini, ne trovai uno per caso, al terzo
ordine.
Davano 1’ «Odette». Irene entrò in scena, volse
subito lo sguardo verso di me, istintivamente. Io
mi ritirai, non volendo essere veduto, ma ella mi<noinclude></noinclude>
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cercava con gli occhi, sentiva la mia presenza ed
era distratta. Dopo il second’atto, scesi sul palco-
scenico, andai da lei nel camerino. La separazione
era stata lunga, e il ritrovo ebbe qualche cosa di
angoscioso. La commozione le fece trovare nella
sua ultima scena degli effetti strazianti. Calata fi-
nalmente la tela la raggiunsi, l’accompagnai in
gondola all’albergo, le narrai ogni cosa.
— Ebbene — mi diceva Irene — se tua moglie
sa tutto, perchè non vi separate? perchè non la
lasci ?... che cosa sei tu per lei ormai ? .... l’in-
ganno e la finzione erano mezzi indegni di noi.
Hai fatto bene a parlare e ora devi godere il frutto
della tua schiettezza.
E mi rimproverava di non avere nè volontá,
nè passione. Come Èva, ella concedeva all’amore
tutti.i diritti; dinanzi a quella volontá così impe-
riosa, a quella coscienza così impassibile, io rimasi
ancora una volta sedotto e vinto.
Una mattina, prima dell’alba, ella volle che
uscissi con lei in gondola.
Nel bacino di San Marco, dormivano ancora i
piroscafi e i velieri, in un silenzio profondo, sulla
laguna nera. Il barcaiuolo procedeva sicuro, nel
canale di Chioggia, tra le due file dei pali bian-
cheggianti al lume delle stelle. A poco a poco,
in cielo, lo sfavillìo si spense e una luce blanda
cominciò a diffondersi dall’oriente sull’ampia distesa
delle acque. Allora noi dicemmo al barcaiuolo
che riposasse e egli s’addormento. Spinta da una<noinclude></noinclude>
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brezza leggera, la gondola andava avanti lenta-
mente, senza ch’io avessi bisogno di guidarla col
remo. Pareva che una forza arcana la dirigesse.
Il mondo era svanito, noi soli dominavamo nello
spazio colla nostra giovinezza ardente, col nostro
invincibile amore.
— Come sarebbe dolce il morire in quest’ora,
piuttosto che doverci sempre dividere — mi disse
Irene, posando la sua testa bionda sul mio cuore
che palpitava. — Curzio, Curzio ! — soggiunse ella,
con trepida voce, — partiamo insieme, andiamo
coll’arte nostra, in un mondo lontano ove il nostro
amore possa vivere liberamente ! Dinanzi a questo
grande, a questo infinito amore, tutto deve annul-
larsi ; ogni legge sociale riesce meschina in con-
fronto alla legge suprema della natura che con-
giunge due estranei in un’anima sola, all’improv-
viso, come due fuochi in un’unica fiamma.
E l’antico desiderio dell’America le tornava,
lusinghiero, insistente. Io lo sentivo comunicarsi
con lenta, ma sicura malìa, a tutto il mio es-
sere. Mi sembrava che noi dovessimo sparire e
che, dinanzi a quella soluzione estrema, Emilia
potesse trovare, col disprezzo, anche la pace e
l’oblìo. Allora preferivo di gran lunga quel di-
sprezzo alla sua generosa, ma umiliante pietá.
Per accondiscendere alle irresistibili preghiere
d’Irene, le promisi di meditare quel giorno stesso
il nostro piano.
Nell’ebbrezza del sognato avvenire, tacevamo<noinclude></noinclude>
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entrambi, per non turbare il poetico mistero del-
l’ora mattutina. Ma all’improvviso, in quel silenzio,
sullo sfondo vago dell’orizzonte mi apparve una
strana visione: Emilia pallida, disfatta, abbando-
nata sui guanciali della piccola culla vuota. Rab-
brividii. Irene mi domandò che cos’avessi.
— Nulla, Irene, nulla.
In quel punto un gabbiano passò, sovra di noi ;
le ali bianche luccicarono nel volo grave come
fossero d’argento.
Il gondoliero s’era destato, la fragile barca,
scivolando come una freccia, rifaceva il percorso
cammino. Venezia pareva ancora sommersa fra i
vapori grigi dell’alba.
L’Angelus suonava da tutti i campanili e il so-
lenne concerto si spargeva, sull’acqua, come una
musica celeste, senza forma e senza fine. Mi sov-
venne, allora, d’una cosa alla quale da gran tempo
non avea pensato, d’una breve, tenera preghiera
che mi insegnava mia madre da bambino. Ma
cercai di scacciare da me, con la funesta visione,
anche l’inquietante ricordo, per corrispondere al
luminoso sorriso d’Irene. La ricondussi al suo al-
loggio sulla Riva e, assicurandola che ci rive-
dremmo fra breve, mi diressi all’albergo Vittoria
ov’ero solito prendere stanza quando mi recavo a
Venezia. Il portiere mi venne incontro con un te-
legramma. Chi poteva conoscere il mio indirizzo
e sapere ove fossi ? Lo sguardo corse alla firma :
Alwine Friihman. Ah ! sì, soltanto il vigile, il<noinclude></noinclude>
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perspicace affetto d’Alwine era stato in grado di
trovarmi. Ella telegrafava : «Signora gravemente
ammalata. Venga subito».
{{asterism}}
Quando entrai, a notte, nella villa Subeiras un
silenzio profondo m’accolse. Tutto sembrava morto.
Nell’atrio nessuno. Salgo le scale col cuore in tu-
multo. Alwine s’affaccia al pianerottolo tutta alte-
rata in volto. La interrogo con un cenno, ella ri-
sponde con un altro cenno desolato. Nell’antica-
mèra trovo una ragazza piangente.
— Dunque ! — esclamo — parlate in nome
del cielo ! Sta così male ?
— Molto, molto male — singhiozza la came-
riera.
Io m’avvio verso la camera da letto d’Emilia.
Alwine mi trattiene, mettendomi una mano sul
braccio.
— Non adesso, c’è il prete.
Io caddi sopra un divano senza sapere quello
che mi facessi. Il pensiero ch’ Emilia potesse am-
malarsi seriamente e morire non m’era mai bale-
nato alla mente : dinanzi a quell’ idea spaventosa
io provai, in un momento solo, tutti gli spasimi
del mio castigo. Passarono ore, minuti, non so.
Ricordo ch’Alwine mi disse :
— Ho telegrafato in tanti luoghi... temevo di
non trovarla...<noinclude></noinclude>
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Io non risposi. Non afferravo ancora, con chia-
rezza, la realtá di quel momento terribile.
Finalmente il prete uscì e rivolgendosi ad Al-
vvine, senza vedermi, domandò :
— Il signor Alvise è arrivato ?
— Eccolo.
Io m’alzai trasognato. Il vecchio sacerdote,
quello stesso che ci aveva uniti in matrimonio,
s’avvicinò a me, stendendomi le mani, guardan-
domi intensamente, con gli occhi dolci e buoni,
come se volesse penetrarmi nell’anima Sapeva egli?
Non potei comprenderlo.
— Entri, signor Curzio — mi disse — l’am-
malata la desidera, e si faccia coraggio, c’è an-
cora molta speranza...
Io entrai, con indicibile trepidazione, nella ca-
mera buia ove Alwine s’era affrettata di prece-
dermi, dicendo colla voce velata di lagrime:
— Er ist gekommen... er ist gekommen...
M’accostai al letto, tutto tremante. Ella vi gia-
ceva con mortale abbandono. Mi salutò con un
cenno lieve e triste; io le presi quella mano,
gliela baciai. Un ardore intenso di febbre m’alitava
incontro.
— Emilia!...
-- Hai fatto bène di venire, Curzio — ella ri-
spose piano.
Alwine le porse un cucchiaio di cognac, poi
mi disse additando la bottiglia :
— Da qui a dieci minuti un altro — e si ritirò.<noinclude></noinclude>
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— Povero Curzio ! come sei pallido ! — ella
mormorò con un accento di pietá profonda. —
Vedi ho errato anch’io e lo riconosco. Non ho sa-
puto assecondarti nei tuoi sogni d’arte : la gloria
m’è sempre sembrata una chimera. Ho errato, lo
comprendo, ma non c’è più rimedio. Tutto è fi-
nito.
— La nostra esistenza potrá rinnovarsi an-
cora, Emilia, e tu troverai la forza di dimenti-
care il passato — io dissi con un sincero desi-
derio.
Ella sorrise con molta dolcezza e sul volto
trasfigurato, negli occhi ingranditi dal patimento
qualche cosa di soprannaturale rifulse.
— No, Curzio. Nulla più si rinnova, tutto è fi-
nito — ella ripetè, sempre più calma
Il medico che avevo mandato a chiamare,
interruppe il triste colloquio. Egli esaminò subito
l’ammalata, non trovò alcun miglioramento.
— Si tratta d’una polmonite doppia — mi disse
egli, quando lo seguii nella camera vicina — mi
ha subito allarmato la sua comparsa in forma di
influenza, per di più, le condizioni fisiche dell’in-
ferma da qualche tempo erano poco rassicuranti...
Tre settimane or sono (il giorno della mia par-
tenza !) la povera signora Emilia passò gran parte
della notte in giardino, quantunque avesse molto
piovuto. Mi disse d’aver sentito un gran caldo,
un’arsura tormentosa, un affanno come se soffo-
casse. Fraulein Eriihman non potè indurla a rien-<noinclude></noinclude>
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trare... cosa strana in una persona così ragione-
vole e saggia. Doveva sentirsi molto male... Di-
fatti l’influenza si manifestò subito. Io volevo
scriverle in quei giorni, ma la signora me lo proibì
e io non insistetti sperando che fosse oosa di
breve durata. Ma ecco sopraggiungere, ad un tratto,
questa febbre con sintomi così gravi!
D’accordo col dottore d’Arvaz telegrafai a Pavia
per avere un altro medico. Egli arrivò entro la
mattina, approvò il metodo di cura, ma potè darci
poche speranze. La giornata fu agitatissima, lo
stato del cuore era allarmante, la febbre incalzava.
Sempre presente a se stessa, ma priva di forze,
Emilia non parlava che collo sguardo.
Verso le undici della notte volle baciare Alwine
e ringraziarla delle sue cure.
Práulein Frùhman, sopraffatta dall’emozione,
s’allontanò piangendo.
Io ero in preda a un’atroce tortura.
— Non merito un tuo bacio, Emilia, —. bal-
bettai — lo so, io non merito che il tuo disprezzo,
ma ho tanto bisogno di sentirmi ripetere che tu
mi perdoni..
— Oh ! — mormorò ella con voce debolissima —
lo sai che t’ho perdonato, Curzio. Chi realmente
ama sempre perdona...
Quante battaglie, quante lotte, la buona crea-
tura, assetata di giustizia, deve avere sostenuto
con se stessa, per assorgere ad un sì alto grado
di perfezione e di virtù!<noinclude></noinclude>
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Io mi chinai, riverente, dinanzi a quella mori-
bonda cui, più infelice che corrotto, avevo fatto
tanto male, e ella, vedendo lo strazio del mio
cuore, generosa fino all’ultimo sacrifizio, si sollevò,
con uno sforzo supremo, e mi baciò sulla fronte.
Ma le sue labbra erano fredde, il suo respiro era
affannoso. Ella ricadde spossata sui guanciali, con
un piccolo gemito. Atterrito io la chiamai:
— Emilia! Emilia!
Le labbra si mossero per la risposta, che non
venne, la testa si piegò con un abbandono ancor
più grave, sulle guance scarne un improvviso
pallore si diffuse, lo sguardo parve perdersi nel-
l’infinito.
Io mi sentii drizzare i capelli sulla fronte, tornai
a chiamarla disperatamente, ma ella non poteva
più rispondermi, era morta.
Quand’ebbi finito di leggere il manoscritto, la
mattina, per tempo, andai in cerca del mio povero
amico. Gurzio passeggiava in giardino. Ci demmo
la mano in silenzio; egli mise il suo braccio entro
il mio, e insieme c’ inoltrammo fra le ombre del
parco. Mi pareva che la confidenza ci avesse resi
fratelli. Dopo un lungo intervallo, seguendo quasi
il corso dei propri pensieri, egli mormorò:
— Io le ho chiuso gli occhi, io l’ho messa nella
sua piccola bara, io l’ho vista seppellire nel cimi-
tero d’Arvaz Sono sicuro che Emilia è morta
per me. Anche Alwine n’è persuasa..., io le strappai
17<noinclude></noinclude>
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il geloso segreto della sua convinzione. Il corpo
ha soggiaciuto all’abbattimento dello spirito. Morta
di crepacuore!.... chi non l’ha provato non può
comprendere che cosa sia questo tormento nella
vita d’un uomo!... Mai un rimprovero, mai una
trista parola .., eli ha soltanto perdonato..., e io
sento ancora sulla mia fronte il bacio dell’oblio
Quel ricordo lo faceva rabbrividire.
— E la tua commedia? — gli domandai, più
tardi, sperando distrarlo dalla sua dolorosa preoc-
cupazione.
— Oh! irremissibilmente caduta... — e, veden-
domi meravigliato, soggiunse — l’avevo data alla
compagnia 0... e ne sostenne la prima parte la.
signorina P... un’esordiente.
— Dunque Irene Saradia ?...
— Era giá partita per un lungo viaggio al-
l’estero...
— Non la rivedesti più ?
— Sì, una volta. Le avevo scritto, ripetutamente T
che non mi cercasse, che non ero più quello..., ma
Irene non si dava pace. Ella si recò a N... per
essere più vicina a me, prese alloggio in un al-
bergo, e mi fece tali istanze perchè ve la raggiun-
gessi che, dopo una lunga esitazione, m’arresi al
suo desiderio.
Quando si convinse ch’ero venuto per dirle
addio, Irene ebbe un impeto di ribellione ostile
contro di me, e mi rimproverò di non averla mai<noinclude></noinclude>
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amata. Poi, mentre stavo presso una finestra, guar-
dando follemente nel vuoto, mi gettò le braccia
al collo con un’angoscia disperata Io sentii l’ef-
fluvio inebriante dei suoi capelli biondi, io sentii
il fremente ardore dei suoi baci e l’armonia magica
dell’amorosa parola, sentii la tentazione rinnovarsi
imperiosa e tutte le voluttá del senso e dello spi-
rito riprendermi, in un momento solo, con violenza
irresistibile, ma mi parve che una forza sovrumana
mi svincolasse da quell’abbraccio.
Una morta era fra noi e in virtù di quella morta
io vedevo chiaramente entro le tenebre della pas-
sione, sentivo che quella passione così ardente
dinanzi all’ostacolo, resa libera da ogni freno e
arbitra di sodisfare se stessa per intero, avrebbe
dovuto spegnersi nel più torbido disgusto, subendo
con ciò il suo naturale, il suo giusto castigo, sapevo
ormai qual’è l’amore che sopravvive al tempo e
alle sue prove.
— La vita e la gloria ti stanno dinanzi, Irene
— le dissi — io non ti porterei che sventura.
Dobbiamo separarci.
— Crudele! — ella esclamò drizzandosi fiera-
mente.
— È vero, io fui crudele, ma non con te. Con
te sono saggio.
— Curzio, Curzio — ella esclamò, stendendomi
ancora una volta le braccia, tutta palpitante.
Io indietreggiai verso la porta
— Curzio — ella ripetè follemente, sbarrandomi
la via.<noinclude></noinclude>
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Ma la volontá aveva ripreso sovra di me tutto
il suo impero, e per quanto il mio cuore fosse
straziato, un istinto più forte di qualunque umano
allettamento m’aiutò a superare l’ultimo distacco.....
Mentre così narrava, un grande pallore s’era
diffuso sul volto d’Alvise.....
— Tu l’ami ancora, Curzio? — io domandai
non senza esitanza.
Egli mi rivolse uno sguardo smarrito, e in quegli
ocelli turbati da un’espressione indefinibile io lessi
tutta l’intensitá del volontario sacrifizio.
Poi egli rispose con una calma profonda :
— Sì, l’amo ancora.<noinclude></noinclude>
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Benché il sole giá declinasse all’orizzonte, fa-
ceva un caldo soffocante. I viali del giardino erano
deserti, le persiane verdoline chiudevano ogni
apertura sulle facciate grige, e il ronzio vago degli
insetti sembrava rendere più grave il silenzio del
chiostro ove un cameriere stava sonnecchiando
Un’oppressione d’arsura tediosa era scesa, in quel
sereno pomeriggio di giugno, sullo stabilimento
idroterapico di S... I bagnanti, oppressi dalle fa-
tiche della cura, riposavano tutti nelle loro stan-
zuccie claustrali, solo Gustavo Rose, il giovane me-
dico, chiuso nel suo piccolo appartamento del primo
piano, vegliava nella mezza luce dinanzi a un ta-
volino ingombro di libri e di giornali. Era intento
a decifrare una lettera dai caratteri poco intelli-
gibili: un amico, antico cliente, gli annunziava
per l’indomani l’arrivo di due signore a nome
delle quali aveva giá fissato, giorni addietro, due
o tre camere in buona esposizione.
«Spero», aggiungeva lo scrivente, «che tu<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
potrai essere molto utile alla signorina Aparia. Da
due anni ell’ha perduto la salute e io ti sarò grato
d’ogni premura che vorrai usarle, perchè una vec-
chia amicizia mi lega a suo padre. D’altronde5
senza esser medico, capisco che si tratta d’un caso
interessante per i tuoi studi».
Rose lesse quindi altre lettere d’infermi cono-
sciuti che gli si raccomandavano per il solito al-
loggio, di nuovi che preferivano rivolgersi anziché
al segretario, al medico noto per la sua beni-
gnitá umanitaria; sfogliò alcuni periodici e finì
per rimanersene assorto in una profonda medi-
tazione.
La casa dava alloggio allora a circa quaranta
ammalati, i primi della stagione, povere creature
che in quel momento affidavano a lui solo il pro-
blema, forse non sempre solubile, delle loro sof-
ferenze svariate ; e per il giovine generoso, il grave
peso della responsabilitá non era alleggerito che
da un inesauribile e ardente desiderio d’azione e
di riuscita.
Gustavo Rose era figlio d’una gentildonna lom-
barda e d’un musicista sassone il quale, venuto
temporaneamente a Milano per lo scopo dell’arte,
aveva finito còl prendervi, a cagione del suo ma-
trimonio, stabile dimora.
Nato nei giorni in cui ferveva la lotta del ri-
sorgimento, Gustavo, fin da fanciullo, non aveva
esitato a considerarsi come italiano. E sebbene
nell’indole ritraesse alquanto dell’origine germa-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
nica, la serietá nordica, l’eccessiva rigidezza del
carattere erano in lui temprate da una bella vi-
vacitá latina che raddoppiava l’efficacia del suo
acuto e personale ingegno.
Nell’adolescenza, forse per impulsò di qualche
latente attitudine, s’era sentito infiammare dalla
passione della musica, formando anzi il proposito
di dedicarvisi, poi, nell’etá più ardente e decisiva,
la perdita prematura dei genitori, ch’egli adorava,
l’aveva spinto, ad un tratto, allo studio della me-
dicina.
Dopo averne presa la laurea a Pavia, s’era re-
cato all’estero ónde frequentare le cliniche primarie
e occuparsi in particolar modo delle malattie ner-
vose i cui misteri psicologici, stimolavano in lui
l’istinto dell’indagine.
Per la musica gli era rimasto un culto, e, quan-
tunque non suonasse più alcun istrumento, non
trascurava quei mezzi che potessero approfondire
la sua cultura nell’arte classica, e tenerlo in cor-
rente coi progressi dell’arte moderna.
Era questo l’unico svago che si concedesse.
Da cinque anni era tornato in Italia e aveva
preso a dirigere uno degli stabilimenti idroterapici
del Piemonte, prodigando agli infermi, oltre le
cure scientifiche, anche la pietá del cuore che nella
consuetudine di veder soffrire gli si era pur sempre
serbata integra e viva.<noinclude></noinclude>
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{{asterism}}
Un rumore di ruote, un suono di voci e di
campanelli distolse presto il giovine dal suo rac-
coglimento. Non aspettava nessuno, quel giorno, e
rimase sorpreso vedendo entrare il segretario che
esclamava con premura:
— Signor direttore, forestieri, forestieri!
— Ohi sono ?
— Due signore, e la cameriera. Non le ho mai
vedute. Vengono da Firenze.
— Sará la marchesa Aparia. Avrá anticipato.
Le apra la sala, io scendo subito.
Rose non era solito d’aspettare che i bagnanti
fossero saliti nelle loro camere : egli li accoglieva
sempre sulla porta di casa, come ospiti suoi propri
e senza distinzione di classe o di censo. Quel
giorno, tuttavia, la sua sollecitudine consueta era
commista ad una certa trepidanza, e, mutata la
giacca di tela che portava con un vestito nero,
egli s’avviò, senza fretta, per ricevere le nuove
arrivate. Quando comparve nel salotto ov’esse ri-
posavano, la più anziana gli venne incontro con
molto garbo, presentandosi:
— Cristina Aparia. Ho il piacere di parlare col
dottor Rose?
Il giovine s’inchinò cortesemente.
— Arrivo prima del convenuto. Volli approfit-
tare d’un lieve miglioramento nello stato della mia
figliuola... Ero cosi impaziente di trovarmi qui che<noinclude></noinclude>
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ho affrontato perfino il caldo, facendo a quest’ora
la salita da Biella.
— Sempre benvenuta, marchesa.
— Ecco l’ammalata che le affido — proseguì
donna Cristina. — Manuela, il dottore! — sog-
giunse facendo cenno alla fanciulla che s’era
messa in disparte e che s’avvicinò con visibile
ritrosia.
Rose s’inchinò nuovamente, ma non fu corri-
sposto che da un impercettibile saluto. Nondimeno
egli avvolse coll’acuto suo sguardo l’esile figura il
cui volto era velato da un fitto crespo azzurro
e chiese con molta dolcezza:
— Si sente ella favorevolmente disposta a questa
cura, signorina?
— Oh! non troppo; non ci credo affatto. Sono
venuta soltanto per aderire al desiderio dei miei!
— rispose la fanciulla con una certa sostenutezza.
— Oh Manuela! — interruppe severamente la
marchesa. — Dovrá compatirla spesso, dottore, i
suoi nervi sono così eccitati!
— Oli ammalati non si devono compatire ma
piuttosto confortare — disse Rose con un’occhiata
benevola alla fanciulla, la quale si volse da un’altra
parte.
— Dimenticavo una cosa — riprese donna Cri-
stina — la sua cortese accoglienza mi aveva di-
stratta. . Ecco una lettera dell’amico nostro comune
che ci raccomanda alle sue cure...
— I miei infermi non hanno bisogno di racco-<noinclude></noinclude>
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mandazioni! — esclamò il giovane — Quando
hanno varcato la soglia dello stabilimento, ini sono
tutti egualmente sacri...
Donna Cristina sorrise, ma tosto rattristata,
soggiunse :
— C’è anche la diagnosi del dottor F di
Firenze.
— Grazie, questa la leggerò volentieri, davvero.
— Ho tutta la fiducia di trovare in lei un
valido appoggio - per convincere Manuela — con-
tinuò la marchesa volgendosi con un sospiro verso
la fanciulla ch’era tornata a sedére in disparte,
senza parole.
Sono interamente a sua disposizione, signora,
e non adempio che al mio dovere! — concluse il
medico con una certa gravitá. — Più tardi, quando
le camere saranno allestite, se me lo consente,
verrò un momento da loro.
— Molto gentile, grazie. Stanze arieggiate, non
è vero ?
— Sono le più allegre dello stabilimento. Il se-
gretario le accompagnerá. Si ricordino che la cena
è alle sette.
La cena? non si pranza la sera?
Ho adottato un sistema campestre e più
igienico.
— Ma è un orrore!
— Vedrá, s’avvezzeranno! disse Rose, ri-
dendo. — Col loro permesso, me ne vado, perchè
è l’ora del terzo bagno.<noinclude></noinclude>
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Mentr’egli usciva, madre e figlia si abbraccia-
rono istintivamente.
— Sii dunque ragionevole, Manuela — mormorò
la marchesa, con mal celata tenerezza.
— Sono molto triste mamma, lo sai, non posso !...
—- rispose la fanciulla con fievole voce. — Usciamo
da questa tomba! andiamo un po’ a vedere com’è
fatto questo vostro famoso luogo di cura !...
Donna Cristina prese il braccio che la figliuola
le offriva, e mentre preparavano le stanze, seguita
dalla cameriera, si avviò a fare un primo giro di
ricognizione.
{{asterism}}
Lo stabilimento dominava dall’alto un paesello
alpestre, un’allegrezza di ca9e bianche nella vallata
tutta verde di castagni. Le larghe gallerie che con-
giungevano i due quadrilateri, ond’esso si compo-
neva, erano chiuse al primo e al secondo piano
da grandi vetrate e correvano invece a terreno
a guisa di chiostro intorno all’intero caseggiato e
al cortile, adorno nel mezzo da una secolare pianta
d’abete. Castello feudale in origine, poi convento
di clarisse e successivamente asilo d’alienati, il
vasto edifizio aveva finito per diventare una casa
di salute, ma serbava sempre sulle sue mura le
tracce caratteristiche di tante diverse destina-
zioni. Dalla nobile eleganza del Quattrocento alla
banalitá moderna, v’erano passati tutti gli stili,
ma una vegetazione superba e selvaggia di am-<noinclude></noinclude>
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pelopsis e di caprifoglio aveva saputo fonderli ed
armonizzarli colle sue efficaci velature. Dall’an- *
golo d’uno dei quadrilateri, verso mezzogiorno, si
slanciava una svelta torretta antica ridotta ad
uso d’abitazione, con una meridiana sulla facciata,
e una banderuola rossa in cima, e dal suo ele-
gante balconcino medioevale scorreva lontana la
vista sulle Alpi Pennino la cui tinta cerulea, de-
licatissima, appena staccava di tono nell’azzurro
del cielo.
Il chiostro, che nei giorni di pioggia serviva
di passeggio per la reazione, era di buona archi-
tettura e vi si aprivano varie uscite e un grande
atrio per le carrozze; molti rosai rampicanti, Aimè
Vibert, allacciavano i loro robusti getti intorno
agli archi e i pallidi fiori facevano capolino a \
ciocche a ciocche dalle belle colonne spirali.
A ponente, lo stabilimento era addossato ad
un’alta collina cinta di viali a guisa di parco, per
modo che, traversando un piccolo ponte, i bagnanti
potevano recarvisi senza prendere le scale. In quel
giardino le conifere si alternavano cogli alberi da
frutto e col mirto malinconico tagliato a piramide
o a spalliera, memoria claustrale anch’esso come
certi capanni d’edera e di lauro fitti tanto da non
lasciar passare raggio di sole. Qui e lì una pianta
esotica coltivata con cura speciale, un gruppo di
tiori tradivano la. passione del medico per l’orti-
coltura. -
Il vertice della collina si spianava in una<noinclude></noinclude>
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specie di larga terrazza che ombreggiavano molte
piante rigogliose e donde poteva spaziare lontano
lo sguardo sopra un incantevole orizzonte.
Donna Cristina e sua figlia percorsero lenta-
mente tutti i viali. Di tratto in tratto una bagnante
frettolosa, intenta alla sua reazione e intirizzita ad
onta del caldo, passava, guardandole con una certa
curiositá mista di desiderio e di diffidenza.
Rientrate nel chiostro le due signore s’avvia-
rono verso le scale. Erano scale strette e bagnate,
bagnati erano i corridoi; un’umiditá calda trape-
lava dai muri, dalle pietre,
— Le nostre stanze non saranno qui, spero! —
disse la marchesa al segretario che la veniva se-
guendo premurosamente.
— No, ho, Eccellenza. Qui vi sono i bagni, fa-
voriscano dall’altra parte.
E, attraversando una delle gallerie, s’avviarono
verso l’ala di mezzogiorno.
— Non è libera la torretta ? domandò Manuela.
— È proprio la torretta che il signor direttore
ha loro assegnata, signorina; è più alta ma più
allegra.
E come furono giunte al secondo piano, il se-
gretario le introdusse in un appartamento com-
posto di due stanze libere, la seconda delle quali
metteva nella torre per mezzo d’una scaletta a
chiocciola.
— Qui non si stará male — disse donna Cri-
stina affacciandosi al balconcino.<noinclude></noinclude>
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Manuela invece si lasciò cadere sopra una seg-
giola in atto di profondo scoraggiamento.
— Spero che non mancherá nulla ! — concluse,
partendo, l’impassibile segretario come se le lasciasse
in una regale abitazione. — ’ Tuttavia, qualunque
cosa desiderassero, non hanno che a parlare...
— Che cosa fai? non ti muovi? — domandò
donna Cristina, ravviandosi i capelli dinanzi al-
l’unico specchietto sgraffiato che le fosse riuscito
di trovare.
— Mi sembra impossibile di dover rimanere qui.
Mi manca il respiro.
— Andiamo, figliuola, non mi crucciare così —
mormoro quietamente la marchesa che non sempre
riesciva a comprendere, nella sua fiorente salute, i
patimenti della fanciulla.
Intanto Adelina, la cameriera, contemplava con
disprezzo i soffitti bassi, i muri dipinti rozzamente
dall’imbianchino, i pavimenti scuri di castagno,
senza vernice, il mobilio scarso e d’una semplicitá
cenobitica, deplorando a mezza voce :
Nemmeno una poltrona ! Nemmeno una sedia
a sdraio ! Misericordia, quanto è duro questo sofá !
Sembra proprio un convento...
-Difatti, queste saranno state un giorno le
celle delle monache. Sta zitta, Adele, non accre-
scere, coi tuoi inutili lamenti, il disgusto della si-
gnorina. Studiamo piuttosto d’accomodarci alla
meglio.
E dopo aver pensato un poco alla sua toilette<noinclude></noinclude>
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donna Cristina, da persona disinvolta e pratica
qual’era, si mise a disporre a sua guisa i tavolini,
le seggiole e gli altri pochi mobili; scelse per sè
la prima stanza, assegnò la seconda a Manuela e
nella torre improvvisò un salottino, raccogliendovi
il meglio, cavando anche dai bauli qualche sci allo,
qualche brano di stoffa da appendere sui muri
nudi. Aveva appena finito, quando Adele annunziò
il medico.
— Grli arredi, qui, sono tutti assai modesti —
disse il giovine entrando. — Sebbene io apprezzi
inolto la semplicitá e la ritenga omogenea alla
cura, mi lagno spesso, ma indarno, col proprietario
dello stabilimento, per questa grettezza... Le si-
gnore hanno tanto bisogno di certi comodi!...
Come sta? — soggiunse egli rivolgendosi a Ma-
nuela.
— Poco bene — rispose freddamente la fan-
ciulla.
— Vuole narrarmi le sue sofferenze? — con-
tinuò il dottore, sedendole accanto con una certa
amorevolezza.
— Non le basta la lettera del mio medico ?
— Ho letto, e rileggerò, con piacere, lo scritto
del mio illustre collega — disse Rose, senza scom-
porsi. — E necessario tuttavia che l’interroghi io
stesso, che le faccia un regolare esame... Ho il
principio di non intraprendere alcuna cura, senza
questi preliminari...
— Oh Dio ! — proruppe allora la fanciulla, senza
18<noinclude></noinclude>
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dissimulare una viva contrarietá — le mie soffe-
renze non sono definibili.
— Il dottor F... la ritiene affetta da generale
anemia e da una forte perturbazione nervosa. Come
si determinano i patimenti ai quali egli accenna ?
— Vado soggetta a grandi sfinimenti... — mor-
morò con riluttanza Manuela.
— Certe volte le sembra di svenire all’improv-
viso e mi sta sdraiata dei giórni interi — continuò
la marchesa — poi, ad un tratto, le sopraggiunge
l’ardore dell’occupazione, lavora, studia fino a notte
inoltrata.. È presa, non di rado, da vertigini, da
palpitazioni, da moleste nevralgie vaganti.
— Febbre?. — domandò Rose.
— L’ebbe, altissima, due anni fa, quando si ma-
nifestarono le prime turbe, poi più.
— Tosse?
— Qualche volta ma fu sempre considerata come
uno spasimo nervoso.
— Appetito?
— Assai poco.
— Sonno?
— Sempre scarso e agitato.
Mentre donna Cristina sosteneva quest’interro-
gatorio in vece sua, Manuela s’era alzata per uscire
sul balcone della torretta.
Gustavo Rose segui con lo sguardo l’esile figu-
rina, il volto pensoso e profilato, che la ricchezza
dei capelli castani faceva parere ancor più bianco
nella delicata trasparenza dei suoi lineamenti, e
disse piano :<noinclude></noinclude>
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— Marchesa, voglia perdonare al medico una
domanda. Non havvi alcuna influenza morale su
questo disordine fìsico?...
Donna Cristina fece un cenno vago che non ne-
gava nè affermava, chiudendo il varco a qualunque
altra interrogazione. E. allora Rose riprese, forte *
— Io credo che la cura potrá giovarle, ma oc-
corre vi si applichi di proposito prima di tutti la
nostra ammalata. Non sa, signorina, quanto sia
grande anche in questo refflcacia della volontá?
Ella deve voler guarire, vincere, dominare i nervi
ohe la tiranneggiano... poiché in fondo mi pare
non si tratti che d’un’affezione nervosa...
— L’aiuterá, non è vero, dottore — disse la
marchesa commossa, prendendo per la mano Ma-
nuela che s’era riavvicinata con ripugnanza, per
puro debito di cortesia.
— Farò quanto posso signora. Sono un po’ de-
spota, sa, coi miei ammalati. Ci tengo a essere
ascoltato e ubbidito... e i poveri nevropatici abor-
rono la disciplina...
— Manuela, in questo, non si distingue dai suoi
compagni, è molto indocile — sospirò la mar-
chesa.
— Devo crederlo, signorina?
— Mamma ha ragione. Sono uno spirito ribelle
— rispose la fanciulla più convinta che penitente.
— Allora lotteremo... ma con nobili armi... —
concluse Rose, col suo grave sorriso che spirava
una profonda e indulgente bontá virile.<noinclude></noinclude>
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In quel punto una campanella suonò.
— È il primo segnale della cena — disse Rose.
— Siamo ancora vestite da viaggio — esclamò
donna Cristina.
— Tengano così, vengano così, per caritá !
insistette il dottore. — È troppo seria la cura per
pensare all’eleganza. Da questo luogo il lusso deve
essere bandito, indarno lo predico ogni giorno!....
— Sta bene, obbediremo volentieri. Ma tu, Ma-
nuela, appuntati quella treccia cbe s’è sciolta.
La fanciulla, piegandosi un poco indietro, sol-
levò la bella treccia morbida che le scendeva fin
sotto il ginocchio e nel farlo ebbe un inconscio
sorriso anche lei, ma un sorriso lieve e mortal-
mente triste come di persona a cui fosse stato
tolto ogni bene.
Poi scesero tutti e tre a terreno nell’antico re-
fettorio ridotto a sala da pranzo. La tavola lun-
ghissima essendo costruita a ferro di cavallo, ac-
cadde che le signore Aparia si trovassero non lungi
dal dottore il quale occupava il posto di mezzo per
poter dominare tutti i suoi infermi.
La marchesa era vicina ad un signore di media
etá, affetto da spinite cronica, Manuela ad un gio-
vine pallido dai pomelli rossi e dai tolti capelli
neri, un bel giovane condannato inesorabilmente
dalla tisi e che i medici avevano mandato da Rose
per non sapere più che farsene. Dirimpetto sedeva
una signora neurastenica con due figliuole adole-
scenti, malinconiche, limate dall’anemia ; ovunque<noinclude></noinclude>
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volti emaciati, espressioni di patimento e di tri-
stezza. I commensali salutarono guardando con
evidente curiositá. Il dottore, prima di mettersi al
suo posto, aveva scambiato qualche stretta di
mano, aveva fatto qualche domanda a mezza voce.
La conversazione era tranquilla, un po’ stentata,
a momenti nulla. L’atmosfera di quella lunga sala
buia e tetra sembrava quasi cruda. Manuela rab-
brividì.
— Hai freddo? — domandò donna Cristina.
— Sì, mamma, molto freddo.
— Qui dentro mi ci gelo anch’io ! — lamentò
come fra sè il giovane pallido — eppure siamo in
giugno !
E un colpo di tosse gli troncò le parole in bocca.
Manuela guardò appena le carni lesse, insipide,
le frutta cotte, i cibi blandi che alcuni camerieri
poco eleganti servivano a quella mensa frugale,
ove le poche persone sane si distinguevano per
la piccola bottiglia di vino che stava loro dinanzi,
e, prima che la cena fosse terminata, s’affrettò ad
uscire nel chiostro con sua madre. Le due signore
sedettero su una panca e il medico ve le raggiunse
rimanendo a preferenza con loro, cortesia che so-
leva usare sempre ai nuovi arrivati.
Cominciava appena a calare il crepuscolo, le
ciocche fragranti delle rose biancheggiavano nella
penombra sugli archi anneriti dal tempo e i ba-
gnanti, a due, a tre, passeggiavano su e giù, di-
scorrendo quasi sempre dei propri malanni e<noinclude></noinclude>
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della cura. Mentre passavano il dottore li nomi-
nava :
— La signora Cefalù, con sua nipote. La fami-
glia Mevi. Il marchese Della Paglia. I fratelli
Mallotti di Venezia.
— E quella giovane che siede laggiù in fondo
c m un bellissimo bambino ? — domandò la mar-
chesa.
— Una meridionale, si chiama Èva Antella.
— Com’è sparuta ! E pure dev’essere stata bella
anche lei, un giorno. Ha degli occhi!
— Bella e sventurata. È il terz’anno che viene
qui a far la cura, ma ha troppo sofferto moral-
mente per potersi riavere del tutto. Fu abbando-
nata dal marito.... non è un segreto.
Manuela, che fin lì era sempre rimasta concen-
trata in se stessa, sollevò uno sguardo pietoso e
la marchesa proseguì :
— E il giovanotto sempre fermo sulla porta
della sala?
— Un francese... Filippo Parny. Glielo presen-
terò domani, se permette. E guarito e si trattiene
qui soltanto per accondiscendere al mio desiderio.
E un’anima solitaria, ma non rifugge dalle squi-
site eccezioni.
— Quanta gente nuova! — sospirò finalmente
Manuela. — Potremo pur vivere a parte senza far
tante òonoscenze, non è vero mamma ?
— Certamente!—disse Rose, incaricandosi della
risposta — ma io non la consiglierei, la distra-
zione è necessaria.<noinclude></noinclude>
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— Nè io permetterei che tu coltivassi questo
tuo morboso istinto di fuggire la gente — mor-
morò la marchesa. — A poco , a poco lo vincerai.
Intanto,, dottore, se non lo dispiace, m’indichi ove
possiamo trovare un buon caffè !...
— Un caffè ?... mah ! in nessun luogo, marchesa,
perchè qui è assolutamente proibito.
— Proibito !
-» Non per lei che non ha bisogno della cura.
Potrá prepararglielo in stanza la cameriera, ma
non acconsentirò mai che lá signorina s’avveleni
con questa bevanda eccitanté.
— Io sono avvezza a prendere tre o quattro
caffè fortissimi al giorno! — disse Manuela.
— Brutta consuetudine.... la smetta.
— È impossibile !...
— Impossibile non è alcuna - cosa che stia nel
dominio della nostra volontá. Si provi, si eserciti
a negare al suo corpo questa servitù dannosa. Da
prima esso si ribellerá un pochino, poi dovrá ce-
dere alla forza maggiore.
Manuela non aggiunse sillaba, ma i suoi pro-
fondi occhi castani sfavillarono.
Rose la guardò con viva attenzione, poi le
prese il polso e disse colla solita amorevolezza :
— Ella non ha mangiato stasera, me ne sono
accorto.
E vero, mangiò poco o nulla — confermò la
marchesa, mortificata. .
— Domani, quando avrá passeggiato, si sentirá<noinclude></noinclude>
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meglio. Ora l’aria comincia a farsi umida, siamo
in montagna. Non vorrebbe venire un pochino in
sala? Si faccia animo, vede, ci vanno tutti.
— No, no. Ci venga mamma, se vuole. Io ho
bisogno di ritirarmi.
— La marchesa scosse la testa come per dire :
«E inutile, è ammalata, conviene compatirla!»
E con un fare rassegnato s’avviò verso le scale
con la figliuola.
— Oggi è giusto, dev’essere stanca — mormorò
il dottore dando loro la buonanotte. — Domani
mi permetterò d’insistere un pochino di più.
Manuela irritata non rispose, ma s’affrettò a sa-
lire e appena furono sole disse con amarezza a
sua madre, non curandosi che la sentissero :
— M’hai condotta in una vera prigione ; non
manca nulla, nemmeno il carceriere.
Due ore più tardi, volendo fumare all’aperto il
suo unico sigaro della giornata, Gustavo uscì dal
primo piano sulla collina e dopo aver fatto una
salita di pochi passi per il viale, si fermò, sorpreso.
Dinanzi a lui, nel mite chiarore d’una serena
notte stellata, stava una figura di donna avvolta
in uno scialle bianco e appoggiata al tronco d’una
catalpa in fiore. Il profilo tenue e della fierezza
gentile di certi angeli delle antiche scuole appena
s’intravedeva tra le frange che gli facevano velo.
Dal paesello sottoposto un suono lontano di
chitarre e di flauti veniva flebile, nel silenzio del-
l’ora notturna.<noinclude></noinclude>
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Il dottorò stette due tre minuti immobile, con-
templando la fanciulla che pareva assorta, perduta
nei propri pensieri. Poi, non visto ancora, le si
fece d’appresso, la chiamò :
— Signorina Manuela !
Manuela Aparia era difatti una di quelle crea-
ture a cui si dá a preferenza e involontariamente
il nome di battesimo, e Eose che pur sapeva es-
sere molto cerimonioso in date occasioni, c’era ca-
scato anche lui, cedendo ad un certo istinto ar-
cano dell’animo.
Al vedersi così scoperta in flagrante delitto di
romanticismo e proprio da lui, la fanciulla si volse
con visibile disgusto :
— Oh dottore... — diss’ella seccamente.
— Non si trattenga fuori a quest’ora, marche-
sina ! — disse il giovane, correggendosi — è umido
il giardino.
— Sta bene, come vuole. Ero venuta a cercare
un po’ di sollievo. Laggiù faceva freddo e nelle
nostre camere si soffoca.
Ed ecco subito il guardiano che la chiama
all’ordine....
Manuela lo guardò con freddezza e mormorò :
— Difatti siamo in un convento di clausura.
— L’igiene, signorina, è la base su cui si fonda
ogni cura razionale....
— Io non ho voglia di curarmi.
— Allora mi permetta d’aggiungere che oltre
l’indispensabile igiene del corpo a lei va sugge-<noinclude></noinclude>
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rifca anche quella dell’ anima....; — rispose Ròse,
scherzosamente.
— Vuol dire che la mia anima è ammalata?...
— Ammalata, non direi ; dalle sue parole posso
supporre che sia sofferente....
— Questo, signor Rose, non entra affatto nel
campo dell’idroterapia.
Il giovane la guardò con sorpresa ma senza ri-
sentimento.
— I medici sono sempre indiscreti — diss’ egli
col suo tranquillo sorriso.
— La fantasia non può a meno di venire in
aiuto alla loro scienza incerta !... — riprese Ma-
nuela con un certo disdegno, mentre traversavano
insieme il piccolo ponte del secondo piano.
All’udire quella risposta il giovane si fermò e
abbassando sulla signorina Aparia il suo sguardo
profondo, soggiunse con una voce in cui la com-
mozione vibrava :
— Dunque... nemici?
— Sì, nemici. Buona notte.
— Mi permetta almeno d’accompagnarla alia
sua stanza, non è in quest’ala, è di lá...
La fanciulla s’avviò per il corridoio e per la
galleria senza parlargli ed egli le rimase risoluta-
mente al fianco. Come furono giunti all’apparta-
mento della marchesa, egli disse soltanto :
Dunque a domani, signorina, si ricordi che
la cura comincia alle cinque... sarò costretto di
venire da lei molto presto... alle quattro e mezzo...<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Come vuole!... —. E senza stendergli la
mano, Manuela aperse l’uscio della sua camera e
scomparve.
Gustavo Rose rimase alcuni minuti coll’occhio
fisso su quell’uscio del numero 10 ch’ ella aveva
lasciato socchiuso. Egli non provava alcuna irri-
tazione nell’animo, bensì un senso di grave tri-
stezza e domandava a se stesso se nello sciogliere
il problema di quella fragile esistenza di donna
avrebbe trovato una creatura viziata dalla nascita
e da una falsa educazione, oppure un essere eletto,
perturbato dal dolore. Una certa penetrazione, in-
solita nell’uomo, raffinata in lui dall’abitudine di
studiare l’umana miseria, e un vago istinto, forse
un latente desiderio ló facevano propendere verso
quest’ultima ipotesi. Su quel bianco volto di fan-
ciulla, in quegli occhi schivi ove tremolavano fra
le lunghe ciglia lagrime irrefrenabili egli aveva
scorto la traccia d’un patimento grave, forse se-
greto e un’immensa pietá, una pietá nuova gli era
nata in cuore.
Egli scese a pianterreno, chiamò il primo ca-
meriere 6 gli disse:
— Sono le dieci. Quando quei signori hanno
finito il pezzo che stanno suonando in sala, li
avverta dell’ora che fa e cominci a spegnere i
lumi. E tempo che vadano a dormire.
— Sará servito. Buon riposo, signor dottore.
Il bagnaiolo del primo piano ha chiesto se deve
rinnovare domattina l’impacco al numero 20.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
— Nulla fino a nuovo ordine. Lo sa il bagna-
iolo che vado da tutti gli ammalati.
Poco dopo, il pianoforte si tacque, s’udì un
rumore di voci diverse e sommesse nel chiostro,
3ulle scale e per i corridoi, qualche porta si chiuse
e lo stabilimento piombò nella quiete della placida
notte.
Rose che aveva l’abitudine di coricarsi presto
per essere in piedi prima dell’alba, lungi da tro -
vare il sonno che la vita attivissima concedeva di
consueto al suo corpo giovane e gagliardo, provava
un senso di agitazione violenta e invincibile.
Indarno egli tentava leggere e rileggere certe
pagine d’un libro di psicologia che gli stava di-
nanzi; il suo pensiero era distratto, anzi assente.
Allora si mise a lavorare in una sua monografìa
sulle nevrosi del cuore, ma non gli venne fatto di
scrivere un periodo di proposito; finì per trarre
dal suo portafogli la diagnosi della malattia di
Manuela, la scorse da capo a fondo, poi tornò
alle prime righe che dicevano così:
«Manuela Aparia, facoltá intellettuali preva-
lenti sulle forze fìsiche, anemia generale, pertur-
bazioni isterico-nervose, ecc. ecc.». E, dopo averle
lette alcune volte macchinalmente, ripose lo scritto
e affacciatosi alla finestra si mise ad osservare le
grandi ombre del chiostro di faccia. Le persiane
della torretta erano chiuse ma vi cominciava a
biancheggiare il blando raggio della luna nascente.
Una fragranza voluttuosa di rose saliva fino a<noinclude></noinclude>
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lui e da lontano veniva il mormorio continuo,
quasi dolente, d’una cascatella d’acqua.
Parve a Rose di trovarsi perduto in un sogno.
Non era solito nè aveva mai avuto il tempo di
abbandonarsi ad alcuna fantasticheria giovanile
e dopo la morte dei suoi cari la sola sofferenza
umana gli aveva fatto battere il cuore, ma in quel-
l’ora di silenzio e di notturna insonnia gli parve
che la sua ardente individualitá, sempre soffocata,
si ribellasse ad un tratto imperiosa, e con un tu-
multo di desideri strani, alle violenze della ragione,
e stette a quel davanzale, colla testa in fuoco, col
petto anelante, finché l’alba lo richiamò all’esercizio
del suo dovere.
{{asterism}}
Erano appena le quattro e mezzo della mat-
tina, quando il medico picchiò alla cameretta di
Manuela. La fanciulla sonnacchiosa chiese che
cosa fosse.
— Il dottore! — disse Adele, che aveva inteso
dal suo gabinetto di faccia e che subito accorreva.
— So che disturbo !... — cominciò Rose entrando
col suo fare tranquillo — ma vorrei proprio che
ella desse principio stamane alla cura e, come dob •
biamo fare un piccolo esame prima...
— Adele, chiama la mamma! — esclamò Ma-
nuela seccata. — Non avevo chiuso occhio in tutta
la notte, cominciavo a dormire proprio adesso...
— Me ne rincresce davvero — disse il medico<noinclude></noinclude>
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con sinceritá, avvicinandosi al letto, mentre la
cameriera apriva un poco le persiane. Un raggio
di luce penetrò nella cameretta ed egli scorse
più chiaramente la testina gentile della sua pa-
ziente e le pastose trecce brune mezzo disfatte
sui guanciali. Sedette a piedi del letto e, veden-
dola stizzita, riprese pacatamente:
— Via, abbia pazienza, sia compiacente... mi
faccia un po’ la storia fisica della suá vita.. ne ho
bisogno, per regolarmi...
— Vengo io! — rispose donna Cristina tutta
trasognata, uscendo dalla sua camera con un ac-
cappatoio bianco.
— Oh mamma! — sciamò la fanciulla, buttandole
le braccia al collo — perdona se t’abbiamo sve-
gliata, io non posso parlare...
Rose intraprese un delicato ma, per quanto gli
era possibile, minuto esame intorno alla famiglia
Aparia, e al padre di Manuela, s’informò della na-
scita di lei, dell’infanzia e delle malattie a cui era
stata soggetta da bambina e via via nell’adole-
scenza, analizzando le sofferenze che adesso la tra-
vagliavano e studiandone l’origine.
Donna Cristina, un po’ commossa, assecondava
pazientemente le sottili indagini del medico, mentre
la fanciulla, mezzo seduta sul letto e abbandonata
fra i cuscini, non apriva bocca.
Rose, intento all’ interrogatorio, molto cortese
ma tutto compreso dall’impegno della professione,
andava scrivendo mano máno degli appunti in un<noinclude></noinclude>
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grosso libro. Finito ch’ebbe, s’alzò e disse, non
senza un’insolita timidezza :
Ora, se permettesse, signorina, vorrei ascol-
tarla...
E, ad onta della visibile ripugnanza di Ma-
nuela, egli le esplorò in presenza della madre
molto commossa gli organi respiratori e il cuore,
posando con grande esitanza la sua robusta testa
bionda su quel petto fragile e un po’ ansante di ane-
mica, fra le morbide trine che olezzavano di viola.
— E perfettamente sana! disse egli termi-
nando il suo coscienzioso esame. — Non abbiamo
che il soffio anemico del cuore...
— Dunque guarirá? — domandò ansiosamente
la marchesa.
— Lo spero, anzi me ne tengo quasi , certo.
Devo tuttavia ripetere che la cura non fará che
assecondare le buone intenzioni della signorina...
Il migliore, il più efficace nemico di certi mali
siamo noi stessi, è il prodigioso elemento di rea-
zione che si trova nel nostro spirito...
— La forza di volontá non può vincere la pal-
pitazione! — disse Manuela con amarezza.
— Se non dipende da un vizio organico, la
palpitazione si lascia dominare anch’essa, io lo
credo perchè ne ho fatto l’esperienza — sostenne
Rose tranquillamente. — Sono pochi gli ammalati
di nervi che abbiano il coraggio di approfittare del
farmaco che portano seco, inconsapevolmente; al
solo parlarne, i più se ne offendono. Quei pochi,<noinclude></noinclude>
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invece, che sanno dar retta a un buon consiglio,
si sentono innalzati a una nuova dignitá, fieri come
di una grande conquista. Speriamo, signorina
Manuela! Ella intanto si disponga al suo bagno:
per la prima volta basterá una leggera spugna-
tura. Oggi, eccezionalmente, può farla qui in ca-
mera, per uscire poi subito all’aperto. Ee mando
la bagnaiola e io intanto passeggio nel corridoio.
Scendere dal letto e farsi versare dell’acqua ge-
lata sulle spalle non è sempre una delizia per i po-
veri ammalati di nervi e fra quella molestia e la
ripugnanza di dover entrare in rapporti così confi-
denziali con una donna sconosciuta, Manuela su-
però malamente quella sgradevole prova. Vedendola
presa da forte tremito la bagnaiola l’aiutò in fretta
a vestirsi e la eccitò ad uscire, per la reazione, e
un minuto dopo, in abito succinto, coperta da un
gran mantello e accompagnata dalla cameriera, la
fanciulla s’avviò alla passeggiata mattutina.
Il dottore, che aspettava fuori, le prese le mani
diacce mentr’ella stava infilando i lunghissimi
guanti :
— Questi li lasci da parte! — disse — non
sono indicati. Se le sue manine diverranno brune,
non sará un gran male, potranno respirare libera-
mente da tutti i pori... Può levarsi anche il cap-
pello, se vuole: a quest’ora il sole non nuoce.
Quand’ebbe varcato il portone dello stabili-
mento, parve a Manuela di sentirsi più sollevata.
Il suo animo era molto turbato, ma l’allegrezza<noinclude></noinclude>
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del giorno estivo che si diffondeva sul verde fre-
sco dei castagni, sui prati fioriti di miosotidi az-
zurre e di rosee eritree era così contagiosa, che
all’improvviso la sua contenuta giovinezza ebbe
come un senso di entusiasmo doloroso, dinanzi
alla confortevole serenitá dell’alpestre paesaggio.
Errò più d’un’ora nei dintorni dello stabilimento,
cogliendo fiori e riscaldandosi ai primi raggi del
sole, e fu con un senso di strano benessere che,
al ritorno, sedette alla tavola della colazione, nella
grande sala che cominciava a popolarsi, e gustò il
suo bicchiere di latte appena munto, rosicchiando
i tradizionali grissini piemontesi.
Ma, entro la giornata, quando il tedio del caldo
cominciò a farsi sentire daccapo entro le anguste
camerette dell’antico monastero, il fuggevolo entu-
siasmo di Manuela si mutò in un’amara tristezza,
in un grave abbattimento. Stette molte ore seduta
ad un tavolino, sorreggendo fra le mani la testa
che le sembrava cerchiata di ferro. La marchesa
accorata voleva avvertire il dottore, ma ella la
supplicò di non dirgli nulla, e quando venne l’ora
del secondo bagno s’avviò come una vittima verso
il buio e tetro camerino per farvi la sua immer-
sione. Col medico scambiò poche parole e la sera
non ci fu verso di farla scendere in sala.
Dopo tre o quattro giorni di cura assai blanda,
alternata fra bagnature e massaggio, Manuela
sembrò sentirsi ancor meno bene e Rose cominciò
a mettersi in angustia.
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Una sera, dopo le undici, egli fu chiamato al
letto della fanciulla ch’era stata presa da un’acuta
nevralgia alle tempia, con sussulti convulsivi. Le
sofferenze erano così vive e lo stato dell’inferma
così angoscioso che il medico n’ebbe una pro-
fonda pietá, e dopo averle somministrato qualche
piccolo rimedio, le sedette daccanto e rimase parte
della notte colla marchesa, al suo capezzale, sempre
aspettando che s’acquietasse.
Manuela non era più irritata e scontrosa, la sua
alterezza malinconica, nella prostrazione di forze
che succede agli assalti nervosi, aveva dato luogo
a un dolce languore di persona ammalata. Ad un
tratto ella disse con voce debolissima:
— E la cura che mi fa male, lo sento.
— Difatti, tra i miei numerosi pazienti, è forse
l’unica che non ne tragga vantaggio — disse il
medico — e benché io sia convinto che ciò di-
penda dall’eccessiva ripugnanza con la quale ella
l’ha intrapresa, non voglio ostinarmi... Smettiamo
un poco, e cerchiamo di aiutarci con l’aria sa-
lubre, colla dieta, colle passeggiate; ne conviene,
marchesa ?
— M’affido a lei... — rispose con tristezza donna
Cristina.
— E più contenta? va bene così? — chiese il
giovane, allora, con singolare accento, chinandosi
sovra i guanciali di Manuela, prendendo amore-
volmente fra le sue le fredde manine ch’ella in-
conscia e indifferente gli abbandonava.<noinclude></noinclude>
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— Sì, la ringrazio. — E nel volto abbattuto
della fanciulla lampeggiò uno sguardo di dolore
così intenso che Rose n’ebbe trapassate le viscere.
La domenica era un giorno di riposo anche
per la cura. Dopo la lieve spugnatura al sorgere
dal letto, pazienti e bagnaioli avevano tutti va-
canza. I forestieri che meglio si reggevano in
piedi profittavano di quelle ore di libertá per
combinare qualche gita a Graglia, o ad Oropa, per
fare la trottala lungo la pittorica valle del Cervo.
I più infermi, rimasti padroni del luogo, se la
spassavano nelle ombre del parco, felici di non
udir rumore di fontane, nè di doccie. Un piace-
vole silenzio festivo regnava sulla casa. In quella
loro prima domenica, le signore Aparia avevano
preferito rimanersene fra g! invalidi, ma non si
erano lasciate scorgere che all’ora del desinare.
Calava il crepuscolo e non era tornato ancor
nessuno da fuori, quando giunse all’orecchio di
Rose il suono d’una dolce melodia. Suonavano il
pianoforte, in sala. Di solito qualche signorina
strimpellava un pezzo insulso, venuto di moda
entro l’anno, o una ragazzetta, esortata dalla madre
amorosa, si esercitava ripetendo mattina e sera
scale e preludi; ma questa era una mano diversa
e nuova, una mano esperta che correva facile e
con un tocco pastoso sulla tastiera. Gustavo Rose,
cui le sonatine quotidiane solevano dare un invin-<noinclude></noinclude>
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cibile fastidio, fa subito attratto da quella musica
e si mise ad ascoltare, attentamente. li a melodia
incalzava sopra accordi vibrati e dissonanti e
erompeva con un trillo doloroso per morire in una
flebile cadenza. Vi fu un silenzio. Adesso era il
notturno in do minore di Chopin, quel mirabile
sfogo musicale di passione e d’angoscia.
Il giovane s’avvicinò quasi involontariamente
alle finestre del salotto di riunione che davano
sul chiostro, in quell’ora affatto deserto, appoggiò
la fronte ai vetri chiusi e da prima non fu capace
di discernere nulla, tranne la veste bianca della
suonatrice che metteva un lieve chiarore nella
penombra, poi subito la riconobbe, distinse la te-
stina pallida e fantasiosa, i morbidi capelli ca-
stani e il profilo fino che si disegnava nel vano
di un’apertura di faccia. Manuela guardava in alto,
cercando nella concentrazione della memoria le
armonie che le fremevano sotto le dita come voci
d’un interno, segreto affanno. Ancora una piccola
gavotta spiritosa e triste insieme, di Scarlatti forse,
poi la fanciulla s’alzò per uscire e Rose finse Rin-
contrarla a caso sulla porta della sala. Ella si la-
sciò sfuggire un atto di meraviglia, di contrarietá
quasi, ma il medico si guardò dal confessare a
quella creatura così fieramente gelosa di se stessa
ch’egli aveva osato indagare, anzi studiare il se-
greto delle sue divagazioni musicali.
— Era qui lei, ora? — chiese Manuela per
nascondere il suo imbarazzo. — Se l’avessi saputo...<noinclude></noinclude>
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— Vengo dal paese. Ma perchè questa do-
manda ?...
— Perchè ho suonato e ho bisogno d’una grande
solitudine quando suono.
— Il medico non conterebbe per nulla. Se vo-
gliamo farci un concetto giusto del nostro paziente,
è necessario che lo vediamo in tutte le sue fasi,
— In quale fase vuole che mi trovi io, quando
sono al pianoforte?...
— Ella è senza dubbio commossa da una grande
eccitazione dei nervi e dello spirito e io tengo per
fermo che la musica deva nuocere all’estrema sen-
sibilitá del suo temperamento.
— Anche questo, ora ! Io non posso fare a
meno della musica, ne ho bisogno come dell’aria
che respiro...
— E se il rinunziarvi, per il momento, contri-
buisse alla sua guarigione?
— Guarire?... io non ci penso nemmeno, la
morte mi sorride.
— La morte ? A vent’anni ? Quando ci sta di-
nanzi tutto un avvenire d’energia e di speranza?
— Io nulla spero e a nulla credo ormai — disse
la fanciulla con fierezza.
— Tristi parole sulle sue labbra, signorina.
C’è una cosa alla quale dobbiamo credere tutti,
anche nel massimo sconforto, e questa è la possi-
bilitá di operare il bene. La mancanza d’ogni fede
umana è anch’essa una forma dell’egoismo e non
delle meno crudeli... Sua madre...<noinclude></noinclude>
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— Non mi parli di mia madre — interruppe Ma-
nuela con impeto, con un improvviso turbamento
— lo.vede anche lei che non posso mutarmi!
Discorrendo i due giovani s’erano avviati per
il chiostro e facevano il giro del cortile.
Rose guardò l’esile figurina che gli camminava
allato, leggera leggera, gli parve che il più lieve
soffio maligno potesse atterrarla ed ebbe un bri-
vido d’apprensione che nessun malato gli aveva
mai fatto provare.
— E io — diss’egli, dopo un lungo silenzio — ho
un desiderio ardente di guarirla; ella deve guarire !...
C’era tanto fuoco nell’esternazione di quel de-
siderio che Manuela si volse come attonita e tut-
tavia s’affrettò a rispondere:
— Ella non può guarirmi !
— Come, non posso ? Lo voglio, Manuela, lo
voglio !...
E nelle sue parole spirava una tale energia di
volontá virile e dominatrice che la fanciulla si
sentì diventar di fiamma e gli lanciò uno sguardo
di ribellione e d’ira.
— Sono audace ? non è vero ? — domandò Rose
dolcemente.
Lei è un uomo che sogna ! — disse Manuela
colla più studiata indifferenza, e com’erano arri-
vati in prossimitá d’una scala aggiunse un «buo-
nasera» asciutto e lo lasciò.
Il medico andò incontro ai suoi pazienti che
tornavano a frotte dalla gita, e nessuno gli lesse
in volto il fiero tumulto che lo agitava.<noinclude></noinclude>
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% ^ %
L’indomani, dovendo recarsi in una villa di
faccia allo stabilimento, Gustavo liose prese una
scorciatoia e scese nella vailetta che lo separava
a nord dalle adiacenti colline. I sentieri erano
stretti e ombreggiati da fitti alberi ; non penetrava
raggio di sole in quella deliziosa frescura; lo stor-
mire delle foglie, il canto svariato degli uccelli,
lo scroscio d’un torrente lontano si fondevano in
un infinito accordo armonico nella dolce e verde
penombra.
Giù nel fondo, l’incolta boscaglia faceva cor-
nice ad una vasca di circa cinquanta metri di
circonferenza, ove si spandeva il zampillo quieto e
limpido d’una sorgente. Giunto in vista di quel-
l’acqua il medico si fermò. Egli aveva scorto a tra-
verso le frasche Manuela Aparia. La fanciulla
toccava quasi l’orlo della vasca e ne fissava inten-
samente lo specchio. Si ritrasse quindi e dopo aver
volto uno sguardo in giro come per assicurarsi
della sua solitudine, si mise a cantare. Non era una
gran voce ma così intonata e così toccante che il
giovane stette immobile ad ascoltarla come se una
ninfa boschereccia fosse venuta dal mondo dei
sogni a posarsi in quel luogo romito.
La mort vient. et me délivre
Des souffrances de mon coeur,
Sans toi je ne puis plus vivre,
Je succombe á ma douleur.
, . Hélas, liélas<noinclude></noinclude>
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Il lamento appassionato echeggiava da lon-
tano e le roccie rispondevano tristamente : Hélas,
Tiélas !
Rose attese la seconda strofa della bella can-
zone russa ed essa venne ancor più mesta della
prima, poi indugiò ancora a proseguire il suo cam-
mino.
Manuela non cantava più, e, secondo la sua
abitudine, s’era appoggiata ad un tronco e stava
colla testa china, pensando. Si credeva e si sen-
tiva sola. Rose ebbe qualche minuto d’esitanza,
poi scese, risoluto di passar oltre con un semplice
saluto per non irritarla, ma, con sua meraviglia,
fu la fanciulla che, senza dissimulare la sua con-
sueta diffidenza, lo trattenne, interrogando:
— Dottore, si può nuotare in questo bacino ?
— E piuttosto profondo e l’acqua n’ è assai
fredda, nei giorni buoni non raggiunge più di
quattordici gradi — disse Rose. — Molti uomini
tentarono la prova e se ne risentirono
— A me non farebbe niente, ne sono certa —
interruppe Manuela — e voglio provare.
— Vorrebbe esporsi a un tale rischio, quando
non tollera un’immersione di pochi secondi?
— L’immersione fa parte di una cura noiosa o
questo invece sarebbe un sollievo.
Il giovane ebbe un sorriso che richiamò un
lieve rossore sulle guancie pallide di lei, nondi-
meno egli rispose :
— Ci si provi pure, io non voglio troppo con-<noinclude></noinclude>
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tradirla, e acconsento purché mi conceda di staro
io stesso qui vicino nel bosco ond’essere pronto
in caso di bisogno.
— A questa condizione non accetto io ; so nuo-
tare benissimo e non mi occorre alcuna sorve-
glianza.
Il giovane la guardò, di sfuggita, ma con un
tale sguardo ch’ella dovette abbassare gli occhi,,
indi concluse con dolce risolutezza:
— Allora non ne facciamo nulla.
Poi, vedendo che Manuela taceva, soggiunse
con voce bassa, un po’ velata dallo sforzo :
— Non ne facciamo nulla nemmeno della sua
cura, nulla ! Se il paziente non s’affida al medico,
se non esiste un po’ di confidente abbandono, noi
dobbiamo agire á tentoni, alla cieca
La fanciulla sospirò, senza rispondere, molto
annoiata. Ella si appoggiava sempre al suo albero
con un vago atteggiamento di sfida, ed egli pro-
segui senza più porvi mente :
— Oh ! s’ella potesse penetrare nei segreti della
nostra professione, nelle brame ardenti che destano
in noi i nostri ammalati e nelle mortali angoscio
che ci cagionano, forse non si conterrebbe così.
Io ho abbracciato questa vita di sacrifizio, non sor-
rida! con tutto l’entusiasmo della mia fidente
giovinezza, pensando che la sola mia volontá do-
vesse bastarmi per raggiungere lo scopo ; m’avvidi
poi che senza la valida contribuzione degli infermi
non possiamo riescire a buon fine, perchè in fondo<noinclude></noinclude>
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i nostri sforzi male assecondati diventano nulli ;
■è molto se, talvolta, il nome nostro, il nostro av-
venire non rimangono in balìa del loro capriccio.
Non parlo delle malattie acute, la diagnosi n’ è
quasi sempre sicura, parlo delle nevrosi e degli
isterismi che sono il frutto della eccitazione feb-
brile in cui si chiude il nostro secolo e dei quali
io mi sono particolarmente occupato. Furon inde-
fessi i miei studi, ma saranno sempre troppo scarsi
per il vastissimo soggetto; tuttavia dalle mie con-
tinue osservazioni ho tratto questo sicuro principio;
indagare il cuore dell’ammalato per avere la chiave
delle sue sofferenze e se v’ha una guarigione pos-
sibile, del rimedio. Lo comprendo — soggiunse
■egli più piano ancora — tale pretesa può sembrare
molto indiscreta, ma Lio buono ! quando si pensa
■che migliaia d’infermi aprono così spontaneamente
1 animo loro e che in ciascheduno, in fondo, il me-
dico non trova che miseria o dolore, il suo irresi-
stibile desiderio d’analisi non può essere conside-
rato come una ignobile curiositá.
Manuela aveva strappato un ramoscello da un
cespuglio vicino e lo andava masticando coi suoi
dentini bianchi.
— Una predica in piena Arcadia ! — diss’ella
accennando al paesaggio circostante. .
Il giovane si fece di fiamma ed ebbe come un
doloroso lampeggiamento nello sguardo, ma egli
possedeva la tolleranza che dá la superioritá serena
dello spirito, perciò si vinse subito e, toccando il
suo cappello, rispose:<noinclude></noinclude>
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— Nell’aprirle il mio cuore ho creduto di darle
il buon esempio Vedo che mi sono ingannato e
riprendo il cammino
E s’allontanò rapidamente, ma quando fu giunto
presso alla villa gli venne ancora da lontano al-
l’orecchio il flebile lamento di quella voce così gio-
vanile e così triste:
— Hélas ! hélas !
{{asterism}}
A tavola, quella sera, il medico fu più serio
dell’usato. Manuela conversava con Samara, il
giovane tisico che le stava vicino. Renitente a
proferire la triste parola in italiano egli le diceva
spesso : Je suis jooitrinaire, je suis poitr inaire ! e poi
si dava alla più pazza vita, scorrazzando nei din-
torni senz’alcun riguardo alla sua salute, ballando
e bevendo per stordirsi. Rose , aveva mólto esitato
a riceverlo perchè l’idroterapia poteva riescirgli
più che inutile, nociva, ma poi, preso da infinita
compassione di quella sua condannata giovinezza,
non era stato capace di ricusargli un pietoso asilo
e gli ordinava un solo breve bagno al giorno con
l’acqua temperata. Quell’infermo costava al medico
coscienzioso innumerevoli cure e precauzioni per
evitare agli altri bagnanti i pericoli del contatto,
specie ai giovani, e la sua vicinanza con Manuela
gli dava non lieve pena.
Le signore Diodato arrischiavano anche loro,
adesso, qualche sommessa parola, e il malato di<noinclude></noinclude>
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spinite, che cominciava a fare i primi passi senza
sostegno, si lasciava sfuggire di tratto in tratto *
un motto di spirito ; una momentanea serenitá era
scesa su quel piccolo crocchio di gente predomi-
nata dalla tristezza, dalla noia, dalle più penose
apprensioni.
Quando uscirono tutti dalla sala, la marchesa
non volle assolutamente che la sua figliuola risa-
lisse nella sua camera, ma la costrinse a rimanere
nel chiostro e si mise a passeggiare con Samara
e con un nuovo arrivato, il conte Francavilla di
Pisa, che le conosceva di nome e s’era fatto subito
presentare.
Gustavo Rose sedeva accanto ad una contadina
ch’era venuta quella sera e alla quale aveva ser-
bato una delle migliori camere dello stabilimento, t
con grande meraviglia di diverse signore male allog-
giate. Egli le parlava piano ed ascoltava, atten-
tissimamente, un lungo racconto che la donna gli
veniva facendo. Non alzò il capo nemmeno dinanzi
a Manuela, tanto pareva assorto in quel colloquio:
era d’altronde occupatissimo per i continui arrivi
della giornata; difatti in mezzo ai crocchi dei ba’
gnanti giá affiatati fra loro, i forestieri, i novellini
si vedevano passeggiare solitari e come turbati dal
loro momentaneo isolamento.
Più tardi una brigatella andò in sala a far mu-
sica, e le ragazze Mevi, ch’ erano infatuate di Ma-
nuela, ve la trascinarono contro voglia. 4
Volevano che suonasse, ma ella vi si rifiutava
ostinatamente e finì per dire:<noinclude></noinclude>
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— Non posso, non posso, il dottore me l’ha
proibito.
Mentre le signore protestavano contro quella
scusa, ella volse all’intorno lo sguardo accorato in
cerca di Rose che non c’era, e sempre più stizzita
e ferma nel suo diniego esclamò:
— Il dottore ! il dottore ! lo chiamino !
Filippo Parny, il solitario ipocondriaco che stava
fra la gente per obbedire al medico e che aveva
in orrore tutte quelle amabili violenze sociali, andò
diritto ad avvertire Rose, nel suo studio. Quando
il giovane, sorpreso, comparve in sala, Manuela
fece alcuni passi verso di lui e gli chiese con un
luminoso sorriso:
— Dica, dottore, non è vero che mi ha proibito
di suonare?
Lo sguardo e l’accento erano supplichevoli.
Una fugace espressione d’ironica meraviglia
passò sul volto di Rose, tuttavia egli aderì subito,
generosamente, a quel capriccio, dichiarando che
in fatti era d’avviso che la signorina Aparia do.
vesse astenersene e che non poteva a meno d’am-
mirare la docilitá della sua paziente.
Allora un giovinotto si mise e strimpellare un
ballabile e alcune coppie si lasciarono sedurre dal
ritmo invitante. Rose non disapprovava il ballo,
ritenendolo per certuni Un buon esercizio ginna-
stico, e qualche Volta, stava perfino a vedere, per
quanto malinconica potesse sembrargli una danza
fra persone mezze inferme o sofferenti. Quella sera<noinclude></noinclude>
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si trattenne pochi minuti, tanto da udire un breve
dialogo di Manuela col conte Francavilla che l’aveva
pregata di accordargli una mazurka.
— Non ballo mai ! — insisteva la fanciulla.
— Mai, proprio mai ?
— Ballai con passione, da bambina, ora vi ho
rinunziato.
— Ha fatto un voto?
— Non vale la pena di far dei voti per questo !
— E ringraziandolo freddamente Manuela era an-
data a sedere in un angolo della sala presso Èva
Antella.
Rose tornò alle sue occupazioni con un vago
senso di sollievo nell’anima, ma più tardi vide che
il lume della torretta non si spegneva mai, ed era
lassù che Manuela soleva vegliare nelle sue notti
d’insonnia.
Il giorno appresso mentre ella era fuori a pas-
seggiare, donna Cristina mandò per il medico e
dolendosi colle lagrime agli occhi delle stranezze
della figliuola, lo supplicò di volersi interporre
colla sua autoritá onde ripigliasse la cura, altri-
menti la loro presenza nello stabilimento si sa-
rebbe resa inutile.
Gustavo Rose le dimostrò come ogni suo ten-
tativo fin li fosse rimasto infruttuoso, aggiunse
però non disperare del tutto e promise di non
desistere. Era di quelle tempre che l’ostacolo in-
fiamma.
— Non so dirle quanti crucci mi dia questa<noinclude></noinclude>
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figliuola!... senza tema di peccare di vanitá ma-
terna, posso dire che non è una creatura comune.
Fin da bambina fu molto precoce, ad onta di ciò
equilibrata ed allegra di temperamento. Ad un
tratto qualche cosa di grave è venuto a turbare
la sua serena giovinezza e la sua salute prima
sempre perfetta. Da molto tempo Manuela è mu-
tata, indolente, malinconica, disdegnosa della so-
cietá, e di qualunque diletto... Anche un po’ strana,
se si vuole. Chi più di lei, dottore, ha avuta
campo di accorgersi delle sue bizzarrie?
Rose ascoltava, ascoltava. Finalmente egli
disse :
— Mi pare che giá nel primo giorno, mar-
chesa, io le avessi lasciato trapelare il sospetta
che le sofferenze della signorina potessero dipen-
dere da qualche turbamento della sua anima.
— Me ne ricordo, ma non risposi perchè non
non so nulla di sicuro ed è cosa vana l’interro-
gare Manuela. Mia figlia non mi aveva mai na-
scosto un solo pensiero, ma adesso è impenetra-
bile nel suo segreto se segreto vi è... Due anni fa,
fu fidanzata con un suo cugino, un bravissima
giovane che amo tanto, e per il quale ella aveva
dimostrato un’ardente simpatia. Un giorno ci ac-
corgemmo che c’era della tensione nei loro rapporti ;
poco tempo dopo egli ci annunciò che Manuela
lo aveva costretto a ritirare la sua parola per
incompatibilitá di carattere e noi dovemmo ac-
cettare questa scusa perchè non ci fu modo di<noinclude></noinclude>
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saper altro. Il giovane era sinceramente innamo-
rato e sembrava afflittissimo. Manuela invece era
molto conturbata e da quel tempo cominciò l’alte-
razione profonda del suo organismo.
— La cagione del disgusto fu evidentepiente
assai grave — disse Rose, con un tremito nella voce.
— Ho pensato e ripensato senza venirne a capo.
Potrebbe darsi che l’assoluta differenza di prin-
cipi avesse influito sull’animo di Manuela ch’è
sempre stata molto pia, mentre mio nipote si mo-
strava imbevuto d’idee matèrialiste... Erano infi-
nite le loro discussioni su quest’argomento..
— Indaghiamo, indaghiamo ancora insi-
stette Rose. — La signorina Aparia deve riavere
la salute, ma è necessario che anzi tutto si rista-
bilisca in lei l’equilibrio morale...
— Lo voglia Iddio! — disse donna Cristina
•ch’era un’ottima madre, ma poco profonda e per-
ciò un’alleata inefficace.
Mentre discorrevano, s’udì il passo leggero di
Manuela che saliva sulla torretta e ch’entrò come
una folata di vento, con un gran fascio di fiori
in mano.
Alla vista del medico ella s’oscurò in viso, ma
poi finì per dire ridendo:
— Ecco i congiurati!
Pareva più serena, più amabile del solito, ma
ad un tratto s’accorse che sua madre aveva pianto,
c fattasi di porpora, domandò con una certa
asprezza :<noinclude></noinclude>
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Perchè piangi ? che cosa è accaduto ? E
come nessuno rispondeva, continuò: — Giá! par-
lavate della mia cura.. è per questo che piangi ?
— e con uno slancio di tenerezza le gettò le
braccia al collo esclamando: — Va, mamma, se è
per questo, domani la riprenderò, farò quattro,
cinque bagni al giorno, se volete, andrò a morire
nell’acqua !
Poi, dopo avere asciugate le lagrime di sua
madre coi baci, senza degnare il medico di uno
sguardo, si mise a disporre con un garbo tutto
proprio le felci, gli aconiti azzurri, le belle digitali
gialle nelle rozze brocche di terra che Adele aveva
comperate in paese.
Quando Rose s’alzò, ella si volse e disse con
fredda risolutezza : — Domani, dunque, immer-
sioni, doccie, massaggio, elettroterapia !
Il giovane fece un inchino e uscì rattristato.
Quella singolare fanciulla lo irritava, lo stizziva e
lo affascinava ad un tempo colla più tormentosa
malìa. Il desiderio di vincere quella piccola batta-
glia lo agitava fortemente e per quanto si stu-
diasse d’attribuire la propria inquietezza ad un
istinto professionale, in fondo la ragione sempre
desta, sempre pronta all’analisi, gli diceva che ben
diverso affanno era il suo.
Una mattina, entrando nella chiesetta dello
stabilimento per cercarvi il sagrestano, Rose vide,
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dinanzi a uno degli altari laterali, una figura genu-
flessa. Era lei, era Manuela in atto di fervente
preghiera. L’amarezza che s’era a poco a poco ac
cumulata nel cuore del medico contro la ribèlle
inferma, si dissipò alla vista della fanciulla orante.
E passò in punta di piedi, per uscire da un’altra
porta, per non distoglierla dal suo raccoglimento,
ma si sentì più che mai turbato.
Qualche giorno appresso egli ebbe un’altra sor-
presa. Era sceso nel villaggio per visitare la figlia
quindicenne d’una bagnaiola, che s’andava lenta-
mente consumando di mal sottile. Quand’egli entrò
nella povera cameretta, Manuela stava seduta al
capezzale della malata e s’affrettò d’alzarsi per
cedergli il posto. Eose fu colto da una palpita-
zione violentissima e quasi irrefrenabile. La signo-
rina Aparia prese subito congedo, non senz’essersi
chinata a baciare in fronte la sofferente giovinetta
il cui sorriso rassegnato spirava un’insolita con-
tentezza, le cui mani scarne stringevano con tra-
sporto alcuni fiori coi quali la visitatrice aveva
forse accompagnato qualche suo più utile dono.
Manuela era molto pallida in quel giorno e il
medico, commosso da quell’incontro che gli rive-
lava un sì nobile istinto di pietá nell’animo della
sua paziente, allarmato dalla sua espressione di
patimento, si diede premura di raggiungerla.
Ell’era difatti poco discosto e camminava
adagio, affaticata, con una languidezza d’inferma.
Quando le fu dappresso il giovine s’accorse che<noinclude></noinclude>
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il suo volto era contratto dallo sforzo d’un interno
combattimento e le domandò, non senza esitanza,
se gli permettesse d’accompagnarla.
— Grazie, risaliamo insieme, ma prendiamo
la via più lunga; non sono stata più capace di
riscaldarmi dopo quella doccia. Ha tempo, dottore?
— chiese la fanciulla con una dolcezza triste e
affatto insolita?
— Ho sempre tempo per lei... — mormorò
.Rose, prendendole una delle mani ch’ella lasciava
pendere inerti e fredde. — Non ha fatto la rea-
zione ?
— Non so, non mi ricordo.
— Eppure le avevo tanto raccomandato....
— Sì, ha ragione Lei è molto buono con me,
lo riconosco, vedo che ho torto, ma non ho la
forza di vincermi.
Camminarono, salendo, alcuni minuti uno ac-
canto all’altra, in silenzio e lentamente perchè
Manuela a stento si reggeva. Erano giunti, di viale
in viale, a metá dell’altura e, senz’avvedersene, si
inoltrarono sotto un lungo pergolato che faceva
parte del parco e che finiva in un capanno di
lauri. Ivi giunta la fanciulla si lasciò cadere, tutta
palpitante, su una panca e, con voce soffocata* uscì
in un gemito :
— Io mi sento morire, mi sento morire!...
— Coraggio, coraggio, per caritá, i mezzi di
guarire stanno in lei! — mormorò Rose.
— Ma io non desidero di guarire! — esclamò<noinclude></noinclude>
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Manuela con un ritorno di ribellione e di fierezza. —
Mi pesa soltanto di morire così giorno per giorno,
ora per ora...
— Cerchi nel fondo della sua anima e troverá
la malsana cagione di un sì grande sconforto.
— Nel fondo della mia anima? Qual diritto ha
ella di dirmi questo ?
— Come uomo, nessuno certamente; come me-
dico, ne ho molti. La marchesa l’ha affidata alle
mie cure e io devo valermi di tutti i mezzi leciti
per raggiungere il mio scopo. Del resto, senta,
sono avvezzo a leggere nello sguardo de’ miei am-
malati e ho letto anche nel suo!
— Oh!...
— Sì, Manuela, tutto in lei tradisce un grave
patimento dello spirito....
Rose era sicuro del suo asserto, nondimeno
egli guardò la fanciulla con un senso di appren-
sione angosciosa. Ella non rispose, ma fu presa
da un tale tremito che il medico n’ebbe gran pena
e soggiunse con amorevolezza:
— Ma perchè questa diffidenza? perchè mi tiene
così indegno della sua fiducia? Sono giovane an-
ch’io e so comprendere le tempeste della giovi-
nezza.
Manuela alzò gli occhi, smarrita.
— Ella ha forse bisogno di resistere e di vin-
cere... — proseguì Rose — e ove io possa venirle
in aiuto coi suggerimenti della ragione, disponga
di me come d’un amico...<noinclude></noinclude>
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— La ragione, la fredda ragione! Ella parla
come si trattasse di farsi amputare un braccio!
— 11 dominio della ragione, Manuela, è una
forza che c’è dato conquistare.
— Si potrá imporre il silenzio, si potrá simulare
l’indifferenza, ma comandare a se stessi di non
amare, no, questo non si può...
— L’amore è un sentimento divino — disse
Rose impallidendo — ma non sará mai sano nè
utile al nostro sviluppò morale, qualora la mente
convinta non possa dirigerlo e dominarlo. TJn
amore ben posto dev’essere la nostra salute, Ma-
nuela, ma quando certe affezioni ci limano la
vita, è nostro dovere di combatterle come elementi
di sventura.
— Io vorrei amare sempre e morire — pro^
ruppe la fanciulla con accento desolato — e pur
sento qualche volta, in fondo alla mia coscienza,
una voce arcana che mi dice : lotta, guarisci e
vivi!
Era come l’inconscio grido della giovinezza
ferita che si rivolta ai dolore.
— Ah finalmente, ecco una buona parola ! —
esclamò Rose colla gioia del chirurgo che ha tro-
vata la palla nemica nel fianco del soldato caduto
in battaglia.
La fanciulla s’era coperto il volto mormo-
rando :
— Ella non sa nulla, non sa nulla!
Il dottore, ch’era sempre stato in piedi accanto<noinclude></noinclude>
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a lei, lece alcuni passi, turbatissimo. Un senso di
penosa apprensione gl’impediva di parlare.
Ad un tratto la fanciulla sollevò il bianco
viso e disse con un po’ di durezza, la durezza
dei giorni tristi:
■— Quando avrá saputo, a che cosa gioverá?..
Il medico scosse la testa con un amaro sor-
riso.
— Io non le domando delle rivelazioni — mor-
morò egli - mi confessi che il suo cuore soffre,
ciò mi basta..
— No, Rose, tutto o nulla. Non voglio lasciar
sfuggire indarno quest’ora che certamente non
tornerá mai più... Ella mantenga scrupolosamente
il mio segreto perchè anch’io dovetti giurare un
giorno che mia madre ignorerebbe ogni cosa... In
tal modo mi fu tolta l’unica consolazione che po-
tesse essermi concessa...
Ella parlava con grande abbandono, ma senza
perdere il suo fare un po’ altero.
— Dio mio, può ella comprendermi ? Un uomo
sa egli penetrare in queste amarezze?
— Lo spero... — balbettò Rose.
— Badi, dottore, la storia è triste e v’è forse
qualche particolare disdicevole nella bocca d’una
fanciulla... ma ho tanto penato che la mia mente
non si conturba più come una volta... Mia madre
le avrá detto certamente che fui alcun tempo fi-
danzata con un mio cugino. Mio padre l’aveva
preso in casa da faneiulletto, perchè era orfano, e<noinclude></noinclude>
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lo ha educato coi miei fratelli ; siamo cresciuti
insieme. Eravamo molto giovani ancora quand’io
m’accorsi d’amarlo; egli certamente non m’amava.
Nondimeno mi chiese d’essere sua e i miei geni-
tori ci permisero di scambiare una segreta pro-
messa, in attesa del tempo in cui, compiuti gli
studi, Ermanno avrebbe potuto sposarmi. Due anni
di contentezza!... La lontananza stessa (egli fre-
quentava l’Universitá di Roma) mi si raddolciva
al pensiero di quel sognato avvenire, le sue lettere
formavano la mia gioia ; ha un sì chiaro ingegno,
una natura così geniale, Ermanno! — E nel pro^
ferire a bassa voce il suo nome, Manuela arros-
siva. — Egli era ripartito da qualche mese dopo le
allegre vacanze di Natale, quando una mattina,
per tempo, una delle nostre cameriere, una bella
ragazza, giovanissima, entrò nella mia stanza,
piangendo angosciosamente. Lontana da ogni so-
spetto, cercai d’indagare la causa d’una sì grande
afflizione, per consolarla... Ad un tratto mi si
getta dinanzi in ginocchio, s’avviticchia a me
supplicandomi d’aver pietá, il nome del mio fi-
danzato le viene alle labbra. Nella mia ingenuitá
non riescivo a capire... Allora, allora... ella parlò
più chiaro e io ho dovuto udire la più terribile
delle confessioni ! Egli, Ermanno l’aveva sedotta !
Non si meravigli, Rose, della mia franchezza. Io,
prima, sapevo ben poco delle umane miserie, avevo
diciott’anni e la mia casa era stata sempre come
un tempio ; il velo si lacerò tutto in un tratto, e<noinclude></noinclude>
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la sozza realtá che intravvidi mi mutò. Non fui
più quella. Mi sentii crescere gli anni sul capo,
una sola esperienza basta’ per la vita, è una vec-
chia che le parla, Rose. Quella ragazza destava
in me una compassione mista di ribrezzo ; i rap-
porti in cui mi trovavo con mio cugino non le erano
certamente ignoti e nelPeffondersi direttamente
con me, non so s’ella seguisse un ignobile istinto
di vendetta, o il desiderio di salvarmi. Io però,
cosa strana, non ebbi alcun dubbio sulla veritá
della sua rivelazione. Ella esigeva il segreto, glieJo
promisi, le promisi che avrei parlato ad Ermanno,
che l’avrei indotto ad una giusta riparazione, pur
ch’ella consentisse a licenziarsi subito, con qualche
scusa, dal nostro servizio. La sua presenza non
m era sopportabile. Ciò accadde infatti, ma, Dio
buono, lo strazio dei giorni che seguirono ! Il tor-
mento della necessaria dissimulazione!... Per for-
tuna ammalai con una febbre ardente e non fui
costretta di scrivere a mio cugino. Aspettavo con
angoscia il suo arrivo e appena egli fu giunto
colsi il primo momento opportuno per parlargli.
Ero in giardino ed egli venne a me, con tene-
rezza, accennando all’avvenire non molto lontano
ormai, chiedendomi ansiosamente la cagione del
mio contegno gelido... Un impeto d’ira mi prese
allora, ed ebbi la forza di dirgli tutto, di rinfac-
ciargli i suoi torti, di ricordargli quali doveri
lo allontanassero da me. Non so come osassi par-
largli di certe cose, m’era venuto un coraggio strano.<noinclude></noinclude>
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In principio, Ermanno tentò di negare, ma deboi*
mente ; non poteva negare ; mostrò poi un cinismo
ributtante sorridendo quasi della mia collera, dan-
domi della bambina inesperta. Mi disse clie non
potevo sapere, che quella era stata una scappata,
giovanile, che non aveva nulla a che fare coll amoro
ch’io gl’ispiravo, che avrebbe provveduto all esi-
stenza di quella disgraziata e al piccino... poi,
tornando in sè, mi pregò di perdonargli, di non
pensarvi più, che certo sarebbe buono... Io gli di-
chiarai che mai più avrei consentito a essere sua,
moglie. Egli insistette molto, ostinatamente, o
forse le sue lusinghiere parole avrebbero potuto
farmi cedere, se non si fosse ribellata la mia co-
scienza. Vedendomi così risoluta, mi chiese, nel suo
freddo egoismo, che prendessi sovra di me tutta la.
responsabilitá di quella rottura e mi fece giurare che
dinanzi ai miei genitori serberei gelosamente il se-
greto delle cose successe: egli temeva più il loro cor-
ruccio del mio. Anche stavolta promisi e accettai,
purch’egli mi desse parola di partire subito. Io ri-
masi come fulminata e credetti qualche tempo che
il mio cuore fosse morto. I miei genitori, molto sor-
presi da prima della mia ingiustificata determi-
nazione, si mostrarono indulgenti e pietosi appena,
la mia salute comincio ad alterarsi. Le turbe ner-
vose erano così forti che il mio spirito non aveva
più coscienza di sè. Ma un giorno, dopo molti
mesi di patimento, esso si destò con particolare
lucidezza, io tornai a pensare, io sentii battere il<noinclude></noinclude>
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mio cuore, io m’accorsi che amavo ancora e peg-
gio di prima... ma non era più un tranquillo af-
fetto, era un tormento di passione.
Manuela aveva parlato piano, interrottamente,
con una gravitá superiore ai suoi vent’anni. Fi-
nito il racconto, ella disse con profonda tristezza :
— Ora, Rose, ella conosce l’origine della mia
malattia, ora ella potrá comprendere il contrasto
che mi lima la vita...
- La sua confidenza m’onora, e la sua afflizione
mi dá una grande pena — disse il giovane alta-
mente commosso — ma le cose non sono tali da
escludere il rimedio. Il perdono è dolce, Manuela.
— Il perdono ? Ho perdonato, sono cristiana.
E come non gli avrei perdonato se l’amo ancora?
Ma a che giova ?
— Egli potrá ravvedersi... vi sono delle grandi
follie giovanili.
— Come potrei sposare un uomo che non
m’ispira una perfetta stima e che ha degli altri
doveri ?
— Certi errori non sono sempre senza scusa -
in quanto al dovere, la societá non è così esi-
gente...
^ A questa societá codarda io non appartengo,
e s’ella, Rose, la giustifica, io la compiango; non
vi sono scuse e non v’è che una sola legge morale.
— Quanto l’ammiro! — esclamò Rose sempre
più commosso e turbato — com’è raro trovare,
anche nella donna, questa scrupolosa onestá di<noinclude></noinclude>
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sentimento!... Sé le donne, se le fanciulle stesse
non transigessero con tanta indifferenza, noi diver-
remmo migliori! Ma non è giusto ch’ella ne soffra
tanto, Manuela, è cosa indegna della sua tempra
il lasciarsi sopraffare e abbattere dagl’istinti..
— Lo so, lo sento, la mia dignitá offesa si ri-
bella, ma l’inclinazione istintiva prevale; ho sem-
pre avuto orrore dei sentimenti che passano e si
trasformano e l’ideale della mia giovinezza è stato
la fedeltá del pensiero... È un’aspra battaglia la
mia e la salute n’esce infranta... se sapesse quanto
soffro !
— Lo vedo, pur troppo, ma non credo che sia
una sofferenza senza rimedio. C’è nel fondo della
sua natura una somma troppo forte di energia
latente perch’ella debba soggiacere. Il segreto sta
nell’ottenere un giusto equilibrio fra la mente e
il cuore.
M’aiuti dunque! —esclamò la fanciulla con
un accento d’implorazione affatto nuovo. Io
non meriterei ch’ella s’occupasse di me, perchè
fui ingrata, lo riconosco. Ma fin dal primo giorno
io m’accorsi ch’ella mi leggeva tutto in fronte e
la mia fierezza si drizzava contro questa intui-
zione inevitabile...
— E molesta, non è vero? — disse Rose con
un triste sorriso. — Ma ora eli’ ha compreso che il
medico dev’essere un amico e se me lo consente
io impegnerò tutte le mie forze per insegnarle a
lottare, a vincere, a dare sovrattutto un sano in-
dirizzo al suo pensiero...<noinclude></noinclude>
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I campi infiniti del pensiero sono dolorosi
tutti per me e il mondo è deserto...
— Ne oonvengo, ma questo è uno stato di ma-
lattia... 11 dominio sull’immaginazione è uno dei
primi elementi della felicitá umana. Se qualche
volta abbiamo goduto, sognando dolcezze che poi
non ci furono concesse, quante angustie ci costa
la tema di certi guai ohe non accadono!... Tenere
in briglia la fantasia avvezza a perdersi in scon-
solate divagazioni, ed esercitare la volontá rimasta
da molto tempo inerte, ecco il suo còmpito, Ma-
nuela, e i migliori mezzi per adempierlo sono la
distrazione e l’attivitá materiale... Assegni al la-
voro un alto scopo, la caritá, e subito sentirá scen-
dere dall’alto un’energia rigeneratrice. Nella con
siderazione della miseria altrui, verso la quale mi
sembra giá inclinata, ella troverá più facilmente
l’oblio delle proprie pene, ella perderá di vista sé
stessa per ritrovare un giorno una individualitá
forte, serena nel suo rinnovamento. E mentre ab-
biamo la fortuna di vederla ospite nel nostro po-
vero convento, supplisca a quell’attivitá col moto,
passeggi molto nei boschi, nei prati, in vista del
lontano orizzonte, aspiri molt’aria, assorba avida-
mente i raggi del sole, faccia una vita intima
colla natura, colla grande, divina consolatrice’
Mi perdoni, mi perdoni Manuela, se insisto così!
Sono tenace, lo so, e pedante forse... mi scorre un
po di sangue tedesco nelle vene. Ma ho una fede
sicura nelle mie teorie, sono certo che colla pace<noinclude></noinclude>
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dell’anima la sua salute rifiorirá e lo un desiderio
così ardente dì guarirla!...
Mentre diceva così i suoi occhi bruni e perspi-
caci di pensatore cercarono per la prima volta
con tutta la loro intensitá lo sguardo abbattuto di
Manuela che li sostenne, impassibile, ma con un
vago cenno d’assentimento. Eli’era rimasta un mi-
nuto pensosa, colla fronte china sul seno un poco
ansante. Ad un tratto si scosse e disse:
— Non un cenno di quanto le narrai... nemmeno
con me, sa... non troverei forse più la forza di ri-
parlargliene.
Rose si portò la mano al petto.
— Ora devo andare — concluse la fanciulla, al-
zandosi, ma quando fu in piedi ebbe Un sussulto
e vacillò.
— Vuole un appoggio ? Non può camminare da
sola!
— No, no, dottore, grazie. Mi lasci, sará meglio...
Ci rivedremo più tardi!
Ella porse la sua manina gelida al giovine che
s’inchinava e si allontanò con un passo incerto e
stanco. Rose la seguì collo sguardo finche disparve
in fondo al pergolato, nell’allegrezza luminosa del-
l’ora meridiana. Era una figurina così gentile col
suo leggero vestito bianco seminato di fiorellini
lilla e il largo cappello di paglia un po’ sollevato
sulla pallida fronte e tutto inghirlandato di astri
alpini! Nella sua natura indocile e schiva c’era
tanta grazia, tanta inconsapevole seduzione!...<noinclude></noinclude>
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— Oggi, dottore, ho vinto. M’aveva preso il mio
solito malessere, ho tentato di dominarlo... tremavo
tutta... ho fatto un grande sforzo, ma vi sono rie-
scita! ho voluto!...
Una fiamma divampò sul volto del giovane.
W Vede! — sciamò egli — vede come si può ot-
tenere, quando si vuole? Il primo successo, quello
che ci dá il convincimento della nostra forza, è il
più difficile: col tempo la lotta si fa sempre meno
ardua. Ella ha cominciato bene, Manuela, ella rag-
giungerá l’indipendenza dello spirito ch’è uno dei
migliori elementi di felicitá.
— Ah non so, non so !... Sento che il mio pen-
siero dovrebbe elevarsi ad una grande altezza per
avere la pace a cui aspiro.
Era così amabile Manuela in quel momento, dal
suo volto un po’ scolorato rifulgeva un sì vivido
raggio d’intelligenza, che Rose ne fu rapito.
— Si ricordi che la vittoria sopra sè stesso è
uno dei più grandi eroismi! — diss’egli — ed è
solo mirando in alto che realmente si vince.
Manuela sorrise. In quella creatura fine e sde-
gnosa il sorriso aveva un fascino. Rose sperò che
si trattenesse un poco ancora con lui, ma la mar-
chesa passava allora allora con Franca villa ed ella
s’affrettò di raggiungerli per la passeggiata.
L’indomani era domenica e per la prima volta
le signore Aparia, ad esempio degli altri bagnanti,
si assentarono dallo stabilimento. Rose le vide
partire insieme alla signora Antella, alla quale<noinclude></noinclude>
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erano legate da una pietosa simpatia, e a Samara
-ch’era salito a cassetto della loro carrozza.
Quella partenza gli aveva lasciato un senso di
«dolore nell’anima e per la prima volta egli tor-
nava alle sue stanze senza energia, senza il solito
entusiasmo per la sua caritatevole missione. In
quel giorno di maggiore libertá volle occuparsi
«della monografia che da qualche tempo trascu-
rava , ma vi riesci soltanto in seguito ad un
violento sforzo, mettendo a profitto, anche per
proprio conto, le massime che insegnava agli altri ;
non fu però capace di superare un’impressione
di vuoto cocente che gli faceva presentire tutta
l’amarezza dei distacchi futuri. Il desiderio arden-
tissimo ch’egli provava del suo ritorno gli rivelò
ad un tratto la cagione dell’angoscia che da qual-
che tempo lo veniva travagliando: egli amava
Manuela.
Sebbene non si concedesse di vederla spesso,
«gli ne sentiva la presenza allo stabilimento come
un’infinita e nuova dolcezza che gli aleggiasse
d’intorno. Ma Manuela andrebbe lontana ed egli
non saprebbe forse più nulla di lei... Qual silenzio
tormentoso! qual terribile oscuritá nella sua vita!...
Per scongiurare l’affannosa visione dell’avvenire,
la sera, nell’ora triste del crepuscolo, egli scese
nella piazza del villaggio ove le carrozze dei ba-
gnanti il più delle volte si fermavano. Era suo
costume di riceverli al ritorno da quelle escur-
sioni.<noinclude></noinclude>
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Risuonavano giá da lontano i campanelli delle
pariglie campestri e l’allegra fila di legni non
tardò a giungere a festoso trotto. La marchesa
e Manuela erano nel terzo landau e Gustavo
Rose, che aveva aguzzato indarno lo sguardo
nella penombra, si trovò per istinto dinanzi a
quello.
Egli aiutò le signore a scendere e Manuela, mo-
strandogli un mazzo gigantesco di poligoni e di
campanule, gli disse vivacemente:
— Oh dottore, Oropa è incantevole ! quanti fiori
e qual vista sublime! Non avrei voluto partire
mai, è un vero luogo per guarire, lassù!
Ma, accortasi subito d’aver proferito una parola
scortese, gli porse una genziana turchina e sog-
giunse :
— Si ritorna però volentieri al chiostro, sa ! Ec-
cole il mio fiore, ne abbiamo portato tutti per il
nostro padre guardiano, dei fiori !
La fanciulla era giuliva in quella sera, le era
rimasto in volto il riflesso di quella specie d’esal-
tamento salubre che danno sempre agli esseri ner-
vosi e delicati le ascensioni sulle alte montagne.
Appena uscita da carrozza ella si perdette in
mezzo ad un crocchio di signore e Rose, ch’era
rimasto un poco in disparte, lasciò che i bagnanti
salissero allo stabilimento e si dileguò nell’oscuritá
della campagna solitaria.
Il giorno appresso, quando andò a visitare la
signora Bruni, ch’era stata anch’ella ad Oropa,
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colla comitiva, il dottore n’ebbe un subisso di
confidenze non richieste.
Il conte di Francavilla si mostrava più che mai
innamorato di Manuela, era stato sempre al fianco
di quelle signore, anche durante la visita al San-
tuario, poi s’era messo in quattro per raccogliere
gramigne nei prati ; insomma tutto procedeva per
il meglio. E vero che di lei, della signorina, non
si poteva dir nulla, sempre accanto alla madre,
sempre seria e di poche parole.
Intanto ella, la signora Bruni, s’era data pre-
mura d’informarsi da buona fonte delle condizioni
finanziarie della famiglia Aparia e l’aveva avute
assai sodisfacenti. La marchesina era ricca, assai
ricca! — aggiungeva stringendo gli occhi.
— Ricca ? se ha diversi fratelli — esclamò fi-
nalmente il medico, con disgusto.
— Una zia paterna, la sua matrina, le lasciò
morendo un vistoso legato; oh! per ciò che ri-
guarda la dote andiamo benissimo, ora non ci re-
sterebbe che indagare per la salute... Lei forse
potrebbe asserire con certezza.. non so, quel pal-
lore, quelle turbe nervose... dicevano che avesse
un principio di consunzione... — bisbigliò ella, in-
sistendo col coraggio d’una persona incaricata.
Il volto di Rose si fece bianco di collera ed
egli rispose con un sorriso sdegnoso:
— Quale amore pieno di scrupoli!... quale lu-
singhiera fiducia nella mia compiacenza ! Del resto,
la signorina Aparia è di complessione perfetta-<noinclude></noinclude>
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mente sana. Buon giorno, signora Bruni. Faccia
il suo bagno e una buona reazione.
E se n’andò coll’animo esasperato contro Fran-
cavilla ch’era venuto a S... per curarsi dagli stra-
pazzi e dai disordini d’una vita volgare.
Pareva a Rose che la sua volontá cominciasse
ad affievolirsi, ch’egli andasse perdendo il possesso
di sè, e per non tradire il suo segreto si propo-
neva di evitare la fanciulla più che mai. Egli si
limitava a darle qualche consiglio, qualche neces-
sario incoraggiamento, perchè Manuela aveva delle
grandi oscillazioni nel progresso della cura. Se la
vedeva abbattuta, concentrata, in preda alle sue
fantasticherie, le susurrava:
— Si faccia animo, si distragga, per caritá ! —
E se gli sembrava che fosse più serena: — Così
va bene, la vittoria è nostra ! — Ma non osava
fermarsi a lungo perchè adesso quelle sue parole
da cui trapelava una repressa tenerezza, erano
sempre accolte con bonomia, anzi con gratitudine,
perchè la confidenza fattagli da Manuela aveva
messo fra loro un’intimitá pericolosa. Si tratte-
neva invece a preferenza con donna Cristina, par-
lando di lei, sempre di lei, e la buona marchesa,
come accade ad una parte , delle madri, era, ben
lontana dal leggergli in cuore.
^ ^ ^
Una sera, un giovinotto che aveva portato seco
alcuni razzi da Milano, chiese il permesso al me-<noinclude></noinclude>
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dico di accenderli sulla terrazza. I bagnanti, avidi
di distrazioni, vi salirono quasi tatti e Bose li
seguì, quasi inconsciamente, sempre portato dalla
solita magìa. Ma era triste e si ritrasse in fondo
alla spianata per essere solo. Egli stava svoltando
da una macchia di sempreverdi, quando scorse,
appoggiata ad un muricciolo donde spaziava lon-
tano la vista nella penombra notturna, la sottile
figura di Manuela. Voleva tornare indietro, ma
ella si volse allo scricchiolare della sabbia, lo ri-
conobbe e lo chiamò.
— Dottore! — diss’ella stendendogli la mano.
— Noi fuggiamo entrambi la societá. Sono ben
lieta di trovarla in flagrante delitto di misan-
tropia!
La precoce e amara esperienza della vita dava
sempre a Manuela un senso d’altera sicurezza
quando si trovava cogli uomini, anche con giovani,
ma nessuno era riescito a destare in lei la serena
fiducia che Rose le aveva ispirato, dopo quel con-
fidente colloquio, e che si sforzava anche di di-
mostrargli in compenso degli antichi sgarbi. Rose
era il medico, il consigliere, l’amico ormai, ma
certamente Manuela non aveva mai pensato ch’egli
potesse diventare qualche cosa di più per lei, nè
provare alcun altro sentimento fuori di quella sua
amorevole pietá.
Ella s’appoggiò di nuovo al muricciolo. Era
una notte stellata molto chiara, ma senza luna.
Una fragranza acuta di caprifoglio e di gelso-<noinclude></noinclude>
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mino si diffondeva nell’ insolito tepore dell’aria,
un cuculo tardivo cantava nel parco. Ogni tanto
una striscia vibrante di fuoco schizzava verso il
cielo rompendosi in miriadi di scintille multicolori.
Il clamore del pubblico plaudente e le grida en-
tusiastiche dei bambini non turbavano la piaci-
ditá dell’ora notturna. Rose si sentiva un tumulto
nel cuore, ma non era capace di parlare, e nella
dolce vicinanza di Manuela, dinanzi alla complice
bellezza della natura, quel trepido silenzio aveva
per lui una specie di spirituale voluttá.
Ma ella ad un tratto lo interruppe :
— Fuggo la gente, stasera, perchè sono in una
delle mie fasi cattive. Il mio pensiero è laggiù
lontano... — E accennava all’orizzonte sfumato
nella notte.
— Sará dunque così sempre, Manuela?
— Non so, qualche volta lo temo. Fra poco
dovrò rivederlo.
L’anima chiusa della fanciulla tornava, forse
per un irresistibile bisogno di conforto, quasi in-
consciamente, al confidente abbandono di quel
giorno. Rose ebbe un sussulto.
— Rivederlo? — esclamò egli.
— Ma sì, dottore. Le nostre ville sono vicine,*
in campagna ci si trova più facilmente... e i miei
gli sono sinceramente affezionati...
— Perchè dice «fra poco» ?
— Perchè la settimana ventura dobbiamo par-
tire. Siamo qui giá da un mese e mezzo.<noinclude></noinclude>
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— Una cura molto breve per lei che ne ha
tanto bisogno! — balbettò il giovane colla voce
strozzata.
— La continuerò a casa. Che vuole ? la nostra
presenza laggiù è necessaria, ci aspettano.
Mentre Manuela proferiva queste parole con
una calma profonda, anzi con una certa sodisfa-
zione, il giovane si sentiva morire. Il momento
del distacco era giunto e conveniva affrontarlo,
ma un tal gelo lo prese nel cuore che rabbrividì
visibilmente.
— Ell’ha freddo ? — domandò la signorina
Aparia — non si sente bene? Stasera non m’ha
fatto nemmeno il piccolo sermone di regola.
— Non posso.. stasera non posso — disse il
medico, pur dominandosi. — Io guardo questo not-
turno paesaggio — proseguì egli facendo un cenno
largo verso il firmamento palpitante di stelle. —
E grande, non è vero? Ebbene a me sembra che
la mente umana possa in sè accogliere un’altret-
tale grandezza quando giunge colla volontá a com-
piere nobilmente i suoi sagrifìzi.
— Il sermone! — disse Manuela, con un riso
argentino ma un po’ falso, che Rose sentì stridere
entro di sè. Era un fuggevole ritorno all’antica
sprezzante amarezza, e il giovane accorato mor-
morò:
— Non mi faccia male, Manuela, sia buona!
— Ha ragione, ha ragione. Sono di cattivo
umore, mi compatisca! — esclamò la fanciulla di-<noinclude></noinclude>
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stranamente. — Ecco la mamma che viene a cer-
carmi con Parny ; raggiungiamoli, è ora di scen-
dere !
— Difatti fa tardi per loro. S’abbiano cura, si
ritirino! — E appena pronunziate quelle parole
professionali, Rose salutò e scomparve.
^
In quell’ultima settimana la marchesa venne
sempre più accrescendo il numero delle sue rela-
zioni, nello stabilimento. Manuela si mostrava cor-
tese con tutti, ma manteneva nel suo contegno un
profondo riserbo. L’unica persona alla quale avesse
accordato una certa amicizia era Èva Antella, la
povera moglie abbandonata, così infelice e così
saggia nella sua sventura. La si vedeva spesso in
giro con lei e anche con un’altra bagnante, certa
Angela Darò che da più anni torturava un’ingua-
ribile malattia delle ossa.
— Vede — disse un giorno Rose a Manuela —
quella è una povera condannata cui solo la grande
energia morale riesce a prolungare la vita. Non
c’è bisogno d’esortarla a farsi coraggio. Arrivò
invece da cinque giorni quella signora afflitta da
una continua tosse nervosa... una pietá... Ebbene,
quando si trova alla presenza di qualche persona
che le dá soggezione, il fenomeno cessa come per
incanto, appena la persona si è allontanata, ecco lo
spasimo daccapo. È un’inferma che ha perduto<noinclude></noinclude>
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l’impero sovra sè stessa e quando tento di farglielo
comprendere, s’inquieta e s’offende.
— Non vi sarebbe altro rimedio? — chiese
Manuela.
— Forse la suggestione, ma io rifuggo da
questi mezzi che fanno perdere più che mai al-
I individuo il possesso di sè. Sono troppo umilianti.
— E lei, Rose, è sempre stato padrone della
propria volontá?
— Sempre, no. Da fanciullo ero debole, avevo
una suscettibilitá morbosa. Dopo un lungo eser-
cizio imparai a vincere, ma chissá quanto mi toc-
cherá di lottare ancora!
Si trovavano in sala, accanto al pianoforte.
Donna Cristina e la signora Antella lavoravano
in un angolo. Era l’ultimo giorno e il medico
aveva permesso alla signorina Aparia di suonare.
II segreto della sua passione gli pesava affanno-
samente sul cuore. Fino a quel tempo era stata
in lui una grande verginitá di sentimento verso
la donna da cui l’avevano molto distolto l’inde-
fessitá dei suoi studi e l’ardore delle sue viste
umanitarie. Adesso, dopo quella voluta austeritá,
l’amore gli era sorto nell’animo come una pianta
che germoglia in terreno nuovo. E tutto lo tra-
vagliava in quell’amore : la sicurezza che Manuela
pensasse ad un altro, una certa differenza di posi-
zione sociale, fors’anche lo scrupolo di non sapersi
limitare verso i suoi pazienti ad un interessa-
mento affatto oggettivo e scevro di parzialitá.<noinclude></noinclude>
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E sebbene gli ardesse in petto il desiderio di
poter dire alla fanciulla : «Mi sei cara sovra ogni
cosa», anche a rischio di vederla rientrare in sè-
stessa, sgomenta e offesa da una tale confessione,
egli s’era proposto di custodire con gelosa cura il
proprio segreto, ma l’eroico sagrifizio gli rendeva-
il pensiero del distacco doloroso inconsolabilmente
— Mi suoni qualche cosa — diss’egli alfine, per
vincere quell’affanno. — Stavolta sono io che la
prego I
Manuela lasciò scorrere vagamente le piccole
mani affilate sul pianoforte, poi ricordò la «Tráu-
merei» di Schumann. Pareva che l’anima della
fanciulla si fosse trasfusa tutta nelle dolenti note
e che un fremito di tristezza appassionata facesse
vibrare le corde del povero istrumento d’albergo.
— Ancora! — implorò Rose.
Ma la suonatrice che non amava mai rinnovare
a sè stessa due volte di seguito la stessa emozione
musicale, scelse invece il «Viandante» di G-rieg.
— Ora basta! — esclamò il giovane, quando l’ul-
timo accordo venne a morire, prendendole impe-
tuosamente ambedue le mani per allontanarle dalla,
tastiera e facendo l’atto inconsapevole, ma tosto-
represso, di portarsele alle labbra ardenti.
— Basta per lei... e per me...
— Oh! dottore! — disse Manuela, senza farsi
meraviglia di quella commozione ch’era solita di
destare, suonando —- come potro esprimerle tutta
la mia riconoscenza! quanta gentile premura! e<noinclude></noinclude>
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quanto lio male corrisposto sempre! Potrá dimen-
ticare e perdonarmi?...
— La cura lia cominciato a giovarle, e questo
mi consola, ma fu breve, pur troppo. Si ricordi
questo luogo, Manuela, e vi ritorni — disse Rose
con uno sguardo d’angoscia. Non osò aggiungere:
— Si ricordi di me.
La fanciulla rispose: - Chissá, forse... un al-
tr’anno. — Non disse «spero».
Ella desiderava di partire. E i due giovani non
scambiarono altre parole.
Quella sera tutti i principali bagnanti si radu-
narono in sala, intorno alle signore Aparia che
l’indomani dovevano lasciare lo stabilimento. Chia-
mato in paese da ammalati gravi, il medico non
si fece vedere che sul tardi.
La mattina seguente egli andò invece per tempo
a salutare la marchesa, e impiegò la breve visita
in suggerimenti sull’igiene fisica e morale della si-
gnorina ch’era fuori per la reazione del suo ultimo
bagno.
Mentre tornava al suo studio Rose incontrò il
segretario che gli annunziava l’arrivo d’un nuovo
bagnante inaspettato, lamentando che non vi fosse
più un posticino in tutta la casa. Subito dopo il
forestiero apparve, preceduto da un cameriere. Il
medico si trovò di fronte ad un bel giovine di circa
ventisei anni che tradiva dal fuoco degli occhi neri,
dai nerissimi capelli e dalla tinta bruna la sua pa-
tria meridionale. Egli stese la mano dicendo con
accento insinuante:<noinclude></noinclude>
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— Il dottor Gustavo Rose?... io sono Rolando di
Montemagno, un vero intruso in questo luogo, si-
gnore. Non feci a tempo di chiederle una stanza...
Avrei potuto telegrafare, ma che vuole? non c’era
nemmeno la possibilitá di ottenere la risposta. Avevo
fissato di partire ieri mattina da Roma per Via-
reggio, e invece, non so come, un istinto m’indusse
improvvisamente a mutar pensiero e me ne venni
qui assetato di buon’aria. Laggiù si bruciava.
Non c’è nemmeno una stanza in libertá —
insistette il segretario — ma forse qualcuno oggi se
n’andrá, anzi, non parte la marchesa Aparia sta-
sera, signor direttore?
— Sì - disse finalmente Rose collo sguardo rab-
buiato. — In qualche modo accontenteremo anche il
signore. Intanto, se volesse accomodarsi da me...
E mentre Montehiagno, accettando, si disponeva
a precederlo nel suo studio, Manuela entrò nel cor-
ridoio. Era vestita come sempre di chiaro, d’ùna
stoffa vaporosa e portava in mano un mazzo di ci-
clamini. Il cappello nero le proiettava un’ombra
pittorica sul volto sorridente e colorito dall’ora
mattutina. Un profumo si diffuse, acuto, dai fiori,
ed ella passò in fretta, rispondendo cortesemente
al saluto di Rose. I due giovani si soffermarono un
momento a seguirla collo sguardo.
— Una bagnante ? — chiese il nuovo arrivato.
— Sì, una bagnante — rispose il medico, fred-
damente, chiudendo dietro a sè l’uscio del suo ap-
partamentino.<noinclude></noinclude>
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* *
Alle cinque le signore Aparia si disposero per
la partenza. Donna Cristina aveva le lagrime agli
occhi. Sinceramente buona, ma fornita d’una sensi-
bilitá superficiale, ella prendeva subito affetto alle
persone e ai luoghi, vivendo sempre sotto l’impero
dell’ora che passa Manuela invece sembrava in-
differente, forse provava una segreta contentezza
che un delicato riguardo verso gli astanti le im-
pediva di esprimere. La sua anima avvezza a pre-
coci patimenti, rimaneva quasi impassibile dinanzi
alle fugaci emozioni della vita.
Francavilla, tutto premura, s’affaccendava in-
torno alla carrozza, proponendosi di accompagnare
le signore a Biella, con Samara. Èva Antella e
Maria Dare piangevano in silenzio, Manuela s’oc-
cupava a preferenza di loro e della sua bagnaiola
ch’era scesa nell’atrio per salutarla.
Il medico comparve all’ultimo momento. Egli
aveva evitato, per tema di tradirsi, un più intimo
colloquio colla signorina Aparia. Nondimeno donna
Cristina e la figliuola lo trassero amichevolmente
m disparte, ma non fu che un fuggevole scambio
di addii. Rose aggiunse ancora, con voce soffocata,
qualche raccomandazione, qualche buon consiglio,
poi si mise accanto alla predella e le aiutò a sa-
lire fra le borse, i cuscini ed i fiori. Erancavilla le
segui, Samara saltò a cassetto e, accompagnata da
alcuni altri signori, la carrozza s’avviò lentamente<noinclude></noinclude>
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giù per la china. I conoscenti andarono tutti in
giardino, in un piccolo belvedere, donde si poteva
mandare alle viaggiatrici l’estremo saluto. Rose,
inosservato, si ritrasse solo, con un pallore di morte
in fronte, e rientrando dal cortile, vide Montema-
gno, il nuovo bagnante, che appoggiato allo stipite
duna porta, aveva assistito alla scena, in lonta-
nanza, da estraneo qual era.
Egli ricomparve soltanto all’ora della cena, pen-
sando con invincibile amarezza ai posti che trove-
rebbe vuoti o peggio occupati da altri. Difatti i
commensali s’erano ristretti verso di lui. Più tardi,
al solito, essi si riunirono nel chiostro e in sala, e
certe signore, che parevano un po’ neglette prima,
presero subito gloriosamente anche li il posto della
marchesa Aparia e quelli stessi che ne avevano de-
plorato la partenza si affrettarono di raggrupparsi
intorno al nuovo centro. A Rose, che si sentiva
qualche cosa di morto in cuorè, cui pareva di tro-
varsi egli stesso in un vasto deserto, dopo la par-
tenza di Manuela, tornava strana, insopportabile
quasi, la serenitá degli altri. Eppure tutto era giá
ricomposto in un ordine novello, come se nulla
fosse accaduto, e appena si sentiva qualche voce di
vago lamento: «Ohe peccato quella buona mar-
chesa! quella simpatica Manuela!», cui altre voci,
solo per cortesia, facevano eco, riservandosi forse
di mormorare più piano meno benevole cose.
Samara, tornato da Biella col suo compagno, fa-
ceva la corte ad una giovinetta di Torino, piccola,<noinclude></noinclude>
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sottilina, con due stelle per occhi, che chiacchierava
volubilmente in piemontese. Erancavilla, assai di-
sinvolto e più libero di sè, ronzava senza riguardo
intorno ad una bella veneziana, divisa dal marito.
Solo Èva Antella s’era ridotta in un angolo, col
suo bambino allato, e pareva assai triste. Rose le
si avvicinò, un momento, per simpatia, ma poi,
disgustato degli altri, salì alle sue stanze, e subito
dopo, quasi senz’accorgersi, uscì nel giardino, si
ridusse sotto l’albero di catalpa ora sfiorito, ove la
prima sera, aveva veduto Manuela Aparia e adagio
adagio, inconsapevolmente, rifece la via che con-
duceva al numero 10. La chiave era ancora nella
toppa. Sicuro di trovarsi solo, in quell’ora in cui
i domestici cenavano e i forestieri stavano riuniti
in sala, egli accese un cerino ed entrò. Una mano
pigra o pietosa aveva lasciato appassire, in un
bicchiere, alcuni degli ultimi fiori campestri rac-
colti da Manuela ; da un chiodo pendeva un na-
strino azzurro che aveva servito a sostenere una
fotografia ; un vago profumo d’iris era nell’aria,
e, quantunque fossero scomparsi tutti gli oggetti
graziosi che caratterizzano la presenza di una donna
gentile e di buon gusto, la cameretta non era ancor
diventata impersonale come le stanze d’albergo. Rose
rimase a lungo in quella specie di cella verginale
e provo una forte tentazione di farla chiudere, con
un pretesto, onde non venissero profanate tante
care ricordanze, volle prendere per sè il nastro, e
qualche fiore, ma poi rinunziò a tutto, rimprove-<noinclude></noinclude>
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randosi d’essere così debole e mormorando il pre-
cetto: «medico, cura te stesso». E, fatto il proponi-
mento di chiudere quella sua angoscia nel più pro-
fondo silenzio dell’anima, per quanto il lavoro-
ora gli sembrasse meno dolce e più grave il dovere,
egli vi ritornò con coraggio e s’impose un’abnega-
zione ancor più generosa e più intera.
Il giorno seguente, prima della levata del sole,
s’imbattè nel giardino con Montemagno e cosi
passeggiando cominciò a prenderlo sotto la sua
direzione. Il giovine signore s’era indebolita la
salute per eccesso di lavoro, dopo aver compiti gli
studi in un istituto di scienze sociali. Il suo bel-
l’ingegno, lá sua tempra forte, seria, geniale ispi-
rarono a Rose la più viva simpatia. Egli si trattenne
nello stabilimento fino alla chiusura e il medico
ebbe dalla sua presenza un grande conforto intel-
lettuale, dai rapidi progressi della sua cura, nuove
sodisfazioni.
La marchesa aveva promesso di scrivergli e
mantenne la parola circa due settimane dopo la
sua partenza. La lettera era datata da una villa
del Casentino, portava molti particolari e le più
vive espressioni di gratitudine per Manuela che
stava abbastanza bene ; dalla fanciulla un cordiale
saluto, null’altro. Rose rilesse mille volte quello
scritto ch’era venuto ad irradiare di luce improv-<noinclude></noinclude>
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visa la sua solitudine intima, rispose con poche
ma espressive parole, pregando donna Cristina di
non lasciarlo senza notizie. La marchesa riscrisse
difatti una volta, poi venne un grande silenzio
come di cose morte ed egli ebbe il coraggio di
non romperlo. Pensava, con amarezza, che il dot-
tor F....> fosse tornato daccapo a dirigere la cura
di Manuela e che il suo intervento potesse riescire
inutile ormai, anzi inopportuno.
La lontananza, la gravitá degli studi da lui in-
trapresi in certe cliniche dell’Inghilterra e della
Oermania, il continuo impero della ragione sopra
un affetto ch’egli presagiva infelice, erano riesciti
a reprimerne, non certo a spegnerne l’ardore.
Ma nell’aprile, al tornare degli uccelli migranti
•e delle viole, quando lo stabilimento si riaprì per
la nuova stagione, la vista di quei luoghi nei
quali la presenza di Manuela aveva lasciato un
profumo d’ineffabili ricordanze, gli fece provare
un desiderio acuto, quasi spasmodico di rivederla,
di rivedere il suo sorriso, di riudire la sua voce, e
ogni giorno attese sempre con affanno l’ora di
posta, sperando ricevere una notizia, un avviso.
Quale lunga, penosa aspettazione!
Nel giugno cominciò a venire qualche bagnante
anche dell’anno addietro, ma egli non sapeva che
cosa rispondere alle domande che gli venivano ri-
volte intorno alle signore Aparia. Durante alcune
settimane, per quanto il segretario glielo propo-
nesse, non volle disporre delle loro stanzette. Un<noinclude></noinclude>
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giorno, finalmente, sfogliando il suo corriere, gli
venne tra le mani una piccola busta lunga, pro-
fumata d’iris, col bollo di Firenze. Egli l’aperse
con trepidanza; era proprio Manuela che scriveva
per incarico della marchesa indisposta: due sole
righe che gli chiedevano l’appartamentino dell’anno
trascorso, per i primi di luglio. Gustavo Rose tele-
grafò subito, poi ripose quella letterina nel suo
portafogli per averla sempre seco. Adesso gli pa-
reva più splendido il verde, più raggiante il sole,
più dolce lá fatica ; quel giocondo attendere del
suo spirito, del suo cuore, lo spronavano febbril-
mente al lavoro.
Una cartolina della marchesa gli fece noti il
giorno e l’ora precisa dell’arrivo, il quattro luglio,
verso le sette della sera. Rose discese nella piazza
del paese, s’avviò verso lo stradale di Biella e
aspettò. Un nuvolo di polvere da lontano nel
chiaro crepuscolo estivo, un trotto serrato di ca-
valli.,. eccole... sono loro... coll’Adele che si volge,
lo riconosce, lo addita alle signore. La carrozza
si fermò. Manuela, per la prima, gli stese la mano
con viva cordialitá. A Rose ella sembrò cresciuta,
trasfigurata. Il volto gentile della fanciulla, per-
dendo il suo pallore trasparente d’inferma, la sua
espressione abituale di patimento s’era come irra-
diato d’una geniale serenitá. Con lo sparire della
eccessiva magrezza, tutta la persona aveva acqui-
stato la leggiadria elegante ed armonica d’un bel
fiore ch’è presso a raggiungere il suo intero svi-
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luppo. La voce stessa s’era fatta più morbida,
più dolce.
— Com’ è fiorente ! — mormorò Rose, mentre
salivano insieme il ripido viale dello stabilimento
che la marchesa aveva voluto fare a piedi, non
sapendo esprimere che con quelle insignificanti
parole la pienezza della gioia che lo inondava.
— Ma sì, dottore, sto assai meglio... guarita,
non dico, c’è da far molto ancora, ma ho combat-
tuto sa, e quanto!
— La proporrò ad esempio ! — disse il medico.
— Oh questo poi! — e Manuela fece una risa-
tina così gioconda, così squillante, che il giovane
ne sentì l’eco benefico in cuore.
— Ecco le nostre finestre, la torretta ! — esclamò
la signorina Aparia entrando nel cortile. — Come
vi rivedo volentieri, o celle romite! — e salì cor-
rendo le scale, con Adele.
— E la bagnaiola ? e Èva Antella ? — domandò
ella appena il dottore l’ebbe raggiunta colla mar-
chesa.
— La bagnaiola sta benissimo e Èva Antella
verrá, certamente.
— Si metta qui sul nostro gran divano e mi
faccia un po’ l’illustrazione dei miei compagni di
cura. Ci sono i Cefalù, i Mevi? no? peccato!
— Aspettiamo molti Lombardi quest’anno. S’è
annunziato anche Francavilla — soggiunse Rose,
guardando Manuela, che non mosse palpebra.
— E Samara? — chiese ella.<noinclude></noinclude>
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— Ah! Samara, pur troppo, è morto! Lo vidi
per l’ultima volta la scorsa primavera a Torino.
Si rammentò anche di loro...
— Poveretto !... — e ragionarono a lungo del
giovine e della sua famiglia, madre, fratelli, che
s’erano tutti consunti così. Poi, dopo un silenzio
un po’ triste, Manuela esclamò:
— Domattina una bella spugnatura e fuori,
fuori di buon’ora nei prati, nei boschi!
— Così mi piace.
— È tutto merito suo se vado sempre miglio-
rando! Ma dica, che cosa ha fatto lei, quest’in-
verno? .
— Ho studiato, signorina.
— È sempre così sermonneur ì
— Sempre lo stesso.
— Allora scappo subito, vado a fare un giro in
giardino mentre c’è ancora un raggio di luce! —
E uscì vivacemente, cedendo il posto a donna Cri-
stina, la quale s’avvicinava anch’ella per avere
notizie.
Le signore Aparia cenarono sole col medico,
poi passeggiarono insieme a lui nel chiostro fin
tardi, perchè la stagione era caldissima.
— Sempre queste care roselline! — disse Ma-
nuela, cogliendo una ciocca d’Aimé Yibert e po
nendosela in seno tra le crespe del vestito rosa
che così bene s’addiceva alla tinta fina del suo
volto giovanile. — Sono tornata volentieri, ho
molto imparato qui. M’ha giovato la triste con-<noinclude></noinclude>
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templazione dì tante umane sofferenze, e il con-
fronto colle mie ; m’hanno giovato sovrattutto le
sue saggie parole, dottore.. e ho avuto bisogno di
ricordarmele sa, nei mesi scorsi... — soggiunse ella
piano, mentre la marchesa s’era fermata a salutare
una persona di sua conoscenza. - E stata una
fiera battaglia per me, quest’inverno, quand’egli
venne a Firenze, all’epoca del carnevale, — riprese
la fanciulla.non senza una certa esitanza. — Si figu-
ri che ha tentato di smuovermi. Io ho resistito sem-
pre, ma vi furono dei momenti gravi. Ora dicono
che stia corteggiando una signorina dell’aristocra-
zia. napoletana e che abbia intenzione di sposarla.
Intanto quella disgraziata ha perduto il suo bam-
bino e non si dá pace...
— Ella l’ha riveduta, Manuela!...
— Sì... una volta, quanda il piccino morì... —
mormorò la fanciulla, arrossendo/—~Forse le nar-
rerò un altro giorno di questo... Ma Dio mio,
quanto ho lottato! gli assalti nervosi non sono
ancora cessati del tutto, in gennaio ebbi una tosse
spasmodica resistente a qualunque sforzo... ma ho
finito per vincerla. Ora sono contenta, ho conqui-
stato qualche cosa entro di me. Ell’aveva ragione,
Rose, l’impero sovra sè stessi è il migliore pos-
sesso al quale si debba aspirare. Esso ci dá la
nobile libertá dello spirito : la peggiore dipendenza
è quella che ci lega alle nostre debolezze.
Questo luogo mi piace, non mi sento più un’e-
stranea qui,- tutto mi è divenuto familiare— ella
soggiunse con amabilitá.<noinclude></noinclude>
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Nella contentezza del lieto ritorno, la fanciulla
parlava con un corto confidenziale abbandono, si-
cura del suo interlocutore, come d’un fratello,
come d’un uomo al quale non si potesse attribuire
altro interessamento che quello d’una fraterna
amicizia.
E Rose ascoltava, ascoltava la musica di quella
voce, ammirando la simpatica fanciulla alla cui
squisita grazia giovanile, il dolore aveva aggiunto
un fascino intellettuale ; gli pareva che in lei si
fosse incarnata la sintesi delle sue teorie psicolo-
giche, e, nella luminosa conferma di esse, divam-
pava ardente l’amore.
La sera, quand’egli tornò alle sue stanze, gli
eruppe dal petto la gioia immensa di quel ritorno.
«Manuela! Manuela!» chiamava egli fra se, tutto
rapito dall’ebbrezza della visione che il suo spirito
aveva sì spesso evocata e che gli riappariva ancor
più fulgida e più seducente, irresistibile.
& & ^ .
Il giorno seguente, pensando, colla mente più
tranquilla e analizzando sè stesso, come soleva far
sempre, Rose provò un senso di fiero dolore. Non
era uomo da concedersi illusioni. Conquistare Ma-
nuela non era cosa facile, e il tentarlo dopo le
confidenze avute, gli sembrava azione indelicata
oltreché ripugnante alla sua alterezza. Gli affetti
non s’insegnano, s’inspirano, ed egli, da buon psi-<noinclude></noinclude>
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cologo, ben lo sapeva. Poi, quantunque non am-
mettesse alcun pregiudizio sociale e che pochi mesi
addietro un ricco parente l’avesse nominato erede
del suo patrimonio, sentiva che il suo nativo or-
goglio, sempre pronto a destarsi, si drizzava un
poco contro i pregiudizi della marchesa che nella
sua semplicitá bonaria era donna d’antico stampo.
Ma l’amore, nei suoi conforti, è così terribil-
mente ingegnoso e ingannevole che il sola pen-
siero di quella cara presenza lo consolò, come uno
di quei farmachi potenti che calmano qualunque
impressionne molesta delforganismo, senza distrug-
gerne la causa, ed egli visse qualche giorno in
una soavissima estasi, dimentico dell’avvenire.
& &
Manuela era giunta da una settimana ed egli
stava anzi osservando con lei, in giardino, alcune
piante alpine che aveva fatto trapiantare su una
roccia e che fiorivano mercè le sue cure, quando
gli fu annunziato l’arrivo del suo buon amico Ro-
lando, il quale, venuto anche questa volta all’im-
provviso e impaziente di salutarlo, seguiva il se-
gretario. I due giovani s’abbracciarono con effusione,
poi Rose presentò:
— Il conte di Montemagno ; la signorina Apa-
ria. — E nel proferire questi due nomi uniti la
sua stessa voce gli diede un brivido che non seppe
spiegarsi.<noinclude></noinclude>
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Manuela.faceva una cura regolarissima: meno
schiva della gente, seguiva sempre sua madre,
anche la sera nella sala di riunione e la prima
domenica manifestò subito il desiderio di prender
parte alla gita comune che aveva per iscopo di
visitare il castello di G-aglianico, al di lá di Biella.
Ella faceva molte passeggiate anche nei dintorni
dello, stabilimento, con sua madre, con Monte-
magno e con qualche signora; la pittorica valle
del Cervo le aveva giá rivelato tutte le sue bel-
lezze, fino a Pie’ di Cavallo, l’interessante, carat-
teristico. paese che la chiude nella vergine poesia
alpestre. .
Rose la vedeva pochissimo. Una volta però,
tornando da Tavigliano, egli prese una scorciatoia
ed entrò in un piccolo bosco nelle vicinanze dello
stabilimento. Patti pochi passi scorse in terra, sul
muschio, un paio di guanti, un libro e un cappello
e ne riconobbe la forma semplice e il grande na-
stro bianco ; poco dopo, sbucando fra due cespugli
colla solita leggiadria, Manuela gli fu dappresso.
— Ah dottore! — esclamò ella, senza tradire
alcun turbamento — il destino l’ha messa oggi
sulle mie tracce, e non indarno, perchè ho bisogno
di lei, mi sento male.
— Perchè, signorina?
— Impressioni vaghe che non si spiegano. Sono
cose che si agitano nell’aria, presentimenti, un ma-
lessere morale, profondo. M’aiuti lei che m’ha in-
segnato tante volte a vincere.<noinclude></noinclude>
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— È un ritorno... verso il passato?- — chiese
il medico con una certa angoscia.
— No, oh no. Non lo so spiegare nemmen’io.
* t
E un’inesplicabile ma straziante sofferenza. Sono
fuggita da casa, sono venuta qui sola per doman-
dare conforto alla natura, ma la natura è muta
°ggì Per me 6j nell© sue leggi eterne, sembra ri-
dersi della mia fragilitá. M’aiuti lei, dottore...
— Oggi — disse egli gravemente — mi sento
incapace d’aiutarla perchè ho quasi smarrita la
ragione io stesso.
Manuela lo guardò con grande sorpresa.
— C’è qualche cosa che l’affligge? — chiese
ella, non senza premura.
— Forse. Non ne parliamo. Sarebbero vani i
miei consigli se non li avvalorassi coll’esempio;
un minuto di debolezza, Manuela; lo dimentichi!
Siamo nati per lottare fino alla morte.
Era così alterato in volto che la fanciulla lo
guardò angustiata:
— E proprio un segreto? non posso far nulla
per lei?
Rose s’era appoggiato al tronco d’un castagno.
Egli non poteva frenare le lagrime e s’era tirato
il cappello sugli occhi.
— Un segreto ? sì un geloso segreto. Glielo
confiderò un giorno, Manuela, non oggi... Vede?
è giá passato — E rialzando la pallida fronte,
sorrise. — Sono presto le cinque, l’ora della sua
doccia ; mi permette di accompagnarla ? è bene<noinclude></noinclude>
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aver molto caldo per la doccia. M’affidi il cuo
libro, signorina; che cosa legge?
Zur Diátetik der Seele di Feuchtersleben.
— Un’utile e seria lettura. È suo questo pic-
co]o volume?
— No, è del conte di Montemagno.
— Ah ! — disse Rose facendosi ancor più pal-
lido.
— Me lo prestò ieri e mi piace assai... Senta,
Rose, questo brano.. E mentre proseguivano
insieme la via, uscendo dal bosco, Manuela lesse:
«Lo scopo supremo della vita non è la so-
disfazione dei nostri desideri, è l’adempimento
del dovere, senza del quale non esiste vera sodi-
sfazione. L’insipida monotonia del godimento in-
segna colla sazietá il valore del lavoro, ma l’uomo
che non riflette impara troppo tardi questa lezione.
Il desiderio insaziato fa la disperazione degli stolti
e l’allegrezza dell’uomo intelligente. La vita infatti
non è che un’idea senza valore, una pagina bianca
finche non vi sono scritte queste parole: «Ho
sofferto, vale a dire ho vissuto.»
«La felicitá è incerta e passeggera ; il solo do-
vere è certo e eterno. Ma se la Provvidenza ha
creato il dolore, gli ha pure messo allato la gioia
che consola: la lotta fra questi due sentimenti
rivela la grandezza del nostro destino. Non v’ha
più bel sorriso di quello che illumina un volto
bagnato di lagrime; non v’ha più alto e più du-
revole desiderio di quello che non può essere so-<noinclude></noinclude>
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■disfatto, non v’ha godimento più puro e più vero
di quello d’un uomo che a se stesso impone pri-
vazioni. Delle rose intorno ad una croce: ecco il
simbolo dell’umana vita.»
La voce dolce ed armoniosa si tacque, e Rose
non fece commenti. Disse soltanto con un grande
sforzo: — Grazie, Manuela!... rassereniamoci di-
nanzi a questa luminosa letizia del creato!... — E
risalirono insieme l’erta china dello stabilimento,
rientrando in casa dalla parte della collina.
Quando furono giunti presso alla stanzetta nu-
mero 10, la fanciulla tolse alcuni fiorellini dal maz-
zetto che aveva raccolto per via e li porse al medico
che non potè a meno di stringere un secondo fra
le sue la manina bianca della donatrice. Poi s’al-
lontanò rapidamente, e passarono due giorni prima
che la signorina Aparia rivedesse da vicino Gu-
stavo Rose.
Fu la marchesa che lo mandò a chiamare per
un improvvisa indisposizione della figliuola. Era
stata a passeggiare sullo stradale di Biella con
due signore e col conte di Montemagno, narrava
Adele, la cameriera, e al ritorno s’era sentita male
assai. Pallida, alterata in volto, in preda alle più
penose contrazioni, Manuela accolse, il dottore con
un lamento. Egli le sedette daccanto, e dopo aver
inteso da donna Cristina come avesse cominciato
quell’affanno, le disse alcune parole di conforto,
poi mormorò piano:
— Reagisca colla ménte quanto può, Manuela...
— Non posso, non posso. Sono sfinita.<noinclude></noinclude>
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’ — Non è vero che non può... le sembra... lo
sfinimento è anch’esso un’impressione, non è un
fatto., coraggio, coraggio, vinciamo questa perico-
losa sensibilitá..
— Forse un po’ di cloralio o di morfina... —
suggerì la marchesa.
— No, no — insistette Rose — deve curarsi da
sè. Lasciamo da parte i veleni.
Manuela, agitata da continui sussulti spasmo-
dici, alzò gli occhi verso di lui, supplichevolmente.
Ma il giovine la guardava con una tale intensitá,
con un’intenzione così ferma e così forte, strin-
gendole le mani quasi volesse trasfondere in lei
tutta la propria energia, che la fanciulla cominciò
a stendere le braccia in uno sforzo eroico dell’in-
telletto, cercando ribellarsi dall’impero della ma-
teria E lottò alcuni minuti valorosamente, sempre
aiutata colle confortevoli ed eccitanti parole di lui
contro gli spasimi che le scuotevano il fragile
corpicciuolo di donna, esternando, con qualche
vago accento di protesta, l’affanno dell’interna bat-
taglia, finche le sfuggì’dal petto anelante e dalle
convulse labbra l’ultimo lamento, ed ella ricadde
esausta sui guanciali con un piccolo grido di vit-
toria. .
— Grazie! — disse al dottore dopo alcuni mi-
nuti di silenzio e di quiete profonda. — Sto molto
meglio ora, il male è passato.
— Si sentirá molto abbattuta perchè lo sforzo
è grande, quasi sovrumano. Oggi ella non può av-<noinclude></noinclude>
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vertire 1’efficacia del rimedio, la sentirá in seguito
quando i nervi saranno sempre più avvezzi a ce-
dere alla volontá. Continua bene, non è vero?
soggiunse egli poco dopo, porgendole un cordiale.
La sua voce vibrava di ammirazione e di tene-
rezza.
— Sì, Rose, sempre meglio, grazie. Ho molto
sonno, molto sonno... — E chiudendo involonta-
riamente gli occhi, Manuela, placidissima, s’addor-
mentò.
{{asterism}}
Era arrivato Franca villa, era arrivata Èva An-
tella col suo bambino, poi molte persone nuove.
Ogni giorno venivano carrozze cariche di gente e
di bauli, lo stabilimento non era mai stato così
animato. Due piemontesi, mariti di signore am-
malate, andavano organizzando grandi gite alpine
nella valle d’Aosta, i più modesti invece si conten-
tavano delle escursioni di poche ore, compensan-
dosi colla frequenza di esse. Alla sera poi v’erano
balli, concerti, trattenimenti d’ogni specie.
Non mancavano nè le inferme sentimentali che
guariscono all’ora di cambiar vestito, e queste erano
insopportabili a Rose, nè i corteggiatori poco sen-
timentali che facevano la cura per pretesto e che
ad onta della sua naturale mitezza gli sembravano
odiosi, ma sebbene, data l’occasione, egli non esi-
tasse a manifestare certi principii d’intransigente
rettitudine, la piccola cronaca mondana trovava<noinclude></noinclude>
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sempre di ohe pascere la sua insaziabile aviditá,
fomentata dall’ozio e dalla noia.
Le signore Aparia avevano fatto la conoscenza
d’un vecchio musicista, celebre suonatore di cla-
rino j un uomo pieno di giovialitá e di spirito, che
s’era onestamente goduta la vita. Ammiratore en-
tusiasta di Eossini che nei suoi ultimi anni l’aveva
onorato col nome d’amico, egli non voleva rico-
noscere al di lá delle sue opere alcun progresso
d’arte, e ne andava suonando a memoria le ultime
composizioni poco conosciute nel mondo musicale.
Il vecchio professore s’era incontrato una volta,
a Napoli, con Rolando di Montémagno, e così av-
veniva che quand’egli lasciava errare le sue mani
piccole e rigide ma sicure sulla tastiera, ricordando
i bellissimi Riens del grande maestro, volgendo
ad ogni accordo peregrino la testa, in cerca di
ammirazione, il giovane si trovasse dall’una e
Manuela dall’altra parte del pianoforte
Rose li vide in quell’attitudine di simultaneo
applauso, e ne provò una stretta al cuore.
In quei giorni erano giunti diversi ammalati
gravi che non comparivano mai in pubblico, fra
i quali un povero pazzo che aveva tentato suici-
darsi. Il medico n’era accoratissimo e le angustie
della professione accrescevano ih tormento del suo
invincibile affetto.
Un giorno egli incontrò in paese la signorina
Aparia con Èva Antella, Montemagno e iì profes-
sore di clarino. Andavano in chiesa a provare<noinclude></noinclude>
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l’organo. Due ore dopo li vide ritornare carichi di
fiori. Il parroco aveva fatto loro gli onori del suo
orto. Manuela teneva un fascio di gigli bianchi in
mano e sul suo cappello a larghe tese Èva aveva
appuntato tre o quattro di quelle belle rose centi-
foglie antiche, vivide, olezzanti che fioriscono tardi
in montagna, e che si trovano ancora nei modesti
giardini di paese. Il viso della fanciulla era irra-
diato d una insolita letizia, e a Rose sembrò che da
quella sorridente giovinezza gli venisse un fascino
sempre più irresistibile e sempre più doloroso.
Da quel giorno un grave sospetto gli penetrò
nell’anima. Egli si mise ad osservare Montemagno
in ogni suo atto, in ogni suo movimento, in ogni
sua più insignificante parola. E notò che quando
Manuela esciva per la reazione, poco tempo dopo,
se non era sola, egli andava da quella parte per
poterla incontrare; vide che offriva i suoi servigi
di preferenza alla marchesa che alle altre signore,
che in sala era il più assiduo al suo circolo; sco-
perse qualche occhiata furtiva ma intensa, quan-
tunque non corrisposta; osservò all’occhiello del
suo vestito qualche fiore che v’era giá comparso
il giorno addietro; s’accorse che all’apparire della
fanciulla visibilmente si turbava. Allora cominciò
a provare uno spasimo atroce; il suo affetto che
il lungo sacrifizio aveva reso quasi selvaggio, gli
parve troppo grande per quel silenzio, per quella
torturante incertezza. Meglio morire tutto ad un
tratto, in un’ora decisiva, piuttosto che languire<noinclude></noinclude>
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in questa lenta agonia, pensò egli, e risolse di
porre da parte tutti gli scrupoli e di affrontare il
suo destino, faccia a faccia.
Il giorno appresso, tornando da un paesetto di
montagna ov’ era stato a trovare una vecchiarella
sua protetta, invece di prendere la solita scorcia-
toia, egli deviò in un prato ove Manuela amava
qualche volta dilungarsi nelle sue passeggiate mat-
tutine, quando esciva sola, senza la cameriera.
Aspettava da un quarto d’ora all’ombra d’un
grande frassino, quando ella comparve da lontano
nella serena luminositá verde dell’erba stellata di
ranuncoli e di margherite. Camminava adagio, chi-
nandosi or dall’una or dall’altra parte del sentiero
per cogliere fiori. Poi si soffermò un momento come
fosse rapita dalla bellezza festosa del giorno estivo
e cominciò a cantare- Non era più il lamento
straziante della canzone russa, era una melodia
dolce, amorosa.
— Manuela! — disse il giovane, molto com-
mosso.
— Buon giorno, Rose — rispose, serenamente,
la fanciulla, venendo innanzi col suo fascio di
fiori — pensavo proprio a lei, in questo momento,
per una curiositá botanica ch’ella potrá certamente
appagare. Prima di venir qui, feci con Adele una
lunga passeggiata a Torcegno e raccolsi questa
piantina — soggiunse, porgendogli una balsaminea.
— Come si chiama?...
— È Yimpatiens noli tangere — rispose il gio-<noinclude></noinclude>
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vine con un triste sorriso, come se quel fiore gli
riescisse di cattivo augurio. — Anch’io pensavo
a Manuela — proseguì egli, raccogliendo tutto il
suo coraggio — sapevo che doveva passare da qui,
lo sentivo e l’ho aspettata.
Il volto di Rose, la sua voce tremante, il tre-
pido accento delle sue parole, tutto tradiva in lui
una profonda ambascia.
— Io pensavo — mormorò il giovine :— che
presto, forse fra pochi giorni, ella ripartirá da
questo luogo guarita e ch’io non la rivedrò più
per molti e molti mesi, forse più mai...ero tor-
turato dalla crudeltá, dall’angoscia di questa in-
sopportabile separazione e venni a dirlo a lei, a
confidarglielo perchè mi consolasse
— Oh Dio! dottore, come posso io consolarla?
— rispose Manuela, con un’ improvvisa titubanza.
— Non so, non comprendo
— Mi dica una buona parola, m’assicuri che
qualche volta si ricorderá di me
— Vuole che non mi ricordi ? io che ho sempre
rimorso del tedio che le recai coi miei capricci
dell’anno scorso, io che le devo tanto ?...
— Ella non mi deve nulla, ella ha dato a me
i giorni più belli della vita! Oh, Manuela, Manuela,
mi compatisca se oso effondermi in tal modo. Il
silenzio mi soffocava. Vede, io ho messo da parte
ogni riguardo sociale, ho dimenticato ogni scrupolo
di professione, io nulla più rammento fuorché di
trovarmi qui con lei, dinanzi alla serenitá incon-
taminata del cielo Potrá mai perdonarmi?<noinclude></noinclude>
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— A me non spetta il perdono, ma piuttosto
la gratitudine , la sua benevolenza, la sua ami-
cizia mi saranno sempre preziose
La fanciulla rispondeva con un certo imbarazzo,
studiando le parole, coll’intenzione palese di non
voler capire. Intanto era uscita dall’ombra protet-
trice del frassino per avviarsi lentamente verso
la strada.
Egli la seguì a capo chino. Aveva compreso
ormai.
Più agitata di lui che nello sfogo della confes-
sione s’era sentito riprendere da un’improvvisa
calma, Manuela stava immobile, muta, smarrita,
colle labbra tremule, colle mani strette intorno ai
suoi fiori.
— Io sono venuto a turbarla!... —■ balbettò
Rose con immensa tristezza.
— È vero, dottore. Sono turbata e anche sor-
presa. C’è in tutto questo qualche cosa che mi
addolora, che mi fa male
— Lo capisco — disse Rose, prevenendola ge-
nerosamente. — Ella ha il cuore gentile e soffre
di non potermi dare alcun verace conforto. Non
è così?... Ma io lo sapevo, io lo presentivo — sog-
giunse egli con nobile alterezza — e pur non rim-
piango d’aver piegato la mia fronte dinanzi a lei.
Ho voluto ch’ella conoscesse il mio segreto, ch’ella
penetrasse nella mia anima come nessuno vi pe-
netrerá mai, ch’ella leggesse a fondo in questo
grande, in questo infinito amore. Così qualche
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volta, nella lontananza, nel tempo che passa e non
muta, il suo pietoso, soccorrevole pensiero si ram-
menterá forse della mia solitaria vita
Egli aveva parlato con calma, ma un’angoscia
cosi desolata gli trapelava dal volto e dalla voce
che la fanciulla, incapace di trattenersi, scoppiò
in un singhiozzo.
— Dio buono, ella piange ! non voglio, non
voglio che pianga per me ! — esclamò il giovine
dimentico di sè stesso. — Fui pazzo !... un momento
d’esaltazione, non ci pensi più, Manuela !
E la fece sedere su un muricciuolo, e colla sua
solita persuasiva dolcezza tentò acquetarla, implo-
rando ancora ansiosamente il suo perdono.
Ma in quel punto, in una svolta della strada,
comparve Èva Antella col suo bambino e con
Montemagno, e alla vista di lui, Manuela si sco-
lorì talmente in viso, che Rose ebbe colla conferma
dei suoi timori un’istantanea conoscenza del vero.
Forse la fanciulla non aveva compreso, ella stessa
fino a quell’ora rivelatrice, lo stato del proprio
cuore. Tuttavia, colla solita mirabile destrezza fem-
minile, ella spiegò come si fosse sentita male per
la via e il medico si fosse trovato pronto a soc-
correrla.
Tornarono tutti insieme allo stabilimento senza
poter vincere un vago senso d’imbarazzo che li
rendeva silenziosi.
Quando si fu rassicurato che la signorina Aparia
s’era perfettamente riavuta, Rose s’affrettò di chiù-<noinclude></noinclude>
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dersi nelle sue stanze, non comparve al pranzo e
per molte ore nessuno lo vide. Tutto gli era chiaro
adesso, anche la cagione di certi turbamenti di
Manuela: memore del passato, ella forse s’era driz-
zata contro le simpatie di Montemagno, ma in-
darno ; ella aveva riavuto il sano equilibrio morale
a cui sono complemento i nobili affetti, e il giovane
a poco a poco la conquistava
L’indomani di buon’ora, quando discese, dopo
aver compiuto faticosamente il suo giro di visite,
essendo una giornata piovosa, molti bagnanti fa-
cevano la reazione sotto il chiostro. Il giovane si
fermò un minuto nell’atrio donde si vedevano due
ale del porticato è guardò in giro con occhio smar-
rito. Manuela passeggiava coi suoi soliti compagni,
Èva e Montemagno, ma appena si volse e lo vide,
seppe allontanarsi destramente da loro e s’accostò
al medico stendendogli la mano. Era pallida, com
mossa, e nel suo sguardo ardeva una muta, dolente
preghiera. La sua presenza fece tornare Rose in
sè, improvvisamente. Si ricompose con uno sforzo
eroico, strinse la manina bianca, trovò sorridendo
la solita forma di saluto mattutino. Ella interro-
gava sempre, colle limpide pupille, ma gli occhi
velati del giovine non ebbero che una risposta
di pace. Amarezze, dolori, angoscio, speranze per-
dute, tutto, tutto fu riposto con quello sguardo in
un eterno silenzio. La forza morale, quel principio
di energia e di salute per il quale Rose non ces-
sava di battersi nella grande mischia delle miserie<noinclude></noinclude>
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umane, trionfava anche nel suo animo travagliato
da quell’unico invincibile amore e lo confortava
come confortano sempre nella loro aspra voluttá
le virtù di coloro che sanno affrontare il sacrifizio
senza paura.
* ¥£
Quando le signore Aparia partirono dallo sta-
bilimento, Manuela poteva dirsi quasi guarita. La
sua giovinezza rifioriva gioconda e colla riconqui-
stata salute del corpo anche lo spirito si ritemprava
nel più giusto equilibrio.
Il giorno dell’addio, Rose rimase, in apparenza,
affatto tranquillo, quasi impassibile. Montemagno
aveva fissato di partire alla stess’ora : tutto lo con-
fermava nel suo convincimento. Fu con un’impres-
sione di sollievo strano, crudele, ch’egli li vide
allontanarsi nella stessa carrozza lungo la via di
Biella, e sparire nell’ombrosa vallata. Con Manuela
si dileguava ormai per lui ogni incanto da quei
luoghi che aveva tanto amati, ma come la sua forza
di dissimulazione era presso ad esaurirsi dinanzi
alla visione tormentosa di quel ’nascente amore,
così la sua nativa alterezza diveniva quasi ribelle
all’irresistibile impero del sentimento.
Egli tornò al lavoro con lena febbrile, studiando
di annientarsi nell’esercizio del bene: nessuno lo
vide mai così sollecito, così benefico e oblioso di
sè stesso per gli altri.
Molti mesi trascorsero, e cessato l’impegno allo<noinclude></noinclude>
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stabilimento, Rose si dedicò con trasporto alla se-
lezione degli elementi necessari per un suo nuovo
lavoro sulle malattie della volontá.
L’abuso delle forze intellettuali e l’intensitá
dell’occupazione andavano alterando la sua salute
di consueto così sicura e vigorosa. Egli non s’ac-
corgeva che quel bisogno raddoppiato di attivitá,
quell’ansia febbrile d’impiegare tutte le facoltá
mentali nello studio, era un istinto dell’anima pau-
rosa di rimanere sola con sè stessa e di dover forse
indagare il proprio spasimo latente nei pericolosi
silenzi del riposo.
Ma un giorno una mortale stanchezza lo prese,
un improvviso abbandono di forze lo abbattè nel
maggiore ardore dell’opera : egli sofferse quanto
non aveva sofferto mai, e nel suo cuore scrupolo-
samente fedele, la passione sopita, non vinta, di-
vampò come una fiamma divoratrice.
«Vederla, vederla !» esclamava egli follemente
fra sè, «vederla ancora una volta !»
E una sera di marzo si mise in treno e partì
per Firenze. Ivi giunto, il suo primo passo fu alla
clinica di S. Maria Nuova ove aveva un amico
che s’interessava dei suoi studi: egli voleva dare
a quel viaggio, uno scopo scientifico. Andò poi in
via Tornabuoni ove era il palazzo Aparia e constatò
con gioia che i padroni non erano assenti, ma non
volle entrarvi. Il suo amor proprio si ribellava.
In quel giorno istesso davano alla Pergola
un’opera nuova, Manuela non poteva mancare ; era<noinclude></noinclude>
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dunque lá, al teatro, ohe, non visto, voleva rive-
derla. E tutto il dì errò indarno per le vie di Fi-
renze, alle Cascine, nel Viale dei Colli, con una
vaga speranza d’incontrarla. Egli fu dei primi ad
entrare in teatro e dalla sua poltrona di platea
vide popolarsi i palchi ad uno ad uno. La mar-
chesa, non tardò a comparire nella seconda fila di
destra con una signora che non conosceva. Ma-
nuela rimase in fondo al palco finche il direttore
non sedette sul suo scanno. Quand’ella s’affacciò
sul davanti, Rose ebbe un sussulto e si sentì sva-
nire il sangue dalla faccia. La signorina Aparia
s’era fatta molto bella. Ella portava un vestito
semplicissimo color dell’acqua marina, guernito con
piccole ciocche di rose bianche molto simili a quelle
che fiorivano sugli archi dello stabilimento. Parve
al giovane di sentire il profumo di quelle rose e
tutto il passato gli si ridestò nella mente con
un’evidenza tormentosa. Ah ! mai più egli avrebbe
passeggiato con lei in quel chiostro e nei viali
ombrosi del vecchio parco !...
Il preludio cominciava. Era la musica di un
giovane maestro che cercava le novitá nelle licenze
armoniche. Una specie di strazio era in tutte quelle
arditissime dissonanze, e Gustavo Rose, avvezzo
ad afferrare subito il valore delle cose musicali,
più compenetrato che convinto, si sentiva venire
da quell’arte lusinghiera e corruttrice, un affanno
senza nome.
Egli non osava volgersi verso il palco per timore<noinclude></noinclude>
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d’esser riconosciuto, e la presenza di Manuela lo
esaltava dolorosamente fino ad una inconsapevole
speranza. Ma durante il prim’atto, mentre tutti
erano assorti nella scena e applaudivano il tenore,
egli non seppe resistere alla tentazione di quella
dolce vista e guardò ancora.
Manuela sempre un po’ seria e raccolta teneva
gli ocelli fissi sul cantante e, dietro a lei, un si-
gnore applaudiva con trasporto e quel signore era
Montemagno. Allora Rose non vide più nulla, nè
il palco, nè la scena: un fitto velo gli era sceso
sugli occhi e colla morte nel cuore egli decise di
partire alla fine dell’atto.
Egli usciva infatti, con passo mal sicuro, dal-
l’atrio quando Montemagno lo raggiunse colman-
dolo dei più affettuosi rimproveri perchè non s’era
ancor fatto vedere.
— Io non ti avevo riconosciuto prima d’ora !
— esclamava il giovine — altrimenti sarei sceso
subito ! Vieni, vieni, le signore Aparia saranno fe-
lici della tua visita!
Rose si schermiva indarno. Egli finì col dire :
— Mi sento male.... non posso !
— Il caldo del teatro forse usciamo insieme
a respirare un po’ d’aria, a prendere una bibita,
poi torneremo
Ma Rose non accettò nemmeno questo e allora
Montemagno, insistendo sempre, lo prese per il
braccio, lo condusse fino al corridoio, aperse il palco
e ve lo spinse con dolce violenza.<noinclude></noinclude>
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— Marchesa ! — diss’egli — ecco un caro reni-
tente che ho rimorchiato all’uscita e ch’ella vedrá
con grande piacere.
Donna Cristina fece a Rose la più cordiale
accoglienza e come nel palco c’erano delle persone
a lui sconosciute, durante le necessarie presenta-
zioni, egli si riebbe un poco dal suo turbamento,
poi si trovò seduto accanto a Manuela e subito
gli venne alle uari la fragranza delle rose con una
vertiginosa ebbrezza. S’informò con una frase qua-
lunque delia sua salute: non poteva parlare. Ma-
nuela non aveva tradito alcuna emozione, solo lo
tremavano un pochino le labbra, perchè in quel
momento ella leggeva nell’animo del suo medico-
Parve anzi a questo che volgesse uno sguardo
supplichevole a sua madre, ma non ne comprese
subito lo scopo. La conversazione era animata, lo
visite si succedevano ; Rose si propose di partire
al secondo atto, ma all’alzarsi della tela gli uo-
mini uscirono tutti, compreso Montemagno: egli
dovette restare.
Adesso era seduto presso alla marchesa e aveva
dinanzi a sè il caro profilo di Manuela, quel pro-
filo grave e fino d’angelo antico, e la fanciulla un
po’ pallida guardava sempre alla scena ove duo
grandi artisti cantavano un duetto d’amore. Quando
fu finito, donna Cristina si volse a Rose e gli disse:
— Quanto, quanto le dobbiamo, dottore, per la
cura che s’è preso della nostra figliuola ! È per-
fettamente guarita mercè i suoi buoni consigli<noinclude></noinclude>
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— Era un’amabile inferma! — mormorò il gio-
vine con un triste sorriso e ancora gli parve che
Manuela rivolgesse a sua madre uno sguardo di
preghiera. Ma la marchesa, approfittando d’un fra-
goroso applauso del pubblico che le permetteva di
parlare più liberamente, continuò senza darvi
ascolto :
— La gratitudine ch’io sento per lei m’obbliga
a farle una confidenza, e a comunicarle il nostro
segreto Manuela è fidanzata — soggiunse ella.
sempre più piano — è fidanzata con Montemagno.
Questo matrimonio appaga in tutto i nostri desi-
deri. Sono certa ch’ella partecipa da buon amica
alla nostra contentezza.
— Certamente ! la ringrazio, marchesa, e me no
rallegro! — balbettò Rose contraffatto.
Sul palcoscenico gli amanti, ripetendo il duetto,
cantavano una melodia vibrante di passione. Ma-
nuela si volse per istinto, capì tutto dal volto al-
terato del giovine, e gli sorrise con una soavitá
dolorosa da cui traspariva insieme alla compas-
sione gentile il rispetto profondo del suo segreto.
Il teatro applaudiva freneticamente. Un musi-
cofìlo entrò nel palco commentando- il duetto egli
applausi. Rose s’alzò per congedarsi, poi sedette*
ancora: aveva una nebbia dinanzi agli occhi, un
rumore confuso nel cervello, un palpito disordinata
nel cuore. Grli parve che donna Cristina gli chie-
desse quanto rimaneva, e lo invitasse a casa sua.
Egli non rammentava bene che cosa avesse ri-<noinclude></noinclude>
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sposto, sapeva soltanto, ohe una malìa irresistibile,
angosciosa lo teneva incatenato, suo malgrado. Ma
presto sopravvennero altre visite e dovendo cedere
il suo posto, egli balzò in piedi con uno sforzo,
prese rapidamente commiato e si trovò nel corri-
doio in faccia a Montemagno che lo trattenne e
gli disse con trasporto:
— Come sta bene ora la marchesina, non è
vero? Sei tu, Rose, che l’hai guarita, lo dice
sempre! — E lo guardava fìsso, con una certa
tenerezza, come per indagare se il medico avesse
saputo di quella loro recente, segreta promessa di
matrimonio. Ma il dottore che s’era subito ria-
vuto non mostrò alcuna speciale commozione.
— Vado un momento fuori all’aperto e ritorno !
— diss’egli per svincolarsi dal giovine che gl’impe-
diva il passo, con un’efìusione d’innamorato rico-
noscente, e s’allontanò in fretta lasciando Monte-
magno alquanto sorpreso.
% ^ *
Rose esci dal teatro e si mise ad errare per le
vie di Firenze come un pazzo. Egli soffriva cru-
delmente e, forse per la prima volta, gli sembrava
che il suo martirio superasse ogni forza di rea-
zione.
L’aveva guarita, sì guarita ; Manuela era la bella,
la viva, la palpitante immagine dei suoi principii,
delle sue teorie, era una sua creazione, era un incon-<noinclude></noinclude>
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della natura, gli veniva nell’animo una specie di
annientamento, di calma profonda, mortale. Era
come l’abolizione perfetta delle aspirazioni indivi-
duali. La volontá, sì a lungo addestrata ah suo
nobile ufficio, si riaveva dalla sua momentanea
impotenza per riprenderlo con maggiore efficacia.
Gli riapparvero all’improvviso tutte le visioni
umanitarie della sua giovinezza, le visioni della
miseria che a se stessa soccombe, del vizio che
abbrutisce e corrompe, dell’eccessivo lavoro che uc-
cide, delle infermitá ereditarie che non perdonano,
e il suo antico sogno di votarsi a coloro che sof-
frono senza concedere al suo cuore le gioie di-
straenti della famiglia, divampò, in tanto affanno,
come una fiamma purificatrice, assorbendo la sua
afflizione.
Lentamente egli ridiscese alla cittá e, senza
esitare, s’avviò alla clinica di S. Maria Nuova.
Il suo compagno era giá al posto e s’affrettò
di condurlo nella sezione delle tisiche ove allora
si stava esperimentando la linfa, ancor sempre
infruttuosa, del dott. Koch. Rose andò di letto in
letto, interrogando^ trovando quella benevola pa-
rola di conforto che tradiva il psicologo; si trat-
tenne molto presso un’inferma che giaceva da
mesi per un grave disinganno d’amore, finì al ca-
pezzale d’una fanciulletta dal volto estenuato, dai
folti capelli castani, dal profilo impresso d’una
gentilezza altera, come quello di certi angeli an-
tichi, come quello di Manuela.<noinclude></noinclude>
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— È una trovatella... — spiegò in francese il
medico dell’ospedale e non sa rassegnarsi al suo
destino.
Rose prese una mano della piccola malata e si
chinò a baciarla in fronte, sui riccioli bruni.
La fanciulletta derelitta gli parve sciogliere in
quel momento l’enigma del suo destino : disper-
dere le inutili preoccupazioni del proprio essere,
nell’infinito, nell’immenso mare della caritá.
Compenetrato da quell’idea e tranquillissimo
ormai, il giovane uscì dalla clinica, andò a por-
tare un biglietto di scusa al palazzo Aparia e un
altro all’albergo ove alloggiava Montemagno, poi
prese il primo treno e partì da Firenze per tor-
nare al lavoro, al sacrifizio, per lui solo elemento
di pace.<noinclude></noinclude>
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Col volgere degli anni e delle vicende la stirpe
dei conti Vallarsa di Revel s’era isterilita e il vistoso
patrimonio di famiglia, sciupato da invincibili abi-
tudini di grandezza e dalla passivitá della gleba
■esausta, cadeva anch’ esso in completa rovina.
Venduti i palazzi in cittá, vendute le ville, ab-
bandonate le terre infeconde nelle mani degli
avidi creditori, dell’antica ricchezza non rimaneva
che un solo ricordo, perduto in una gola delle
Alpi carniche fra i pinnacoli d’una secolare abe-
tina, un castello mezzo diroccato il cui nome, nei
fasti della signoria medioevale, s’era fatto celebre
per la prepotenza del dominio.
Eredi d’una triste gloria, sole rappresentanti
ormai dell’illustre casato, due superstiti donne,
madre e figlia vivevano derelitte fra quelle me-
mori mura, alimentandosi del loro reciproco, esclu-
sivo e sviscerato amore. Entrambe serbavano in-
tatto l’aristocratico tipo, gelosamente custodito
colla distinzione di una discendenza raffinata, ad
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entrambe traspariva dal volto la dolce dignitá
che contiene gli sguardi per natura imperiosi,, la
tristezza amara delle rimembranze e del cadente
destino.
Soltanto la vecchia signora pareva rassegnata
alla sorte e vinta, ma nè il tempo, nè la sven-
tura erano riesciti ad alterare il nobile disegnò
della sua bella e pacata fìsonomia gravemente
raccolta entro due falde di bianchissimi capelli.
La giovane era bionda, d’un biondo grigio e
finn e la sua faccia delicata il cui pallore nativo
la continua familiaritá cól sole non aveva profa-
nato, non offriva forse alcuna attrattiva allo
sguardo d’un freddo osservatore, ma chi la stu-
diava, non visto, poteva sorprendere . in quelle
grandi iridi schive, fra il glauco e l’azzurro, , illumi-
nate da una larga, strana pupilla, in quella bocca
destinata più che alla parola a un doloroso silenzio,
dei commovimenti mal contenuti, dei fremiti im-
provvisi, dei lampi di volontá, il riflesso della
continua battaglia interna, in cui s’agitavano forse
gli ultimi desiderii, le ultime acerbe e impotenti
ribellioni d’una stirpe ormai presso ad estinguersi.
Ella portava un nome tradizionale, nella sua
casa : Elfrida ; e sebbene le mutate condizioni
della famiglia ferissero crudelmente il suo nativo
orgoglio, sebbene per sorreggere sua madre ella
avesse dovuto discendere ai più umili uffici, cam-
minava dritta e fiera come se sulla sua bionda
testa dovesse posarsi un giorno una corona.<noinclude></noinclude>
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In grazia della sua energia vigilante e del suo
continuo ed efficace lavoro, nel pittoresco castello,
in mezzo ai locali abbandonati, ai muri crollanti,
alle torrette sfasciate, un. appartamento signorile
si manteneva intatto. Non corrispondeva tutto il
mobilio alla bellezza dei soffitti del Cinquecento,
all’ampiezza delle sale, alla grandiositá delle fine-
stre dai larghi davanzali, alla leggiadria di Certi
fregi affresco, di certi caminetti in marmo scol-
pito, ma l’ago della solerte custode rammendava
mirabilmente i brandelli delle sete smorte e delle
trine antiche.
Coi brani d’arazzo ove lo stemma dei Yallarsa
era contessuto le sue provvide mani nasconde-
vano, sui parati stinti, le traccio più scure dei
quadri scomparsi per sempre, e ove l’arte non sa-
peva più lottare contro l’invadente povertá, la
natura veniva in aiuto, col fogliame delle piante
ornamentali che l’esperta cultrice cresceva rigo-
gliose, coi fiori raccolti nei silenzii dei boschi, coi
rami del biancospino, del citiso, della vitalba, la
cui freschezza metteva un velo di poesia sulla
rovina delle passate cose, i cui effluvii alpestri ne
ringiovanivano il triste profumo.
Nel vasto parco, degenerato in boscaglia, gli
arbusti incolti cancellavano Con la loro invadente
verdura le tracce degli antichi viali; gli armonici
gorgoglìi delle fontane tacevano perchè l’acqua
non poteva più correre nei tubi sconnessi e mur
scosi; le aiuole erano invase dalla gramigna, l’erba<noinclude></noinclude>
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dei prati cresceva, alta, disuguale e se la gene-
rositá dei creditori aveva rispettato la passione
della contessa per gli alberi, risparmiando le piante
più vicine al castello, nell’abetina secolare, ch’era
stata un lusso quasi regale, echeggiava, di quando
in quando, il lugubre suono ddl’accetta e da lon-
tano si vedevano le cime delle conifere atterrale
tentennare e sparire.
A quella vista il cuore d’Elfrida dava lagrime
di sangue ma era necessario vendere, vendere
sempre.
A mezzogiorno sotto l’ala abitata del castello,
una piccola parte del deserto giardino era ridotta
ad ortaglia e la fanciulla, assistita da un vecchio
guardiano, la coltivava con le sue mani per pro-
curare alla madre le primizie dei legumi.
Intorno agli scompartimenti ell’aveva piantato
dei rosai selvatici e come un antico fornitore della
famiglia non mancava di spedirle ogni anno dalla
Germania, una cassettina di fresche rose, ella stac-
cava le gemme dai gambi, le innestava con rara
maestria sui polloni campestri e aveva creato, in
tal guisa, un roseto di due o trecento specie
scelte che in primavera e in autunno le deliziava
la vista.
Quelle piante dopo il materno affetto, una delle
poche dolcezze della sua vita, furono anch’esse
un precario possesso: il conte di Vallarsá, prima
di morire, aveva ceduto il castello e le sue adia-
cenze, sotto date condizioni, ad un ricco indù-<noinclude></noinclude>
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striale, /il più discreto dei suoi creditori, riser-
vandone l’usufrutto alla moglie, finché sarebbe
vissuta. Egli non dubitava certamente che la sua
figliuola potesse trovare un valido appoggio nel
matrimonio. Ma per Elfrida, la perdita della madre
doveva essere non solo uno strazio dell’anima ma
anche l’indigenza e la solitudine. La duplice scia-
gura non tardò a colpirla.
Limata dal lungo e tacito soffrire, una sera, al
tramonto, mentre la fanciulla le sedeva dinanzi
su uno sgabello, parlando del passato, la povera
signora sentì un leggero, fuggevole affanno, poi
un’angoscia più grave e prolungata, s’abbandonò,
con una stanchezza mortale nella sua poltrona, e
reclinando la pallida fronte sul petto anelante
d’Elfrida, si tacque per sempre.
Elfrida non aveva nè stretti parenti, nè intimi
amici, tuttavia, nei primi momenti della sua sven-
tura, ella trovò se non un efficace sollievo, una
partecipazione affettuosa al suo dolore. Un lon-
tano cugino materno, cui ripugnava il pensiero che
una Yallarsa si trovasse nel bisogno, le offerse un
amichevole asilo nella propria famiglia, ma la fan-
ciulla pur riconoscendo la generositá della proposta
non accettò: rifuggiva con orrore dal benefìzio.
Col ricavo d’una fila di grosse perle che le aveva
regalate la sua matrina e che serbava qual pre-
ziosa reliquia della sua lieta fanciullezza, ella
pensò a ricomporre in pace la salma della madre
diletta, in una borgata vicina, nella tomba dei<noinclude></noinclude>
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Vallarsa, unica proprietá che le rimanesse al mondo,
trattenendo per se una piccola somma bastante a
vivere tre o quattro mesi.
Sebbene fosse straziata nel fondo dell’anima,
Elfrida sentiva una fiera ansietá di lasciare la di-
mora alla quale non aveva più diritto. S’affrettò
quindi a raccogliere le sue poche memorie perso-
nali e andò a chiedere un momentaneo asilo sul-
l’Alpe, a tre ore di distanza, nella casetta dell’im-
piegato forestale il quale aveva sposato una ca-
meriera di sua madre.
In quei giorni, i primi di maggio, il roseto era
pieno di bottoni. Elfrida aveva intrecciato un’ul-
tima ghirlanda per il camposanto, aveva dato
un’ultimo sguardo al parco ombroso, all’abetina,
alle camere popolate di ricordi ed era partita, col
cuore lacerato, ma con la fronte alta, mantenendo
fermo il passo sulle assi vacillanti dell’antico ponte
levatoio.
* *
La primavera era rigogliosa e la foresta offriva
alla derelitta tutti i conforti della natura trion-
fante. Fioriva, parassita del pino, il mitico vischio,
le piccole orchidee ergevano nell’ombra i loro
strani e vellutati perigonii in fórma d’insetto, le
radure erano seminate di mughetti olezzanti, gli
scoiattoli saltellavano di ramo in ramo, era da
mane a sera un vivace cinguettio d’uccelli inna-
morati.<noinclude></noinclude>
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Insensibile a tutte quelle gioie alpestri che un
giorno aveva tanto apprezzate, Elfrida non si sen-
tiva attratta che dall’armonia vaga del bosco,
dalle voci misteriose che sembrano passare colla
brézza vespertina fra le glauche cime delle coni-
fere e perdersi in un dolce bisbiglio entro le tre
mule foglie dei pioppi. Perciò amava di stare
molte ore seduta dinanzi alla casetta dell’impie-
gato forestale, su una rozza panca di legno ad
ascoltare quel mormorio indefinito che la sera, al
crepuscolo, quando le capre tornavano dal pascolo
scuotendo i loro campanelli argentini, quando da
tutti i paeselli circostanti VAngelus quietamente
echeggiava, e gli usignuoli cominciavano a cantare
i .loro limpidi trilli d’amore pareva assurgere alla
bellezza d’un concerto pastorale.
Ella contemplava la larga vallata che si sten-
deva sotto i suoi occhi tutta verdeggiante di
messi immature, tutta seminata di villaggi, di
casolari, di castelli ; ella si dilettav a di seguire
sul chiaro orizzonte la linea capricciosa delle
Alpi ove la bianchezza delle nevi eterne si fonde
nel cielo, e di attendere il lento degradare della luce
finche il firmamento scintillava di stelle o finche
la luna faceva risorgere sotto forma fantastica il
nobile paesaggio dall’ombra notturna.
Ma il suo pensiero non era consenziente allo
sguardo. Fissa, anzi quasi assopita nel dolore la
mente d’Elfrida rimaneva inerte e passiva e del
solò dolore sembrava avere esatta coscienza. La<noinclude></noinclude>
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solitudine e il silenzio assoluto delle umane cose
erano l’unico conforto di quell’anima chiusa al-
l’effusione e i suoi umili ospiti sapevano compren-
dere e rispettare nel loro devoto affetto un sì giusto
desiderio di raccoglimento.
Sebbene lo spirito della fanciulla apparisse in-
fermo, il suo corpo non ancora sprovvisto d’esu-
beranza giovanile cominciava a ravvivarsi a poco
a poco d’una certa vitalitá, il suo passo tornava
ad essere leggero come una volta, la sua persona
snella e gentile riprendeva la nativa alterezza del
portamento.
Una sera, quasi inconscia dell’istinto che la
guidava, Elfrida abbandonò il suo solido posto per
inoltrarsi fra le ombre glauche e .profonde della
foresta e l’intimo colloquio con la natura selvaggia
le riesci di sì grande conforto che la solitaria pas-
seggiata divenne per lei una cara, irresistibile abi-
tudine. In breve, i più difficili sentieri, i più re-
conditi recessi dell’Alpe le parvero familiari.
Di consueto, non incontrava mai nessuno, tranne
i pastori o qualche povera raccoglitrice di fiori e
di funghi, ma un giorno, s’imbattè, con vivo ram-
marico, in un giovane che conosceva da gran
tempo e che le passò. dappresso con un deferente
saluto: era Enrico Moras, il figlio del ricco in-
dustriale, proprietario d’una fabbrica fiorentissi-
ma di terre cotte, ái quale appartenevano ormai
le ultime reliquie dei beni di casa Vallarsa. Quan-
tunque Elfrida si studiasse di cercare sentieri<noinclude></noinclude>
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nuovi, l’incontro per lei molto sgradevole si ripetè
parecchie volte. Anzi una sera, nell’ora del tra*
monto, il giovine la raggiunse sulle rive d’un pic-
colo lago alpino che si nascondeva, come uno zaf-
firo perduto, fra le rocce a poca distanza dalla casa,
dell’impiegato forestale.
Egli aveva trovato un guanto nero sul muschio :
sicuro di non essere in errore, si faceva lecito di
restituirlo... nel tempo stesso domandava informa-
zioni intorno alla salute della signorina-
Elfrida arrossì vivamente e rispose con la dol-
cezza grave che le era abituale:
— La ringrazio, signore, io sto bene.
Nello smarrimento del suo sguardo, nella fronte
un po’ contratta si leggeva una ripugnanza che
la volontá tentava indarno di reprimere, ma il
giovine infervorato da un’idea predominante, non
se ne accorse, anzi le si avvicinò con una certa
familiaritá rispettosa e dopo una lieve esitazione
osò rivolgerle la parola.
— Ella si. sará forse accorta, signorina, che da
qualche tempo seguo i suoi passi....
— No, in veritá: So semplicemente d’averla
incontrata — rispose Elfrida, con freddezza.
— Ebbene, mi consenta di dirle che quegl’in-
contri non nascevano per caso. Io fui felice oggi
che il suo guanto m’offrisse l’occasione di rag-
giungerla e di parlarle,. perchè aspettavo, con la
più ardente impazienza questo momento...
Elfrida lo guardò, forse per la prima volta, in
faccia con una curiositá alquanto sdegnosa.<noinclude></noinclude>
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Era un giovine di mezza statura, tarchiato e
robusto. Vestiva con una semplicitá campestre non
priva di lindura; le sue mani brune tradivano l’abi-
tudine del lavoro; dal volto abbronzato e adorno
da una folta chioma nera e da due baffi nascenti,
dagli occhi azzurri, sereni ed onesti spirava una
fisica e morale salute. Poteva avere ventiquattro
anni.
— Se desidera parlarmi — disse Elfrida — la
prego d’affrettarsi perchè io vorrei tornare a casa.
— Il mio pensiero non è facile da esprimersi
— balbettò Moras con un forte tremito nella voce
e esitando ancora come se sperasse ingenuamente
d’essere indovinato — il castello di Vallarsa...
— Non ricordiamo cose che devono rimanere
nell’oblio.
— Nell’oblio? perchè ?... non sarebbe più giusto
che il passato rivivesse ?... io vorrei restaurare una
parte del castello... .
— Esso le appartiene, signore. Sta nella sua
volontá di farne ciò che le pare e piace. La mia
opinione in proposito è affatto inutile.
— No, signorina, non mi pare inutile. Un suo
gentile consiglio mi sarebbe anzi doppiamente
prezioso. Il mio desiderio era quello ch’ella non
lasciasse mai il tetto paterno. Ell’ha voluto partire
e io bramerei che fra quelle care mura si com-
piacesse di tornare, signora e regina...
— Io ? non comprendo ! — esclamò Elfrida con
un atto d’altera meraviglia.<noinclude></noinclude>
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— Eppure... le sarebbe cosi facile il compren-
dere.. io sono un uomo semplice, ho poca rettorica
e non conosco che la parola del cuore ., anche il
cuore dinanzi a lei ammutolisce, ma io lo sento
battere, violentemente...
Enrico Moras s’era fatto pallido ; egli schiac-
ciava, con atto convulso, il suo cappello fra le
mani.
— Ebbene ? — disse Elfrida con un cenno vago
di stanchezza e d’impazienza — non riesco ancora
a capire .. ..
— Ebbene.... vi sarebbe rimedio a tutto, se
ella non sdegnasse, un giorno d’accordarmi la sua
mano....
— Io ? la mia mano.... a lei ?...
Elfrida s’era fatta bianca in volto. Era, nel
deserto della sua solitaria vita, la famiglia, il fo-
colate domestico, l’agiatezza che le si offriva, un
asilo onorato, tranquillo, sicuro entro le mura di-
lette e riconquistate della casa paterna. Ma ella
non esitò un momento, e solo il volto alterato del
giovine, solo i suoi occhi umidi di pianto seppero
modificare la formola del rifiuto e alterarne l’istin-
tiva crudezza.
— Le sono riconoscente — mormorò, con voce
cupa — ina non posso accettare.
— È un no deciso, assoluto?
— Assoluto. Mi rincresce, signore, ma su questo
argomento non ho bisogno di riflettere.
Moras conteneva a mala pena le sue dolorose<noinclude></noinclude>
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impressioni ma egli era molto buono e sull’amor
proprio ferito prevalse la naturale mitezza del-
l’animo.
— La sua abnegazione figliale m’aveva com-
mosso — diss’egli con semplicitá — e la simpatia
ch’ella, da gran tempo m’ispirava, dinanzi alla sua
sventura, s’è trasformata in un sentimento più
serio e più tenace.
Gli occhi d’Elfrida lampeggiarono d’una fierezza
viva.
— Vedo che la mia presenza stessa le riesce
odiosa — esclamò il giovine senza più celare il suo
profondo turbamento — si rassicuri, signorina, una
parola ancora e poi m’affretto a lasciarla sola. Io le
ho parlato senza volerlo, d’un segreto ch’ella doveva
soltanto indovinare. È stato un momento di fol-
lia.... abbia la generositá di dimenticarlo. Ma se
un giorno, ell’avesse bisogno d’un appoggio, di
un ... amico, se la sorte avversa non dovesse com
cederle la felicitá ch’ella merita, si ricordi di me,
in qualunque luogo, vicino o lontano io mi trovi....
Vi fu una breve pausa durante la quale egli
forse aspettò la risposta che non venne. Gli parve
soltanto che la fanciulla avesse mormorato un
tardo e sommesso «grazie» e fatto un lieve in-
chino, Moras a lento passo s’allontanò.
Elfrida, tutta tremante, riprese la sua via. Ella
guardava intensamente al cielo, implorando pace
al tumulto del suo cuore.
Lei la sposa d’un industriale? lei, ultima dei<noinclude></noinclude>
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Vallarsa, ricondotta al castello degli avi, dalla ge-
nerositá d’un creditore ? Mai, mai ! La sua povertá
sola poteva aver dato a quel giovine l’ardire di
farle una simile proposta.
E l’antico orgoglio le si rinfiammava in petto
e l’anima non ignobile ma fuorviata dal pregiu-
dizio fremeva entro la forma delicata e fina come
se l’onesto amore di Moras fosse un insulto.
sfc ^ ^
Quella sera la moglie dell’ impiegato forestale
posando, con la solita premura, un vaso di fresche
rose, sul desco modesto, non potè a meno di os-
servare :
—■ Sono le ultime, la stagione passa.
Elfrida, ancor più pallida de] consueto, volse uno
sguardo distratto ai fiori e domandò con indiffe-
renza :
Chi ti manda queste rose, Dora? sei sempre
ben fornita. È l’agente dei Moras ?
— No, signorina, è il signor Enrico, che me le
fa avere, di quando in quando, non per me sa,
per lei.... Mi pregò di non nominarlo per non
recarle pena.... è tanto buono e gentile....
— Sì Dora, è molto buono, ma, come dicesti,
sono le ultime: egli non ne manderá più.
Dopo aver bevuta la scodella di latte appena
munto che formava la solita sua cena, Elfrida si
ritirò nella sua cameretta, si coricò nel suo candido<noinclude></noinclude>
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lettuccio, ma non potè dormire. L’incontro con
Moras sembrava aver destato nella sua mente as-
sopita la facoltá di riflettere, il bisogno cK agire. Il
desiderio d’abbandonare quei luoghi che da qualche
tempo s’era confusamente affacciato al suo incerto
pensiero si faceva imperioso come una sùbita ne-
cessitá. Il suo piccolo peculio, tra qualche settimana
sarebbe esaurito, ella dovrebbe dunque provvedere
seriamente ad una onorata indipendenza.
Ma come ?... cercare un posto d’istitutrice ?
conosceva le lingue, era colta, l’insegnamento non
le faceva paura, ma quanta contrarietá sentiva in-
vece, per quella vita di sacrifizio, tra fanciulli vi-
ziati e genitori, parziali !•..... farsi monaca ?... la
cieca ubbidienza ripugnava al suo spirito indomito,
la reclusione del chiostro al suo amore per la na-
tura ... ; dama di compagnia ?... nemmeno, nem-
meno !...
Eppure in qualche maniera il pane bisognava
trovarlo, e una Vallarsa, non poteva mettersi alle
poste o ai telegrafi !...
Sull’umile tavolino d’abete, accanto al letto, in
un bicchiere, sbocciava una bella rosa rossa, esa-
lando un delicato olezzo. Elfrida contemplò a lungo
quel fiore cresciuto nel suo roseto, una vaga spe-
ranza le balenò alla mente, le parve che tutt’ a
un tratto s’acquetasse il tumulto della sua anima
e, vinta dall’emozione e dalla stanchezza, finì col-
l’assopirsi sul piccolo guanciale, mormorando una
fervida preghiera. Ella sognò di trovarsi in un<noinclude></noinclude>
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vasto altipiano tutto gremito di rose. Era un on-
deggiamento di colori, dal paglierino all’arancio, dal
rosaceo al carminio e al violetto ; sul dolce pendio*
d’una collina fioriva come una nevicata, una macchia
di rose bianche, dalla bianchezza fredda, quasi az-
zurina del ghiaccio alla bianchezza molle e calda
della perla; un profumo acuto, inebbriante si dif-
fondeva nell’aria ; tutto intorno era silenzio e il
largo orizzonte verde si perdeva nella linea cerulea
del cielo. Vestita anch’ella d’un colore di fiamma,
come certe specie mirabili, con una ghirlanda sui
capelli biondi a guisa di diadema, Elfrida s’aggi-
rava fra le rose, parlava dolcemente con le rose
che si chinavano per salutarla al suo passaggio
come una regina.
La luce dell’alba penetrava blanda dalle finestre
aperte, col balsamico odore della resina, quando la
fanciulla si destò, ristorata da un placido sonno,
e, sollevando dalle pallide tempia i lunghissimi ca-
pelli sciolti, si rimise a meditare. La poetica visione
del sogno non era ancora interamente svanita dal
suo pensiero, la rosa, entro il bicchiere s’apriva,
vivida, la, speranza vaga s’era tramutata in desi-
derio, una somma di energia latente le sorgeva
dal fondo dell’anima pronta a lottare eroicamente
contro il destino. Elfrida rammentava d’aver letto
in un periodico inglese che l’orticoltura può for-
nire alla donna un nobile, profìcuo e salubre mezzo
di guadagno; difatti, fra tutte le professioni me-
ditate una sola le sembrava meno ripugnante,<noinclude></noinclude>
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più conforme alle ’ proprie tendenze : il giardi-
naggio.
Ella fu come sempre, rapida nel risolvere, s’alzò
più tranquilla e si affrettò da sola, con ardore al
compimento del suo piano; scrisse varie lettere,
•ciò che non faceva da gran tempo, una delle quali
al giardiniere Roccaoliva di M ... antico protetto
di suo padre, che stava fondando una casa a Roma,
nei pressi di San Giovanni in Laterano.
Poi, dopo alcuni minuti d’intensa meditazione
disse fra se :
— Eccolo finalmente : Annie Revel !...
Annie era il suo secondo nome di battesimo,
•ereditato dalla nonna scozzese, Revel il predicato
di famiglia, Annie Revel il pseudonimo, sotto il
quale, Elfrida di Vallarsa. rifuggendo dall’avven-
turare la propria.personalitá nella nuova e sì di-
versa vita, scomparirebbe per riaffrontare, come
fforicultrice la sorte e le sue battaglie.
* é &
— Ibride o thee ?’ domandò la fanciulla al gio-
vine signore che desiderava fare acquisto di rose.
— Thee, signorina.
— Vuole che gliele faccia portare qui?
— Grazie, preferirei vedere i giardini. i.
— Merighi, vorrebbe venire con noi? — ella
disse dolcemente a un vecchio giardiniere che
stava innaffiando alcuni vasi — Passi, signore.<noinclude></noinclude>
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Ma, all’uscire dal loggiato che circondava, a
terreno, due ale del grande stabilimento orticolo, il
giovine, istintivamente, si fece da parte, perchè
ella lo precedesse.
Era una ragazza di statura piuttosto alta. che
media, pallida, bionda, d’apparenza fredda,e fina.
Vestiva semplicemente, con colletto e polsini da
uomo, portava i capelli raccolti sulla nuca in
un grosso nodo trafitto da uno spillone di tarta-
ruga, nascondeva le mani piccole sotto lunghi
guanti usati di pelle di daino.
— La signorina è forse la figlia del proprie-
tario Roccaoliva ? — domandò il giovine osservan-
dola, con una certa curiositá, mentr’ella s’inoltrava
con un portamento leggiadro insieme e altero, tra
le fiorite aiuole.
— No, signore.
Quel giardino perduto nella campagna, sem-
brava un’oasi di fiori. Biancheggiavano i gigli ac-
canto alle pompose peonie, i rossi papaveri mac-
chiati di nero, rifulgevano di luce sótto i candidi
cespugli delle spiree, le strane iris giapponesi for-
mavano delle macchie gialle e lilacee sugli orli delle
fontane; ovunque si volgesse per i tortuosi sentieri
cosparsi di rena bianca il giovane non scorgeva che
fiori, sempre fiori. E tutt’a un tratto una vista abba-
gliante e più delle altre meravigliosa gli si affacciò
allo sguardo: il campo delle rose tutto vivido di
colori.
Il roseto era tagliato da un largo viale e occu-
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>
pava un vasto terreno diviso a riparti secondo le
famiglie e le gradazioni delle tinte. V’erano tutte
le rose, dalle specie primitive alle ultime creazioni
tedesche, francesi, americane, dalle bianche di Da-
masco, dalle odorose centifoglie, dalle dorate cap-
puccine alle splendide ibride, alle graziose poliante,
alle fragrantissime thee di Dickson, di Pernet-Du-
cher, di Soupert e Notting.
Il viale era fiancheggiato da due file d’alberelli
coronati da un ciuffo di fiori e legati fra loro da
eleganti festoni di Setina e dentro, nel campo, le
rose a mazzi, a cespugli, a cascatelle sembravano
abbandonarsi ad una pazza gioia primaverile, dif-
fondendo i loro svariati profumi nell’aria molle di
maggio, offrendo al sole la purezza delle loro co-
rolle candide o giallognole, l’ardore delle loro tinte
ranciate, vermiglie o sanguigne, tutta la gloria
della loro poetica bellezza.
— Ecco le rose thee, seicento specie.. — disse
la fanciulla, entrando in una sezione a parte e co-
minciando a recidere ella stessa i fiori più belli.
Prima di disporli nel canestro dal lungo manico
che il giardiniere aveva preso seco, ella si volgeva,
di quando in quando, verso il giovine signore, li
porgeva con qualche commento alla sua ammira-
zione.
— The Puritani.... sente questo strano odore
di magnolia ?. l’antica e sempre pregiata Ni-
phetos dal lungo bottone di neve.... la Duchesse
d’Auerstadt, una delle più simpatiche rose mono-<noinclude></noinclude>
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crome .... Stefania e Rodolfo, triste ricordo d’in-
fausti sponsali... prendiamo anche Grace Darling,
l’eroica fanciulla che salvò dei naufraghi in una
notte di tempesta....
Benché le sue parole tradissero una viva pas-
sione per quei fiori, ella parlava con voce sommessa
e con una calma profonda, solo qualche volta un
amabile sorriso le irradiava il volto, dando un fa-
scino strano ai suoi grandi occhi fra il glauco e
l’azzurro spiranti un dolce mistero.
— Le rose hanno dunque una storia ? — disse il
giovine, sorridendo anch’egli e guardando con cre-
scente curiositá la sua interlocutrice.
— Oh sì, molte hanno una storia e tutte una
grande poesia. Una rosa nuova potrebbe fare la
fortuna d’una piccola famiglia, come questo Francis
Bennett che fruttò venticinque mila lire al suo in-
ventore. Ecco un’altra bella e invidiabile creazione :
la Gioire lyonnaise1 la prima ibrida gialla, rifiorente. ..
com’è dritta e forte ! qual verde rigoglioso hanno
le sue foglie! Guillot può andarne superbo! — e
cogliendo un bel bocciuolo semiaperto l’offerse al
giovine, che fissò, un secondo, la donatrice.
I loro sguardi s’incontrarono fuggevolmente.
Sul volto di lei il pallore s’ era fatto ancor più
intenso.
Quando il canestro fu ricolmo, ella disse :
— Se le basta così, legheremo le rose in un
fascio artistico con qualche nastro giallo, aggiun-
gendo un po’ di capelvenere, la felce gentile che<noinclude></noinclude>
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cresce sulle rovine di Roma. Tutto sará pronto per
questa sera. Ir indirizzo ?
— Alessandro marchese di Beira, villino Ga-
briella fuori Porta Pia. .. A chi posso sodisfare
l’importo?
— Alla cassa, signore, all’entrata dello stabili-
mento, a destra. Merighi le indicherá.
E, impiegati pochi secondi nel breve calcolo, la
fanciulla trasse un libriccino da tasca, ne strappò
un foglietto, vi scrisse il conto colla matita, glielo
porse.
— Grazie, signorina, buona sera — disse il gio-
vine, non senz’averle rivolto un ultimo lungo
sguardo.
— Buona sera, signore.
Nel tornare verso l’uscita, il marchese diede
un’occhiata a quel foglietto. Vi era stampato in
corsivo il nome: Annie Revel, cultrice di rose.
Alla cassa egli, si trattenne alcuni minuti col
ragioniere e trovò il destro di domandargli chi
fosse quella ragazza.
— La signorina Revel? una distinta fìoricul-
trice che ha creato delle specie nuove, premiate,
bellissime.
— È forestiera?
— Non sappiamo donde venga. E amica dei pa-
droni che la stimano assai. .
— Da quanto tempo si trova qui?
— Da cinque anni. I primi mesi non ebbe al-
cuna rimunerazione, ora, il signor Roccaolivá le<noinclude></noinclude>
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ha assegnato un personale di tremila e cinque-
cento lire. Questo stabilimento non fu una facile
impresa e se fiorisce lo si deve in parte a lei, alla
sua bravura e alla sua energia. È lei che dirige gli
innesti, che sorveglia sull’identitá delle specie, sul-
l’esattezza dei nomi, è lei che compila i cataloghi
e che dipinge le róse nuove all’acquerello.... Gi
deve essere un mistero nella sua vita, una qualche
avventura forse..:. — soggiunse il loquace ragio-
niere con un enigmatico sorriso, felice, dopo tanti
elogi, di poter proiettare un’ombra su quella sin-
golare creatura, la cui nobile alterezza aveva deluso
certe sue ardite e ricorrenti speranze.
{{asterism}}
La signorina di Vallarsa occupava nella casa
Eoccaoliva due modeste camerette arredate con
elegante semplicitá. Il salottino, ch’ ella andava
abbellendo coi suoi risparmi, era sempre adorno
di freschi fiori raccolti in piccoli vasi di forma
squisita. Dal giardino sottoposto salivano i rami
sarmentosi d’uno splendido Crimson Rambler a in-
ghirlandare la ringhiera del balcone ; in maggio il
bel rosaio si copriva di fìtte ciocche, ravvivando
il verde gentile d’uno sprazzo di carminio.
Elfrida non era felice ma era tranquilla. Na-
tura forte, energica ed onesta ella s’era proposto
d’esercitare in piena coscienza la professione scelta,
dimenticando sè stessa e soffocando tutti quegli<noinclude></noinclude>
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istinti ribelli che insorgevano spesso dal fondo
della sua anima contro l’avversitá del destino.
Per farsi amare dai superiori e dai dipendenti el-
l’aveva studiato la sommessione e la dolcezza; per
appagare le signore alle quali doveva fornire non
di rado spiegazioni e schiarimenti s’era abituata a
vincere la sua tempra indocile e ad imporsi la
più cortese sollecitudine. Ma non sempre tutti
le usavano i dovuti riguardi e non v’era per lei
più aspra ferita che il disdegno di Certe clienti
ricche e sgarbate.
Molte carrozze padronali, in quei cinque anni,
ell’aveva veduto fermarsi dinanzi ai cancelli dello
stabilimento, molte forestiere, molte dame dell’a-
ristocrazia romana elPaveva introdotte nei giar-
dini, nelle serre e regalate di fiori. Un giorno v’era
stata perfino la Regina Margherita e la casa s’era^
messa in festa per accoglierla degnamente.
Tutti quei nomi illustri le erano noti, qualcuno
stava scritto sull’albero genealogico dei Yallarsa.
Ma ella aveva vissuto troppo lontana dal mondo
per conoscere nessuno di persona e nessuno la co-
nosceva.
Concentrata ancora nel rimpianto della madre
perduta e nell’amarezza della propria sorte, ella
non pensava che all’adempimento del dovere e al
desiderio di corrispondere con un intelligente la-
voro, e con tutte le sue forze, al sicuro e bene-
volo appoggio che le aveva dato la famiglia Roc->
caoliva. Per tutte le altre cose della vita si sen-<noinclude></noinclude>
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tiva fredda, indifferente ; le pareva ohe ogni per-
sonale aspirazione fosse morta nel suo cuore.
Quando qualche uomo spensierato o volgare le
rivolgeva, non solo un complimento un poco au
dace, ma anche una parola più espressiva o più
gentile del necessario ella si turbava, ella impal-
lidiva nella sofferenza acuta del rinnovato orgoglio.
E in tutto quel tempo, nessun uomo le aveva
mai lasciato nell’animo la più lieve impressione
Quando, trascorsa la faticosa giornata, Elfrida
tornava nelle sue stanzette adorne di libri e di pre-
ziosi ricordi, il suo studio era quello di dimenticare
Annie Revel 6 tutta la vita presente, e di non
pensare ai paurosi fantasmi del deserto e solitario
avvenire. Solo il passato, per sempre perduto, la
dominava coll’impero delle sue memorie.
Quella sera ella stette a lungo seduta sul bal-
concino del suo salotto, come spesso soleva, ma le
sembrò che la sua abituale mestizia si fosse mu-
tata, all’improvviso, in un turbamento non privo
di dolcezza. L’immagine del marchese di Beira si
affacciava con una certa insistenza alla sua mente
e ella non cercava di scacciarla. Era bello e gentile ;
nei modi, nella favella, nel vestire, in tutto il gio-
vane le pareva rivelare una squisita raffinatezza. I
suoi occhi grigi, dallo sguardo or vago or pene-
trante, esercitavano sopra di lei un’attrazione inde-
finibile, la sua voce quieta, armoniosa le risuonava
ancora, come una musica, all’orecchió.
La notte di primavera era calda, placida, stellata.<noinclude></noinclude>
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Da lontano veniva un odore salubre, aromatico
d’encalyptus. Sembrò ad Elfrida che la natura le
parlasse, in quell’ora, con un linguaggio nuovo e
ella si raccolse nel diletto di quella ricordanza con
un senso d’ignota, arcana e quasi paurosa gioia.
La mattina, per tempo, ella rivolse i primi passi
verso il riparto delle rose nuove, un piccolo re-
cinto chiuso da una siepe di sLceetbriar, il fiore
dei poeti inglesi.
V’erano poche piante verdeggianti, robuste,
ignote ancora al mondo della fìoricultura.
Quasi tutte fiorivano, sfoggiando la preziosa
novitá dei colori e delle forme. La fanciulla si
chinò con amoroso trasporto sovra le leggiadre
creazioni che la sua fantasia, assistita da uno
studio indefesso aveva ottenuto, mediante i deli-
cati connubii del polline, ne fiutò la fragranza, pose
le labbra su certi bocciuoli come per un furtivo
bacio d’affetto; poi, fermatasi a lungo dinanzi una
Bourbon d’un fulgido colore scarlatto quale mai
non s’era visto, si chinò in ginocchio per prendere
in mano la piccola targa gialla ch’era fissata sul
gambo, e vi scrisse chiaramente colla matita un
nome: «Marchese Alessandro di Beira».
Era battezzata ora la rosa, la rosa che doveva
andarsene trionfante per il mondo, in tutte le
migliori case orticole, nelle primarie esposizioni,
riprodotta dai giornali, ammirata nei salotti ari-
stocratici, ricercata dagli amatori, la rosa che por-
tava seco in segreto il tenero ricordo d’una sim-
patia innocente e gentile.<noinclude></noinclude>
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^
Dopo quel primo fuggevole incontro, il giovine
signore non aveva mancato di tornare al giardino
Roccaoliva. Egli passava anclie spesso in carrozza,
o a cavallo, si tratteneva un momento per pren-
dere un fiore o delle sementi, per ordinare un
mazzo, un canestro, una ghirlanda, cercava ogni
pretesto per rivedere Anniè Revel.
Sul finire di maggio, una sera, Alessandro di
Beira si trovò solo, per caso, con la fanciulla sotto
il loggiato dello stabilimento. Una fragranza acuta
di gigli, di gelsomini si diffondeva nell’aria giá
molle d’un tepore estivo.
Dopo ch’ebbero parlato alcun tempo d’un roseto
che il giovine aveva intenzione di piantare nella
sua villa, vi fu un lungo silenzio, poi egli la chiamò
dolcemente per nome.
Elfrida arrossì e volse lo sguardo altrove. La
sua commozione era turbata da quell’insolita fa-
miliaritá.
— Annie! — egli ripetè — vi rincresce che vi
chiami col vostro nome così soave nel suo esotico
suono?....
— L’ho ereditato dalla mia nonna -— disse El-
frida, involontariamente.
— Era dunque inglese, la vostra nonna?
— Era nata in Scozia.
— Voi dovete avere una storia, come le rose...
quando mi narrerete la vostra storia, Annie?<noinclude></noinclude>
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— Non so, non so, marchese — ella rispose,
impallidendo.
— Dev’essere malinconica la vostra storia, per-
chè siete sempre triste ancorché viviate in mezzo
ai fiori...
—• I fiori mi rammentano ogni giorno le mi-
serie umane... — disse Elfrida deviando il discorso
— Noi facciamo molti mazzi nuziali, ma il numero
delle ghirlande funebri è assai maggiore. Quante
povere rose vanno a morire nei silenzii dei se-
polcri...
— Pensate, Annie, che qualche volta appassi-
scono anche sul seno d’una donna amata, eh© sen-
tono il palpito del suo cuore, il fremito delle sue
labbra... Quanta, quanta parte hanno i fiori nel-
l’intimitá e nei misteri dell’amore... non vi pen-
sate mai?
— Anche l’amore è tristezza — ella rispose
con una voce lieve come un sospiro.
— Perchè?... perchè dev’essere tristezza una
legge che governa l’universo?...
— Non so... così mi pare... — ella mormorò.
Commossa e agitata ad un tempo, la fanciulla
avrebbe voluto troncare il colloquio e ritirarsi, ma
la sua posizione dipendente non glielo permetteva,
ella non poteva imporre a un cliente della casa
di partire. E il giovane rimaneva fìsso sulla sua
seggiola di giunchi, anzi le aveva chiesto il per-
messo di fumare e aveva tirato fuori l’astuccio
-delle sigarette.<noinclude></noinclude>
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E a poco a poco con voce carezzevole, insi-
nuante, poi tenerissima, egli le venne dicendo tante
dolci cose, egli le narrò della prima impressione
avuta da lei, del suo bisogno irresistibile di rive-
derla, della felicitá che provava nell’esserle vicino,
finì col simulare i turbamenti repressi della pas-
sione che non osa manifestarsi in tutto il suo ardore.
Elfrida ch’era rimasta impassibile per le umili
parole d’Enrico Moras, Elfrida che non aveva mai
guardato con speciale interesse alcun uomo, ser-
bandosi ferma nella sua amara alterezza, sentì
crollare tutt’a un tratto, dinanzi a quella seducente
parvenza, il fragile edifizio della sua individualitá
superba, sentì l’anima, soggiogata da un arcano
potere, piegarsi deliziosamente sotto il nuovo do-
minio.
Era sempre stato il suo segreto, il suo inconsa-
pevole sogno quello d’immolare lo spirito esacerbato
e ribelle a uno solo, all’unico, e quell’unico stava
lì dinanzi a lei, bello, tenero, seducente come nel
sogno.
Le sofferenze d’una giovinezza dolorosa non
erano riescite a soffocare in Elfrida l’imperioso
istinto della felicitá: sotto il suo apparente scetti-
cismo d’ogni terrena fede, si celava, come spesso
avviene alle creature superiori, un ardentissimo
bisogno di credere e d’amare.
Se il marchese di Beira si permetteva di chia-
marla col suo nome e di darle del voi, mentre ella
anche nelle forme esterne si manteneva sempre<noinclude></noinclude>
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ligia alla più scrupolosa riserbatezza, il lieve di-
sgusto di quella indelicata confidenza era confor-
tato da certe testimonianze di rispetto che le sem-
bravano sincere. Ella credette ad Alessandro di
Beirá, 01?accolse con trasporto, nel suo cuore av-
vezzo a patire, la dolce novitá della speranza, ella
Tamò perdutamente, come forse una volta sola
s’ama, nella vita.
p %
Se non perverso, molto corrotto, Alessandro a
ventott’anni aveva giá sfruttato la sua gioconda
giovinezza nel piacere. Sentimentale, audace, ap-
passionato, secondo i casi, egli era esperto nell’arte
di farsi amare e come quella graziosa avventura,
quale variazione del solito tema non gli dispiaceva,
constatò con una certa compiacenza che la fan-
ciulla era lungi dal rimanere insensibile alla malia
del sicuro suo metodo. L’innata distinzione d’El-
frida non poteva sfuggirgli, ma il posto ch’ella oc-
cupava lo aveva reso diffidente, il mistero geloso
del suo passato gli destava nell’animo dei dubbi,
dei sospetti quasi ingiuriosi. Egli interpretava il
suo severo contegno come una posa di persona ro-
mantica, la sua finezza come un sottile artifizio di
civetteria che vuol comandare il rispetto per in-
durre nel tranello del matrimonio, ma subiva,
senza volerlo, il fascino di quella dolce superioritá;
dinanzi all’insolito riserbo sentiva quell’eccitamento
che infiamma gli uomini colla sferza della contra-
;ì<noinclude></noinclude>
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dizione. Il suo capriccio per qualche tempo si tra-
sformò in amore.
Una vita nuova cominciava ’ per Elfrida, una
vita dillusione e di follia.
La signora Roccaoliva ch’era una donna sem-
plice e retta e alla quale, per un sentimento di
delicatezza, la fanciulla aveva confidato con grave
sforzo il proprio segreto, aggrottò le ciglia, scosse
il capo ma non ebbe il coraggio di esprimere una
chiara opinione e si limitò a dare un consiglio.
Secondo lei era necessario che la contessina di
Yallarsa rivelasse, subito il suo nome al marchese
di Beira, si giudicherebbe poi, dalle impressioni
di quel signore.
Ma Elfrida indugiava istintivamente dinanzi
alla delicata confidenza, la rimetteva da un giorno
all’altro. Mai le era balenato alla mente il timore
che Alessandro potesse avere dei sospetti sul suo
passato. Ell’amava la dolcezza indeterminata di
quello spirituale suo sogno, ell’avrebbe bramato
che non finisse mai.... Paga delle più pure gioie
dell’affetto, d’una stretta di mano, d’un saluto
scambiato da lontano, ella sfuggiva i lunghi col-
loqui, le visite frequenti, l’intimitá pericolosa, sa-
peva imporre al giovane un contegno corretto e
difendere in faccia agli impiegati dello stabilimento
quella dignitá che forse l’invidia sarebbe stata ten-
tata più volte d’intaccare.
Quando il marchese dovette allontanarsi da
Roma per accompagnare sua madre a Montecatini<noinclude></noinclude>
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e per andare in vi]la presso Perugia, con tutta la
famiglia, ell’acconsentì a ricevere le sue lettere,
non così a rispondere. Trascinato dall’insodisfatta
passione, Alessandro, in quel tempo, non seppe
trattenersi dal fare qualche corsa alla capitale per
rivedere la fanciulla, poi cercò d’affrettare il suo
stabile ritorno. Ma il persistente riserbo d’Elfrida
cominciava ad irritarlo, e 1’amore, deluso nelle
sue aspettazioni, ricorreva di quando in quando,
ma sempre indarno, al pericoloso rimprovero di
freddezza, dinanzi al quale la donna facilmente
s’intenerisce e s’arrende.
Elfrida usciva pochissimo: la libertá che l’era
concessa dalla sua posizione l’offendeva quasi nei
suoi istinti di fanciulla patrizia, gelosamente custo-
dita. Soltanto una o due volte al mese ella conce-
deva un eletto conforto al suo spirito e fornita d’una
buona guida, errava fra le rovine, nelle chiese, nei
musei. Sebbene si fosse sempre guardata dal co-
municare ad Alessandro di Beira i suoi piani, ella
lo incontrò un giorno di marzo, nella Villa Bor-
ghese. I due giovani visitarono insieme la mirabile
galleria, poi scesero a passeggiare nei larghi viali,
sotto gli elei secolari, nei prati seminati di viole.
Quell’inatteso ritrovo, quel prolungato colloquio in
cui le anime s’erano effuse nella contemplazione
delle cose belle, avevano dato a Elfrida una gioia
violenta, poi un’ineffabile dolcezza, ma quando
Alessandro aveva espresso il desiderio d’accompa-
gnarla a casa, la fanciulla s’era recisamente op-<noinclude></noinclude>
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posta. Il marchese allettato da quel primo passo
e stanco d’una severitá che gli sembrava ormai
un troppo lungo giuoco, tentò indurla a concedergli
qualche appuntamento nelle altre ville o sul Pa-
latino e trovandola sempre ferma nel rifiuto, tornò
ai lamenti, anzi l’afflisse coi più acerbi rimproveri*
Allora, nella sua grande e tenera cecitá, la fan-
ciulla risolse di compensarlo con lo spirituale ab-
bandono di sè stessa, nella rivelazione del proprio
segreto, e invocando soltanto un momento propizio
per l’affettuosa confidenza dinanzi alla quale il suo
orgoglio aveva sempre esitato si propose di dirgli :
— Ella ha creduto d’amare una modesta fioricul-
trice, ma io non sono Annie Revel, io sono Eh
frida di Vallarsa e il mio casato è degno del casato
di Beira...
Alessandro, in vero, non s’era mai mostrato
molto curioso di conoscere la sua vita passata, ma
ella attribuiva quell’apparente indifferenza a un
delicato riguardo e nella sua assoluta persuasione
d’appartenere ad una casta superiore, godeva, per
la dolce meraviglia che proverebbe il giovine rav-
visando in lei una gentildonna sua pari.
% # #
Nel pomeriggio del giovedì santo Elfrida era
andata a San Giovanni in Laterano per ascoltarvi
la musica.
Il fiore dell’alta societá romana e della colonia<noinclude></noinclude>
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straniera sembrava essersi dato convegno nella Ba-
silica che un soffio di corruzione invadeva m quel-
l’ora più delle altre sacra.
L’eleganza frivola delle signore, sebbene unifor-
mata alla gravitá del giorno, rendeva ancor più
severa la magnificenza del tempio e durante certi
a soli lirici, il lieve, quasi impercettìbile bisbiglio,
più che un mormorio di folla orante, pareva un
fremito misterioso di tenerezza e di contenuta
passione.
Ma di tratto in tratto un’onda celeste di poli-
fonia scendeva sulle navate e su quella folla, im-
ponendole dei silenzii involontari, una passeggiera
ma quasi angosciosa emozione di misticismo.
Inginocchiata presso la Confessione, Elfrida
ascoltava, deliziandosi, tutta assorta in un pio
raccoglimento, in una muta preghiera nella quale
la memoria, sempre presente, dell’uomo amato aveva
tanta parte. Poco prima che l’uffizio fosse termi-
nato, mentre cantavano il Misererá sollevando lo
-sguardo, le parve discernere da lontano, nella pe-
nombra, un diletto profilo, la linea aristocratica e
fina, i piccoli baffi castani, i capelli córti è ritti
sulla fronte spaziosa: era lui, il marchese di Beira.
Ma egli non ascoltava la musica e nemmeno se-
guiva il rito sacro, egli discorreva con una gra-
ziosa signora, una delle spose più belle e più cor-
teggiate di Roma. Elfrida la conosceva benissimo^
ma sebbene il colloquio si prolungasse, nel suo
.cuore generoso non sorse nemmeno l’ombra d’un<noinclude></noinclude>
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sospetto. Piuttosto il timóre che il giovane po-
tesse scorgerla e avvicinarsele in quell’ora inop-
portuna la spinse ad uscire in fretta dalla chiesa.
Ma non era ancora discesa dai gradini quando
Alessandro la raggiunse.
— Annie, Annie, v’ho veduta appena adesso,
perchè fuggite ?...
— M’aspettano allo stabilimento. Ho detto a
Merighi di venirmi incontro.
— V’accompagnerò io colla mia carrozza.
— Grazie, fa troppo tardi... e poi preferisco an-
dare a piedi.
— Dio buono! quante reticenze... non sarebbe
bene di finirla una volta con tutti questi scrupoli ?
Il linguaggio era affatto nuovo. La fanciulla
rivolse al giovine uno sguardo di dolorosa mera-
viglia.
— Andiamo, Annie! sii buona! — egli mor-
morò, prendendole una mano e coprendola di baci.
Ella ritrasse la mano vivacemente, sempre più
sgomenta di quella familiaritá improvvisa.
— E tu dici d’amarmi, d’amarmi tanto ! — la-
mentò Alessandro con una certa tenerezza.
— Non sono queste le prove dell’amore — ri-
spose la fanciulla, molto turbata — buonasera, mar-
chese, io devo andare.
—r Pochi passi ancora, Annie ! lascia che venga
con te un solo minuto ancora ! — egli implorò con
un accento pieno di passione.
Elfrida, sicura di trovare il giardiniere, accon-
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sentì per non disgustarlo e insieme uscirono dalla
porta San Giovanni, volgendo verso la campagna,
Nel cielo sereno e color di viola una grande
luna gialla si levava; la via d’Albano era de-
serta.
Un senso strano d’apprensione aveva assalito1
l’animo della fanciulla. Egli le andava mormorando
cocenti parole, ella rispondeva piano, a monosil-
labi, agitata nel suo invincibile amore da una tor-
mentosa angoscia.
— Come sei bella, Annie — egli le disse, fer-
mandosi tutt’a un tratto a contemplare la leggiadra
figura vestita di nero, che si disegnava elegante-
mente nel chiarore lunare — in veritá non so per-
chè tu voglia tornare alla casa Roccaoliva, non so
perchè... —egli soggiunse piano.
La voce d’Alessandro era un po’ sorda e nel
suo volto, di solito così calmo, appariva una certa
alterazione.
— Dove dovrei andare, dunque? — domandò
ingenuamente Elfrida, con un pallido sorriso, non
potendo comprendere.
— Dove ? con me... la carrozza aspetta, lá...
neJla piazza, quando la folla si sará dileguata...
—Con lei ? !... — «Ila esclamò, presa da uno
stupore profondo.
— Sì, Annie... laggiù lontano, in una via re-
mota di Roma che tu non conosci... in una casetta
circondata da un giardino, a vivere per me... tutta
per me...<noinclude></noinclude>
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Le ultime parole si spensero in un soffio pieno
di seducente dolcezza. Elfrida sentì un braccio sfio-
rarle la persona e stringerla con una certa violenza.
Afferrando finalmente il vero, ella indietreggiò
con impeto, ella sbarrò gli occhi con orrore ; il
giovine udì il grido di ribrezzo che l’era sfug-
gito dal petto anelante; al lume della luna la vide
farsi bianca in volto e vacillare come se cadesse.
Ma fu una debolezza fuggevole. Elfrida si drizzò
fieramente e le sue labbra non potendo articolare
il comando, gli ordinò di retrocedere con un atto
imperioso della mano.
Alessandro di Beira aveva tentato di sorridere,
ma il sorriso gli morì sulle labbra dinanzi a quel-
l’altera figura in cui tutto il sangue dei Vallarsa
all’improvviso ribolliva.
Inconsciamente egli s’arretrò balbettando vaghe
parole di scusa.
Merighi veniva da lontano a passi affrettati.
Elfrida raccolse le sue forze e mosse ansiosa verso
di lui.
Per buona sorte lo stabilimento non era lon-
tano. Ella camminava come un’allucinata, con un
pallore di morte in volto, con dei lampi di follia
nello sguardo.
Arrivò ansante, si chiuse nella sua cameretta
e la signora Roccaoliva, guidata da un triste pre-
sentimento, accorse per assisterla e la trovò in
preda ad una violentissima febbre.<noinclude></noinclude>
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Quando s’alzò dal letto dopo tre settimane di
grave malattia e discese nei giardini per ripren-
dere le solite occupazioni, parve ad Elfrida che la
faccia della natura si fosse per sempre oscurata
al suo sguardo.
Fra tanti dolori eli’aveva provato il più grande,
il più terribile, quel dolore che viene direttamente
dalla creatura umana e che per sè stesso non può
contrapporre all’infinita amarezza dell’umana mi-
seria alcuna superiore ed efficace fonte di con-
forto.
Ell’era uscita dalla chiesa colla preghiera sulle
labbra, con una mistica tenerezza nel cuore e pochi
minuti dopo, un uomo volgare le aveva rivolto in-
dimenticabili parole, le aveva fatto una mortale
ingiuria, trattandola, lei Elfrida di Vallarsa, come
una fanciulla disonesta !
E quell’uomo era l’amato, l’unico, l’idolo collo-
cato ciecamente sull’altare !
Indarno ella cercava in fondo alla sua anima la
consueta energia, indarno ella si sforzava di rea-
gire e di superarsi, l’antico orgoglio era sopraffatto
da invincibili turbamenti.
Ella s’inoltrò nei giardini con un senso di ri-
pugnanza viva. La primavera cominciava a sorrh
dere, il verde gaio e fino d’aprile dava alla cam-
pagna un aspetto d’ingenua allegrezza, i castelli
romani biancheggiavano in lontananza sullo sfondo
vaporoso dei colli cerulei.
Ella entrò nelle serre ove centinaia di rosai<noinclude></noinclude>
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si deliziavano al. sole. Fra le specie nuove, colti-
vate in vaso, una bella Bourbon ergeva sui rami
robusti una ricchezza di bottoni presso a sbocciare.
Sulla targhetta di legno, dipinta di giallo, stava
scritto «Marchese Alessandro diBeira».
Ah ! non le era più concesso di distruggere quella
rosa che due giornali avevano giá illustrata, che
aveva varcato monti e mari ottenendo un premio
in una esposizione inglese e un posto d’onore nei
registri delle societá orticole.
Era destinata, povera rosa, a portar seco, pe-
rennemente, nel mondo sereno dei fiori il ricordo
d’un triste amore.
Elfrida la contemplò alcun tempo con un di-
sgusto amaro, poi, come se volesse ripudiare il
gentile frutto dei suoi studi e delle sue dotte espe-
rienze, ne recise ad uno ad uno i bottoni vermigli, li
sfogliò con impeto, sparse i petali al vento, come
piccole goccie di sangue.
% Sfc %
Alcuni mesi erano trascorsi e su quella fronte
giovanile rimaneva un’ombra grave.
Il breve miraggio della felicitá aveva conso-
lato la malinconica giovinezza d’Elfrida, ma sul
sogno era passata impetuosa la bufera, e ella
non vedeva più dinanzi a sè che un vuoto
senza fine.
L’improvvisa scomparsa del marchese, le let-<noinclude></noinclude>
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tere restituite intatte al postino, la malinconia
costante della fanciulla avevano messo la signora
Eoccaoliva sulle tracce del triste segreto, ma sen-
tendo, nel suo accorgimento di donna saggia e
retta, che qualunque tentativo di conforto sarebbe
rimasto inefficace, ella seppe rispettarlo e si studio
soltanto di circondare Elfrida delle più gentili e
pietose attenzioni e di sollevarla da tutte quelle
incombenze che potessero esacerbare lo stato del
suo animo.
La fanciulla cercava avidamente, ma indarno,
l’oblio nella concentrazione del lavoro, cercava la
solitudine per sottrarsi col suo amaro tormento
agli sguardi indiscreti e curiosi, ma non sempre
le riesciva d’evitare il penoso contatto con la gente,
anzi nell’autunno, essendosi ammalato il padrone
dello stabilimento, ella fu costretta per obbligo di
cortesia, a farne le veci durante parecchie set-
timane.
Una sera ella stava riscontrando una spedi-
zione di bulbi dell’Africa, quando le venne an-
nunziato un forestiero che desiderava fare acquisto
di rosai. Elfrida s’accostò alla porta della serra,
fece due passi, vide un signore da lontano e ben-
ché fosse alquanto mutato, lo riconobbe subito,
si fermò e attese, con coraggio. Era Enrico
Moras.
Egli veniva innanzi tranquillo, volgendosi a
destra e a sinistra, sostando anche per ammirare
certe macchie meravigliose di crisantemi in fiore<noinclude></noinclude>
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che adornavano il giardino. Quando fu giunto a
poca distanza levò ]o sguardo verso la fanciulla,
impallidì, non ebbe più la forza di procedere.
Elfrida impassibile, lo prevenne, muovendogli
incontro con un freddo sorriso.
— Ella desidera? — domandò quietamente.
— Io?... non so.... volevo vedere le rose.... —
balbettò il giovane.
—<■ Potrò mostrargliele io stessa, sono Annie
Revel e mi occupo particolarmente di questo
fiore.... — ella proseguì con accento sicuro, fer-
mandosi su quel nome, imponendogli il silenzio
con gli occhi.
Enrico Moras le rivolse uno sguardo smarrito,
ma chinò il capo senza rispondere e la seguì mac-
chinalmente nella serra ov’ella sedette, dopo
avergli additato una poltroncina di giunchi.
— Ecco il catalogo — proseguì la fanciulla,
porgendogli un libriccino, il cui semplice fronti-
spizio bianco era adorno da un ramo di rosé di ■
segnato da lei. Osservi la sezione delle Noisettes,
signore, ne abbiamo di bellissime.
Moras prese il catalogo con le mani tremanti
e si mise a sfogliarlo senza capir nulla, mentre
ella nominava volubilmente le specie, spiegandone
l’abito, le qualitá, il profumo, mal celando lo stato
del suo animo.
— Lassù, fra le Alpi ov’io dimoro.... le rose
riescono assai bene — balbettò alfine il
giovine.<noinclude></noinclude>
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— Vi sará la neve, lassù ? — ella domandò
quasi involontariamente, come trasognata.
— Non ancora, signorina.... sulle alte cime
soltanto....
Il volto estenuato della fanciulla si velò d’una
fiamma lieve, ma l’arcana dolcezza dell’improvviso
ricordo giá si tramutava in affanno e sentendosi
soffocare e non volendo mostrarlo, ella s’alzò e
, propose, con un filo di voce :
— Forse il signore potrá scegliere meglio ve-
dendo il roseto. .. v’è ancora qualche pianta
in fiore....
Ma il continuo e grave sforzo l’aveva esausta*
Enrico Moras, ch’era sempre rimasto in piedi, di-
nanzi a lei,- la vide impallidire e stendere le
braccia con ambascia.
Ella tentò indarno di resistere e ricadde
spossata sulla seggiola. Se l’anima forte reagiva
ancora, il corpo doveva piegarsi sotto la violenza
delle emozioni.
— Desidera che chiami qualcuno ?.... domandò
Moras.
— No, oh no ! .
— Vuole che m’allontani io ? — egli insistette
tristamente.
— No, abbia pazienza, passerá.... sono stata
ammalata e mi sento ancora molto debole.
Egli allora lo sedette accanto, con una timida
pietá e rimasero alcuni minuti così, in silenzio.
Non s’udiva che il mite gorgoglio d’una fon-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>— Non consente nemmeno che le dica questo?.,
non vuole nemmeno che nel fondo del mio cuore
la sua memoria viva con lo stesso ardore, con lo
stesso desiderio ?
— A me non resta che il morire — ella disse
come fra sè, senza rispondere.
Il giovane la guardò con angoscia, non osando
interrogarla, ben comprendendo che un nuovo e
acerbo dolore aveva dilaniato la sua solitaria vita.
Vi fu un lungo, un penoso silenzio, ma in
Moras la nobiltá istintiva dell’anima semplice e
retta prevalse, e fattosi ancor più grave egli
disse con la voce rotta dall’interno turbamento :
— Mi pare ch’ella abbia bisogno più che mai di
un appoggio morale, d’un’anima fidata che l’aiuti
a sopportare l’avversitá del destino.... Forse non
indarno, il caso, dopo tante vane ricerche, m’ha
ricondotto in questo momento sul suo cammino.
Sicuro di non umiliarmi, io oso rinnovarle oggi la
mia preghiera e la mia domanda. Il castello di
Vallarsa è deserto.... ella sola può rianimarlo.... Fra
tante meste memorie ella vi troverebbe dei dolci
e cari ricordi e una devota e discreta affezione,
che sa attendere, sperando....
Nell’effondere lá sua invincibile passione il
giovine aveva perduto la nativa timidezza : una
onesta virilitá* un leale coraggio gli rifulgeva
dallo sguardo.
— Ella è buono, infinitamente buono — disse
alfine Elfrida, stendendogli la manina sottile e<noinclude></noinclude>
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tremante ohe Moras osò appena sfiorare colla sua,
ma io non posso nè debbo accettare quest’offerta
generosa. Ella merita d’essere felice e io non porto
meco la felicitá.
— Io le dissi, una volta, signorina, che nel
tempo della tristezza ella si rammentasse di me,
e forse quel giorno è giunto.... Siamo giovani en-
trambi, siamo arbitri della nostra volontá, per noi
la vita può rinnovarsi ancora.
Moras parlava con calma, reprimendo eroica-
mente la sua agitazione.
— Non lo credo, Moras... la prego di desi-
stere.... parliamo d’altro.... — ella mormorò.
— Vuole Ch’io parta con questo strazio, con
quest’incertezza nell’anima ?
— M’ama proprio così ?.,.. — domando Elfrida,
con un senso di smarrimento.
-— Senza trovar pace. Ho cercato la distra-
zione, ho cercato anche l’oblio, lo confesso,.. • —
egli disse, con semplicitá — vi sono sentimenti
più forti del tempo e dell’orgoglio...
—Oh Dio! — esclamò la fanciulla nella sua
crudele franchezza — e io sono così fredda !... come
la neve lassù, sulle nostre montagne, così gelido
mi sembra il mio cuore...
Il giovane tacque un minuto, pallidissimo.
—. Mai, mai non potrò sperare d’essere amato
— egli chiese, con voce tremante — nemmeno
quando avessi vissuto tutto per lei, quando 1 a-
vessi adorata senza nulla domandarle?..<noinclude></noinclude>
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— Non lo so, in coscienza non lo so. È un
fatto che non deve accadere, Moras, ella non può
persistere...
— Io persisto egualmente, anche se dovessi
morirne! — disse il giovane senza la più lieve
esitazione.
Elfrida commossa, sollevò un istante gli occhi
e tutt a un tratto Moras non le parve più quello
d una volta. Raffinato. nella forma da un lungo
soggiorno all’estero e nell’anima dalle segrete sof-
ferenze della sua invincibile passione, egli aveva
assunto quella nobile schiettezza di modi ch’è quasi
sempre il riflesso d’un carattere integro e sicuro.
La sua figura s’era fatta più elegante e più snella
e non mancava d’una certa grazia giovanile, dal
volto aperto e intelligente traspariva l’energia d’una
tempra giá addestrata alle lotte della vita
Un impeto di gratitudine aveva sopraffatto il
cuore della fanciulla, senza attenuarne l’angoscia,
senza suscitarvi alcuna rispondenza. Combattuta da
impressioni affatto opposte, ella disse, fievolmente:
— Mi lasci pensare.. ritorni domani... no do-
mani! fra otto giorni!
— Farò come le piace — rispose Moras con
grave sforzo, e non potendo più reggere al tra-
vaglio dell’animo, nè dissimularlo, prese rapida-
mente commiato e s’affrettò a lasciarla.
Elfrida lo seguì con lo sguardo confuso, spi-
rante una tristezza infinita.
Forse ora ell’avrebbe desiderato di poter amare
Enrico Moras, ma il suo cuore era chiuso e muto.<noinclude></noinclude>
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In quella settimana dolorosa la fanciulla so-
stenne con se stessa la più aspra battaglia.
Il suo intelletto oppresso e stanco non era
quasi in grado d’afferrare la nuova idea: ella non
sentiva più che un malinconico desiderio di quiete
e di silenzio; il bisogno di costringere la sua vo-
lontá a quell’ultimo e grave conflitto le faceva
paura.
E se di quando in quando le appariva dinanzi
nna cara visione, un diletto paesaggio, un noto
orizzonte, se la speranza di poter contemplare an-
cora le forme maestose delle sue Alpi, riposando
all’ombra degli abeti secolari, le dava un senso di
pace, il pensiero di cedere all’insistente generositá
di Moras e d’accettare l’offerta una volta rifiutata,
suscitava nel profondo del suo essere un fremito
di ribellione e di ripugnanza mortale.
Eppure Elfrida sentiva che nella casa Roccao-
liva non avrebbe più potuto vivere se non a patto
d’una benevola, umiliante indulgenza: la sua sa-
lute era molto scossa e ogni giorno le venivano
scemando le forze per il lavoro. Il suo destino si
compiva dinanzi alla sua impotente alterezza, una
forza superiore la costringeva a stendere le braccia
verso quel porto dal quale una volta aveva distolto
con orrore lo sguardo.
La lotta fu acerba, ma nella disfatta, nell’ul-
tima transazione delL’orgoglio più abbattuto che<noinclude></noinclude>
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domato, ella si confortò, pensando che avrebbe
dato se stessa, la sua vita, la sua fede, l’anima
intera mai.
Il giorno fissato Elfrida attese Moras nella
serra maggiore dello stabilimento, in quella specie
di giardino d’inverno ove s’erano incontrati la
prima volta fra una profusione meravigliosa di
piante e di fiori.
Quando il giovine le comparve dinanzi all’ora
convenuta, ella rimase colpita dalla sofferenza che
gli traspariva dal volto. Moras non osava nemmeno
interrogarla, soltanto i suoi occhi onesti tradivano
1 ansiosa, intollerabile incertezza dell’animo.
La fanciulla gli stese una mano, dolcemente,
e dopo un minuto di titubanza gli disse:
— Nella mia vita v’è una pagina... triste che
nessuno ha letta mai. Io non ho nulla a rimpro-
verarmi, le do la mia parola di gentildonna, ella
ne è sicuro?
— Affatto sicuro — rispose il giovine con un
lieto sorriso.
— Grazie, E... non domanderá mai nulla, non
m’interrogherá sul mio passato? non esigerá al-
cuna confidenza?
— Lo prometto.
— Non ho altro da aggiungere — ella proseguì
con un certo turbamento r— ella persiste ancora
nella sua cortese domanda?
— Come non persisterei nel mio più ardente
desiderio ?<noinclude></noinclude>
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— Ebbene, Moras, se così le piace, accetto.
Ella proferì le fredde parole del consenso con
risolutezza, ma la voce era priva di suono e mentre»
una fiamma di gioia violenta ma contenuta saliva
sul volto trepidante del giovine, le sue scarne
gote si scolorarono in un pallore di morte. Non-
dimeno Elfrida, come un fiore delicato che il sol©
cocente piega sullo stelo, chinò la fronte puris-
sima, compiendo un atto gentile di sommessione
verso colui che doveva essere d’allora innanzi non
solo il suo appoggio e il suo migliore amico, ma
anche il suo signore.<noinclude></noinclude>
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La passione di Curzio Alvise
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Alex brollo
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La cura di Manuela
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Alex brollo
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Vinta
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|156|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Strumento fo del mio voler. Qui tacque
{{R|180}}Colui che immoto tutto move e volve<ref>180. '''tutto move e volve''': Anche Dante (''Par.'' {{Sc|i}}, 1) chiama Dio «Colui che tutto move».</ref>.
Qui sparve l’alta vision: poi nacque
Per entro al negro vortice un confuso
Romor d’ali e di piè che di molt’acque
Parea lo scroscio. Ma repente schiuso
{{R|185}}Fiammeggiò quel gran buio, e folgorando
Due cherubini si calaro in giuso;
Que’ due medesmi del divin comando
Esecutori, che nel pugno aviéno<ref>188. '''aviéno''': avevano (poet.).</ref>
L’un d’olivo la fronda e l’altro il brando.
{{R|190}}Ratti a paro scendean come baleno,
E due gran solchi di mirabil vista
{{Ec|Paralelli|Paralleli}} traean per lo sereno.
L’uno è pura di luce argentea lista;
L’altro è turbo di fumo che lampeggia,
{{R|195}}E sangue piove che le stelle attrista.
Di qua tutto sorriso il ciel biancheggia;
Di là son tuoni e nembi e in suon di pianto
L’aria geme da lungi e romoreggia.
Seguían coll’ali del vedere un tanto:
{{R|200}}Prodigio stupefatti i due lombardi<ref>200. '''i due lombardi''': il Mascheroni e il Parini.</ref>
Coll’altro spirto di che parla il canto<ref>201. '''Coll’altro spirto''' ecc.: col Borda.</ref>;
Quando si vide a passi gravi e tardi,
Dalla parte ove rota il suo vïaggio<ref>203. '''Dalla parte''' ecc.: dalla parte del polo.</ref>
La terra e obliqui al sole invía gli sguardi<ref>204. '''e obliqui''' ecc. inclinata ai poli di ventitré gradi e mezzo sull’eclittica, nella sua rotazione guarda appunto obliquamente il sole». Mg.</ref>,
{{R|205}}Pensierosa salir l’ombra d’un saggio<ref>205. '''l’ombra''' ecc.: l’Anima di Pietro Verri (1728-1797) milanese autore di celebratissime ''[[Meditazioni sull'economia politica|Meditazioni su l’Economia politica]]'' (v. 226), d’un ''[[Discorso sull'indole del piacere e del dolore|Discorso su l’indole del piacere e del dolore]] (v. 227) e d’altre opere.</ref>,
Che, il dito al mento e corrugata il ciglio<ref>206. '''il dito al mento''' ecc.: accus. di relaz. Cfr. la nota al v. 26, p. 4.</ref>,
Uom par che frema di veduto oltraggio.
Dalla fronte sublime e dal cipiglio
Nobilmente severo si procaccia<ref name="pag172">208. '''Dalla fronte''' ecc.: il suo sapere e la saggezza si mostrano dalla ecc. È frase tutta dantesca. ''Inf.'' {{Sc|xxii}}, 38: «Da bocca il freddo e dagli occhi ’l cor tristo Tra lor testimonianza si {{Pt|procac-|}}</ref>
{{R|210}}Testimonianza il senno ed il consiglio.
</poem><ref follow="pag171">devolve: commette, affida.</ref><section end="s1" />
<section begin="varianti" />180. ''move o volge'' (G. B.).<section end="varianti" /><noinclude></noinclude>
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OrbiliusMagister
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Strumento fo del mio voler. Qui tacque
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Qui sparve l’alta vision: poi nacque
Per entro al negro vortice un confuso
Romor d’ali e di piè che di molt’acque
Parea lo scroscio. Ma repente schiuso
{{R|185}}Fiammeggiò quel gran buio, e folgorando
Due cherubini si calaro in giuso;
Que’ due medesmi del divin comando
Esecutori, che nel pugno aviéno<ref>188. '''aviéno''': avevano (poet.).</ref>
L’un d’olivo la fronda e l’altro il brando.
{{R|190}}Ratti a paro scendean come baleno,
E due gran solchi di mirabil vista
{{Ec|Paralelli|Paralleli}} traean per lo sereno.
L’uno è pura di luce argentea lista;
L’altro è turbo di fumo che lampeggia,
{{R|195}}E sangue piove che le stelle attrista.
Di qua tutto sorriso il ciel biancheggia;
Di là son tuoni e nembi e in suon di pianto
L’aria geme da lungi e romoreggia.
Seguían coll’ali del vedere un tanto:
{{R|200}}Prodigio stupefatti i due lombardi<ref>200. '''i due lombardi''': il Mascheroni e il Parini.</ref>
Coll’altro spirto di che parla il canto<ref>201. '''Coll’altro spirto''' ecc.: col Borda.</ref>;
Quando si vide a passi gravi e tardi,
Dalla parte ove rota il suo vïaggio<ref>203. '''Dalla parte''' ecc.: dalla parte del polo.</ref>
La terra e obliqui al sole invía gli sguardi<ref>204. '''e obliqui''' ecc. inclinata ai poli di ventitré gradi e mezzo sull’eclittica, nella sua rotazione guarda appunto obliquamente il sole». Mg.</ref>,
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Che, il dito al mento e corrugata il ciglio<ref>206. '''il dito al mento''' ecc.: accus. di relaz. Cfr. la nota al v. 26, p. 4.</ref>,
Uom par che frema di veduto oltraggio.
Dalla fronte sublime e dal cipiglio
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO TERZO|157|riga=si}}</noinclude><poem>
Come trasse vicino, alzò la faccia,
Gl’insubri ravvisò spirti diletti;
E mosse, prima che il parlar, le braccia.
Allor si vide con amor tre petti
{{R|215}}Confondersi e serrarsi, ed affollarse
Gli uni su gli altri d’amicizia i detti.
Lo stringersi a vicenda e il dimandarse
Tra quell’alme finito ancor non era,
Che di note sembianze altra n’apparse;
{{R|220}}E corse anch’ella, ed abbracciò la schiera
Concittadina. Il volto avea negletto,
Negletta la persona e la maniera:
Ma la fronte, prigion d’alto intelletto,
Ad or ad or s’infosca, e lampi invia
{{R|225}}Dell’eminente suo divin concetto.
Scrisse quel primo l’alta economia
Che i popoli conserva, e tutta svolse
Del piacer la sottile anatomia.
Intrepido a librar l’altro si volse
{{R|230}}I delitti e le pene, ed al tiranno
L’insanguinato scettro di man tolse.
Poscia che le accoglienze, onde si fanno
Lieti gli amici, s’iterâr fra questi
Che fur primieri tra color che sanno,
{{R|235}}Disse Parini: Perché irati e mesti
Son tuoi sguardi, o mio Verri? Ed ei rispose:
Piango la patria; e chinò gli occhi onesti.
E anch’io la piango, anch’io, con sospirose
Voci soggiunse Beccaria: poi mise
{{R|240}}Su la fronte la mano, e la nascose.
Di duol che sdegna testimon conquise
Vide Borda quell’alme, e in atto umano
Disse a tutte: Salvete; e si divise.
Col salutar degli occhi e della mano
{{R|245}}Risposer quelle, e in preda alla lor cura
</poem>
<ref follow="pag171">cia».</ref> — <ref>211. '''Come trasse vicino''': non appena s’avvicinò.</ref> — <ref>214. '''tre petti''': quelli «del Mascheroni, del Parini e del Verri.</ref> — <ref>219. '''altra''': quella di Cesare Beccaria (1738-1784), milanese, che scrisse ''[[Dei delitti e delle pene]]'', ove primo gridò contro la tortura e la pena di morte.</ref> — <ref>232. '''Poscia che''' ecc.: Dante ''Purg.'' {{sc|vii}}, 1: «Poscia che l’accoglienze oneste e liete Furo iterate tre e quattro volte. ...».</ref> — <ref>234. '''Che fur primieri''' ecc.: Dante (''Inf.'' {{Sc|iv}}, 131) saluta Aristotile «il maestro di color che sanno».</ref> — <ref>243. «Finissima interpretazione di un cuore delicato e generoso. Il celebre matematico francese, benché legato d’amicizia fraterna col Mascheroni, e onorato come uno dei loro dagli altri compagni, si ricordava di esser pur sempre uno straniero in mezzo ad Italiani, e che, pur amando l’Italia, non poteva amarla come questi. Intendeva quanto ci fosse di solenne, di santo e, direi, di geloso nel dolore dei figliuoli che piangevano il danno della madre comune: dolore a cui poteva esser conforto unico il non avere</ref><noinclude></noinclude>
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Come trasse vicino<ref>211. '''Come trasse vicino''': non appena s’avvicinò.</ref>, alzò la faccia,
Gl’insubri ravvisò spirti diletti;
E mosse, prima che il parlar, le braccia.
Allor si vide con amor tre petti<ref>214. '''tre petti''': quelli «del Mascheroni, del Parini e del Verri.</ref>
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Lo stringersi a vicenda e il dimandarse
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Concittadina. Il volto avea negletto,
Negletta la persona e la maniera:
Ma la fronte, prigion d’alto intelletto,
Ad or ad or s’infosca, e lampi invia
{{R|225}}Dell’eminente suo divin concetto.
Scrisse quel primo l’alta economia
Che i popoli conserva, e tutta svolse
Del piacer la sottile anatomia.
Intrepido a librar l’altro si volse
{{R|230}}I delitti e le pene, ed al tiranno
L’insanguinato scettro di man tolse.
Poscia che le accoglienze, onde si fanno
Lieti gli amici, s’iterâr fra questi<ref>232. '''Poscia che''' ecc.: Dante ''Purg.'' {{sc|vii}}, 1: «Poscia che l’accoglienze oneste e liete Furo iterate tre e quattro volte. ...».</ref>
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Piango la patria; e chinò gli occhi onesti.
E anch’io la piango, anch’io, con sospirose
Voci soggiunse Beccaria: poi mise
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Vide Borda quell’alme, e in atto umano
Disse a tutte: Salvete; e si divise<ref>243. «Finissima interpretazione di un cuore delicato e generoso. Il celebre matematico francese, benché legato d’amicizia fraterna col Mascheroni, e onorato come uno dei loro dagli altri compagni, si ricordava di esser pur sempre uno straniero in mezzo ad Italiani, e che, pur amando l’Italia, non poteva amarla come questi. Intendeva quanto ci fosse di solenne, di santo e, direi, di geloso nel dolore dei figliuoli che piangevano il danno della madre comune: dolore a cui poteva esser conforto unico il non avere</ref>.
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2022-08-03T22:02:55Z
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|158|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Mosser tacendo per l’etereo piano.
Come gli amici in tempo di sventura
Van talvolta per via, né alcun domanda
Per temenza d’udire cosa dura<ref>249. '''dura''': dolorosa.</ref>;
{{R|250}}Tale andar si vedea quell’onoranda
Di sofi compagnia, curva le fronti<ref>251. '''curva le fronti''': accus. di relaz. Cfr. la nota al v. 26, p. 3.</ref>
Aspettando chi primo il suo cuor spanda.
Luogo è d’Olimpo su gli eccelsi monti
Di piante chiuso che non han qui nome,
{{R|255}}E rugiadose<ref>255. '''E rugiadoso''' ecc.: e irrigato da fonti di nèttare.</ref> di nettarei fonti,
Ch’eterno il verde edùcano alle chiome
Degli odorati rami, e i piú bei fiori
Di colei<ref>258. '''Di colei''' ecc.: della natura. Tasso XVI, 9: «L’arte che tutto fa, nulla si scopre».</ref> che fa il tutto e cela il come;
Poi cadendo precipiti e sonori
{{R|260}}Tra scogli di smeraldo e di zaffiro
Scendono a valle<ref>261. '''a valle''': in basso. — '''errori''': giri, ravvolgimenti. Cfr. Petrarca P. I, ''canz.'' {{Sc|xi}}, 51.</ref> per diversi errori;
E là danzando del beato empiro
A inebrïar si vanno i cittadini
Dell’ambrosia che spegne ogni desiro.
{{R|265}}A quest’ermo recesso i peregrini
Spirti avviârsi; e qui, seduti al rezzo<ref>266. '''rezzo''': luogo ombrato, uve spira aria fresca.</ref>
Tra color persi<ref>267. '''perso''': Dante ''Conv.'' IV. 20: «perso è un color misto di purpureo e di nero, ma vince il nero e da lui si denomina».</ref>, azzurri e porporini,
Fêr di sé stessi un cerchio. O tu che in mezzo
Di lor sedesti, olimpia dea<ref>269. '''olimpia dea''': la verità, ch’è dal cielo.</ref>, nè l’ira
{{R|270}}Temi del forte né del vil lo sprezzo,
Tu verace consegna alla mia lira
L’alte loro parole; e siano spiedi<ref>272. '''spiedi''': arma, formata da un ferro acuto posto in cima ad un bastone, che serviva nella caccia per ferir cinghiali.</ref>
A infame ciurma che alle forche aspira,
Né vale il fango che mi lorda i piedi<ref name="pag172">274. '''Né vale ecc.''': son. ''A Quirino'', 9: «che non hanno il prezzo Neppur del fango che mi lorda i piedi».</ref>.
</poem><ref follow="pag171">altro compagno ed interprete che sè stesso». Zumb., p. 186.</ref><section end="s1" />
<references />
<section begin="s1" />{{Ct|t=1|v=1|CANTO QUARTO}}
{{Sc|Contenuto}}: Il Verri narra come l’amor di patria, che rivive immortale oltre la tomba, lo spingesse poco prima ad abbandonare il cielo e a rivedere Milano, che di fuorî gli parve ancor bella e beata, ma non di dentro, che sembrogli un inferno (1-27). Furto, tirannia, ignoranza immiseriscono e<section end="s1" /><noinclude></noinclude>
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2022-08-03T22:17:55Z
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Mosser tacendo per l’etereo piano.
Come gli amici in tempo di sventura
Van talvolta per via, né alcun domanda
Per temenza d’udire cosa dura<ref>249. '''dura''': dolorosa.</ref>;
{{R|250}}Tale andar si vedea quell’onoranda
Di sofi compagnia, curva le fronti<ref>251. '''curva le fronti''': accus. di relaz. Cfr. la nota al v. 26, p. 3.</ref>
Aspettando chi primo il suo cuor spanda.
Luogo è d’Olimpo su gli eccelsi monti
Di piante chiuso che non han qui nome,
{{R|255}}E rugiadose<ref>255. '''E rugiadoso''' ecc.: e irrigato da fonti di nèttare.</ref> di nettarei fonti,
Ch’eterno il verde edùcano alle chiome
Degli odorati rami, e i piú bei fiori
Di colei<ref>258. '''Di colei''' ecc.: della natura. Tasso XVI, 9: «L’arte che tutto fa, nulla si scopre».</ref> che fa il tutto e cela il come;
Poi cadendo precipiti e sonori
{{R|260}}Tra scogli di smeraldo e di zaffiro
Scendono a valle<ref>261. '''a valle''': in basso. — '''errori''': giri, ravvolgimenti. Cfr. Petrarca P. I, ''canz.'' {{Sc|xi}}, 51.</ref> per diversi errori;
E là danzando del beato empiro
A inebrïar si vanno i cittadini
Dell’ambrosia che spegne ogni desiro.
{{R|265}}A quest’ermo recesso i peregrini
Spirti avviârsi; e qui, seduti al rezzo<ref>266. '''rezzo''': luogo ombrato, uve spira aria fresca.</ref>
Tra color persi<ref>267. '''perso''': Dante ''Conv.'' IV. 20: «perso è un color misto di purpureo e di nero, ma vince il nero e da lui si denomina».</ref>, azzurri e porporini,
Fêr di sé stessi un cerchio. O tu che in mezzo
Di lor sedesti, olimpia dea<ref>269. '''olimpia dea''': la verità, ch’è dal cielo.</ref>, nè l’ira
{{R|270}}Temi del forte né del vil lo sprezzo,
Tu verace consegna alla mia lira
L’alte loro parole; e siano spiedi<ref>272. '''spiedi''': arma, formata da un ferro acuto posto in cima ad un bastone, che serviva nella caccia per ferir cinghiali.</ref>
A infame ciurma che alle forche aspira,
Né vale il fango che mi lorda i piedi<ref>274. '''Né vale ecc.''': son. ''A Quirino'', 9: «che non hanno il prezzo Neppur del fango che mi lorda i piedi».</ref>.
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<references />
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{{Sc|Contenuto}}: Il Verri narra come l’amor di patria, che rivive immortale oltre la tomba, lo spingesse poco prima ad abbandonare il cielo e a rivedere Milano, che di fuorî gli parve ancor bella e beata, ma non di dentro, che sembrogli un inferno (1-27). Furto, tirannia, ignoranza immiseriscono e<section end="s1" /><noinclude></noinclude>
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Mosser tacendo per l’etereo piano.
Come gli amici in tempo di sventura
Van talvolta per via, né alcun domanda
Per temenza d’udire cosa dura<ref>249. '''dura''': dolorosa.</ref>;
{{R|250}}Tale andar si vedea quell’onoranda
Di sofi compagnia, curva le fronti<ref>251. '''curva le fronti''': accus. di relaz. Cfr. la nota al v. 26, p. 3.</ref>
Aspettando chi primo il suo cuor spanda.
Luogo è d’Olimpo su gli eccelsi monti
Di piante chiuso che non han qui nome,
{{R|255}}E rugiadose<ref>255. '''E rugiadoso''' ecc.: e irrigato da fonti di nèttare.</ref> di nettarei fonti,
Ch’eterno il verde edùcano alle chiome
Degli odorati rami, e i piú bei fiori
Di colei<ref>258. '''Di colei''' ecc.: della natura. Tasso XVI, 9: «L’arte che tutto fa, nulla si scopre».</ref> che fa il tutto e cela il come;
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Aspettando chi primo il suo cuor spanda.
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In morte di Lorenzo Mascheroni (1891)/Canto terzo
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<poem>
Sacro di patria amor che forza acquista
Ed eterno rivive oltre l’avello
(Cominciò l’alto insubre economista),
Desìo che pure ne’ sepolti è bello
{{R|5}}Di visitar talvolta ombra romita
Le care mura del paterno ostello,
E con gli affetti della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
Che l’alme al fango per patir marita,
{{R|10}}Mi fean poc’anzi abbandonar la lieta
Regïon delle stelle: e il patrio nido
Fu dolce e prima del mio vol la meta.
Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido
Di libertà; per tutto e danze e canti,
{{R|15}}Ed altari alle Grazie ed a Cupido,
E operose officine, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
E care donne e giovinetti amanti,
Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia
{{R|20}}Gentil Milano, tu sei bella ancora!
Ancor bella e beata è Lombardia!
Poi nell’ascoso penetrai (ché fuora
Sta le piú volte il riso e dentro il pianto),
</poem><section end="s1" />
1. Sacro di patria amor ecc.: «Si può dire che quasi tutte le... dipinture di città, di parti politiche, di neqnizie e di miserie pubbliche, e specialmente di personaggi che 888nnti in cielo non parlano di altro che dell’Italia, sono realtà viva, immediatamente colta e convertita in arte. Quei loro discorsi, poi, rivelano un amor patrio quasi dantesco; come sono eziandio di stampa dantesca qnelle, direi, rassegne di città italiane e quei particolari geografici che comunicano la massima evidenza alle cose descritte». Zumb.. p. 181. 7. con gli affetti ecc.: co’ sentimenti della vita mortale. - 8. di quel pianeta ecc.: della terra. - 11. il patrio nido: Milano.- 16. operose: piene d’operai e di lavoro. - di volanti ecc.: Virgilio Georg. III. 107: volat vi fervidus axis. 18. Questo verso corrisponde, in qualche modo al quindicesimo; ché le Grazie son quelle che rendono specialmente care le donne, e Amore quello che infiamma´<noinclude></noinclude>
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<poem>
Sacro di patria amor che forza acquista
Ed eterno rivive oltre l’avello
(Cominciò l’alto insubre economista),
Desìo che pure ne’ sepolti è bello
{{R|5}}Di visitar talvolta ombra romita
Le care mura del paterno ostello,
E con gli affetti della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
Che l’alme al fango per patir marita,
{{R|10}}Mi fean poc’anzi abbandonar la lieta
Regïon delle stelle: e il patrio nido
Fu dolce e prima del mio vol la meta.
Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido
Di libertà; per tutto e danze e canti,
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E operose officine, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
E care donne e giovinetti amanti,
Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia
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Ancor bella e beata è Lombardia!
Poi nell’ascoso penetrai (ché fuora
Sta le piú volte il riso e dentro il pianto),
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1. Sacro di patria amor ecc.: «Si può dire che quasi tutte le... dipinture di città, di parti politiche, di neqnizie e di miserie pubbliche, e specialmente di personaggi che 888nnti in cielo non parlano di altro che dell’Italia, sono realtà viva, immediatamente colta e convertita in arte. Quei loro discorsi, poi, rivelano un amor patrio quasi dantesco; come sono eziandio di stampa dantesca qnelle, direi, rassegne di città italiane e quei particolari geografici che comunicano la massima evidenza alle cose descritte». Zumb.. p. 181. 7. con gli affetti ecc.: co’ sentimenti della vita mortale. - 8. di quel pianeta ecc.: della terra. - 11. il patrio nido: Milano.- 16. operose: piene d’operai e di lavoro. - di volanti ecc.: Virgilio Georg. III. 107: volat vi fervidus axis. 18. Questo verso corrisponde, in qualche modo al quindicesimo; ché le Grazie son quelle che rendono specialmente care le donne, e Amore quello che infiamma´<noinclude></noinclude>
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Sacro di patria amor che forza acquista
Ed eterno rivive oltre l’avello<ref>1. '''Sacro di patria amor''' ecc.: «Si può dire che quasi tutte le... dipinture di città, di parti politiche, di nequizie e di miserie pubbliche, e specialmente di personaggi che assunti in cielo non parlano di altro che dell’Italia, sono realtà viva, immediatamente colta e convertita in arte. Quei loro discorsi, poi, rivelano un amor patrio quasi dantesco; come sono eziandio di stampa dantesca quelle, direi, rassegne di città italiane e quei particolari geografici che comunicano la massima evidenza alle cose descritte». Zumb.. p. 181.</ref>
(Cominciò l’alto insubre economista),
Desìo che pure ne’ sepolti è bello
{{R|5}}Di visitar talvolta ombra romita
Le care mura del paterno ostello,
E con gli affetti<ref>7. '''con gli affetti''' ecc.: co’ sentimenti della vita mortale.</ref> della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
Che l’alme al fango per patir marita<ref>8. '''di quel pianeta''' ecc.: della terra.</ref>,
{{R|10}}Mi fean poc’anzi abbandonar la lieta
Regïon delle stelle: e il patrio nido<ref>11. '''il patrio nido''': Milano.</ref>
Fu dolce e prima del mio vol la meta.
Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido
Di libertà; per tutto e danze e canti,
{{R|15}}Ed altari alle Grazie ed a Cupido,
E operose officine<ref>16. '''operose''': piene d’operai e di lavoro. - di volanti ecc.: Virgilio ''Georg.'' III. 107: ''volat vi fervidus axis.''</ref>, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
E care donne e giovinetti amanti<ref name="pag175">18. Questo verso corrisponde, in qualche modo al quindicesimo; ché le Grazie son quelle che rendono specialmente care le donne, e Amore quello che infiamma</ref>,
Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia
{{R|20}}Gentil Milano, tu sei bella ancora!
Ancor bella e beata è Lombardia!
Poi nell’ascoso penetrai (ché fuora
Sta le piú volte il riso e dentro il pianto),
</poem><section end="s1" /><noinclude></noinclude>
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Pagina:Poesie (Monti).djvu/176
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|160|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
E venir mi credei nell’Antenòra,
{{R|25}}Nella Caìna, o s’altro luogo è tanto
Maledetto in inferno ove faccoglia
Tutte insieme le colpe Radamanto.
Dell’albergo fatal guardan la soglia
Le Cabale pensose e l’Impostura
{{R|30}}Che per vestirsi la virtú dispoglia,
La Fraude che si tocca il petto e giura,
La fallace Amistà che sul tuo danno
Piange e poi t’abbandona alla ventura.
Carezzanti negli atti in volta vanno
{{R|35}}Le bugiarde Promesse, accompagnate
Dalle guarrule Ciance e dall’Inganno.
Sta fra le valve a piè profan vietate
Il Favor, che bifronte or apre, or chiude,
E dice all’un: Non puossi; e all’altro: Entrate.
{{R|40}}Su e giú sospinte le Speranze nude
Van zoppicando, e inseguele per tutto
Colei che tutte le speranze esclude.
Con umil carta in man lurido e brutto
Grida il Bisogno, e sua ragione apporta;
{{R|45}}Ma duro niego de’ suoi gridi è il frutto:
Ché voce di ragion là dentro è morta,
E de’ pieni scaffali tra le borre
Dorme giustizia in gran letargo assorta;
Né dall’alto suo sonno la può sciorre
{{R|50}}Che il sonante cader di quella piova
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />N. B. Le varianti de’ canti IV e V, oltre che da alcune delle stampe dette (cfr. p. 135), sono state ricavate dal v. IV delle ''Opere inedite e rare di V. M.'': Piacenza, Del Maino, 1834, che s’indica con un O.
:37. ''Sta su le soglie a piè'' (O.) ''Sta su le valve'' (L.).
:38. ''Il favor che bizzarro'' (O.).
:41. ''e al fianco hanno per tutto'' (O.).
:44. ''e sua ragion gli è scorta,'' (O.).
<section end="varianti" />
e donne e giovinetti. — 24. Antenòra... Caina: due de quattro spartimenti in che è diviso l’ultimo cerchio dell’inferno dantesco, ove sono puniti i traditori de’ parenti e della patria. Cfr. c. XXXII, passim. — 27. Radamanto: uno de’ tre giudici dell’inferno pagano. Gli altri due erano Faco e Minosse. Cfr. Virgilio En. VI, 566. — 28. Dell’albergo fatal: dell’infausto palazzo, sede del governo. Cfr., per nna descrizione consi mile, i vv. 25 e segg.. p. 63. — 29. Le Cabale pensose: gl’intrighi, che pensano come poter bene ingannare. Inutilo aggiungere che qui le Cabale e gli altri vizi sono personificati. — 30. Che per vestirsi ecc.: Parini (Od. III, 43), dell’Impostura: «I suoi dritti il merto cedo A la tua divinitado, E virtà la sua mercede»n. — 37. valve: imposto delle porte (lat.). — 42. Colei ecc.: la disperazione. — 47. borre: carte dimenticato. È detto in senso dispregiativo e figurato, ché borra è cimatura di panno o ammasso di peli che s’adopera per imbottiro cuscini od altro. — 50. quella piova ecc.: la pioggia dell’oro, sotto forma della quale Giovo arrivò a penetrare nella torre ove
�´<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|160|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
E venir mi credei nell’Antenòra,
{{R|25}}Nella Caína<ref>24. '''Antenòra... Caina''': due de quattro spartimenti in che è diviso l’ultimo cerchio dell’inferno dantesco, ove sono puniti i traditori de’ parenti e della patria. Cfr. c. XXXII, ''passim''.</ref>, o s’altro luogo è tanto
Maledetto in inferno ove faccoglia
Tutte insieme le colpe Radamanto<ref>27. '''Radamanto''': uno de’ tre giudici dell’inferno pagano. Gli altri due erano Eaco e Minosse. Cfr. Virgilio ''En.'' VI, 566.</ref>.
Dell’albergo fatal<ref>28. '''Dell’albergo fatal''': dell’infausto palazzo, sede del governo. Cfr., per una descrizione consimile, i vv. 25 e segg.. p. 63.</ref> guardan la soglia
Le Cabale pensose<ref>29. '''Le Cabale pensose''': gl’intrighi, che pensano come poter bene ingannare. Inutile aggiungere che qui le Cabale e gli altri vizi sono personificati.</ref> e l’Impostura
{{R|30}}Che per vestirsi la virtú dispoglia<ref>30. '''Che per vestirsi''' ecc.: Parini (''Od.'' III, 43), dell’Impostura: «I suoi dritti il merto cedo A la tua divinitade, E virtú la sua mercede».</ref>,
La Fraude che si tocca il petto e giura,
La fallace Amistà che sul tuo danno
Piange e poi t’abbandona alla ventura.
Carezzanti negli atti in volta vanno
{{R|35}}Le bugiarde Promesse, accompagnate
Dalle guarrule Ciance e dall’Inganno.
Sta fra le valve<ref>37. '''valve''': imposte delle porte (lat.).</ref> a piè profan vietate
Il Favor, che bifronte or apre, or chiude,
E dice all’un: Non puossi; e all’altro: Entrate.
{{R|40}}Su e giú sospinte le Speranze nude
Van zoppicando, e inseguele per tutto
Colei che tutte le speranze esclude<ref>42. '''Colei''' ecc.: la disperazione.</ref>.
Con umil carta in man lurido e brutto
Grida il Bisogno, e sua ragione apporta;
{{R|45}}Ma duro niego de’ suoi gridi è il frutto:
Ché voce di ragion là dentro è morta,
E de’ pieni scaffali tra le borre<ref>47. '''borre''': carte dimenticate. È detto in senso dispregiativo e figurato, ché borra è cimatura di panno o ammasso di peli che s’adopera per imbottire cuscini od altro.</ref>
Dorme giustizia in gran letargo assorta;
Né dall’alto suo sonno la può sciorre
{{R|50}}Che il sonante cader di quella piova<ref name="pag176">50. '''quella piova''' ecc.: la pioggia dell’oro, sotto forma della quale Giove arrivò a penetrare nella torre ove</ref>
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />N. B. Le varianti de’ canti IV e V, oltre che da alcune delle stampe dette (cfr. p. {{Pg|135}}), sono state ricavate dal v. IV delle ''Opere inedite e rare di V. M.'': Piacenza, Del Maino, 1834, che s’indica con un O.
:37. ''Sta su le soglie a piè'' (O.) ''Sta su le valve'' (L.).
:38. ''Il favor che bizzarro'' (O.).
:41. ''e al fianco hanno per tutto'' (O.).
:44. ''e sua ragion gli è scorta,'' (O.).
<section end="varianti" />
<ref follow="pag175">e donne e giovinetti.</ref><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|161|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Che fe’ lo stupro dell’acrisia torre.
Quest’io vidi nell’antro in cui si cova
Della patria il dolor, che con grand’arte
Tutto giorno si affina e si rinnova;
{{R|55}}Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte,
Trae già l’ultimo fiato e muore in culla
La figlia del valor di Bonaparte.
Circuisce la misera fanciulla
Multiforme di mostri una congrega,
{{R|60}}Che la sugge, la spolpa e la maciulla:
Il furto, ch’al poter fatto è collega;
Tirannia, che col dito entro gli orecchi,
Scòstati, grida alla pietà che prega;
Ignoranza, che losca fra gli specchi
{{R|65}}Banchetta, e l’osso che non unge arcigna
Getta al merto giacente in su gli stecchi.
E la patria frattanto, empia matrigna,
Nega il pane a’ suoi figli, e a tal lo dona
Stranier, cui meglio si darìa gramigna.
{{R|70}}Mossi piú addentro il piede; e in logra zona
Vidi l’inferma che ''Finanza'' ha nome,
Che scheletro pareva e non persona.
Colle man disperate entro le chiome
Guarda i vuoti suoi scrigni, e stupefatta
{{R|75}}Cerca e non trova dell’empirli il come.
Or la forza le invia fusa e disfatta
La pubblica sostanza; or la meschina
Perdendo merca e supplicando accatta.
Scorre a fiumi il danaro, e la rapina
{{R|80}}Di color mille e cento man l’ingozza
E giú nell’ampio ventre lo ruina
Con sì gran fretta, che talor la strozza
Tutto no ’l cape, e il vome, e vomitato
Lo ricaccia nell’epa e lo rimpozza;
{{R|85}}Né del pubblico sazia, anco il privato
Aver divora; e il vede e lo consente
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:52. ''Questo vidi'' (O.).
<section end="varianti" />
Acrisio re d’Argo aveva rinchiusa la figliuola Danae. Cfr. Orazio Od. III, xvi, 1 e segg. — 52. in cui si cova ecc.: Parini Od. X, 63: n Cola dove nel muto Acre il destin de’ po- peli si cova». — 57. La figlia ecc.: la Ci- salpina. — 60. la maciulla: la dirompo na guisa di maciulla». Dante /nf. xxxiv, 56. — 64. fra gli specchi: in mezzo allo ric- chezzo e agli ornamenti. — 65. che non unge: spolpato del tutto. — arcigna: e auche que- sto a malincuore, — 70. logra sona: in logo- ra cintura, veste. — 76. Or la forsa ccc.: ora la forza per mezzo delle tasse le invia la pubblica ricchezza, che vicue in tal modo di- strutta. — 78. Perdendo merca ecc.: riceve prestiti, che le costano un occhio e le sono d’umiliazioue. — 84. lo rimpessa: lo ricae- cia in quel pozzo, ch’è il suo ventre. —´<noinclude></noinclude>
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2022-08-04T08:28:32Z
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|161|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Che fe’ lo stupro dell’acrisia torre.
Quest’io vidi nell’antro in cui si cova
Della patria il dolor<ref>52. '''in cui si cova''' ecc.: Parini ''Od.'' X, 63: «Colà dove nel muto Aere il destin de’ popeli si cova».</ref>, che con grand’arte
Tutto giorno si affina e si rinnova;
{{R|55}}Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte,
Trae già l’ultimo fiato e muore in culla
La figlia del valor di Bonaparte<ref>57. '''La figlia''' ecc.: la Cisalpina.</ref>.
Circuisce la misera fanciulla
Multiforme di mostri una congrega,
{{R|60}}Che la sugge, la spolpa e la maciulla<ref>60. '''la maciulla''': la dirompe «a guisa di maciulla». Dante ''Inf.'' {{Sc|xxxiv}}, 56.</ref>:
Il furto, ch’al poter fatto è collega;
Tirannia, che col dito entro gli orecchi,
Scòstati, grida alla pietà che prega;
Ignoranza, che losca fra gli specchi<ref>64. '''fra gli specchi''': in mezzo alle ricchezze e agli ornamenti.</ref>
{{R|65}}Banchetta, e l’osso che non unge arcigna<ref>65. '''che non unge''': spolpato del tutto. — '''arcigna''': e auche questo a malincuore,</ref>
Getta al merto giacente in su gli stecchi.
E la patria frattanto, empia matrigna,
Nega il pane a’ suoi figli, e a tal lo dona
Stranier, cui meglio si darìa gramigna.
{{R|70}}Mossi piú addentro il piede; e in logra zona<ref>70. '''logra zona''': in logora cintura, veste.</ref>
Vidi l’inferma che ''Finanza'' ha nome,
Che scheletro pareva e non persona.
Colle man disperate entro le chiome
Guarda i vuoti suoi scrigni, e stupefatta
{{R|75}}Cerca e non trova dell’empirli il come.
Or la forza le invia fusa e disfatta
La pubblica sostanza<ref>76. '''Or la forza''' ecc.: ora la forza per mezzo delle tasse le invia la pubblica ricchezza, che viene in tal modo distrutta.</ref>; or la meschina
Perdendo merca e supplicando accatta<ref>78. '''Perdendo merca''' ecc.: riceve prestiti, che le costano un occhio e le sono d’umiliazioue.</ref>.
Scorre a fiumi il danaro, e la rapina
{{R|80}}Di color mille e cento man l’ingozza
E giú nell’ampio ventre lo ruina
Con sì gran fretta, che talor la strozza
Tutto no ’l cape, e il vome, e vomitato
Lo ricaccia nell’epa e lo rimpozza<ref>84. '''lo rimpozza''': lo ricaccia in quel pozzo, ch’è il suo ventre.</ref>;
{{R|85}}Né del pubblico sazia, anco il privato
Aver divora; e il vede e lo consente
</poem><ref follow="pag176">Acrisio re d’Argo aveva rinchiusa la figliuola Danae. Cfr. Orazio Od. III, xvi, 1 e segg.</ref><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:52. ''Questo vidi'' (O.).
<section end="varianti" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|162|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Suprema e muta autorità di stato.
Chiusa e stretta da forza prepotente
(Dolce interruppe allor Lorenzo) e in forse
{{R|90}}Di maggior danno, e inerme e dependente,
Che far poteva autorità? — Deporse,
Gridò fiero Parini: e, steso il dito,
Gli occhi e la spalla brontolando torse.
Strinse allora le labbia in sé romito
{{R|95}}Dei delitti il sottil ponderatore;
E, Fu giusto, poi disse, il tuo garrito.
Forza li vinse: e che può forza in core
Che verace virtute in sè raduna?
Cede il giusto la vita e non l’onore;
{{R|100}}L’onor, su cui né strale di fortuna,
Né brando, né tiranno, né lo stesso
Onnipossente non ha possa alcuna.
Qual madre, che del figlio intende espresso
Grave fallo, si tace e non fa scusa,
{{R|105}}Ma china il guardo per dolor dimesso
E tuttavolta col tacer l’escusa;
Tal si fece Lorenzo, mansueta
Alma cortese a perdonar sol usa.
Ma col cenno del capo il fier poeta
{{R|110}}Plause a quel dir, che il generoso fiele
De’ bollenti precordii in parte acqueta.
Apri di nuovo al ragionar le vele
Verri frattanto, e Non ancor, soggiunse,
Tutto scorremmo questo mar crudele.
{{R|115}}115 Poichè protetta la rapina emunse
Del popolo le vene, e di ben doma
Putta sfacciata il portamento assunse;
La meretrice, che laggiù si noma
Libertà depurata, iva in bordello
{{R|120}}120 Coi vizi tutti che dier morte a Roma.
Alla fronte lasciva era cappello
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:90. ''Di maggior danno, autorità prudente'' (O.). ''Di maggior danno, e inerme, dipendente,'' (L.). N
:91. ''Che far dovea ? — Ciò ch'io già fe’, deporse'' (O.).
:107. ''Tal si stette Lorenzo'' (O.).
<section end="varianti" />
90. dependente: soggetta al Direttorio francese, che la toneva come schiava. — 9. romito: raccolto. Dante Purg. v1,72: « E l'ombra, tutta in sé romita, Surse...». — 95. Dei delitti ecc.: il Beccaria. — 96. garrito : rampogna. — 103. espresso: narrato, — 110. il generoso fiele: il nobile sdogno. — 112. precordii: le parti aderenti al cuore: qui, il cuore stesso. — 119. Depurata : Depurare voleva diro, nel gergo d'allora, togliere od escludere dagli uffici pubblici tutti quelli, ancho valonti cd enesti, che fossero non´<noinclude></noinclude>
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2022-08-04T08:33:17Z
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|162|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Suprema e muta autorità di stato.
Chiusa e stretta da forza prepotente
(Dolce interruppe allor Lorenzo) e in forse
{{R|90}}Di maggior danno, e inerme e dependente<ref>90. '''dependente''': soggetta al Direttorio francese, che la teneva come schiava.</ref>,
Che far poteva autorità? — Deporse,
Gridò fiero Parini: e, steso il dito,
Gli occhi e la spalla brontolando torse.
Strinse allora le labbia in sé romito<ref>94. '''romito''': raccolto. Dante ''Purg.'' {{Sc|vi}}, 72: «E l’ombra, tutta in sé romita, Surse...».</ref>
{{R|95}}Dei delitti il sottil ponderatore<ref>95. '''Dei delitti''' ecc.: il {{AutoreCitato|Cesare Beccaria|Beccaria}}.</ref>;
E, Fu giusto, poi disse, il tuo garrito<ref>96. '''garrito''': rampogna.</ref>.
Forza li vinse: e che può forza in core
Che verace virtute in sè raduna?
Cede il giusto la vita e non l’onore;
{{R|100}}L’onor, su cui né strale di fortuna,
Né brando, né tiranno, né lo stesso
Onnipossente non ha possa alcuna.
Qual madre, che del figlio intende espresso<ref>103. '''espresso''': narrato.</ref>
Grave fallo, si tace e non fa scusa,
{{R|105}}Ma china il guardo per dolor dimesso
E tuttavolta col tacer l’escusa;
Tal si fece Lorenzo, mansueta
Alma cortese a perdonar sol usa.
Ma col cenno del capo il fier poeta
{{R|110}}Plause a quel dir, che il generoso fiele<ref>110. '''il generoso fiele''': il nobile sdegno.</ref>
De’ bollenti precordii<ref>112. '''precordii''': le parti aderenti al cuore: qui, il cuore stesso.</ref> in parte acqueta.
Apri di nuovo al ragionar le vele
Verri frattanto, e Non ancor, soggiunse,
Tutto scorremmo questo mar crudele.
{{R|115}}115 Poichè protetta la rapina emunse
Del popolo le vene, e di ben doma
Putta sfacciata il portamento assunse;
La meretrice, che laggiú si noma
Libertà depurata<ref name="pag178">119. '''Depurata''': ''Depurare'' voleva dire, nel gergo d’allora, togliere od escludere dagli uffici pubblici tutti quelli, anche valonti ed onesti, che fossero non</ref>, iva in bordello
{{R|120}}120 Coi vizi tutti che dier morte a Roma.
Alla fronte lasciva era cappello
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:90. ''Di maggior danno, autorità prudente'' (O.). ''Di maggior danno, e inerme, dipendente,'' (L.). N
:91. ''Che far dovea? — Ciò ch’io già fe’, deporse'' (O.).
:107. ''Tal si stette Lorenzo'' (O.).
<section end="varianti" /><noinclude></noinclude>
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2022-08-04T04:58:37Z
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|163|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Il berretto di Bruto, ma di serva
Avea gli atti, il parlare ed il mantello.
E la seguìa di drudi una caterva,
{{R|125}}Che da questa d’Italia a quella fogna
A fornicar correa colla proterva.
Altri, perduta nel peccar vergogna,
Fuggì la patria no, ma il manigoldo;
Altri è resto di scopa, altri di gogna;
{{R|130}}Qual repe e busca ruffianando il soldo;
Qual è spia; qual il falso testimonio
Vende pel quarto e men d’un leopoldo.
Quei chiede un Robespier che il sangue ausonio
Sparga, e le funi e la Senavra impetra
{{R|135}}Con questo che biscazza il patrimonio.
V’ha chi, ventoso raschiator di cetra,
Il pudor caccia e sè medesmo in brago,
E segnato da Dio corre alla Vetra.
V’ha chi salta in bigoncia dallo spago;
{{R|140}}V’ha chi versuto ciurmador le quadre
Muta in tonde figure, e non è mago.
Disse rea d’adulterio altri la madre,
E di vile semenza di convento
Sparso il solco accusò del proprio padre.
{{R|145}}Altri è schiuma di prete, e fraudolento
De’ galeotti arringator, per fame
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:123. ''Avea gli atti, il crin mozzo ed il mantello'' (O.).
:131-2. ''qual è falso testimonio Pel quarto e meno ancor d’un leopoldo'' (O.).
:140. ''V’ha chi truffa, chi ciurma, chi quadre'' (O.).
:145. ''Altri schiuma di preti'' (O.).
<section end="varianti" />
feroci demagoghi. — 122. di Bruto: repubblicano. — 125. da questa d’Italia: Chiamando fogna anche il resto d’Italia, indica ch’erano eguali a’ ritordati i vizi che deturpavano i repubblicani dello altro province venuti in Lombardia. —126. proterva: arrogante, sfacciata. — 129. scopa... gogna: De’ malfattori. alcuni si frustavano (scopa), altri si ponevano alla berlina (gogna). — 150. repe: striscia come rettile (lat.). Marchetti Lucr. III, 160: «Non sentiamo Il cheto andar d’ogn’’animal che repa». — 132. leopoldo: moneta austriaca, cosí detta dal nome dell’imperatore di cui recava l’offigo. — 134. le funi e la Senavra impetra: merita (impetra), come pazzo, d’esser mandato alla Senavra (manicomio fuor di Milano) e legato collo funi, perché furente. Qui non può alludere, como parve ad alcuni, al Lattanzi, che fu alla Senavra si, ma dopo la composizione della Mascher. Quanto all’elocuzione, si notî la chiara e bella endiadi le funi e la Senavra por le funi della Senavra. — 135. biscazza: disperde giocando. — 136. V’ha chi ecc.: «L’accocca di muovo al Gianni, cui dice segnato da Dio, perché era gobbo. — Vetra, piazza in Milano ove si faceva giustizia de’ malfattori». Mg. — ventoso: vuoto. — 139. salta occ.: diventa di ciabattino tribuno. — 140. chi versuto ecc.: chi, astuto ingannatore, fa veder nero il bianco, pur non essendo mago. — lit. il solco: la via alla generazione. In questo senso l’usarono anche l’Alamanni (Colf. II, 51) e il Marchetti (Lucr. IV, 277). — 145. AItri ece.: «Fu in que’ tempi di depravata libertà in cui si videro preti © frati apostatare tra lo oscene danze intorno all’albero della libertà; o predicare intolleranti e feroci principii d’irreligione o di scostuma-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|163|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Il berretto di Bruto<ref>122. '''di Bruto''': repubblicano.</ref>, ma di serva
Avea gli atti, il parlare ed il mantello.
E la seguìa di drudi una caterva,
{{R|125}}Che da questa d’Italia<ref>125. '''da questa d’Italia''': Chiamando ''fogna'' anche il resto d’Italia, indica ch’erano eguali a’ ricordati i vizi che deturpavano i repubblicani dello altre province venuti in Lombardia.</ref> a quella fogna
A fornicar correa colla proterva<ref>126. '''proterva''': arrogante, sfacciata.</ref>.
Altri, perduta nel peccar vergogna,
Fuggì la patria no, ma il manigoldo;
Altri è resto di scopa, altri di gogna<ref>129. '''scopa... gogna''': De’ malfattori. alcuni si frustavano (''scopa''), altri si ponevano alla berlina (''gogna'').</ref>;
{{R|130}}Qual repe<ref>150. '''repe''': striscia come rettile (lat.). {{AutoreCitato|Alessandro Marchetti|Marchetti}} ''Lucr.'' III, 160: «Non sentiamo Il cheto andar d’ogn’animal che repa».</ref> e busca ruffianando il soldo;
Qual è spia; qual il falso testimonio
Vende pel quarto e men d’un leopoldo<ref>132. '''leopoldo''': moneta austriaca, cosí detta dal nome dell’imperatore di cui recava l’effige.</ref>.
Quei chiede un Robespier che il sangue ausonio
Sparga, e le funi e la Senavra impetra<ref>134. '''le funi e la Senavra impetra''': merita (''impetra''), come pazzo, d’esser mandato alla Senavra (manicomio fuor di Milano) e legato colle funi, perché furente. Qui non può alludere, come parve ad alcuni, al Lattanzi, che fu alla Senavra sì, ma dopo la composizione della ''Mascher.'' Quanto all’elocuzione, si noti la chiara e bella endiadi ''le funi e la Senavra'' per ''le funi della Senavra''.</ref>
{{R|135}}Con questo che biscazza<ref>135. '''biscazza''': disperde giocando.</ref> il patrimonio.
V’ha chi, ventoso raschiator di cetra,
Il pudor caccia e sè medesmo in brago,
E segnato da Dio corre alla Vetra<ref>136. '''V’ha chi''' ecc.: «L’accocca di nuovo al {{AutoreCitato|Francesco Gianni|Gianni}}, cui dice ''segnato da Dio'', perché era gobbo. — '''Vetra''', piazza in Milano ove si faceva giustizia de’ malfattori». Mg. — '''ventoso''': vuoto.</ref>.
V’ha chi salta in bigoncia dallo spago<ref>139. '''salta''' ecc.: diventa di ciabattino tribuno.</ref>;
{{R|140}}V’ha chi versuto ciurmador le quadre
Muta in tonde figure, e non è mago<ref>140. '''chi versuto''' ecc.: chi, astuto ingannatore, fa veder nero il bianco, pur non essendo mago.</ref>.
Disse rea d’adulterio altri la madre,
E di vile semenza di convento
Sparso il solco<ref>144. '''il solco''': la via alla generazione. In questo senso l’usarono anche l’{{AutoreCitato|Luigi Alamanni|Alamanni}} (''[[Della coltivazione|Colt.]]'' II, 51) e il Marchetti (''Lucr.'' IV, 277).</ref> accusò del proprio padre.
{{R|145}}Altri è schiuma di prete<ref name="pag179">145. '''Altri''' ecc.: «Fu in que’ tempi di depravata libertà in cui si videro preti e frati apostatare tra le oscene danze intorno all’albero della libertà; o predicare intolleranti e feroci principii d’irreligione o di {{Pt|scostuma-|}}</ref>, e fraudolento
De’ galeotti arringator, per fame
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:123. ''Avea gli atti, il crin mozzo ed il mantello'' (O.).
:131-2. ''qual è falso testimonio Pel quarto e meno ancor d’un leopoldo'' (O.).
:140. ''V’ha chi truffa, chi ciurma, chi quadre'' (O.).
:145. ''Altri schiuma di preti'' (O.).
<section end="varianti" />
<ref follow="pag178">feroci demagoghi.</ref><noinclude></noinclude>
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OrbiliusMagister
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|164|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Va trafficando Cristo in sacramento.
Tutto è strame, letame e putridame
D’intollerando puzzo, e lo fermenta
{{R|150}}Tutto quanto de’ vizi il bulicame.
E questa ciurma ell’è colei che addenta
I migliori, colei che tuona e getta
D’itala libertà le fondamenta?
Oh inopia di capestri! oh maladetta
{{R|155}}Lue cisalpina! ch patria! oh giusto Iddio!
Perché pigra in tua mano è la saetta?
Terror mi prese a tanto; e, nell’obblío
Del mio stato immortale, al patrio tetto,
Per celarmi, tremante il piè fuggío.
{{R|160}}Oh mia dolce consorte! oh mio diletto
Fratello! oh quanto nell’udir mi piacqui
Da voi nomarmi coll’antico affetto,
E ricordar siccome amai né tacqui
La pubblica ragion, sin che, già franta
{{R|165}}De’ buon la speme, addio vi dissi, e giacqui!
Piansi di gioia nel veder cotanta
Carità della patria, e come intera
De’ miei figli nel cor la si trapianta.
Ed io vana allor corsi ombra leggera,
{{R|170}}E gli strinsi, e sentii tutta in quel punto
La dolcezza di padre e piú sincera.
Ma il tenero lor petto al mio congiunto
Ahi! quell’amplesso non intese, e invano
Vivi corpi abbracciai spirto defunto.
{{R|175}}Mi staccai da’ miei cari; e di Milano
Ratto fuggendo, a quel sordo mi tolsi
Delle lagrime altrui gonfio oceàno.
Città discorsi e campi; e pria mi volsi
Al longobardo piano, ove superbe
{{R|180}}Strinser catene al re de’ Franchi i polsi,
E il villan coll’aratro ancor tra l’erbe
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:148. ''Tutto strame'' (O.).
:151. ''E questa ciurma s’è colei'' (O.).
:168. ''nel core si trapianta'' (C.).
<section end="varianti" />
tezza». Mg. — 150. de’ vizi il bulicame: il bollente fiume de’ vizi. Bulicame, propriamente, cera una scaturigine d’acqua calda presso Viterbo, resa celebre da Dante (Cfr. Inf. xiv, 79), che nsa bulicame anche nel general signiricato di sangue bollente: Cfr. Inf. xu, 128. — 155. Lue: peste. — 156. Perché pigra ecc.: Dante Par. xxvu. 5î: «O difesa di Dio, perché pur giaci? n. — 161. piacqui: compiacqui. — 179. Al longobardo piano ove ecc.: alle pianure di Pavia, ove il 24 febbraio 1525 avvenne la famosa battaglia in cui Francesco I (1494-1547), re di Francia, fu fatto prigioniero<noinclude></noinclude>
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OrbiliusMagister
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|164|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Va trafficando Cristo in sacramento.
Tutto è strame, letame e putridame
D’intollerando puzzo, e lo fermenta
{{R|150}}Tutto quanto de’ vizi il bulicame<ref>150. '''de’ vizi il bulicame''': il bollente fiume de’ vizi. ''Bulicame'', propriamente, era una scaturigine d’acqua calda presso Viterbo, resa celebre da Dante (Cfr. ''Inf.'' {{Sc|xiv}}, 79), che usa ''bulicame'' anche nel general significato di sangue bollente: Cfr. ''Inf.'' {{Sc|xii}}, 128.</ref>.
E questa ciurma ell’è colei che addenta
I migliori, colei che tuona e getta
D’itala libertà le fondamenta?
Oh inopia di capestri! oh maladetta
{{R|155}}Lue<ref>155. '''Lue''': peste.</ref> cisalpina! ch patria! oh giusto Iddio!
Perché pigra in tua mano è la saetta<ref>156. '''Perché pigra''' ecc.: Dante ''Par.'' {{Sc|xxvii}}, 57: «O difesa di Dio, perché pur giaci?».</ref>?
Terror mi prese a tanto; e, nell’obblío
Del mio stato immortale, al patrio tetto,
Per celarmi, tremante il piè fuggío.
{{R|160}}Oh mia dolce consorte! oh mio diletto
Fratello! oh quanto nell’udir mi piacqui<ref>161. '''piacqui''': compiacqui.</ref>
Da voi nomarmi coll’antico affetto,
E ricordar siccome amai né tacqui
La pubblica ragion, sin che, già franta
{{R|165}}De’ buon la speme, addio vi dissi, e giacqui!
Piansi di gioia nel veder cotanta
Carità della patria, e come intera
De’ miei figli nel cor la si trapianta.
Ed io vana allor corsi ombra leggera,
{{R|170}}E gli strinsi, e sentii tutta in quel punto
La dolcezza di padre e piú sincera.
Ma il tenero lor petto al mio congiunto
Ahi! quell’amplesso non intese, e invano
Vivi corpi abbracciai spirto defunto.
{{R|175}}Mi staccai da’ miei cari; e di Milano
Ratto fuggendo, a quel sordo mi tolsi
Delle lagrime altrui gonfio oceàno.
Città discorsi e campi; e pria mi volsi
Al longobardo piano<ref name="pag180">179. '''Al longobardo piano ove''' ecc.: alle pianure di Pavia, ove il 24 febbraio 1525 avvenne la famosa battaglia in cui Francesco I (1494-1547), re di Francia, fu fatto prigioniero</ref>, ove superbe
{{R|180}}Strinser catene al re de’ Franchi i polsi,
E il villan coll’aratro ancor tra l’erbe
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:148. ''Tutto strame'' (O.).
:151. ''E questa ciurma s’è colei'' (O.).
:168. ''nel core si trapianta'' (C.).
<section end="varianti" />
<ref follow="pag179">{{Pt|tezza|scostumatezza}}». Mg.</ref><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|165|riga=si}}</noinclude><poem>
Urta le gallic’ossa, e quell’aspetto
Par che ’l natio rancor gli disacerbe.
Vidi ’l campo ove Scipio giovinetto
{{R|185}}Contro i punici dardi allo spirante
Padre fe’ scudo del roman suo petto.
Vidi l’umil Agogna intollerante
Del suo fato novel; vidi la valle
Cui nome ed ubertà fa la sonante
{{R|190}}Sesia. Di là varcai per arduo calle
L’alpe che il nutritor di molte genti
Verbano adombra colle verdi spalle.
Quindi del Lario attinsi le ridenti
Rive, e la terra ove alla luce aprîrsi
{{R|195}}I solerti di Plinio occhi veggenti;
Ed or l’odi di Volta insuperbirsi,
Che vita infonde pe’ contatti estremi
Di due metalli (maraviglia a dirsi!)
Nei membri già di pelle e capo scemi
{{R|200}}Delle rauche di stagno abitatrici,
E di Galvan ricrea gli alti sistemi.
I placidi cercai poggi felici
Che con dolce pendío cingon le liete
Dell’Eupili lagune irrigatrici;
</poem>
<section begin="varianti" />
:202-258. Questi versi sul monumento del Parini sono nel testo quali il M. li pubblicò insieme coi ''Sepolcri'' del Foscolo e del Pindemonte nel 1808 in Brescia: qui reco le varianti (che son quelle senza indicazione) della prima forma ch’ebbero dal poeta, quale si legge in alcune stampe della ''Mascheroniana'' e anche nel Resnati.
<section end="varianti" />
dall’esercito di Carlo V (1500-1558). — 183. che ’l natio ecc.: che ingentilisca quella rozzezza di sentimenti ch’egli cbbe da natnra. — 184. ove ecc.: ovo accadde la battaglia del Ticino (vinta da Annibale), in cui restò ucciso Paolo Emilio, invano difeso dal figlio suo adottivo I°. Cornelio Scipione, soprannominato poi l’Africano. — 187. Agogna: fiumicello alla destra di Novara, la «quale, tolta alla repubblica cisalpina, era passata proprio allora a far parte del dipartimento della Sesia. — 188. la valle ecc.: la Val Sesia, che prende nome dal fiume principale che la bagna. — 191. che: È soggetto. — 192. Verbano: il piú grande de’!aghi subalpini d’Italia, che però si chiama Lago Maggiore, ed è formato dal Ticino. — 193 Lario: il lago di Como il quale, partendo dalle falde dello Alpi Rezie, si stende da settentrione a mezzogiorno, e a Bellagio si divide in dne rami, orientale l’uno verso Lecco, occidentale l’altro verso Como. Lario è il nome che gli dà anche Virgilio: cfr. Geor= II, 159. — 194. la terra ecc.: Como, che fu patria del grande naturalista Plinio il vecchio (23-79 d. C.). - Di terra per città s’hanno moltissimi esempi in Dante. Cfr. Inf. v, 97; vm, 130; IX, 104; xvVI, 9j xx, 98; xxI, 40; xxvm. 43; Purg. vI, 75; Par. rx, 92 ecc. — 197. Che vita ecc.: Accenna alla teoria del magnetismo animale e dell’elettricità, scoperta dal bolognese Luigi Galvani (17371798) e perfezionata da Alessandro Volta, comasco (1745-1827), per mezzo dell’invenziono della pila, a cui se si attacca mna rana (le rauche ecc.) scorticata e senza capo, salta quasi come se fosse viva. — 198. dne metalli: lo zinco e il rame. — 204. Eupili: cosí era chiamato dagli antichi il lago di Pusiano in Brianza (cfr. Plinio St. N. III, 23), presso il quale sorge il pavsello di Bosisio, che fu patria di G. Parini. Od. 1,33: «Colli beati o placidi Che il vago Eupili mio Cingete con dolcissimo Insen-<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|165|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Urta le gallic’ossa, e quell’aspetto
Par che ’l natio rancor gli disacerbe.
Vidi ’l campo ove Scipio giovinetto
{{R|185}}Contro i punici dardi allo spirante
Padre fe’ scudo del roman suo petto.
Vidi l’umil Agogna intollerante
Del suo fato novel; vidi la valle
Cui nome ed ubertà fa la sonante
{{R|190}}Sesia. Di là varcai per arduo calle
L’alpe che il nutritor di molte genti
Verbano adombra colle verdi spalle.
Quindi del Lario attinsi le ridenti
Rive, e la terra ove alla luce aprîrsi
{{R|195}}I solerti di Plinio occhi veggenti;
Ed or l’odi di Volta insuperbirsi,
Che vita infonde pe’ contatti estremi
Di due metalli (maraviglia a dirsi!)
Nei membri già di pelle e capo scemi
{{R|200}}Delle rauche di stagno abitatrici,
E di Galvan ricrea gli alti sistemi.
I placidi cercai poggi felici
Che con dolce pendío cingon le liete
Dell’Eupili lagune irrigatrici;
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:202-258. Questi versi sul monumento del Parini sono nel testo quali il M. li pubblicò insieme coi ''Sepolcri'' del Foscolo e del Pindemonte nel 1808 in Brescia: qui reco le varianti (che son quelle senza indicazione) della prima forma ch’ebbero dal poeta, quale si legge in alcune stampe della ''Mascheroniana'' e anche nel Resnati.
<section end="varianti" />
dall’esercito di Carlo V (1500-1558). — 183. che ’l natio ecc.: che ingentilisca quella rozzezza di sentimenti ch’egli cbbe da natnra. — 184. ove ecc.: ovo accadde la battaglia del Ticino (vinta da Annibale), in cui restò ucciso Paolo Emilio, invano difeso dal figlio suo adottivo I°. Cornelio Scipione, soprannominato poi l’Africano. — 187. Agogna: fiumicello alla destra di Novara, la «quale, tolta alla repubblica cisalpina, era passata proprio allora a far parte del dipartimento della Sesia. — 188. la valle ecc.: la Val Sesia, che prende nome dal fiume principale che la bagna. — 191. che: È soggetto. — 192. Verbano: il piú grande de’!aghi subalpini d’Italia, che però si chiama Lago Maggiore, ed è formato dal Ticino. — 193 Lario: il lago di Como il quale, partendo dalle falde dello Alpi Rezie, si stende da settentrione a mezzogiorno, e a Bellagio si divide in dne rami, orientale l’uno verso Lecco, occidentale l’altro verso Como. Lario è il nome che gli dà anche Virgilio: cfr. Geor= II, 159. — 194. la terra ecc.: Como, che fu patria del grande naturalista Plinio il vecchio (23-79 d. C.). - Di terra per città s’hanno moltissimi esempi in Dante. Cfr. Inf. v, 97; vm, 130; IX, 104; xvVI, 9j xx, 98; xxI, 40; xxvm. 43; Purg. vI, 75; Par. rx, 92 ecc. — 197. Che vita ecc.: Accenna alla teoria del magnetismo animale e dell’elettricità, scoperta dal bolognese Luigi Galvani (17371798) e perfezionata da Alessandro Volta, comasco (1745-1827), per mezzo dell’invenziono della pila, a cui se si attacca mna rana (le rauche ecc.) scorticata e senza capo, salta quasi come se fosse viva. — 198. dne metalli: lo zinco e il rame. — 204. Eupili: cosí era chiamato dagli antichi il lago di Pusiano in Brianza (cfr. Plinio St. N. III, 23), presso il quale sorge il pavsello di Bosisio, che fu patria di G. Parini. Od. 1,33: «Colli beati o placidi Che il vago Eupili mio Cingete con dolcissimo Insen-<noinclude></noinclude>
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2022-08-04T09:22:16Z
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|165|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Urta le gallic’ossa, e quell’aspetto
Par che ’l natio rancor gli disacerbe<ref>183. '''che ’l natio''' ecc.: che ingentilisca quella rozzezza di sentimenti ch’egli ebbe da natura.</ref>.
Vidi ’l campo ove Scipio giovinetto
{{R|185}}Contro i punici dardi allo spirante
Padre fe’ scudo del roman suo petto<ref>184. '''ove''' ecc.: ove accadde la {{Wl|Q378957|battaglia del Ticino}} (vinta da Annibale), in cui restò ucciso Paolo Emilio, invano difeso dal figlio suo adottivo P. Cornelio Scipione, soprannominato poi l’Africano.</ref>.
Vidi l’umil Agogna<ref>187. '''{{Wl|Q212221|Agogna}}''': fiumicello alla destra di Novara, la «quale, tolta alla repubblica cisalpina, era passata proprio allora a far parte del dipartimento della Sesia.</ref> intollerante
Del suo fato novel; vidi la valle
Cui nome ed ubertà fa la sonante
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{{R|195}}I solerti di Plinio occhi veggenti<ref>194. '''la terra''' ecc.: {{Wl|Q1308|Como}}, che fu patria del grande naturalista [[Autore:Plinio il vecchio]] (23-79 d. C.). - Di ''terra'' per città s’hanno moltissimi esempi in Dante. Cfr. ''Inf.'' {{Sc|v}}, 97; {{Sc|viii}}, 130; {{Sc|ix}}, 104; {{Sc|xvi}}, 9, {{Sc|xx}}, 98; {{Sc|xxi}}, 40; {{Sc|xxvii}}, 43; ''Purg.'' {{Sc|vi}}, 75; ''Par.'' {{Sc|ix}}, 92 ecc.</ref>;
Ed or l’odi di Volta insuperbirsi,
Che vita infonde<ref>197. '''Che vita''' ecc.: Accenna alla teoria del magnetismo animale e dell’elettricità, scoperta dal bolognese {{AutoreCitato|Luigi Galvani|Luigi Galvani}} (1737-1798) e perfezionata da {{AutoreCitato|Alessandro Volta|Alessandro Volta}}, comasco (1745-1827), per mezzo dell’invenziono della pila, a cui se si attacca una rana (''le rauche'' ecc.) scorticata e senza capo, salta quasi come se fosse viva.</ref> pe’ contatti estremi
Di due metalli<ref>198. '''due metalli''': lo zinco e il rame.</ref> (maraviglia a dirsi!)
Nei membri già di pelle e capo scemi
{{R|200}}Delle rauche di stagno abitatrici,
E di Galvan ricrea gli alti sistemi.
I placidi cercai poggi felici
Che con dolce pendío cingon le liete
Dell’Eupili<ref>204. '''Eupili''': cosí era chiamato dagli antichi il {{Wl|Q63177|lago di Pusiano}} in Brianza (cfr. {{AutoreCitato|Gaio Plinio Cecilio Secondo|Plinio}} ''St. N.'' III, 23), presso il quale sorge il paesello di {{Wl|Q30023050|Bosisio}}, che fu patria di G. Parini. ''Od.'' 1,33: «Colli beati o placidi Che il vago Eupili mio Cingete con dolcissimo {{Pt|Insen-|}}</ref> lagune irrigatrici;
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:202-258. Questi versi sul monumento del Parini sono nel testo quali il M. li pubblicò [[Dei_sepolcri_(Bettoni_1808)|insieme coi ''Sepolcri'' del Foscolo e del Pindemonte nel 1808 in Brescia]]: qui reco le varianti (che son quelle senza indicazione) della prima forma ch’ebbero dal poeta, quale si legge in alcune stampe della ''Mascheroniana'' e anche nel Resnati.
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<ref follow="pag180">dall’esercito di Carlo V (1500-1558).</ref><noinclude></noinclude>
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2022-08-04T05:20:30Z
OrbiliusMagister
129
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|166|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
{{R|205}}E nel vederli mi sclamai: Salvete,
Piagge dilette al ciel, che al mio Parini
Foste cortesi di vostr’ombre quete,
Quando ei fabbro di numeri divini,
L’acre bile fe’ dolce e la vestìa
{{R|210}}Di tebani concenti e venosini.
Parea de’ carmi tuoi la melodia
Per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde
E le selve eran tutte un’armonia.
Parean d’intorno i fior, l’erbe, le fronde
{{R|215}}Animarsi e iterarmi in suon pietoso:
Il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde?
Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funèbre che dicea:
{{Sc|Ai sacri mani di parin riposo.}}
{{R|220}}E donna di beltà che dolce ardea
(Tese l’orecchio, e fiammeggiando il vate
Alzò l’arco del ciglio, e sorridea)
Colle dita venìa bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
{{R|225}}Di rispetto atteggiata e di pietate.
Bella la guancia in suo pudor; piú bella
Su la fronte splendea l’alma serena,
Come in limpido rio raggio di stella.
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:208-16. E Zui spiraste è numeri divini, Che sovente obliar féro ad Apollo I tebani concenti e i venosini. Io le mirava, e non venia satollo Mai del mirar; ché rapido il piacere L’un dall’altro sorgea come rampollo: Quando un accento non lontan mi fère Che il tuo nome suonava. Distoso Donde quel suono uscia corsi a vedere.
:211. de carmi suoi (0.).
:220. Ed una non so ben se donna 0 dea (Cosi legge anche l’ediz. C.).
:221-2. (Tese l’orecchio, aguzzò gli occhi il vate, E spianava le rughe e sorridea)
<section end="varianti" />
sibil pendio, ...». — 207. cortesi di vostr’ombre quete: Parini Od. I, 41: «Già la quiete, a gli uomini Si sconosciuta, in seno De le vostr’ombre apprestami Caro albergo sereno». — 208. numeri: armonie, versi. — 209. L’acre bile ecc.: addolci degli allettamenti doll’arte la bile che gli ferveva in potto contro i vizi del suo tempo. Allude, com’è manifesto, al Giorno. — 210. Di tebani ecc.: de’ suoni della poesia pindarica e oraziana. — 211. tuoi: porché il Verri parla al Parini. — 217. L’avv. Rocco Marliani nella sua villa, che, dal nome della moglie, chiamò Amalia, posta su una collina di Erba, donde si scorgeva il lago di I’u siano, fece erigere all’amico Parini un monumento, protetto da lauri, e incidervi sopra i vv. di lui, un po’ mutati, che servono di chiusa all’ode XVII: «Qui ferma il passo, e attonito Udrai del tuo cantore Le commosse reliquie Sotto la terra argute sibilar». — 219. Mani: cosí chiamavano gli antichi le anime de’ huoni morti. — 220. donna: la sposa del Marliani. — 221. Tese ’er mezzo di questi atti vuole il p. significare l’ammirazione vivissima, che della bellozza femminilo ebbe sompre il Parini. — 225. Di rispetto occ.: Ricorda, per la forma del verso, il dantesco (Purg. x, 78): «Di lagrime atteggiata o di dolore».<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|166|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
{{R|205}}E nel vederli mi sclamai: Salvete,
Piagge dilette al ciel, che al mio Parini
Foste cortesi di vostr’ombre quete<ref>207. '''cortesi di vostr’ombre quete''': Parini ''Od.'' I, 41: «Già la quiete, a gli uomini Sí sconosciuta, in seno De le vostr’ombre apprestami Caro albergo sereno».</ref>,
Quando ei fabbro di numeri<ref>208. '''numeri''': armonie, versi.</ref> divini,
L’acre bile<ref>209. '''L’acre bile''' ecc.: addolcí degli allettamenti dell’arte la bile che gli ferveva in petto contro i vizi del suo tempo. Allude, com’è manifesto, al ''Giorno''.</ref> fe’ dolce e la vestía
{{R|210}}Di tebani concenti e venosini<ref>210. '''Di tebani''' ecc.: de’ suoni della poesia pindarica e oraziana.</ref>.
Parea de’ carmi tuoi<ref>211. '''tuoi''': perché il Verri parla al Parini.</ref> la melodia
Per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde
E le selve eran tutte un’armonia.
Parean d’intorno i fior, l’erbe, le fronde
{{R|215}}Animarsi e iterarmi in suon pietoso:
Il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde?
Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso<ref>217. L’avv. Rocco Marliani nella sua villa, che, dal nome della moglie, chiamò Amalia, posta su una collina di Erba, donde si scorgeva il lago di Pusiano, fece erigere all’amico Parini un monumento, protetto da lauri, e incidervi sopra i vv. di lui, un po’ mutati, che servono di chiusa all’ode XVII: «Qui ferma il passo, e attonito Udrai del tuo cantore Le commosse reliquie Sotto la terra argute sibilar».</ref>
Sculto un sasso funèbre che dicea:
{{Sc|Ai sacri mani<ref>219. '''Mani''': cosí chiamavano gli antichi le anime de’ buoni morti.</ref> di parin riposo.}}
{{R|220}}E donna<ref>220. '''donna''': la sposa del Marliani.</ref> di beltà che dolce ardea
(Tese l’orecchio, e fiammeggiando il vate
Alzò l’arco del ciglio, e sorridea<ref>221. '''Tese''' ecc.: Per mezzo di questi atti vuole il p. significare l’ammirazione vivissima, che della bellezza femminile ebbe sempre il Parini.</ref>)
Colle dita venía bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
{{R|225}}Di rispetto atteggiata e di pietate<ref>225. '''Di rispetto''' ecc.: Ricorda, per la forma del verso, il dantesco (''Purg.'' {{Sc|x}}, 78): «Di lagrime atteggiata e di dolore».</ref>.
Bella la guancia in suo pudor; piú bella
Su la fronte splendea l’alma serena,
Come in limpido rio raggio di stella.
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:208-16. ''E lui spiraste i numeri divini, Che sovente obliar fêro ad Apollo I tebani concenti e i venosini. Io le mirava, e non venia satollo Mai del mirar; ché rapido il piacere L’un dall’altro sorgea come rampollo: Quando un accento non lontan mi fère Che il tuo nome suonava. Disïoso Donde quel suono uscía corsi a vedere.''
:211. ''de’ carmi suoi'' (O.).
:220. ''Ed una non so ben se donna o dea'' (Cosí legge anche l’ediz. C.).
:221-2. ''(Tese l’orecchio, aguzzò gli occhi il vate, E spianava le rughe e sorridea)''
<section end="varianti" />
<ref follow="pag181">sibil pendio, ...».</ref><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|167|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena,
{{R|230}}Di lauro, che parea lieto fiorisse
Tra le sue man, fe’ al sasso una catena;
E un sospir trasse affettuoso, e disse:
Pace eterna all’amico: e te chiamando
I lumi al cielo sí pietosi affisse,
{{R|235}}Che gli occhi anch’io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura o quale
Parte d’Olimpo ratteneati, quando
Di que’ bei labbri il prego erse a te l’ale?
Se questa indarno l’udir tuo percuote,
{{R|240}}Qual’altra ascolterai voce mortale?
Riverente in disparte alle devote
Ceremonie assistea colle tranquille
Luci nel volto della donna immote
Uom d’alta cortesia, che il ciel sortille,
{{R|245}}Piú che consorte, amico. Ed ei, che vuole
Il voler delle care alme pupille,
Ergea d’attico gusto eccelsa mole,
Sovra cui d’ogni nube immacolato
Raggiava immemor del suo corso il sole.
{{R|250}}E {{Sc|Amalia}} la dicea dal nome amato
Di costei, che del loco era la diva
E piú del cor che al suo congiunse il fato.
Al pio rito funèbre, a quella viva
Gara d’amor mirando, già di mente
{{R|255}}Del mio gir oltre la cagion m’usciva.
Mossi al fine; e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura abbandonai,
L’orme segnando al cor contrarie e lente.
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:229. ''poscia che dato'' (Cosí legge anche l’ediz. C.).
:235-240. ''Che gli occhi anch’io levai, fermo aspettando Che tu scendessi, e vidi che mortale Grido agli eterni non salia piú, quando Il costei prego a te non giunse; il quale Se alle porte celesti invan percote, Per là dentro passar null’altro ha l’ale.''
:242. Cerimonie'' (O.).
:247-9. ''Sol per farle contente, eccelsa mole D’attico gusto ergea, su cui fermato Pareami in cielo, per gioirne, il sole.''
:251. ''Di colei,''
253. ''Al pietoso olocausto''
255. ''la ragion m’usciva''
<section end="varianti" />
229. dati i mirti ecc.: Virgilio En. VI, 883: Manibus date libia plenis. Cfr. anche Dante Purg. xxx, 21. — 238. erse: elevò. — 244. Uom ecc.: il Marliani. — 247. eccelsa mole: la villa detta. — 258. L’orme ecc.: cfr. il v. 57, p. 53 e la nota corrispondente. —<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|167|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Poscia che dati i mirti ebbe a man piena<ref>229. '''dati i mirti''' ecc.: Virgilio ''En.'' VI, 883: ''Manibus date libia plenis.'' Cfr. anche Dante ''Purg.'' {{Sc|xxx}}, 21.</ref>,
{{R|230}}Di lauro, che parea lieto fiorisse
Tra le sue man, fe’ al sasso una catena;
E un sospir trasse affettuoso, e disse:
Pace eterna all’amico: e te chiamando
I lumi al cielo sí pietosi affisse,
{{R|235}}Che gli occhi anch’io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura o quale
Parte d’Olimpo ratteneati, quando
Di que’ bei labbri il prego erse<ref>238. '''erse''': elevò.</ref> a te l’ale?
Se questa indarno l’udir tuo percuote,
{{R|240}}Qual’altra ascolterai voce mortale?
Riverente in disparte alle devote
Ceremonie assistea colle tranquille
Luci nel volto della donna immote
Uom d’alta cortesia<ref>244. '''Uom''' ecc.: il Marliani.</ref>, che il ciel sortille,
{{R|245}}Piú che consorte, amico. Ed ei, che vuole
Il voler delle care alme pupille,
Ergea d’attico gusto eccelsa mole<ref>247. '''eccelsa mole''': la villa detta.</ref>,
Sovra cui d’ogni nube immacolato
Raggiava immemor del suo corso il sole.
{{R|250}}E {{Sc|Amalia}} la dicea dal nome amato
Di costei, che del loco era la diva
E piú del cor che al suo congiunse il fato.
Al pio rito funèbre, a quella viva
Gara d’amor mirando, già di mente
{{R|255}}Del mio gir oltre la cagion m’usciva.
Mossi al fine; e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura abbandonai,
L’orme segnando al cor contrarie e lente<ref>258. '''L’orme''' ecc.: cfr. il v. 57, p. 53 e la nota corrispondente.</ref>.
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:229. ''poscia che dato'' (Cosí legge anche l’ediz. C.).
:235-240. ''Che gli occhi anch’io levai, fermo aspettando Che tu scendessi, e vidi che mortale Grido agli eterni non salia piú, quando Il costei prego a te non giunse; il quale Se alle porte celesti invan percote, Per là dentro passar null’altro ha l’ale.''
:242. Cerimonie'' (O.).
:247-9. ''Sol per farle contente, eccelsa mole D’attico gusto ergea, su cui fermato Pareami in cielo, per gioirne, il sole.''
:251. ''Di colei,''
253. ''Al pietoso olocausto''
255. ''la ragion m’usciva''
<section end="varianti" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|168|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Vagai per tutto: nel tugurio entrai
{{R|260}}Dell’infelice, e il ricco vidi in grembo
Dell’auree case piú infelice assai.
Salii, discesi, e risalii lo sghembo
Sentier di balze e fiumi, e, il mio cammino
Oltre l’Adda affrettando ed oltre il Brembo,
{{R|265}}Alla tua patria giunsi, o pellegrino
Di Bergamo splendor che qui m’ascolti;
E mesta la trovai del repentino
Tuo dipartire e lagrimosi i volti
Su la morta di Lesbia illustre salma,
{{R|270}}Che al cielo i vanni per seguirti ha sciolti.
Brillò di gaudio a quell’annunzio l’alma
Dell’amoroso geomètra, e uscire
Parve alcun poco dell’usata calma.
E già surto partìa, per lo desire
{{R|275}}Di riveder quel volto che le penne
Di Pindo ai voli gli solea vestire;
Ma dignitosa coscienza il tenne
E il narrar grave di quell’altro saggio,
Che, precorso un sorriso, cosí venne
{{R|280}}Seguitando il suo dir: Dritto il vïaggio
Di là volsi al terren che il Mella irriga,
Ricco d’onor, di ferro e di coraggio.
Quindi al Benàco che dal vento ha briga
Pari al liquido grembo d’Amfitrite
{{R|285}}Quando irato Aquilon l’onde castiga.
Quindi al fiume, ove tardi diffinite
Fur l’italiche sorti, e non del duce
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:261. ''De suoi tesori'' (O.).
:274. ''E già surto movea'' (O.).
:279-80. ''Che sorrise alcun poco, e il suo dir venne Seguitando cosi: Dritto'' (O.).
<section end="varianti" />
262. sgembo: tortuoso. — 264. L’Adda sorge dalle Alpi Rozio, bagna per il lungo tutta la Valtellina, ontra nel lago di Como, passa per le torre e vicino alle mura di Lodi e, dopo un corso di 282 chilometri circa, si scarica nel Po a 11 chilometri sopra Cremona. — Brembo: affluente dell’Adda presso Bergamo. — 265. pellegrino: raro, insigne. Petrarca P. I, son. 159: «Leggiadria singo- lare e pellegrina». — 269. Lesbia: la Grismondi. Cfr. la nota d’iutrod. — 275. che le penne ecc.: che gli soleva essere ispirazione al poctare. Dante Par. xv, 53: «colei (Beatrice) Ch’all’alto volo ti vestile piume». Cfr. anche Par. xxv, 49 e seg. — 277. dignitosa coscienza: cfr. Dante Purg. 1, 8. — 279. precorso un sorriso: avondo prima sorriso. — 281. Mella: il «biondo Mela» del Pindemonto (Sep., 1), fiume che scorre vicino a Brescia. — 283. Benàco: il lago di Garda, chiamato dagli antichi Benaco. Cfr. Plinio St. N. II, 106. Virgilio (Georg. II, 160) fa testimonianza delle gravi tempeste che alle volte lo turbano: Fluctibus et fremitu assurgens Benace marino. — che dal vento ha briga: Dante Par. vii, 68, «il golfo Che riceve da Euro maggior briga». — 284. d’Amfitrite: del mare. Cfr. la nota al v. 100 del Serm. sulla Mit. — 286. al flume ecc.: all’Adige formato da molti piccoli ruscelli che nascono dalle Alpi Elvutiche, o bagna Trento, Roveredo, Verona,´´<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|168|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Vagai per tutto: nel tugurio entrai
{{R|260}}Dell’infelice, e il ricco vidi in grembo
Dell’auree case piú infelice assai.
Salii, discesi, e risalii lo sghembo<ref>262. '''{{Ec|sgembo|sghembo}}''': tortuoso.</ref>
Sentier di balze e fiumi, e, il mio cammino
Oltre l’Adda<ref>264. L’Adda sorge dalle Alpi Rezie, bagna per il lungo tutta la Valtellina, entra nel lago di Como, passa per le terre e vicino alle mura di Lodi e, dopo un corso di 282 chilometri circa, si scarica nel Po a 11 chilometri sopra Cremona. — '''Brembo''': affluente dell’Adda presso Bergamo.</ref> affrettando ed oltre il Brembo,
{{R|265}}Alla tua patria giunsi, o pellegrino<ref>265. '''pellegrino''': raro, insigne. Petrarca P. I, ''son.'' 159: «Leggiadria singolare e pellegrina».</ref>
Di Bergamo splendor che qui m’ascolti;
E mesta la trovai del repentino
Tuo dipartire e lagrimosi i volti
Su la morta di Lesbia<ref>269. '''Lesbia''': la Grismondi. Cfr. la nota d’introd.</ref> illustre salma,
{{R|270}}Che al cielo i vanni per seguirti ha sciolti.
Brillò di gaudio a quell’annunzio l’alma
Dell’amoroso geomètra, e uscire
Parve alcun poco dell’usata calma.
E già surto partìa, per lo desire
{{R|275}}Di riveder quel volto che le penne
Di Pindo ai voli gli solea vestire<ref>275. che le penne ecc.: che gli soleva essere ispirazione al poetare. Dante ''Par.'' {{Sc|xv}}, 53: «colei (Beatrice) Ch’all’alto volo ti vestì le piume». Cfr. anche ''Par.'' {{Sc|xxv}}, 49 e seg.</ref>;
Ma dignitosa coscienza<ref>277. '''dignitosa coscienza''': cfr. Dante ''Purg.'' {{Sc|i}}, 8.</ref> il tenne
E il narrar grave di quell’altro saggio,
Che, precorso un sorriso<ref>279. '''precorso un sorriso''': avendo prima sorriso.</ref>, cosí venne
{{R|280}}Seguitando il suo dir: Dritto il vïaggio
Di là volsi al terren che il Mella<ref>281. '''{{Wl|Q257575|Mella}}''': il «biondo Mela» del {{AutoreCitato|Ippolito Pindemonte|Pindemonte}} (''Sep.'', 1), fiume che scorre vicino a Brescia.</ref> irriga,
Ricco d’onor, di ferro e di coraggio.
Quindi al Benàco<ref>283. '''Benàco''': il {{Wl|Q6414|lago di Garda}}, chiamato dagli antichi Benaco. Cfr. Plinio St. N. II, 106. Virgilio (''Georg.'' II, 160) fa testimonianza delle gravi tempeste che alle volte lo turbano: ''Fluctibus et fremitu assurgens Benace marino''. — '''che dal vento ha briga''': Dante ''Par.'' {{Sc|vii}}, 68, «il golfo Che riceve da Euro maggior briga».</ref> che dal vento ha briga
Pari al liquido grembo d’Amfitrite<ref>284. '''d’Amfitrite''': del mare. Cfr. la nota al v. 100 del ''Serm. sulla Mit.''</ref>
{{R|285}}Quando irato Aquilon l’onde castiga.
Quindi al fiume<ref name="pag184">286. '''al fiume''' ecc.: all’Adige formato da molti piccoli ruscelli che nascono dalle Alpi Elvetiche, e bagna Trento, Roveredo, Verona,</ref>, ove tardi diffinite
Fur l’italiche sorti, e non del duce
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:261. ''De suoi tesori'' (O.).
:274. ''E già surto movea'' (O.).
:279-80. ''Che sorrise alcun poco, e il suo dir venne Seguitando cosi: Dritto'' (O.).
<section end="varianti" /><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|169|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Ma de’ condotti il cor vinse la lite. S
E l’Adige seguii fino alla truce
{{R|290}}Adria, ove stanchi già del lungo corso
Trenta seguaci il re de’ fiumi adduce.
Tutto in somma il paese ebbi trascorso
Che alla manca del Po tra ’l mare e ’l monte
Sente de’ treni cisalpini il morso.
{{R|295}}E di dolore, di bestemmie e d’onte
Per tutto intesi orribili favelle,
Che le chiome arricciar ti fanno in fronte:
Pianto di scarna plebe a cui la pelle
Si figura dall’ossa, e per le vie
{{R|300}}Famelica suonar fa le mascelle:
Pianto d’orbi fanciulli e madri pie,
D’erba e d’acqua cibate, onde di mulse
E d’orzo sagginar lupi ed arpie:
Pianto d’attrite meschinelle, avulse
{{R|305}}Ai sacri asili e con tremanti petti i
Di porta in porta ad accattar compulse:
Pianto di padri, ahi lassi!, a dar costretti
L’aver, la dote, e tutto, anche le poche
Care memorie de’ piú sacri affetti:
{{R|310}}Cupi sospiri e voci or alte or fioche
Di tutte genti, per gridar pietade
E per continuo maledir già roche.
D’orror fremetti; e venni alla cittade
Che dal ferro si noma. O dalle Muse
{{R|315}}Abitate mai sempre alme contrade,
Onde tanta pel mondo si diffuse
Itala gloria e tal di carmi vena
Che non Ascra, non Chio la maggior schiuse,
D’onor, di cortesia nutrice arena,
{{R|320}}Come giaci deserta! e dal primiero
Splendor caduta, e di squallor sol piena!
Questi sensi io volgea nel mio pensiero,
</poem><section end="s1" />
Legnago e sbocca, dopo un corso di 342 chilometri circa, nel golfo di Venezia. Dopo il Po, è il maggior fiume d’Italia. Per la battaglia a cui si allude qui, cfr. la nota al v. 52, c. II. — 288. de’ condotti il cor: il coraggio de’ soldati austriaci. — 289. truce: tempestosa. — 291. il re de’ fiumi: cfr. la nota al v. 88, p. 127. — 293. tra ’l mare e”1 monte: tra le Alpi e l’Adriatico. — 298. a cui la pelle ecc.: cfr. la nota al v. 31, p. 63. — 801. orbi: orfani. — 302. onde: in senso finale si costrnisce col congiuntivo assai meglio che, come qui, con l’infinito. Cfr. Ariosto XII, 46 e XVI, 46; Parini Od. IV, 113 ecc. — mulse: acque con miele. — 303. sagginar: ingrassare. — 304. avulse: strappate (lat. )., — 305. Ai sacri asili: ai conventi. — 306. compulse: spinte. — 313. alla cittade ece.: a Ferrara. — 317. tal di carmi vena: Allude specialmente all’Ariosto e al Tasso, che poetarono, come tutti sanno, alla corte «di Ferrara. — 318. Ascra... Chio:<noinclude></noinclude>
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2022-08-04T10:35:39Z
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<noinclude><pagequality level="3" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione||CANTO QUARTO|169|riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Ma de’ condotti il cor<ref>288. '''de’ condotti il cor''': il coraggio de’ soldati austriaci.</ref> vinse la lite.
E l’Adige seguii fino alla truce<ref>289. '''truce''': tempestosa.</ref>
{{R|290}}Adria, ove stanchi già del lungo corso
Trenta seguaci il re de’ fiumi<ref>291. '''il re de’ fiumi''': cfr. la nota al v. 88, p. {{Pg|127}}.</ref> adduce.
Tutto in somma il paese ebbi trascorso
Che alla manca del Po tra ’l mare e ’l monte<ref>293. '''tra ’l mare e ’l monte''': tra le Alpi e l’Adriatico.</ref>
Sente de’ treni cisalpini il morso.
{{R|295}}E di dolore, di bestemmie e d’onte
Per tutto intesi orribili favelle,
Che le chiome arricciar ti fanno in fronte:
Pianto di scarna plebe a cui la pelle
Si figura dall’ossa<ref>298. '''a cui la pelle''' ecc.: cfr. la nota al v. 31, p. {{Pg|63}}.</ref>, e per le vie
{{R|300}}Famelica suonar fa le mascelle:
Pianto d’orbi<ref>301. '''orbi''': orfani.</ref> fanciulli e madri pie,
D’erba e d’acqua cibate, onde<ref>302. '''onde''': in senso finale si costruisce col congiuntivo assai meglio che, come qui, con l’infinito. Cfr. Ariosto XII, 46 e XVI, 46; Parini ''Od.'' IV, 113 ecc. — '''mulse''': acque con miele.</ref> di mulse
E d’orzo sagginar<ref>303. '''sagginar''': ingrassare.</ref> lupi ed arpie:
Pianto d’attrite meschinelle, avulse<ref>304. '''avulse''': strappate (lat. ).</ref>
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Di porta in porta ad accattar compulse<ref>306. '''compulse''': spinte.</ref>:
Pianto di padri, ahi lassi!, a dar costretti
L’aver, la dote, e tutto, anche le poche
Care memorie de’ piú sacri affetti:
{{R|310}}Cupi sospiri e voci or alte or fioche
Di tutte genti, per gridar pietade
E per continuo maledir già roche.
D’orror fremetti; e venni alla cittade
Che dal ferro si noma<ref>313. '''alla cittade''' ecc.: a Ferrara.</ref>. O dalle Muse
{{R|315}}Abitate mai sempre alme contrade,
Onde tanta pel mondo si diffuse
Itala gloria e tal di carmi vena<ref>317. '''tal di carmi vena''': Allude specialmente all’{{AutoreCitato|Ludovico Ariosto|Ariosto}} e al {{AutoreCitato|Torquato Tasso|Tasso}}, che poetarono, come tutti sanno, alla corte «di Ferrara.</ref>
Che non Ascra, non Chio<ref name="pag185">318. '''Ascra... Chio''': </ref> la maggior schiuse,
D’onor, di cortesia nutrice arena,
{{R|320}}Come giaci deserta! e dal primiero
Splendor caduta, e di squallor sol piena!
Questi sensi io volgea nel mio pensiero,
</poem><section end="s1" /><ref follow="pag184">Legnago e sbocca, dopo un corso di 342 chilometri circa, nel golfo di Venezia. Dopo il Po, è il maggior fiume d’Italia. Per la battaglia a cui si allude qui, cfr. la nota al v. 52, c. II.</ref><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="OrbiliusMagister" />{{RigaIntestazione|170|IN MORTE DI LORENZO MASCHERONI||riga=si}}</noinclude><section begin="s1" /><poem>
Quando un’ombra m’occorse alla veduta
Mesta sì, ma sdegnosa in atto altero.
{{R|325}}Sovresso un marmo sepolcral seduta
Stava l’afflitta, e della manca il dosso
Era letto alla guancia irta e sparuta.
Ombrata avea di lauro non mai scosso
La spazïosa fronte e sui ginocchi
{{R|330}}Epico plettro, che dall’aura mosso
Dir fremendo parea: Nessun mi tocchi.
Ver’ lui mi spinsi, e dissi: O tu che spiri
Dolor cotanto e maestà dagli occhi,
Soddisfai md’un detto a’ miei desiri;
{{R|335}}Parlami ’l nome tuo, spirto gentile.
Parlami la cagion de’ tuoi sospiri;
Se nulla puote onesto prego umile.
</poem><section end="s1" />
<section begin="varianti" />
:328. ''Ombrosa avea'' (C).
<section end="varianti" />
l’una patria di Esiodo, l’altra una delle sette che si contesero il vanto d’aver dato i natali ad Omero. — 323. un’ombra: quella dell’Ariosto. — 325. Sovresso: cfr. la nota al V. 127, p. 88. — 326. e della manca ecc.: Dante Purg. vii, 107: c( L’altro vedete e’ ha fatto alla guancia Della sua palma, sospirando, letto». — 328. non mal scosso: vuol dire che la fama dell’Ariosto non è mai venuta meno. — 337. nulla: qualche cosa.
<section begin="s2" />{{Ct|t=1|v=1|CANTO QUINTO}}
{{Sc|Contenuto}}: L’ombra, ch’è poi dal Verri riconosciuta per quella dell’ Ariosto, rimprovera l’Italia d’esser fetida sentina d’ogni vizio, e d’aver abbandonato il valore antico; quindi risponde d’essersi là recata per la traslazione che la patria pietosa fece delle sue ceneri ( 1-51 ). Ma venuta non fosse, che non l’avrebbe veduta oppressa (52-66). Nel mentre, avviene sul territorio ferrarese un’innondazione dei fiumi Reno e Panaro, cui s’aggiunge un turbine feroce, che schianta alberi e distrugge raccolti: fuggono spaventati e impoveriti gli abitanti, i lamenti dei quali non ascolta il governo, che pensa soltanto a sé (67-147). L’ombra dell’Ariosto manda un grido e sparisce; e il Verri passa a Bologna, a Modena, a Reggio, assai mutate da quel che furono (148-221). La narrazione è interrotta da una voce che grida: «pace al mondo», cui risponde festante il cielo. I quattro spiriti si volgono dalla parte donde venne la voce, e veggono uscire dalla Senna un fiume di luce e in mezzo ad esso un eroe, che ripone la spada nel fodero ed offre l’olivo alla nemica d’Europa, l’Inghilterra (222-246). Tutte le deità marine, già timorose della guerra, escono festose a galla, e il Commercio si ridesta a rinvigorire di novella vita l’Europa e l’Italia, se vorrà liberarsi de’ malvagi e se i suoi reggitori sapranno adempierne tutte le speranze (247-288).<section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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Mesta sì, ma sdegnosa in atto altero.
{{R|325}}Sovresso<ref>325. '''Sovresso''': cfr. la nota al V. 127, p. 88.</ref> un marmo sepolcral seduta
Stava l’afflitta, e della manca<ref>326. '''e della manca''' ecc.: Dante ''Purg.'' {{Sc|vii}}, 107: «L’altro vedete c’ha fatto alla guancia Della sua palma, sospirando, letto».</ref> il dosso
Era letto alla guancia irta e sparuta.
Ombrata avea di lauro non mai scosso<ref>328. '''non mai scosso''': vuol dire che la fama dell’Ariosto non è mai venuta meno.</ref>
La spazïosa fronte e sui ginocchi
{{R|330}}Epico plettro, che dall’aura mosso
Dir fremendo parea: Nessun mi tocchi.
Ver’ lui mi spinsi, e dissi: O tu che spiri
Dolor cotanto e maestà dagli occhi,
Soddisfai md’un detto a’ miei desiri;
{{R|335}}Parlami ’l nome tuo, spirto gentile.
Parlami la cagion de’ tuoi sospiri;
Se nulla<ref>337. '''nulla''': qualche cosa.</ref> puote onesto prego umile.
</poem><ref follow="pag185">l’una patria di Esiodo, l’altra una delle sette che si contesero il vanto d’aver dato i natali ad Omero.</ref><section end="s1" />
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:328. ''Ombrosa avea'' (C).
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<section begin="s2" />{{Ct|t=1|v=1|CANTO QUINTO}}
{{Sc|Contenuto}}: L’ombra, ch’è poi dal Verri riconosciuta per quella dell’ Ariosto, rimprovera l’Italia d’esser fetida sentina d’ogni vizio, e d’aver abbandonato il valore antico; quindi risponde d’essersi là recata per la traslazione che la patria pietosa fece delle sue ceneri ( 1-51 ). Ma venuta non fosse, che non l’avrebbe veduta oppressa (52-66). Nel mentre, avviene sul territorio ferrarese un’innondazione dei fiumi Reno e Panaro, cui s’aggiunge un turbine feroce, che schianta alberi e distrugge raccolti: fuggono spaventati e impoveriti gli abitanti, i lamenti dei quali non ascolta il governo, che pensa soltanto a sé (67-147). L’ombra dell’Ariosto manda un grido e sparisce; e il Verri passa a Bologna, a Modena, a Reggio, assai mutate da quel che furono (148-221). La narrazione è interrotta da una voce che grida: «pace al mondo», cui risponde festante il cielo. I quattro spiriti si volgono dalla parte donde venne la voce, e veggono uscire dalla Senna un fiume di luce e in mezzo ad esso un eroe, che ripone la spada nel fodero ed offre l’olivo alla nemica d’Europa, l’Inghilterra (222-246). Tutte le deità marine, già timorose della guerra, escono festose a galla, e il Commercio si ridesta a rinvigorire di novella vita l’Europa e l’Italia, se vorrà liberarsi de’ malvagi e se i suoi reggitori sapranno adempierne tutte le speranze (247-288).<section end="s2" /><noinclude></noinclude>
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In morte di Lorenzo Mascheroni (1891)/Canto quarto
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|346|{{Sc|annotazioni}}|}}</noinclude>entrambi i modi egli avrebbe dovuto ricevere il premio, o della vittoria propria, o di quella dello scolaro, a cui aveva insegnato vincere.
{{Centrato|CAPO XI.}}
{{Centrato|{{Sc|Pirrone}}.}}
II. ''Ebbe a conversare co’ ginnosofisti''. — Secondo Strabono e Megastene una setta braminica avrebbe professato lo scetticismo.
III. ''Non abbadando a nulla ec''. — Farebbe mal giudizio dello scetticismo di Pirrone chi, fondato su questi aneddoti puerili, se lo rappresentasse ridotto per le proprie opinioni all’impotenza di agire.
IV. ''Portalampadi''. — {{Greco da controllare}}. Erano così chiamati coloro che portavano i lumi nelle cerimonie religiose, e particolarmente que’ giovani, che, nella festa di Prometeo, collocati a distanze eguali l’uno dall’altro, dal tempio sino alla città d’Atene, si trasmettevano correndo una lampada accesa all’altare del nume, rimanendo perdente quello nelle cui mani spegnetesi. Non unico avanzo di antichi riti dura tuttavia in Roma la festa così chiamata dei moccoli.
V. ''Gli Ateniesi onorarono Pirrone della cittadinanza''. — Bayle nega il fatto pel motivo che se ne adduce; ma ben altrimenti Pirrone potea aver meritato la cittadinanza d’Atene che coll’uccisione di quel tiranno.
VI. ''Facendo osservare un porcelletto che mangiava ec''. — A proposito di questo porcelletto, che presso a naufragare tranquillamente mangiava, uno spiritoso francese chiamò la filosofia pirronica l’epicureismo della ragione.
VII. ''Separato dagli uomini ec''. — Menagio osserva che<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO QUARTO|491}}</noinclude>{{Pt|piccar|appiccar}} fuoco di nascosto ai granai ov’era in serbo il frumento ed ogni altra vittuaglia. Dalla quale proposta opinava essere per avvenirne l'una delle due, o che i Romani, tutti in affanno ed occupati ad estinguere
l'incendio lascerebbon tempo a suoi di ascendere
le mura, o intenti a respignere gli assalitori nulla curerebbonsi de'granai, e quindi, consumato dalle fiamme il frumento e gli altri bisogni della vita, in breve ora senza pericolo ridurrebbero l'assediata Archeopoli sotto il dominio persiano. A tanto miravano le inchieste di Mermeroe, ed il fellone di guisa accolsele che non appena veduta nel suo bollore la mischia pose a fuoco in occulto i luoghi sotto de' granaj. Al primo comparir delle fiamme dunque accorsavi piccola mano di Romani
riuscì a slento e fatica a spegnerle, di già essendosi ampiamente diffuse. Gli altri tutti, come dicea, piombarono sopra il nemico, e col repentino urto e spavento da essi apportato ne uccisero molti inermi ed inetti alla difesa, mai più i Persiani temendo che quella guernigione ristrettissima di gente prendesse a combatterli mentre sbandati e senz'ordine procedevano
ai merli, disarmati ed incapaci della minor resistenza portando sopra gli omeri le arieti. Queglino poi dagli archi tesi avvidersi ben presto venuti al combattimento dell'impotenza loro a vincere. In questa per ventura uno degli elefanti inaspratosi, o per tocca ferita, o da sua
posta, gittando a terra, col rinculare, quanti avea sul dorso, ruppe l'intera ordinanza; laonde i barbari pigliarono a ritirarsi, ed i Romani ad esterminare più alla dirotta chiunque capitava loro innanzi. Qui a buon {{Pt|di-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|491|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>{{Pt|ritto|diritto}} maraviglierà taluno come esperti costoro nell'arte di ribattere gli assalti dati cogli elefanti non attendesserne menomamente i precetti, e come di tali bestie senza motivo al mondo infuriatesi compiessero allora le narrate cose; quali poi sieno gli accorgimenti di tal arte
passo ora ad esporre.
IV. Assalitesi da Cosroe e dall'esercito persiano le mura di Edessa ecco avvicinarsi ud elefante su cui erano molti valorosissimi guerrieri chiusi in certa macchina detta Elopoli, cosicchè sembrava prossima la città a dichiararsi vinta, costretti i difensori d'altra delle sue torri a levarsi di là per campare da ana foltissima gragnuola di saette. Ben tosto non di meno i Romani coll'appendere un maiale all'abbandonato luogo annientarono l'imminente sciagura: conciossiachè quelle, disagiato e penzolone, cominciò a mandare, giusta
la consuetudine di tali bestie, grugniti sì acuti che l'elefante furiando s' arrestò, e quindi con lento rinculare scomparve. Tanto accadde in sì grave congiuntura, ed ora la sola fortuna riparò alla negligenza dei nostri. Venuto poi colla mia narrazione a nominare Edessa non passerò con silenzio un prodigio di cui ella fu spettatrice
in epoca anteriore alla presente guerra. Stava
Cosroe per rompere la così detta pace perpetua quando tal donna sgravossi d'un feto bicipite e di regolari forme in tutto il resto, e che si volesse da tale diformità pronosticare le posteriori vicende mostraronlo apertamente; addivenuta essendo non solo Edessa e con lei quasi tutta la plaga orientale, ma gran parte dello stesso
romano impero cagione di forti contese in tra due {{Pt|prin-|}}<noinclude><references/></noinclude>
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passo ora ad esporre.
IV. Assalitesi da Cosroe e dall'esercito persiano le mura di Edessa ecco avvicinarsi ud elefante su cui erano molti valorosissimi guerrieri chiusi in certa macchina detta Elopoli, cosicchè sembrava prossima la città a dichiararsi vinta, costretti i difensori d'altra delle sue torri a levarsi di là per campare da ana foltissima gragnuola di saette. Ben tosto non di meno i Romani coll'appendere un maiale all'abbandonato luogo annientarono l'imminente sciagura: conciossiachè quelle, disagiato e penzolone, cominciò a mandare, giusta
la consuetudine di tali bestie, grugniti sì acuti che l'elefante furiando s' arrestò, e quindi con lento rinculare scomparve. Tanto accadde in sì grave congiuntura, ed ora la sola fortuna riparò alla negligenza dei nostri. Venuto poi colla mia narrazione a nominare Edessa non passerò con silenzio un prodigio di cui ella fu spettatrice
in epoca anteriore alla presente guerra. Stava
Cosroe per rompere la così detta pace perpetua quando tal donna sgravossi d'un feto bicipite e di regolari forme in tutto il resto, e che si volesse da tale diformità pronosticare le posteriori vicende mostraronlo apertamente; addivenuta essendo non solo Edessa e con lei quasi tutta la plaga orientale, ma gran parte dello stesso
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO QUARTO|493}}</noinclude>{{Pt|cipi|principi}}. Narrate siccome furono tali cose ripiglio l'interrotto cammino.
V. Intanto che di questa fatta cominciano a disordinarsi le prime file persiane, quanti erano dagli omeri partecipando, senza indagarne il motivo, al conturbamento loro, trassersi a precipizio indietro. A simile i Dolomiti, spettatori da elevato luogo e sbigottiti alla vista della travolta ordinanza turpemente la diedero all'erta; manifestatasi la rotta furono perseguiti i fuggenti e trucidati nel numero di quattro mila, compresivi tre duci. I Romani mandarono di subito in Bizanzio all'imperatore
quattro conquistate bandiere. Si pretende inoltre che il nemico vi giuntasse non meno di venti mila cavalli, non tanto per opera del saettame o di ferro comunque si fosse, quanto per non avere trovato arrivando nella Lazica dopo i disagj di sì lunga via, pasciona sufficiente ai loro bisogni; voglionsi ritenere adunque anzi vittime della fame e della somma debolezza che delle armi.
VI. Mermeroe, fallitagli questa impresa, marciò colle truppe’a Muchiresi, padroneggiando tuttavia i Persiani, sebbene sperimentata contraria sorte ad Archeopoli, la massima parte della Lazica. Si viaggia una giornata per arrivare alle sue molto popolose borgate, e la ti s’appresenta il felicissimo agro della Colchide ricco di vino e di molte squisite frutta, che indarno cercheresti nel
rimanente della regione. Il fiume Reon ne bagna il suolo, dove gli antichi Colchi edificato aveansi un castello, ma i loro discendenti abbatteronne il più, giudicandolo facile agli approcciamenti ed assalti, perchè inalzato su di pianissimo terreno; altre volte nomaronlo con greca<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|annotazioni}}|347}}</noinclude>questi versi s’hanno ad applicare piuttosto che a Filone a Pirrone.
VIII. ''Tutti costoro Pirronisti, Dubitatici ed Esaminatori ec. ec''. — „La scuola cirenaica favoriva l’inclinazione al piacere e all’egoismo; i Cinici insegnavano il disprezzo dei costumi e della vita sociale; i Megarici si abbandonavano a dispute vane, al pari di altri filosofi, citati qua e colà sotto nome di dialettici, i quali intrattenevano il gusto dei Greci per le quistioni sottili e le soluzioni ingegnose. Così veggiamo che Democrito aveva i suoi aderenti, che propagarono la dottrina degli atomi, l’ateismo, l’amore dei piaceri e il dubbio universale. Da tutti questi elementi diversi si formarono le dottrine antifilosofiche di quest’epoca. — La prima setta di tale specie fu quella de’ primi scettici, di cui era capo Pirrone, che poco conosciamo. — L’antichità riguarda Timone come l’interprete delle dottrine di questo filosofo, delle cui opinioni è il testimonio più fedele e più esteso.“ — ''Ritter''.
''I dubbj.... erano di dirci maniere''. — In questi dieci ''tropi'' o maniere di dubbj, era compresa la maggior parte delle obbiezioni che gli Eleatici ed i Sofisti aveano accampate contro la testimonianza dei sensi. Questa specie di codice scettico, come ci fu conservato da Sesto Empirico, offre parecchie ingegnose osservazioni sui fenomeni sensibili. — „È quistione spesso promossa, nè per ancora risoluta chiaramente, il sapere se i dieci tropi del discorso ({{Greco da controllare}}), o luoghi comuni ({{Greco da controllare}}), che si attribuiscono agli Scettici, sieno di Pirrone e di Timone, o d’Enesidemo, scettico più recente. Pure se si osserva che i primi Scettici ne facevano ordinariamente uso, dobbiamo presumere che, quand’anche e’ non avessero composta un’esatta tavola di questi tropi, ciò almeno che v’è di essenziale spetti ad essi. Parimente non sono sviluppati con tropp’arte: ma sono al tutto conformi<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|494|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>voce Cotiaio, ma ora dagli stessi Lazj è detto Catalisio, per ignoranza di quella lingua deturpandone la retta pronuncia. Altri per lo contrario estimano aver quivi ab antico avuto sue fondamenta Citaia, città, patria di Eeta, donde i poeti chiamarono costui citaiense e la Colchide Citaide. Mermeroe adunque pervenutovi fermo ristaurarne i guasti, nè avendo all'uopo materiale
ed essendo imminente il verno si diè a ripararli
con munizioni di legno, e vi stabilì sua dimora. In vicinanza poi evvi Uchimerio fortissimo castello guardato con somma diligenza dai Lazj unitamente a piccola mano d'imperiali. Così il duce persiano accampatosi con tutto l'esercito a Gutalisio possedeva l'ottima parte della Colchide, strigneva siffattamente i nemici da impedir loro ogni trasporto di vittuaglia ad Uchimerio, ed era pronto a molestare l'andata nella Suania e Scimnia, provincie spettanti all'impero. Conciossiachè ove si giunga ad occupare Muchiresi vien serrata ai Lazj ed ai Romani la via tendente a que' luoghi. Di questo modo procedeva la guerra lazica.
{{Centrato|}}CAPO XV.</div>
{{Indentatura}}''Tregua di cinque anni turpemente compra da Giustiniano Augusto. — Libertà di Procopio nello scrivere. — Vendemmiatosi, le viti riproducono grappoli e gli alberi nuovi frutti.''
I. In Bizanzio l'ambasciatore di Cosroe lunghissimamente piatì di pace con Giustiniano Augusto e da ultimo entrambi convennero di porre giù le armi per<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|494|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>voce Cotiaio, ma ora dagli stessi Lazj è detto Catalisio, per ignoranza di quella lingua deturpandone la retta pronuncia. Altri per lo contrario estimano aver quivi ab antico avuto sue fondamenta Citaia, città, patria di Eeta, donde i poeti chiamarono costui citaiense e la Colchide Citaide. Mermeroe adunque pervenutovi fermo ristaurarne i guasti, nè avendo all'uopo materiale
ed essendo imminente il verno si diè a ripararli
con munizioni di legno, e vi stabilì sua dimora. In vicinanza poi evvi Uchimerio fortissimo castello guardato con somma diligenza dai Lazj unitamente a piccola mano d'imperiali. Così il duce persiano accampatosi con tutto l'esercito a Gutalisio possedeva l'ottima parte della Colchide, strigneva siffattamente i nemici da impedir loro ogni trasporto di vittuaglia ad Uchimerio, ed era pronto a molestare l'andata nella Suania e Scimnia, provincie spettanti all'impero. Conciossiachè ove si giunga ad occupare Muchiresi vien serrata ai Lazj ed ai Romani la via tendente a que' luoghi. Di questo modo procedeva la guerra lazica.
{{Centrato|}}CAPO XV.</div>
{{Indentatura}}''Tregua di cinque anni turpemente compra da Giustiniano Augusto. — Libertà di Procopio nello scrivere. — Vendemmiatosi, le viti riproducono grappoli e gli alberi nuovi frutti.''</div>
I. In Bizanzio l'ambasciatore di Cosroe lunghissimamente piatì di pace con Giustiniano Augusto e da ultimo entrambi convennero di porre giù le armi per<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO QUARTO|495}}</noinclude>cinque anni, correndo i quali gli oratori, con piena libertà di passare da uno in altro luogo, accomoderebbero ogni discrepanza risguardante i Lazj ed i Saraceni. Ebbevi poi negli accordi il patto di sborsare al re venti centinaia d'oro ed altre sei pe'diciotto mesi corsi tra le due tregue, e consumati in iscambievoli ambascerie, dichiarando i Persiani ben contrario mai sempre alla propria intenzione il permettere gratuitamente siffatti colloquj. Isdeguna sollecitava inoltre cheglisi fidassero di colpo le venti centinaia per trasportarle seco. L'imperatore in cambio volea consegnarne quattro ogni anno per avere un pegno che obbligasse il re alia osservanza dei patti; non di meno alla per fine sborsò l'intera somma dell'oro coll'intendimento di non sembrare soggetto ad annuale tributo, essendo pur troppo delle umane costumanze l'arrossire anzi delle indegne parole
che delle azioni. Aveavi di più in Bizanzio un persiano detto Bersato, di assai cospicuo legnaggio e carissimo al re, fatto prigioniero in campo nell'armenica guerra da Valeriano, e mandato quindi all'imperatore; vivendo tuttavia costui nel novero de' mancipj, sebbene offertosi da Cosroe molto danaro per riscattarlo, venne ora generosamente da Giustiniano dichiarato libero ad istanza d'Isdeguna, il quale affermava che per insinuazione di lui avrebbe il monarca richiamato l'esercito dal paese de' Lazj. Correva l'anno decimo quinto dell'imperio di Giustiniano Augusto quando le due parti stipularono la tregua male accolta da molti Romani, e se meritamente o a torto, giusta la consuetudine de' sudditi, non piacemi pronunziare.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|496|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>II. Il volgo poi iva propagando che, stabilitosi già il persiano dominio nella Lazica, miravano i presenti accordi a renderlo per cinque anni esente da ogni briga, e a dargli mezzo di abitare durante questo tempo colla maggior libertà ed a suo bell'agio i più ubertosi luoghi della Colchide senza tema di esserne dai Romani sotto quale tu vuoi pretesto discacciato; che anzi venivagli cosi appianata la via di Bizanzio: considerazione
di tormento e sdegno per molti. Fremevano ad uno vedendo i Persiani riusciti, sotto il nome di tregua, in cosa da lunga pezza bramata, e giammai nè colla guerra, nè in altro modo potuta spuntare, di farsi intendomi tributario l'imperio. E valga il vero Cosroe, in ordine ai desiderj suoi per lo addietro alla scoperta manifestati, gravando l'imperatore di quattro annue centinaia d'oro nello spazio di anni undici e mezzo aveane ricevute quarantasei collo specioso nome anzi di convenzione pacifica che di tributo, non cessando intanto di esercitare il sovrano potere sopra la gente de' Lazj, e di guerreggiarla, come si è detto. I Romani adunque perduta ogni speranza di francarsi da sì molesto balzello vedevansi pur troppo ridotti alla triste condizione di palesi tributarj de'Persiani. Stipulati non altrimenti gli accordi, Isdeguna carico di tanto danaro quanto non sognò mai averne legato alcuno, e addivenuto, se mal non m'appongo, doviziosissimo sopra tutti li suoi, fecesi indietro, avendolo Giustiniano Augusto ricolmo di sommi onori ed assai splendidamente largito. Si egli poi
come il suo codazzo di barbari, e soprabbondante
erane il numero, ebbero comodo e piena libertà di<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO QUARTO|497}}</noinclude>frequentare chiunque attalentasse loro; trascorrevano di più le bizantine contrade per trar profitto da vendite ed acquisti, dandosi a qualunque commercio non meno sicuri che in patria. Uom de' Romani, deviatosi dall'usanza, non seguivali, e meno ancora spiavane gli andamenti.
III. In questo mezzo fuvvi cosa, a mia notizia, non più da prima veduta. L'autunno a simile d'inoltrata state fu caldo eccessivamente, di maniera che fiorirono da per tutto rose a mo' di primavera, ed affatto eguali a quelle della propria stagione sbucciate. Quasi tutti gli alberi coprironsi altra fiata di nuovi frutti, ed avvegnachè sol pochi giorni si contassero dalla fatta vendemmia, le uve ricomparvero sulle viti. I saputi in queste cose volendo azzardarne la interpretazione andavano preconizzando qualche prodigioso ed inopinato avvenimento lieto per gli uni, contrario agli altri; ma io sono d’avviso che il prolungato spirar di Austro riscaldasse la terra più dell'ordinario e di quanto comporta l'autunnale stagione. Se poi, non dipartendoci dalle costoro parole, annunciato ne fosse un che d’impreveduto e grande, lo avremo chiarissimemente dal fatto.<noinclude><references/>
{{PieDiPagina|''{{Sc|Procopio}}, tom. II''||52}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|498|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>{{Centrato|}}CAPO XVI.</div>
{{Indentatura}}''Gli imperiali offeniori dei Lazj. Uchimerio castello, per opera di Teofobio, cade in potere delle reali truppe. — Gubaze re dei Lazj sverna pe' monti, e con lettera esortato da Mermeroe ad abbandonare le parti romane si tien fedele.''</div>
t. Imperiali e Persiani procacciavano di comporre
in Bisanzio la tregua quando Gubaze re dei Lazj, amico tuttavia de' Romani, scoprì essergli, la mercè di sua fede, insidiata da Cosroe la vita, come si legge negli antecedenti libri. Molti poi de'Lazj superchiati dalle romane truppe ed in ispecie dai comandanti, propendevano da gran tempo a divenire sudditi della Persia, meno per benevola disposizione degli animi, che per iscuotere l'imperiale giogo, opinando minori dei presenti i mali futuri. Teofobio per tanto, di non oscura prosapia intra essi, promise in clandestino colloquio a Mermeroe di tradirgli il castello Uchimerio, ed ebbene da costui eccitamento coll’assicuranza di farsi così operando amicissimo a Cosroe, e di vedere inscritta nelle memorie persiane col nome di benefizio tale azione; il perchè ne riporterebbe gloria, ricchezze e potenza; inorgoglitosi per sì bello annunzio animosamente diè mano all'impresa. Di que’ tempi non aveavi tra imperiali e Lazj comunicazione di sorta, ma tenevansi da per tutto rinserrati, campeggiando senza tema il nemico, gli uni al Fasi, gli altri in Archeopoli, chi entro fortilizj della regione, e re Gnbaze stesso non si partiva dalle cime de' monti, cosicchè il fellone ben di leggieri potè non romper<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|498|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>{{Centrato|}}CAPO XVI.</div>
{{Indentatura}}''Gli imperiali offensori dei Lazj. Uchimerio castello, per opera di Teofobio, cade in potere delle reali truppe. — Gubaze re dei Lazj sverna pe' monti, e con lettera esortato da Mermeroe ad abbandonare le parti romane si tien fedele.''</div>
t. Imperiali e Persiani procacciavano di comporre
in Bisanzio la tregua quando Gubaze re dei Lazj, amico tuttavia de' Romani, scoprì essergli, la mercè di sua fede, insidiata da Cosroe la vita, come si legge negli antecedenti libri. Molti poi de'Lazj superchiati dalle romane truppe ed in ispecie dai comandanti, propendevano da gran tempo a divenire sudditi della Persia, meno per benevola disposizione degli animi, che per iscuotere l'imperiale giogo, opinando minori dei presenti i mali futuri. Teofobio per tanto, di non oscura prosapia intra essi, promise in clandestino colloquio a Mermeroe di tradirgli il castello Uchimerio, ed ebbene da costui eccitamento coll’assicuranza di farsi così operando amicissimo a Cosroe, e di vedere inscritta nelle memorie persiane col nome di benefizio tale azione; il perchè ne riporterebbe gloria, ricchezze e potenza; inorgoglitosi per sì bello annunzio animosamente diè mano all'impresa. Di que’ tempi non aveavi tra imperiali e Lazj comunicazione di sorta, ma tenevansi da per tutto rinserrati, campeggiando senza tema il nemico, gli uni al Fasi, gli altri in Archeopoli, chi entro fortilizj della regione, e re Gubaze stesso non si partiva dalle cime de' monti, cosicchè il fellone ben di leggieri potè non romper<noinclude><references/></noinclude>
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{{Indentatura}}''Gli imperiali offensori dei Lazj. Uchimerio castello, per opera di Teofobio, cade in potere delle reali truppe. — Gubaze re dei Lazj sverna pe' monti, e con lettera esortato da Mermeroe ad abbandonare le parti romane si tien fedele.''</div>
I. Imperiali e Persiani procacciavano di comporre
in Bisanzio la tregua quando Gubaze re dei Lazj, amico tuttavia de' Romani, scoprì essergli, la mercè di sua fede, insidiata da Cosroe la vita, come si legge negli antecedenti libri. Molti poi de'Lazj superchiati dalle romane truppe ed in ispecie dai comandanti, propendevano da gran tempo a divenire sudditi della Persia, meno per benevola disposizione degli animi, che per iscuotere l'imperiale giogo, opinando minori dei presenti i mali futuri. Teofobio per tanto, di non oscura prosapia intra essi, promise in clandestino colloquio a Mermeroe di tradirgli il castello Uchimerio, ed ebbene da costui eccitamento coll’assicuranza di farsi così operando amicissimo a Cosroe, e di vedere inscritta nelle memorie persiane col nome di benefizio tale azione; il perchè ne riporterebbe gloria, ricchezze e potenza; inorgoglitosi per sì bello annunzio animosamente diè mano all'impresa. Di que’ tempi non aveavi tra imperiali e Lazj comunicazione di sorta, ma tenevansi da per tutto rinserrati, campeggiando senza tema il nemico, gli uni al Fasi, gli altri in Archeopoli, chi entro fortilizj della regione, e re Gubaze stesso non si partiva dalle cime de' monti, cosicchè il fellone ben di leggieri potè non romper<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|348|{{Sc|annotazioni}}|}}</noinclude>alla direzione che si deve attribuire allo scetticismo di quest’epoca, essendo quasi esclusivamente diretti contro la veracità della rappresentazione sensibile.“ — ''Ritter''.
''Queste dieci maniere stabiliscono spartitamente così ec''. — {{Greco da controllare}}. Emendazione, dice l’Hermanno, facile da vedersi, chi consideri la diversità della scrittura.
''Seconda, quello che dalla differenza ec''. — Il Rossi difende la lezione {{Greco da controllare}}, che l’Aldobrandino traduce: ''ex nationibus ac corporum constitutionibus''.
''Il sole apparisce piccolo per la distanza''. — L’Hermanno, rifiutata la correzione dell’Huebnero, legge {{Greco da controllare}}.
X. ''Il modo che per mezzo di reciprocazione''. — {{Greco da controllare}}, ovvero {{Greco da controllare}}, è ciò che noi diciamo circolo vizioso.
XI. ''Appellan fine la sospensione del giudizio'' ({{Greco da controllare}}) ''cui tien dietro ec''. — La direzione della filosofia scettica si manifesta nello scopo da essa assegnato a tutte le ricerche filosofìche; esso è uno scopo pratico. La filosofia ci deve condurre alla felicità. Egli è perciò che Pirrone è posto nella medesima categoria di altri Socratici che non avevano in mira se non la vita morale, e non ammettevano come scopo della ragione che la virtù; poichè la virtù e la felicità sono precisamente una stessa cosa. Egli è chiaro che lo scopo era essenzialmente unito alla dottrina degli Scettici, essendo che Timone ne fa la base della sua divisione della filosofia. Dice in effetto, che chi vuol vivere felicemente dee far attenzione: da prima alla natura delle cose, in seguito al loro rapporto con noi, in terzo luogo alle conseguenze sensibili di questi rapporti. Lo scetticismo è costituito dalla risposta alla prima quistione; poichè gli Scettici tentarono mostrare che tutte le cose sono {{Pt|indiffe-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione||LIBRO QUARTO|499}}</noinclude>fede a Mermeroe. Venuto dunque al castello narrovvi la distruzione di tutto l'esercito imperiale; Gubaze ed i Lazj suoi passarla ben male; padroneggiare i Persiani da l'an capo all'altro la Colchide, mancare ogni speranza di ricuperarla. Aggiugneva parimente avare sin
qui il persiano duce sostenuto di per sè la guerra con esercito di oltre sessanta mila guerrieri, tutti bellicosissimi, e con isterminata caterva di barbari e Sabiri; essere poi di fresco arrivato lo stesso re Cosroe alla testa di nuovo formidabilissimo esercito, e d’ambedue averne fermato all'istante uno, il perchè la colchica regione più non bastava ai bisogni di cotanta soldatesca. Vinto il presidio, a tali solenni menzogne, da gravissimo spavento pregò Teofobio, invooando il patrio Nume, che volesse provvedere nella guisa migliore alle cose di là; ed egli si dichiarò pronto ad impotrare da Cosroe il salvacondotto mediante la dedizione volontaria di quelle mura; da tutti consentitovi di fretta si parte, e venuto a Mermeroe narragli ordinatamente l'operato. Questi allora scelto il fior de' suoi militi comandò loro di seguire il fellone ad Uchimerio per confermare al presidio, ritirandosi, la salvezza della vita e deile suppelettili. I Persiani, occupato non altrimenli il castello, renderono fermissimo il proprio dominio
nella Lazica; nè solo questa ebbersi ligia, ma
chiusero di più tutte le vie ai Romani per andare nella Scimnia, nella Suania, ed in ogni parte della regione che da Muchireside procede insino all’Iberia; impotenti gli imperiali ed i Lazj di allontanare il nemico<noinclude><references/></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|annotazioni}}|349}}</noinclude>{{Pt|renti|indifferenti}} rispetto al vero ed al falso, che sono incerte e non sommesse al nostro giudizio. Insegnarono di più, che noi non impariamo nulla di vero, sul conto delle cose, nè per mezzo dei sensi, nè per mezzo dell’opinione. — Anche nelle dottrine morali, di cui particolarmente si occupavano, in conformità alla loro tendenza pratica, non giunsero per tal mezzo che a questo risultamento sofistico, che nessuna cosa non è nè bella, nè brutta, nè giusta, nè ingiusta, ma che tutto non si giudica dagli uomini che a seconda della loro situazione e delle loro abitudini. — Nè solo alle idee, ma la loro incertezza estendevasi a tutta la scienza. — Assai incerto è il modo col quale Pirrone e Timone procedettero contro i Dommatici. Per certo la loro arma migliore trovarono nell’opposizione esistente tra il fenomeno sensibile e l’essenza reale delle cose, oggetto della conoscenza razionale; poichè quest’opposizione sortiva dalla confessione di Timone, che per verità una cosa parevagli dolce, ma ch’e’ non diceva tuttavia per questo che fosse dolce in effetto. Questa opposizione si appalesa anche più chiaro in ciò che diceva Timone, che avvi una natura eterna del divino e del buono, per la quale la vita dell’uomo riceve la sua regolarità, e che è uno dei fenomeni a cui deve attenersi. Pare che gli Scettici sentissero adunque la forza che ci fa tendere alla conoscenza di una verità al di sopra dei fenomeni, ma che non potessero tracciare alcun punto d’appoggio, sicuro per la ricerca del soprassensibile. — Gli Scettici non vedono nell’idea del soprassensibile che qualche cosa di sconosciuto; ella è per essi un segno dei limiti del nulla stesso del nostro pensiero. — Alla seconda quistione (''rapporto delle cose con noi'') la risposta deriva quasi per sè dalla risposta alla prima; poichè se nulla sappiamo delle cose, dobbiamo al tutto astenerci da qualunque asserzione. Or come praticare un sì fatto precetto ec.?<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|500|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>non osavano affatto scendere dai monti, od uscir fuori dai luoghi muniti per assalirlo.
II. Mermeroe, soprastante il verno, munì Cutatisio con muro di legno, e posevi a guardia tre mila fanti; bastevolmente ad uno presidiò Uchimerio: avendo inoltre ristaurato un terzo castello, Serapani, fermovvi sua dimora. Saputo di poi che i Romani ad i Lazj erano a campo insieme presso le bocche del Fasi ivi mosse con tutto l'esercito; alla qual nuova Gubaze ed i Romani duci, pigliati da timore, senza attenderne l'arrivo partirono ricovrando ciascheduno ov'ebbe il destro. Il re
lazico tornato di corsa in cima dei poggi, unitamente alla moglie, alla prole ed a’ famigliari suoi con pazienza vi tollerava la grandezza dei presenti mali e l'incomodissimo clima, sperando ogaora nell'arrivo di aiuti da
Bizanzio, e raffrontando insieme que' patimenti colle umane vicende anziato era in aspettativa di migliori destini. Gli altri Lazj sommessi al re loro, non meno di lui acconciatisi a cotante sofferenze, passavano il verno tra quelle rupi franchi dalle nemiche molestie, per essere di tali monti nella fredda stagione perigliosissimi e quasi inaccessibili a chiunque ne tenti armatamano la occupazione. Eravi impertanto la vita ridotta agli ostremi da fame, freddo, o qual tu vuoi differente calamità. Mermeroe in quel tanto edificato avea molte case nelle borgate di Muchiresi, e provvedutine gli abitatori di copiosa vittuaglia inviava pe' monti promettendo ai fuggitivi salvezza, nè pochi indussene ad approfittare della generosa offerta; agli estenuati poi dalla fame era largo di cibo, prodigando loro sue cure non altrimenti che ai<noinclude><references/></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|350|{{Sc|annotazioni}}|}}</noinclude>Dichiaravano gli Scettici di non voler altro esprimere con ciò, salvo lo stato della loro anima ({{Greco da controllare}}), al quale doveano conformarsi come uomini, non come filosofo. Essi non potevano testimoniare che del solo fatto ch’e’ trovavamo dentro di loro, e che dovevano stabilire come un fenomeno; poichè i fenomeni avevano per essi una forza irresistibile. — Rimane la terza questione (''conseguenze sensibili di questi rapporti''), cioè di sapere qual sia lo stato di colui che si astiene da ogni giudizio sulle cose; lo che concerne allo scopo morale della loro dottrina. Egli è astenendoci da ogni giudizio che possiamo procacciare la felicità; poichè la sospensione di ogni giudizio è naturalmente seguita dalla fermezza costante dell’anima, che l’accompagna come un’ombra. Quegli che una volta ha abbracciato lo scetticismo vive ognora tranquillo, senza inquietudini, di una disposizione di spirito sempre eguale, non curando i terrori della saggezza col suo linguaggio seducente. La folla degli uomini è soggiogata dalla disposizione passiva ({{Greco da controllare}}) dell’anima, da opinioni, da vane leggi; ma il sapiente non pronuncia su nulla, e, nel suo stato di calma non considera nulla nè come un male, nè come un bene; ei si sente libero da tutti i movimenti passionali, che non fanno che turbare la felicità ec. — A Pirrone si ascrive la dottrina che stabilisce non essere differenza tra salute e malattia, tra vita e morte; egli erasi posto alla difficile impresa di spogliare sè stesso, per quanto si potea, della natura umana. Gli Scettici avevano dunque per iscopo nella loro morale di opporsi ai movimenti dell’anima, mentre nella scienza vi s’abbandonavano intieramente. Increscevole contraddizione! che però doveano costoro modificare in pratica, non potendo dissimularsi l’impossibilità di essere affatto indifferenti in ogni cosa ec. Quindi si abbandonavano, nella vita pratica, all’abitudine del modo di agire, alla necessità d’una<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|annotazioni}}|351}}</noinclude>scelta e ad una decisione per riguardo al bene ed al male, tuttavia dichiarando che lo scettico si comporta a quel modo non come filosofo, ma seguendo l’opinione non filosofica. — La costoro dottrina avrebbe distrutto la vita se non fossero venuti a giusti patti tra la filosofia e la vita ec.“ — ''Ritter''.
''La dolcezza chiamano fine''. — Moderare se non vincere le passioni pareva agli Scettici dover essere come un fine della loro filosofia, il quale esprimevano colle idee di dolcezza e di mansuetudine.
{{Centrato|CAPO XII.}}
{{Centrato|{{Sc|Timone}}.}}
II. ''Compose poemi ec.'' — Celebrati fra le sue poesie sono i Silli, specie di satire, che gli procacciarono il soprannome di ''Sillografo''. In essi assale e confuta gli antichi ed i nuovi filosofi.
V. ''Il filosofo ec''. — {{Greco da controllare}}; si riferisce, secondo il Rossi, a Timone il Misantropo, che fu filosofo di gran nome e {{Greco da controllare}}.
VI. ''Delle tragedie faceva parte ad Omero''. — Ad un Omero figlio di Miro, fra i sette tragici, che componevano la così della ''Plejade''. Vedi Menagio.
''Arato lo interrogò ec''. — Arato, l’autore dei ''Fenomeni'', aveva riseduta e corretta una edizione dell’{{TestoCitato|Odissea|Odissea}}. Zenone era allora capo degli editori di Omero, a nessuno dei quali la risparmia Timone.
''I suoi versi negletti, rosicchiati ec''. — Ho seguita l’intera prelazione dell’Hermanno, approvala dall’Huebnero. Vedine la nota.
VII. ''Nessuno fu successore di costui''. La scuola {{Pt|pirro-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|352|{{Sc|annotazioni}}|}}</noinclude>{{Pt|nica|pirronica}} non ebbe gran numero di seguaci, nè molti che godessero celebrità. La storia del Pirronismo si chiude con Sesto Empirico, medico che fioriva verso la metà del secondo secolo dell’era volgare. Anche Timone esercitò la medicina; e notisi che tra gli antichi Scettici la maggior parte erano medici. — Tutti gli scritti di questo filosofo sono perduti, meno alcuni versi riportati da Sesto nella sua opera che intera ci rimane. — Allo scorcio del dugento ogni filosofia avea finito nello scetticismo. Dopo tante agitazioni, lo spirito umano condannato, dice Cousin, alla sospensione assoluta di ogni giudizio!<noinclude></noinclude>
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Vite dei filosofi/Libro Nono/Annotazioni
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{{Centrato|{{Sc|{{AutoreCitato|Epicuro|Epicuro}}}}.}}
I. Epicuro, figlio di Neocle e della Cherestrata, ateniese, del popolo di Gargetto, era, come dice {{AutoreCitato|Metrodoro di Lampsaco (epicureo)|Metrodoro}}, nel libro ''Della nobiltà'', della famiglia de’ Filaidi. Egli, secondo che raccontano altri, ed Eraclide, nell’''Epitome di Sozione'', quando Samo toccò in sorte agli Ateniesi, fu allevato colà, e venne in Atene di diciott’anni, allorchè Zenocrate insegnava nell’Academia ed {{AutoreCitato|Aristotele|Aristotele}} in Calcide. Morto poi Alessandro il Macedone e gli Ateniesi caduti in potere di Perdicca, si recò presso il padre a Colofone.
II. Dimorato un po’ quivi e raccolti discepoli, tornò, sotto Anassicrate, nuovamente in Atene, e datosi alcun tempo a filosofare misto cogli altri, da ultimo istituì, come in proprio, una sella, che fu denominata da lui. — Narra egli stesso essersi infiammato alla filosofia di quattordici anni; e Apollodoro l’Epicureo afferma, nel primo ''Della vita di Epicuro'', ch’e’ {{Pt|s’ac-|}}<noinclude></noinclude>
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Indice:Turco - Il romanzo di Luisa Hercolani.djvu
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|354|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>costò alla filosofia per disprezzo dei grammatici, perchè non seppero spiegargli il caos di {{AutoreCitato|Esiodo|Esiodo}}. — Racconta {{AutoreCitato|Ermippo di Smirne|Ermippo}} che fu maestro di scuola, e che in seguito abbattutosi ne’ libri di {{AutoreCitato|Democrito|Democrito}}, tutto si gettò nella filosofia. Il perchè Timone ebbe a dire di lui:
<poem> ''Dei fisici il peggior, l’ultimo, giunto''
''Testè da Samo; maestro di scuola,''
''Il più ignorante dei viventi.'' —</poem>
Filosofarono seco, lui esortante, anche i suoi fratelli, che erano tre, Neocle, Cheredemo e Aristobulo, siccome scrive Filodemo l’epicureo, nel decimo del suo ''Ordinamento dei filosofi;'' e, al dire di Mironiano, ne’ ''Capitoli istorici simili'', anche uno schiavo per nome Mus.
III. Diotimo lo stoico, che avea seco animosità, amaramente lo diffamò, pubblicando, come di Epicuro, cinquanta lettere oscene; e riunendovi, come di Epicuro, i cinquanta biglietti che si attribuiscono a {{AutoreCitato|Crisippo di Soli|Crisippo}}; e così fece anche lo stoico Posidonio, e Nicolao, e Sozione, nel decimo secondo ''Degli argomenti chiamati diocleici'', che trattano della XXIV; e Dionisio l’alicarnasseo. Poichè raccontano essere egli andato colla madre in giro per le casipole a recitare purificazioni; e col padre suo ad insegnare, per una vil mercede, il leggere; ed uno de’ suoi fratelli aver fatto il ruffiano; ed egli aver vissuto colla cortigiana Leonzio; e le cose di Democrito, sugli atomi, e d’{{AutoreCitato|Aristippo|Aristippo}}, sulla voluttà, avere come proprie spacciate; e, secondo che affermano<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|355}}</noinclude>Timocrate ed {{AutoreCitato|Erodoto|Erodoto}}, nel libro ''Della gioventù di Epicuro'', non essere stato legittimamente cittadino; e in modo turpe avere adulato Mitra, intendente di Lisimaco, appellandolo nelle sue lettere Peana e re; e anche Idomeneo ed Erodoto e Timocrate, coloro che resero chiari i suoi secreti, per ciò stesso encomiato e adulato; e scritto nelle lettere alla Leonzio: ''Peana, re, cara Leonzietta, di che rumorosi applausi fummo ripieni quando leggemmo la tua letterina!'' E alla Temista, donna di Leonteo: ''Tale mi sono io, se voi non veniste da me, da precipitarmi io stesso rotoloni dove mi chiamaste voi e la Temista;'' a Pitocle poi, giovinetto fiorente: ''Siederò, aspettando il tuo amabile e divino ingresso;'' e un’altra volta scrivendo alla Temista, secondo che dice Teodoro, nel quarto ''Contro Epicuro'', avere stabilito di giacersi con lei; e a molte altre cortigiane avere scritto, e massime alla Leonzio, la quale era amata anche da Metrodoro; e nel libro ''Dei fini'' essersi espresso così: ''Non v’è cosa ch’io possa concepire come bene, se tolgo di mezzo i piaceri che si hanno per via dei sapori, se tolgo que’ che per le cose veneree, e per quelle che si odono, e per via della forma;'' e in una lettera a Pitocle avere scritto: ''Fuggi, o beato, ogni disciplina.'' E osceno parlatore lo chiama {{AutoreCitato|Epitteto|Epitteto}}, e assai lo infama. E anche Timocrale, fratello di Metrodoro, e suo discepolo, abbandonata la scuola, dice ne’ suoi libri intitolati ''Ricreamenti,'' che per crapula vomitava due volte al giorno, e racconta sè avere a stento potuto fuggire quelle notturne filosofie e quella mistica riunione. Ed Epicuro aver molte cose ignorate intorno al discorso,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|356|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>e molte più intorno alla vita; ed essere stato il suo corpo meschinamente costituito, talchè per molt’anni non potè alzarsi dalla seggiola; e spendere nella mensa una mina al giorno, com’egli scrive in quella sua lettera alla Leonzio, ed in quella ai filosofi di Mitilene; ed egli e Metrodoro aver praticato eziandio con altre cortigiane, la Marmario e la Edia e la Erozio e la Nicidio.
IV. E, proseguono, ne’ trentasette libri ''Della natura'', scrivere per lo più le stesse cose, e per lo più confutarvi tra gli altri Nausifane, e a parola a parola dire così: ''Ma, se alcuno mai, ebbe pur esso, partorendo dalla bocca, la sofistica jattanza a guisa di molt’altri schiavi.'' E lo stesso Epicuro, nelle Epistole, dire: ''Tali cose lo aveano sì fattamente tratto fuor di sè, da ingiuriarmi e appellarsi maestro''. E lo chiamava polmone e ignorante e truffatore e bardassa; e i seguaci di Platone adulatori di Dionisio; e lo stesso {{AutoreCitato|Platone|Platone}} aureo; e Aristotele dissipatore, che distrutta la paterna sostanza, militò e fece lo speziale; e {{AutoreCitato|Protagora|Protagora}} zanaiuolo e scrivano di Democrito e maestro di scuola ne’ villaggi; ed {{AutoreCitato|Eraclito|Eraclito}} guastamestieri; e Democrito ''Lerocrito'' (''giudice di futilità''), e Antidoro Senidoro (''piaggiatore''); e i Cinici nemici alla Grecia, e i Dialettici molto invidiosi, e Pirrone ignorante ed ineducato.
V. Ma costoro sono pazzi; poichè v’ha testimoni bastanti della probità senza pari di un tant’uomo in ogni cosa, e la patria che l’onorò con immagini di bronzo, e gli amici, la cui moltitudine era tale che le città intere non poteano capirli; e i discepoli tutti che furono ritenuti dalle sirene de’ suoi dommi, fuor {{Pt|Metro-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|357}}</noinclude>{{Pt|doro|Metrodoro}} stratonicense, il quale si trasferì presso Carneade, quasi oppresso alle incomparabili sue bontà: e la scuola, mancate pressochè tutte l’altre, durata sempre e usciti altri da altri innumerabili i capi tra’ discepoli; e la riconoscenza a’ genitori, e la beneficenza verso i fratelli, e la dolcezza co’ servi, siccome è chiaro anche dal suo testamento, e perch’essi filosofarono con lui, uno de’ quali celebratissimo era il prefato Mus; e in generale la sua umanità con tutti. Non è da esprimere la pietà verso gli dei, e l’amor di patria. Non mai, per eccessiva moderazione, prese parte agli affari dello stato; e sostenendo allora la Grecia tempi difficilissimi, quivi finì, sua vita, solo percorsi due o tre volte i confini della Ionia per visitare gli amici, che da ogni banda accorrevano a lui, e, come narra Apollodoro, viveano seco nell’orto, il quale avea comperato per ottanta mine.
VI. Diocle, nel terzo ''Delle escursioni'', afferma che il loro modo di vivere era frugalissimo e semplicissimo: ''Poichè,'' dice, ''a una cotila di vinello e’ stavano contenti, e il loro bere era tutt’acqua''. — Epicuro non giudicava conveniente che si ponessero in comune le sostanze, come Pitagora, il quale diceva comuni le cose degli amici. Poichè ciò era da persone che diffidano; e se da diffidenti, non d’amici. — Ed egli dice nelle sue lettere bastargli sola acqua e semplice pane. E, ''Mandami,'' scrive, ''del formaggio citridio, onde quando vorrò lautamente trattarmi, ed io il possa''. Tale era quegli che dommatizzava esser fine la voluttà; il quale anche Ateneo loda con un epigramma così:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|358|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude><poem> ''Uomini , voi vi travagliate al peggio,''
''E per mal sazia avidità principio''
''Date a liti ed a guerre. Di natura''
''La ricchezza s’arretra a certi suoi''
''Confini angusti; ma i giudizii vani''
''Corron viaggia infinito.'' — ''Il saggio figlio''
''Di Neocle udiva questo, o dalle Muse,''
''Oppur dai sacri tripodi di Delfo.''</poem>
Ma procedendo il vedremo anche piò e dai dommi e dalle parole di lui.
VII. Tra gli antichi, dice Diocle, assentiva particolarmente ad {{AutoreCitato|Anassagora|Anassagora}}, sebbene confutandolo in alcune cose, e ad {{AutoreCitato|Archelao|Archelao}} maestro di {{AutoreCitato|Socrate|Socrate}}; e, dice, esercitava gli scolari a tenere a memoria i suoi scritti. — Narra Apollodoro, nelle ''Cronache'', ch’ei fu discepolo di Lisifane e di Prassifane; per altro ei nol dice, anzi nella epistola ad Euridico afferma di essere discepolo di se stesso; e che nè esso, nè Ermarco dissero che vi fosse un Leucippo filosofo, il quale, scrive tra gli altri Apollodoro l’epicureo, fu maestro di Democrito. Ma Demetrio magnete afferma ch’egli udì {{AutoreCitato|Senofane|Senofane}}.
VIII. Usava, secondo le cose, di una dizione propria, la quale, perchè volgarissima, biasima Aristofane il grammatico; Era poi di tanta chiarezza, che, nel libro ''Della rettorica'', stima null’altra cosa doversi cercare fuor la chiarezza. — E usava, nelle lettere, invece di ''godere'', {{Greco da controllare}}, ''star bene'', {{Greco da controllare}}, ''e ottimo è vivere onestamente''. — Alcuni raccontano pella vita di Epicuro aver egli scritto il ''Canone'' traendolo dal ''Tripode'' di Nausifane, del quale vogliono fosse uditore, ed anche di Pamfilo il platonico, in Samo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione||{{Sc|Del Gemelli.}}|167}}</noinclude>{{Pt|no|dispensano}} indulgenze. Non perciò eglino hanno inviluppata la religione di tante favole, e menzogne, ch’appena quella serba dell’original tanto, che si ravvisi esser copia ricavata dalla legge Cristiana; percioché eglino danno la trasmigrazion dell’anime: e credono, che morendo alcuno, l’anima resti nella contrada tre giorni, acciocchè si faccia li processo del male, e del ben fatto da lei per lo Spirito Tusun (il quale in ogni strada esposto in pubblico venerano) Ricorrono perciò a’ Bonzi con denari, e presenti, recando ancor loro carta per uso dello scrivano, e danajo per rendersi favorevole l’Idolo, acciò che faccia un buon processo; indi ingannati da’ Bonzi presentano alle Pagodi più mazzi di carte rosse, argentate, e dorate; brugiandone la maggior parte, su la credenza, che la dorata si converta in oro, e l’argentata in argento, per servire nell’altra vita a’ loro morti. Compiti i tre giorni dicono, che passi l’anima davanti lo Spirito della Città; detto Cinguan (poiché il morto è credibile, che sia andato per la medesima) il qual riceve l’informazione di ciò, che colui oprò nella Città, infra il termine di cinque giorni; fra’ quali continuano i parenti del morto<noinclude>{{PieDiPagina||L 4|da’{{spazi|5}}}}
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione|168|{{Sc|Giro del Mondo}}|}}</noinclude>da’ Bonzi, acciocché rendan benevolo con loro preghiere il Giudice, per mandarne ben dispacciata l’Anima. Con tali processi dicono passar quella all’inferno (dove i buoni, e mali debbono andare, secondo lor credere) e quivi per dieci tribunali, Ien-guan detti, si riconosce la causa, dimorandovi l’anima sette dì per ciascuno, finché secondo il buono, o mal’oprato si decreti la trasmigrazione in corpo umano, o di bestia. Io non so donde in loro sia nata da prima questa opinion della metempsicosi dell’anime: e se per avventura appresa l’avessero dagli Egizzii, o da’ Caldei, o da’ Druidi, i quali la ritrovarono, sicome vuol Cesare, e Lucano, perché si risvegliasse nel petto de’ popoli il coraggio col dispregio della morte; onde ancor dicesi, che appresa l’avesse Pittagora, e recata nella nostra Italia. Ma prima della trasmigrazione, vogliono i Cinesi, che l’anima giudicata debbia passar su per lo ponte di Kin-inchiau, che vuol dire d’argento, e d’oro: ove essendo Custodi, è necessario dar loro denaro, come per le narrate Udienze, acciò che non l’impediscano il passo; poiché se cade l’anima sotto, riman quivi per sempre nel {{Pt|fiu-|}}<noinclude>{{PieDiPagina|||me{{spazi|5}}}}
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione||{{Sc|Del Gemelli.}}|169}}</noinclude>{{Pt|me|fiume}} delle fiamme; e se passata può trovare un fiore detto Lienxoa, il cui frutto si noma Lanusa, si trasmuterà in persona ricca, e ben’agiata. Con queste favole i Bonzi cavano da’ poveri Idolatri il danaro, e le robe: e sì pertinaci sono nella lor trasmigrazione, che dicono, ch’i Missionarj Europei a modo di Capitani di leva vadan nella Cina per far gente, battezzando i Cinesi per trasmigrargli in Europei, a fine di popolare il nostro paese.
Da queste tre Sette son derivate molte altre col corso del tempo, et un’incredibil numero d’idoli, i quali non sol si vedon per gli Tempj, ma nelle piazze ancora, e strade, e navi, e case pubbliche, e private: in cui eglino imitano, anzi avanzan gli Egizj, infami per la varietà di tanti Idoli. Solamente de’ Tempj più celebri, e frequentati per cagion della lor ricchezza, e magnificenza, e falsi miracoli fatti da’ loro Idoli, se ne annoverano 480. Dentro i quali, e negli altri ancor di tutto l’Impero abitano trecento cinquanta mila Bonzi patentati: e se si voglion contare anche coloro, che non tengon patente da’ Mandarini, monteranno ad un milione; essendovi dentro la sola Città, e Corte di Pekin 10668. Bonzi non<noinclude>{{PieDiPagina|||am-{{spazi|5}}}}
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione|170|{{Sc|Giro del Mondo}}|}}</noinclude>ammogliati, chiamati Hoxam, e 5022. ammogliati, per quel che ne scrisse il Padre Magaillans nella relazione, che fa della Cina<ref>Chap. 2. pag. 57.</ref>.
E nata la moltitudine di tanti Idoli dal porsi simulacri agli uomini, che per alcuna opra loro memorabile fur benemeriti alla patria, e s’acquistarono grande opinione appresso le genti, e ne meritarono statue, e Pagodi: sicome anche dal credere, che ne’ boschi, e monti, e mare, e fiumi sian particolari spiriti, a’ quali fabbricano statue, e consagrano. Nondimeno il principale Idolo, che venerano, è detto Giô.hoaňg, della famiglia Ciaňg, che visse in tempo ch’il Reeame delia Cina era governato dalla famiglia Sung, che gli diè titolo di Giô.hoaňg, ò per meglio dire con tal titolo il canonizò il Re Hoēy ciuňg. Prima di quest’Idolo vi erano i tre altri famosi, i quali uniti quivi s’adorano, e chiamansi Siňsiňg, e da’ Letterati Sānhoāng. Oltre a’ quali vi sono altri cinque Re, che pur sono Idoli raccontati nell’Istoria Tuňg kien: e chiamansi Xaò haò, Suōn hiū, Tygiao, Tyxūn, e Tykō per eccellenza detti ùtiì, cioè cinque Re.
L’Istoria Sù Ky-kày-cing reca tre Re<noinclude>{{PieDiPagina|||anti-{{spazi|5}}}}
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione||{{Sc|Del Gemelli.}}|171}}</noinclude>antichissimi, ma favolosi, chiamato il primo Tiēn hoāng, il secondo Ty hoāng, e’l terzo Giū hoāng: favolando, ch’il primo ebbe dodici fratelli, e che ciascun di di loro visse 18. m. anni: ch’il secondo n’ebbe 18. che vissero l’istesso tempo: e ch’il terzo n’ebbe nove: i quali tutti resser l’Impero, continuando la successione di ciascun di loro fino a 150. generazioni.
Il più universale è l’Idolo Cin xùan, protettore delle Città, e delle Ville; non essendovene alcuna, che non abbia la sua Pagode con quell’Idolo, che si figura con cavalli sellati, e brigliati avanti la porta, tenuti da due valletti per servigio di lui, e narrano, ch’egli mentre visse andava mille leghe il dì.
Tengono i soldati, e le milizie per lor Idolo il Kuangie, della medesima maniera, che la Gentilità Europea aveva Marte.
Il sì famoso pellegrinaggio de’ Cinesi è nella Provincia di Sciantūn nella Città di Taij gan cieù, sul monte detto Tayscian, cotanto celebre nella Cina, per esser di dodici miglia di salita. La Pagode si chiama San Kiaimiau, d’Idolo Tay scian-niaňg, o Tien sien sciňg mu, che<noinclude>{{PieDiPagina|||vuol{{spazi|5}}}}
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Pagina:Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri - Vol. IV.djvu/198
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<noinclude><pagequality level="3" user="Modafix" />{{RigaIntestazione|172|{{Sc|Giro del Mondo}}|}}</noinclude>vuol dire in frase Cinese: di questo monte la Reina del Cielo, dello Spirito Santo Madre. Fu questa una Religiosa, o Bonza, di cui s’invaghì un Re Cinese, mentre passava per colà: e presa la fe Reina in vita, e morta Santa, ergendole il Suddetto Tempio, ove ogni anno van milioni di Cinesi in pellegrinaggio: alcuni de’ quali per diaboliche sugestioni persuadendosi, che dopo veduta sì gran Deità, non possa vedersi cosa maggiore in questo Mondo, si precipitano giù per una rocca di più miglia di caduta. La Pagode è custodita da un Mandarino, che fa pagare il passo. In alcune di queste Pagodi vivono in comunanza Religiosi, e Religiose per servigio di esse: i quali son di due ordini, uno della lazetta del Foe, l’altro della lazetta del Tao. I primi menan vita celibe: gli altri, che son detti Tauzù, han mogli, e vivon nelle lor case con quelle, a modo de’ Preti Greci, lasciandosi crescere un cesso di capelli, il quale avvolto dietro la testa cuoprono con una scudella di legno, o conca d’ostrica, passando uno spillone per quella, e i capelli. Assiston di giorno a’ loro Conventi in comunità, e di notte alla loro famiglia. Coloro, che menan<noinclude>{{PieDiPagina|||vita{{spazi|5}}}}
<references/></noinclude>
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