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Codice civile/Libro I/Titolo II
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Le intestazioni di livello 2 sono riservate ai Titoli, non ai Capi e alle Sezioni
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Libro Primo - Titolo II: Delle persone giuridiche [11-42]<section end="sottotitolo"/>
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{{Qualità|avz=75%|data=24 gennaio 2009|arg=Da definire}}<!--{{Codice Civile-Libro1}}-->
== Titolo II: Delle persone giuridiche [11-42] ==
__TOC__
=== Capo I: Disposizioni generali [11-13] ===
=== Art. 11 Persone giuridiche pubbliche ===
Le Province e i Comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche, godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico ([[Codice_civile/Libro_III/Titolo_I#Art._824_Beni_delle_province_e_dei_comuni_soggetti_al_regime_dei_beni_demaniali|824 ]] e seguenti).
=== [Art. 12 Persone giuridiche private(*)] ===
<small> Articolo abrogato dall’art. 11, D.P.R del 10 febbraio 2000, n. 361. Il precedente testo recitava:"Le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento concesso con decreto del Presidente della Repubblica. Per determinate categorie di enti che esercitano la loro attività nell’ambito della Provincia, il Governo può delegare ai prefetti la facoltà di riconoscerli con loro decreto" </small>
=== Art. 13 Società ===
Le società sono regolate dalle disposizioni contenute nel [[Codice civile/Libro V|libro V]] ([[Codice civile/Libro V/Titolo V|2247 e seguenti]]).
=== Capo II: Delle associazioni e delle fondazioni [14-35] ===
=== Art. 14 Atto costitutivo ===
Le associazioni e le fondazioni devono essere costituite con atto pubblico ([[Codice_Civile/Libro_IV/Titolo_II#Art._1350_Atti_che_devono_farsi_per_iscritto|1350]], [[Codice_Civile/Libro_VI/Titolo_I#Art._2643_Atti_soggetti_a_trascrizione|2643]]).<br />
La fondazione può essere disposta anche con testamento ([[Codice_civile_-_Libro_Secondo/Titolo_III#Art._600_Enti_non_riconosciuti|600]]).
=== Art. 15 Revoca dell’atto costitutivo della fondazione ===
L’atto di fondazione può essere revocato dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, ovvero il fondatore non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta.<br />
La facoltà di revoca non si trasmette agli eredi.
=== Art. 16 Atto costitutivo e statuto. Modificazioni ===
L’atto costitutivo e lo statuto devono contenere la denominazione dell’ente, l’indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede (46), nonché le norme sull’ordinamento e sulla amministrazione (1387). Devono anche determinare, quando trattasi di associazioni, i diritti e gli obblighi degli associati e le condizioni della loro ammissione; e, quando trattasi di fondazioni, i criteri e le modalità di erogazione delle rendite.<br />
L’atto costitutivo e lo statuto possono inoltre contenere le norme relative alla estinzione dell’ente (27) e alla devoluzione del patrimonio (21, 31, 32), e, per le fondazioni, anche quelle relative alla loro trasformazione ([[Codice_Civile_-_Libro_Primo/Titolo_II#Art._28_Trasformazione_delle_fondazioni|28]]).<br />
[Le modificazioni dell'atto costitutivo e dello statuto devono essere approvate dall'autorità governativa nelle forme indicate nell'art. 12.(*)]<br />
<small>(*) Comma abrogato dall’art. 11, D.P.R del 10 febbraio 2000, n. 361.</small>
=== [Art. 17 Acquisto di immobili e accettazione di donazioni, eredità e legati (*)] ===
<small>(*) Articolo abrogato dall’art. 13, l. 15 magio 1997, n. 127.</small>
=== Art. 18 Responsabilità degli amministratori ===
Gli amministratori sono responsabili verso l’ente secondo le norme del mandato (1710 e seguenti). È però esente da responsabilità quello degli amministratori il quale non abbia partecipato all’atto che ha causato il danno, salvo il caso in cui, essendo a cognizione che l’atto si stava per compiere, egli non abbia fatto constare del proprio dissenso (2260, 2392).
=== Art. 19 Limitazioni del potere di rappresentanza ===
Le limitazioni del potere di rappresentanza, che non risultano dal registro indicato nell’art. 33, non possono essere opposte ai terzi, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza (1353, 2298, 2384).
=== Art. 20 Convocazione dell’assemblea delle associazioni ===
L’assemblea delle associazioni deve essere convocata dagli amministratori una volta l’anno per l’approvazione del bilancio (2364).<br />
L’assemblea deve essere inoltre convocata quando se ne ravvisa la necessità o quando ne è fatta richiesta motivata da almeno un decimo degli associati. In quest’ultimo caso, se gli amministratori non vi provvedono, la convocazione può essere ordinata dal Presidente del tribunale (2367, att. 8).
=== Art. 21 Deliberazioni dell’assemblea ===
Le deliberazioni dell’assemblea sono prese a maggioranza di voti e con la presenza di almeno la metà degli associati (2368). In seconda convocazione la deliberazione è valida qualunque sia il numero degli intervenuti (2369). Nelle deliberazioni di approvazione del bilancio e in quelle che riguardano la loro responsabilità gli amministratori non hanno voto. (2373)<br />
Per modificare l’atto costitutivo o lo statuto, se in essi non è altrimenti disposto, occorrono la presenza di almeno tre quarti degli associati e il voto favorevole della maggioranza dei presenti. (2365)<br />
Per deliberare lo scioglimento dell’associazione e la devoluzione del patrimonio occorre il voto favorevole di almeno tre quarti degli associati (11).
=== Art. 22 Azioni di responsabilità contro gli amministratori ===
Le azioni di responsabilità contro gli amministratori delle associazioni per fatti da loro compiuti sono deliberate dall’assemblea e sono esercitate dai nuovi amministratori o dai liquidatori (25, 2941).
=== Art. 23 Annullamento e sospensione delle deliberazioni ===
Le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto possono essere annullate su istanza degli organi dell’ente, di qualunque associato o del pubblico ministero. (25, 1109, 1137, 2377)<br />
L’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (1445, 2377).<br />
Il Presidente del tribunale o il giudice istruttore, sentiti gli amministratori dell’associazione, può sospendere, su istanza di colui che l’ha proposto l’impugnazione, l’esecuzione della deliberazione impugnata, quando sussistono gravi motivi. Il decreto di sospensione deve essere motivato ed è notificato agli amministratori (att. 10).<br />
L’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume può essere sospesa anche dall’autorità governativa (att. 9, 16).
=== Art. 24 Recesso ed esclusione degli associati ===
La qualità di associato non è trasmissibile, salvo che la trasmissione sia consentita dall’atto costitutivo o dallo statuto. (2284, 2322)<br />
L’associato può sempre recedere dall’associazione se non ha assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato. La dichiarazione di recesso deve essere comunicata per iscritto agli amministratori e ha effetto con lo scadere dell’anno in corso, purché sia fatta almeno tre mesi prima. (2285)<br />
L’esclusione d’un associato non può essere deliberata dall’assemblea che per gravi motivi; l’associato può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui gli è stata notificata la deliberazione. (2286)<br />
Gli associati, che abbiano receduto o siano stati esclusi o che comunque abbiano cessato di appartenere all’associazione, non possono ripetere i contributi versati, né hanno alcun diritto sul patrimonio dell’associazione.
=== Art. 25 Controllo sull’amministrazione delle fondazioni ===
L’autorità governativa esercita il controllo e la vigilanza sull’amministrazione delle fondazioni; provvede alla nomina e alla sostituzione degli amministratori o dei rappresentanti, quando le disposizioni contenute nell’atto di fondazione non possono attuarsi; annulla, sentiti gli amministratori, con provvedimento definitivo, le deliberazioni contrarie a norme imperative, all’atto di fondazione, all’ordine pubblico o al buon costume; può sciogliere l’amministrazione e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto e dello scopo della fondazione o della legge.<br />
L’annullamento della deliberazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (23, 1445, 2377).<br />
Le azioni contro gli amministratori per fatti riguardanti la loro responsabilità devono essere autorizzate dall’autorità governativa e sono esercitate dal commissario straordinario, dai liquidatori o dai nuovi amministratori. (18, 22)
=== Art. 26 Coordinamento di attività e unificazione di amministrazione ===
L’autorità governativa può disporre il coordinamento della attività di più fondazioni ovvero l’unificazione della loro amministrazione, rispettando, per quanto è possibile, la volontà del fondatore. (28)
=== Art. 27 Estinzione della persona giuridica ===
Oltre che per le cause previste nell’atto costitutivo e nello statuto, la persona giuridica si estingue quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile.<br />
Le associazioni si estinguono inoltre quando tutti gli associati sono venuti a mancare.
[L'estinzione è dichiarata dall'autorità governativa, su istanza di qualunque interessato o anche d'ufficio(*)]
<small> (*) Comma abrogato dall’art.11, D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361</small>
=== Art. 28 Trasformazione delle fondazioni ===
Quando lo scopo è esaurito o divenuto impossibile o di scarsa utilità, o il patrimonio e divenuto insufficiente, l’autorità governativa, anziché dichiarare estinta la fondazione, può provvedere alla sua trasformazione, allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore. (16, 26)<br />
La trasformazione non e ammessa quando i fatti che vi darebbero luogo sono considerati nell’atto di fondazione come causa di estinzione della persona giuridica e di devoluzione dei beni a terze persone.<br />
Le disposizioni del primo comma di questo articolo e dell’art. 26 non si applicano alle fondazioni destinate a vantaggio soltanto di una o più famiglie determinate (att. 10).
=== Art. 29 Divieto di nuove operazioni ===
Gli amministratori non possono compiere nuove operazioni, appena è stato loro comunicato il provvedimento che dichiara l’estinzione della persona giuridica o il provvedimento con cui l’autorità, a norma di legge, ha ordinato lo scioglimento dell’associazione, o appena è stata adottata dall’assemblea la deliberazione di scioglimento dell’associazione medesima. Qualora trasgrediscano a questo divieto, assumono responsabilità personale e solidale (18, 27, 1292, 2274, 2279, 2485).
=== Art. 30 Liquidazione ===
Dichiarata l’estinzione della persona giuridica o disposto lo scioglimento dell’associazione, si procede alla liquidazione del patrimonio secondo le norme di attuazione del codice (att. 11, 21).
=== Art. 31 Devoluzione dei beni ===
I beni della persona giuridica, che restano dopo esaurita la liquidazione, sono devoluti in conformità dell’atto costitutivo o dello statuto.<br />
Qualora questi non dispongano, se trattasi di fondazione, provvede l’autorità governativa, attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi, se trattasi di associazione, si osservano le deliberazioni dell’assemblea che ha stabilito lo scioglimento e, quando anche queste mancano, provvede nello stesso modo l’autorità governativa.<br />
I creditori che durante la liquidazione non hanno fatto valere il loro credito possono chiedere il pagamento a coloro ai quali i beni sono stati devoluti, entro l’anno della chiusura della liquidazione, in proporzione e nei limiti di ciò che hanno ricevuto (30, 42, 2312, 2324, 2964 e seguenti).
=== Art. 32 Devoluzione dei beni con destinazione particolare ===
Nel caso di trasformazione o di scioglimento di un ente, al quale sono stati donati o lasciati beni con destinazione a scopo diverso da quello proprio dell’ente, l’autorità governativa devolve tali beni, con lo stesso onere, ad altre persone giuridiche, che hanno fini analoghi (42).
=== [Art. 33 Registrazione delle persone giuridiche (*)] ===
<small> (*) Articolo abrogato dall’art. 11, D.P.R 10 febbraio 2000, n. 361. Il precedente testo recitava:"In ogni provincia è istituito un pubblico registro delle persone giuridiche (att. 22 e seguenti).
Nel registro devono indicarsi la data dell’atto costitutivo, quella del decreto di riconoscimento, la denominazione, lo scopo, il patrimonio, la durata, qualora sia stata determinata, la sede della persona giuridica e il cognome e il nome degli amministratori con la menzione di quelli ai quali è attribuita la rappresentanza.
La registrazione può essere disposta anche d’ufficio.
Gli amministratori di un’associazione o di una fondazione non registrata, benché riconosciuta, rispondono personalmente e solidalmente, insieme con la persona giuridica, delle obbligazioni assunte."</small>
=== [Art. 34 Registrazione di atti (*)] ===
<small> (*) Articolo abrogato dall’art. 11, D.P.R 10 febbraio 2000, n. 361. Il precedente testo recitava: "Nel registro devono iscriversi anche le modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto, dopo che sono state approvate dall’autorità governativa, il trasferimento della sede e l’istituzione di sedi secondarie, la sostituzione degli amministratori con indicazione di quelli ai quali spetta la rappresentanza, le deliberazioni di scioglimento, i provvedimenti che ordinano lo scioglimento o dichiarano l’estinzione, il cognome e il nome dei liquidatori.
Se l’iscrizione non ha avuto luogo, i fatti indicati non possono essere opposti ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza."</small>
=== Art. 35 Disposizione penale (*) ===
Gli amministratori e i liquidatori che non richiedono le iscrizioni prescritte [dagli artt. 33 e 34, nel termine e secondo le modalità stabiliti dalle norme di attuazione del codice (artt. 25 e seguenti)] sono puniti con l’ammenda da L. 20.000 (euro 10,32) a L. 1.000.000 (euro 516,46).<br />
<small> (*) Articolo modificato dall’art. 11, D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361</small>
=== Capo III: Delle associazioni non riconosciute e dei comitati [36-42] ===
=== Art. 36 Ordinamento e amministrazione delle associazioni non riconosciute ===
L’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati.<br />
Le dette associazioni possono stare in giudizio nella persona di coloro ai quali, secondo questi accordi, e conferita la presidenza o la direzione (Cod. Proc. Civ. 75, 78).
=== Art. 37 Fondo comune ===
I contributi degli associati e i beni acquistati con questi contributi costituiscono il fondo comune dell’associazione. Finche questa dura, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né pretendere la quota in caso di recesso (24).
=== Art. 38 Obbligazioni ===
Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente (1292 e seguenti) le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione (41, 2267, 2291, 2317, 2320, 2331, 2508, 2615, Cod. Proc. Civ. 19).
=== Art. 39 Comitati ===
I comitati di soccorso o di beneficenza e i comitati promotori di opere pubbliche, monumenti, esposizioni, mostre, festeggiamenti e simili sono regolati dalle disposizioni seguenti, salvo quanto e stabilito nelle leggi speciali.
=== Art. 40 Responsabilità degli organizzatori ===
Gli organizzatori e coloro che assumono la gestione dei fondi raccolti sono responsabili personalmente e solidalmente (1292 e seguenti) della conservazione dei fondi e della loro destinazione allo scopo annunziato.
=== Art. 41 Responsabilità dei componenti. Rappresentanza in giudizio ===
Qualora il comitato non abbia ottenuto la personalità giuridica (12), i suoi componenti rispondono personalmente e solidalmente (1292 e seguenti) delle obbligazioni assunte. I sottoscrittori sono tenuti soltanto a effettuare le oblazioni promesse.
Il comitato può stare in giudizio nella persona del presidente (36, 1387, Cod. Proc. Civ. 75).
=== Art. 42 Diversa destinazione dei fondi ===
Qualora i fondi raccolti siano insufficienti allo scopo, o questo non sia più attuabile, o, raggiunto lo scopo, si abbia un residuo di fondi, l’autorità governativa stabilisce la devoluzione dei beni, se questa non è stata disciplinata al momento della costituzione (31, 32).
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Codice civile/Libro II/Titolo I
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Morbius
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Le intestazioni di livello 2 sono riservate ai Titoli, non ai Capi e alle Sezioni
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Libro Secondo - Titolo I: Disposizioni generali sulle successioni [456-564]<section end="sottotitolo"/>
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{{IncludiIntestazione|sottotitolo=Libro Secondo - Titolo I: Disposizioni generali sulle successioni [456-564]|prec=../../Libro I/Titolo XIV|succ=../Titolo II}}
== Titolo I: Disposizioni generali sulle successioni [456-564] ==
=== Capo I: Dell’apertura della successione, della delazione e dell’acquisto dell’eredità [456-461] ===
==== Art. 456 Apertura della successione ====
La successione si apre al momento della morte (4, 58 e seguenti), nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto (43, 45).
==== Art. 457 Delazione dell’eredità ====
L’eredità si devolve per legge (565 e seguenti) o per testamento (587 e seguenti; Costit. 42).<br />
Non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria.<br />
Le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari (536 e seguenti).
==== Art. 458 Divieto di patti successori ====
È nulla ogni convenzione (1321) con cui taluno dispone della propria successione (679, 1412, 1920, 2122). È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi (557, 769).
==== Art. 459 Acquisto dell’eredità ====
L’eredità si acquista con l’accettazione (470 e seguenti, 586). L’effetto dell’accettazione risale al momento nel quale si è aperta la successione (456, 1146).
==== Art. 460 Poteri del chiamato prima dell’accettazione ====
Il chiamato all’eredità può esercitare le azioni possessorie (1168 e seguenti) a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione (1146).<br />
Egli inoltre può compiere atti conservativi (Cod. Proc. Civ. 670) di vigilanza e di amministrazione temporanea (486), e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio (Cod. Proc. Civ. 747, 748).<br />
Non può il chiamato compiere gli atti indicati nei commi precedenti, quando si è provveduto alla nomina di un curatore dell’eredità a norma dell’Art. 528.
==== Art. 461 Rimborso delle spese sostenute dal chiamato ====
Se il chiamato rinunzia all’eredità (529 e seguenti), le spese sostenute per gli atti indicati dall’articolo precedente sono a carico dell’eredità.
=== Capo II: Della capacità di succedere [462] ===
==== Art. 462 Capacità delle persone fisiche ====
Sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo dell’apertura della successione (1, 456, 594 e seguenti, 784).<br />
Salvo prova contraria, si presume concepito al tempo dell’apertura della successione chi è nato entro i trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta (232).
Possono inoltre ricevere per testamento i figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti (643, 715, 784).
=== Capo III: Dell’indegnità [463-466] ===
==== Art. 463 Casi d’indegnità ====
È escluso dalla successione come indegno (306, 309, 466, 468, 683, 688, 696):<br />
1) chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale (cod. pen. 43, 575);<br />
2) chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge [penale] dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio (cod. pen. 397, 579, 580);<br />
3) chi ha denunziato una di tali persone per reato punibile con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale (c.p. 368); ovvero ha testimoniato contro le persone medesime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale (cod. pen. 372);<br />
3-bis) Chi, essendo decaduto dalla podestà genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’articolo 330, non è stato reintegrato nella podestà alla data di apertura della successione della medesima.<br />
4) chi ha indotto con dolo (1439) o violenza (1434) la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita (679);<br />
5) chi ha soppresso, celato o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata (624);<br />
6) chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso (cod. pen. 491).
==== Art. 464 Restituzione dei frutti ====
L’indegno è obbligato a restituire i frutti (820) che gli sono pervenuti dopo l’apertura della successione (535, 535, 1148).
==== Art. 465 Indegnità del genitore ====
Colui che è escluso per indegnità dalla successione (463) non ha sui beni della medesima, che siano devoluti ai suoi figli, i diritti di usufrutto (324) o di amministrazione che la legge accorda ai genitori (320 e seguenti).
==== Art. 466 Riabilitazione dell’indegno ====
Chi è incorso nell’indegnità (463) è ammesso a succedere quando la persona, della cui successione si tratta, ve lo ha espressamente abilitato con atto pubblico o con testamento (587, 2699).<br />
Tuttavia l’indegno non espressamente abilitato, se è stato contemplato nel testamento quando il testatore conosceva la causa dell’indegnità, è ammesso a succedere nei limiti della disposizione testamentaria (1444).
=== Capo IV: Della rappresentazione [467-469] ===
==== Art. 467 Nozione ====
La rappresentazione fa subentrare i discendenti nel luogo e nel grado del loro ascendente (564, 740), in tutti i casi in cui questi non può (4, 463) o non vuole (519) accettare l’eredità o il legato (522, 523, 649).<br />
Si ha rappresentazione nella successione testamentaria (674, 675) quando il testatore non ha provveduto per il caso in cui l’istituto non possa o non voglia accettare l’eredità o il legato, e sempre che non si tratti di legato di usufrutto o di altro diritto di natura personale.
==== Art. 468 Soggetti ====
La rappresentazione ha luogo, nella linea retta (75) a favore dei discendenti dei figli anche adottivi e, nella linea collaterale (75), a favore dei discendenti dei fratelli e delle sorelle del defunto.<br />
I discendenti (467) possono succedere per rappresentazione anche se hanno rinunziato (519 e seguenti) all’eredità della persona in luogo della quale subentrano, o sono incapaci o indegni di succedere rispetto a questa.
==== Art. 469 Estensione del diritto di rappresentazione. Divisione ====
La rappresentazione ha luogo in infinito, siano uguali o disuguali il grado dei discendenti e il loro numero in ciascuna stirpe.<br />
La rappresentazione ha luogo anche nel caso di unicità di stirpe (564).<br />
Quando vi è rappresentazione la divisione si fa per stirpi (726).<br />
Se uno stipite ha prodotto più rami, la suddivisione avviene per stirpi anche in ciascun ramo, e per capi tra i membri del medesimo ramo.
=== Capo V: Dell’accettazione dell’eredità [470-511] ===
=== Sezione I: Disposizioni generali [470-483]===
==== Art. 470 Accettazione pura e semplice e accettazione col beneficio d’inventario ====
L’eredità può essere accettata (2648, 2685) puramente e semplicemente o col beneficio d’inventario (484 e seguenti).<br/>
L’accettazione col beneficio d’inventario può farsi nonostante qualunque divieto del testatore (634).
==== Art. 471 Eredità devolute a minori o interdetti ====
Non si possono accettare le eredità devolute ai minori (2, 230) e agli interdetti (414), se non col beneficio d’inventario (489), osservate le disposizioni degli artt. 321 e 374.
==== Art. 472 Eredità devolute a minori emancipati o a inabilitati ====
I minori emancipati (390 e seguenti) e gli inabilitati (415 e seguenti) non possono accettare l’eredità, se non col beneficio d’inventario (489), osservate le disposizioni dell’Art. 394.
==== Art. 473 Eredità devolute a persone giuridiche od a associazioni, fondazioni o enti non riconosciuti (*)====
L’accettazione delle eredità devolute alle persone giuridiche (11 e seguenti) non può farsi che col beneficio d’inventario (490).<br />
Questo articolo non si applica alle società (2247).
<small>(*) Articolo sostituito dall’art. 1, L. 22 giugno 2000, n. 192</small>
==== Art. 474 Modi di accettazione ====
L’accettazione può essere espressa o tacita (1326, 1333).
==== Art. 475 Accettazione espressa ====
L’accettazione e espressa quando, in un atto pubblico (2699) o in una scrittura privata (2702), il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede (2648).
E nulla la dichiarazione di accettare sotto condizione (1335 e seguenti) o a termine (1184).<br />
Parimenti è nulla la dichiarazione di accettazione parziale di eredità.
==== Art. 476 Accettazione tacita ====
L’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (527, 2648).
==== Art. 477 Donazione, vendita e cessione dei diritti di successione ====
La donazione, la vendita (1542) o la cessione, che il chiamato all’eredità faccia dei suoi diritti di successione a un estraneo o a tutti gli altri chiamati o ad alcuno di questi, importa accettazione dell’eredità (769 e seguenti).
==== Art. 478 Rinunzia che importa accettazione ====
La rinunzia ai diritti di successione, qualora sia fatta verso corrispettivo o a favore di alcuni soltanto dei chiamati, importa accettazione (519).
==== Art. 479 Trasmissione del diritto di accettazione ====
Se il chiamato all’eredità muore senza averla accettata, il diritto di accettarla si trasmette agli eredi.<br />
Se questi non sono d’accordo per accettare o rinunziare, colui che accetta l’eredità acquista tutti i diritti e soggiace a tutti i pesi ereditari, mentre vi rimane estraneo chi ha rinunziato (521).<br />
La rinunzia all’eredità propria del trasmittente include rinunzia all’eredità che al medesimo è devoluta (468).
==== Art. 480 Prescrizione ====
Il diritto di accettare l’eredità si prescrive in dieci anni (525, 2946).<br />
Il termine decorre dal giorno dell’apertura della successione (456) e, in caso d’istituzione condizionale (633 e seguenti), dal giorno in cui si verifica la condizione (2935. In caso di accertamento giudiziale della filiazione il termine decorre dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione stessa.<br />
Il termine non corre per i chiamati ulteriori, se vi è stata accettazione da parte di precedenti chiamati e successivamente il loro acquisto ereditario è venuto meno.
==== Art. 481 Fissazione di un termine per l’accettazione ====
Chiunque vi ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine (Cod. Proc. Civ. 749) entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare (488).
==== Art. 482 Impugnazione per violenza o dolo ====
L’accettazione dell’eredità si può impugnare quando e effetto di violenza o di dolo (526, 1434 e seguenti).<br />
L’azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto il dolo (1442).
==== Art. 483 Impugnazione per errore ====
L’accettazione dell’eredità non si può impugnare se è viziata da errore (526, 1428 e seguenti).
Tuttavia, se si scopre un testamento del quale non si aveva notizia al tempo dell’accettazione, l’erede (662 e seguente) non è tenuto a soddisfare i legati (649 e seguenti) scritti in esso oltre il valore dell’eredità, o con pregiudizio della porzione legittima che gli e dovuta (536 e seguenti). Se i beni ereditari non bastano a soddisfare tali legati, si riducono proporzionalmente anche i legati scritti in altri testamenti. Se alcuni legatari sono stati già soddisfatti per intero, contro di loro è data azione di regresso.<br />
L’onere di provare il valore dell’eredità incombe all’erede (2697).
=== Sezione II: Del beneficio d’inventario [484-511]===
==== Art. 484 Accettazione col beneficio d’inventario ====
L’accettazione col beneficio d’inventario (490 e seguenti, 2830) si fa mediante dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni conservato nello stesso tribunale (att. 52, 53).<br />
Entro un mese dall’inserzione, la dichiarazione deve essere trascritta, a cura del cancelliere, presso l’ufficio dei registri immobiliari del luogo in cui si è aperta la successione.
La dichiarazione deve essere preceduta o seguita dall’inventario, nelle forme prescritte dal codice di procedura civile (Cod. Proc. Civ. 769 e seguenti).<br />
Se l’inventario è fatto prima della dichiarazione, nel registro deve pure menzionarsi la data in cui esso e stato compiuto.<br />
Se l’inventario è fatto dopo la dichiarazione, l’ufficiale pubblico che lo ha redatto deve, nel termine di un mese, far inserire nel registro l’annotazione della data in cui esso è stato compiuto.
==== Art. 485 Chiamato all’eredità che è nel possesso di beni ====
Il chiamato all’eredità, quando a qualsiasi titolo e nel possesso di beni ereditari, deve fare l’inventario entro tre mesi dal giorno dell’apertura della successione o della notizia della devoluta eredità. Se entro questo termine lo ha cominciato ma non e stato in grado di completarlo, può ottenere dal tribunale del luogo in cui si e aperta la successione una proroga che, salvo gravi circostanze, non deve eccedere i tre mesi (Cod. Proc. Civ. 7494).<br />
Trascorso tale termine senza che l’inventario sia stato compiuto, il chiamato all’eredità è considerato erede puro e semplice.<br />
Compiuto l’inventario, il chiamato che non abbia ancora fatto la dichiarazione a norma dell’Art. 484 ha un termine di quaranta giorni da quello del compimento dell’inventario medesimo, per deliberare se accetta o rinunzia all’eredità. Trascorso questo termine senza che abbia deliberato, è considerato erede puro e semplice.
==== Art. 486 Poteri ====
Durante i termini stabiliti dall’articolo precedente per fare l’inventario e per deliberare, il chiamato, oltre che esercitare i poteri indicati nell’Art. 460, può stare in giudizio come convenuto per rappresentare l’eredità.<br />
Se non compare, l’autorità giudiziaria nomina un curatore all’eredità affinche la rappresenti in giudizio (Cod. Proc. Civ. 78-80).
==== Art. 487 Chiamato all’eredità che non è nel possesso di beni ====
Il chiamato all’eredità, che non è nel possesso di beni ereditari, può fare la dichiarazione di accettare col beneficio d’inventario, fino a che il diritto di accettare non e prescritto.
Quando ha fatto la dichiarazione, deve compiere l’inventario nel termine di tre mesi dalla dichiarazione, salva la proroga accordata dall’autorità giudiziaria a norma dell’Art. 485; in mancanza, e considerato erede puro e semplice.<br />
Quando ha fatto l’inventario non preceduto da dichiarazione d’accettazione, questa deve essere fatta nei quaranta giorni successivi al compimento dell’inventario; in mancanza, il chiamato perde il diritto di accettare l’eredità.
==== Art. 488 Dichiarazione in caso di termine fissato dall’autorità giudiziaria ====
Il chiamato all’eredità che non è nel possesso di beni ereditari, qualora gli sia stato assegnato un termine a norma dell’Art. 481, deve, entro detto termine, compiere anche l’inventario; se fa la dichiarazione e non l’inventario, è considerato erede puro e semplice.<br />
L’autorità giudiziaria può accordare una dilazione (Cod. Proc. Civ. 749-4).
==== Art. 489 Incapaci ====
I minori, gli interdetti e gli inabilitati (414 e seguente) non s’intendono decaduti dal beneficio d’inventario (471, 472), se non al compimento di un anno dalla maggiore età o dal cessare dello stato d’interdizione o d’inabilitazione, qualora entro tale termine non si siano conformati alle norme della presente Sezione.
==== Art. 490 Effetti del beneficio d’inventario ====
L’effetto del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede (2941, n. 5).<br />
Conseguentemente:
# l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli che si sono estinti per effetto della morte (448);
# l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti (564, 1203);
# i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede. Essi però non sono dispensati dal domandare la separazione dei beni, secondo le disposizioni del Capo seguente, se vogliono conservare questa preferenza anche nel caso che l’erede decada dal beneficio d’inventario o vi rinunzi.
==== Art. 491 Responsabilità dell’erede nell’amministrazione ====
L’erede con beneficio d’inventario non risponde dell’amministrazione dei beni ereditari se non per colpa grave.
==== Art. 492 Garanzia ====
Se i creditori o altri aventi interesse lo richiedono, l’erede deve dare idonea garanzia (1179; Cod. Proc. Civ. 750) per il valore dei beni mobili compresi nell’inventario, per i frutti degli immobili e per il prezzo dei medesimi che sopravanzi al pagamento dei creditori ipotecari.
==== Art. 493 Alienazione dei beni ereditari senza autorizzazione ====
L’erede decade dal beneficio d’inventario, se aliena o sottopone a pegno o ipoteca beni ereditari, o transige relativamente a questi beni senza l’autorizzazione scritte dal codice di procedura civile (Cod. Proc. Civ. 747 e seguenti).<br />
Per i beni mobili l’autorizzazione non è necessaria trascorsi cinque anni dalla dichiarazione di accettare con beneficio d’inventario.
==== Art. 494 Omissioni o infedeltà nell’inventario ====
Dal beneficio d’inventario decade l’erede che ha omesso in mala fede di denunziare nell’inventario beni appartenenti all’eredità, o che ha denunziato in mala fede, nell’inventario stesso, passività non esistenti (527).
==== Art. 495 Pagamento dei creditori e legatari ====
Trascorso un mese dalla trascrizione prevista nell’Art. 484 o dall’annotazione disposta nello stesso articolo per il caso che l’inventario sia posteriore alla dichiarazione, l’erede, quando creditori o legatari non si oppongono (2906) ed egli non intende promuovere la liquidazione a norma dell’Art. 503, paga i creditori e i legatari a misura che si presentano, salvi i loro diritti di poziorità (2741).
Esaurito l’asse ereditario, i creditori rimasti insoddisfatti hanno soltanto diritto di regresso contro i legatari, ancorché di cosa determinata appartenente al testatore (649), nei limiti del valore del legato.<br />
Tale diritto si prescrive in tre anni dal giorno dell’ultimo pagamento, salvo che il credito sia anteriormente prescritto (2934 e seguenti).
==== Art. 496 Rendimento del conto ====
L’erede ha l’obbligo di rendere conto della sua amministrazione ai creditori e ai legatari, i quali possono fare assegnare un termine all’erede (Cod. Proc. Civ. 263 e seguenti, 747 e seguente.; att. Cod. Proc. Civ. 109, 178).
==== Art. 497 Mora nel rendimento del conto ====
L’erede non può essere costretto al pagamento con i propri beni, se non quando è stato costituito in mora (1219) a presentare il conto e non ha ancora soddisfatto a quest’obbligo.<br />
Dopo la liquidazione del conto, non può essere costretto al pagamento con i propri beni se non fino alla concorrenza delle somme di cui è debitore.
==== Art. 498 Liquidazione dell’eredità in caso di opposizione ====
Qualora entro il termine indicato nell’Art. 495 gli sia stata notificata opposizione da parte di creditori o di legatari, l’erede non può eseguire pagamenti, ma deve provvedere alla liquidazione dell’eredità nell’interesse di tutti i creditori e legatari.<br />
A tal fine egli, non oltre un mese dalla notificazione dell’opposizione, deve, a mezzo di un notaio del luogo dell’aperta successione (456), invitare i creditori e i legatari a presentare, entro un termine stabilito dal notaio stesso e non inferiore a giorni trenta, le dichiarazioni di credito.<br />
L’invito è spedito per raccomandata ai creditori e ai legatari dei quali è noto il domicilio o la residenza ed e pubblicato nel foglio degli annunzi legali della provincia.
==== Art. 499 Procedura di liquidazione ====
Scaduto il termine entro il quale devono presentarsi le dichiarazioni di credito, l’erede provvede, con l’assistenza del notaio, a liquidare le attività ereditarie facendosi autorizzare alle alienazioni necessarie. Se l’alienazione ha per oggetto beni sottoposti a privilegio o a ipoteca, i privilegi non si estinguono, e le ipoteche non possono essere cancellate sino a che l’acquirente non depositi il prezzo nel modo stabilito dal giudice o non provveda al pagamento dei creditori collocati nello stato di graduazione previsto dal comma seguente.<br />
L’erede forma, sempre con l’assistenza del notaio, lo stato di graduazione. I creditori sono collocati secondo i rispettivi diritti di prelazione (2741 e seguenti). Essi sono preferiti ai legatari. Tra i creditori non aventi diritto a prelazione l’attivo ereditario è ripartito in proporzione dei rispettivi crediti. Qualora, per soddisfare i creditori, sia necessario comprendere nella liquidazione anche l’oggetto di un legato di specie (649), sulla somma che residua dopo il pagamento dei creditori il legatario di specie è preferito agli altri legatari.
==== Art. 500 Termine per la liquidazione ====
L’autorità giudiziaria, su istanza di alcuno dei creditori o legatari, può assegnare un termine all’erede per liquidare le attività ereditarie e per formare lo stato di graduazione (Cod. Proc. Civ. 749).
==== Art. 501 Reclami ====
Compiuto lo stato di graduazione, il notaio ne dà avviso con raccomandata ai creditori e legatari di cui è noto il domicilio o la residenza, e provvede alla pubblicazione di un estratto dello stato nel foglio degli annunzi legali della provincia. Trascorsi senza reclami trenta giorni dalla data di questa pubblicazione, lo stato di graduazione diviene definitivo.
==== Art. 502 Pagamento dei creditori e dei legatari ====
Divenuto definitivo lo stato di graduazione (501) o passata in giudicato la sentenza che pronunzia sui reclami, l’erede deve soddisfare i creditori e i legatari in conformità dello stato medesimo. Questo costituisce titolo esecutivo contro l’erede (Cod. Proc. Civ. 474).<br />
La collocazione dei crediti condizionali non impedisce il pagamento dei creditori posteriori, sempre che questi diano cauzione (1179).<br />
I creditori e i legatari che non si sono presentati hanno azione contro l’erede solo nei limiti della somma che residua dopo il pagamento dei creditori e dei legatari collocati nello stato di graduazione. Questa azione si prescrive in tre anni dal giorno in cui lo stato e divenuto definitivo o è passata in giudicato la sentenza che ha pronunziato sui reclami, salvo che il credito sia anteriormente prescritto.
==== Art. 503 Liquidazione promossa dall’erede ====
Anche quando non vi e opposizione di creditori o di legatari, l’erede può valersi della procedura di liquidazione prevista dagli articoli precedenti (att. 132).<br />
Il pagamento fatto a creditori privilegiati ipotecari non impedisce all’erede di valersi di questa procedura.
==== Art. 504 Liquidazione nel caso di più eredi ====
Se vi sono più eredi con beneficio d’inventario, ciascuno può promuovere la liquidazione; ma deve convocare i propri coeredi al notaio nel termine che questi ha stabilito per la dichiarazione dei crediti. I coeredi che non si presentano sono rappresentati nella liquidazione dal notaio.
==== Art. 505 Decadenza dal beneficio ====
L’erede che, in caso di opposizione, non osserva le norme stabilite dall’Art. 498 o non compie la liquidazione o lo stato di graduazione nel termine stabilito dall’Art. 500, decade dal beneficio d’inventario.<br />
Parimenti decade dal beneficio d’inventario l’erede che, nel caso previsto dall’Art. 503 dopo l’invito ai creditori di presentare le dichiarazioni di credito, esegue pagamenti prima che sia definita la procedura di liquidazione o non osserva il termine che gli è stato prefisso a norma dell’art. 500.</br>
La decadenza non si verifica quando si tratta di pagamenti a favore di creditori privilegiati o ipotecari. In ogni caso la decadenza dal beneficio d’inventario può essere fatta valere solo dai creditori del defunto e dai legatari.
==== Art. 506 Procedure individuali ====
Eseguita la pubblicazione prescritta dal terzo comma dell’Art. 498, non possono essere promosse procedure esecutive a istanza dei creditori. Possono tuttavia essere continuate quelle in corso, ma la parte di prezzo che residua dopo il pagamento dei creditori privilegiati e ipotecari deve essere distribuita in base allo stato di graduazione previsto dall’art. 499.</br>
I crediti a termine diventano esigibili. Resta tuttavia il beneficio del termine, quando il credito e munito di garanzia reale (2747, 2796, 2808) su beni la cui alienazione non si renda necessaria ai fini della liquidazione, e la garanzia stessa è idonea ad assicurare il soddisfacimento integrale del credito.</br>
Dalla data di pubblicazione dell’invito ai creditori previsto dal terzo comma dell’art. 498 e sospeso il decorso degli interessi dei crediti chirografari. I creditori tuttavia hanno diritto, compiuta la liquidazione, al collocamento degli interessi sugli eventuali residui.
==== Art. 507 Rilascio dei beni ai creditori e ai legatari ====
L’erede, non oltre un mese dalla scadenza del termine stabilito per presentare le dichiarazioni di credito, se non ha provveduto ad alcun atto di liquidazione, può rilasciare tutti i beni ereditari a favore dei creditori e dei legatari.</br>
A tal fine l’erede deve, nelle forme indicate dall’Art. 498, dare avviso ai creditori e ai legatari dei quali è noto il domicilio o la residenza (43); deve iscrivere la dichiarazione di rilascio nel registro delle successioni (att. 52, 53), annotarla in margine alla trascrizione prescritta dal secondo comma dell’Art. 484, e trascriverla presso gli uffici dei registri immobiliari dei luoghi in cui si trovano gli immobili ereditari e presso gli uffici dove sono registrati i beni mobili (2663).</br>
Dal momento in cui è trascritta la dichiarazione di rilascio, gli atti di disposizione dei beni ereditari compiuti dall’erede sono senza effetto rispetto ai creditori e ai legatari (2649). L’erede deve consegnare i beni al curatore nominato secondo le norme dell’articolo seguente. Eseguita la consegna, egli resta liberato da ogni responsabilità per i debiti ereditari (1177, 2930).
==== Art. 508 Nomina del curatore ====
Trascritta la dichiarazione di rilascio, il tribunale del luogo dell’aperta successione, su istanza dell’erede o di uno dei creditori o legatari, o anche d’ufficio, nomina un curatore, perché provveda alla liquidazione secondo le norme degli artt. 498 e seguenti.</br>
Il decreto di nomina del curatore è iscritto nel registro delle successioni (att. 52, 53).</br>
Le attività che residuano, pagate le spese della curatela e soddisfatti i creditori e i legatari collocati nello stato di graduazione, spettano all’erede, salva l’azione dei creditori e legatari, che non si sono presentati, nei limiti determinati dal terzo comma dell’Art. 502.
==== Art. 509 Liquidazione proseguita su istanza dei creditori o legatari ====
Se, dopo la scadenza del termine stabilito per presentare le dichiarazioni di credito, l’erede incorre nella decadenza dal beneficio d’inventario, ma nessuno dei creditori o legatari la fa valere, il tribunale del luogo dell’aperta successione, su istanza di uno dei creditori o legatari, sentiti l’erede e coloro che hanno presentato le dichiarazioni di credito, può nominare un curatore con l’incarico di provvedere alla liquidazione dell’eredità secondo le norme degli artt. 499 e seguenti. Dopo la nomina del curatore, la decadenza dal beneficio non può più essere fatta valere.</br>
Il decreto di nomina del curatore è iscritto nel registro delle successioni (att. 52, 53), annotato a margine della trascrizione prescritta dal secondo comma dell’Art. 484, e trascritto negli uffici dei registri immobiliari dei luoghi dove si trovano gli immobili ereditari e negli uffici dove sono registrati i beni mobili (2663).</br>
L’erede perde l’amministrazione dei beni ed è tenuto a consegnarli al curatore. Gli atti di disposizione che l’erede compie dopo trascritto il decreto di nomina del curatore sono senza effetto rispetto ai creditori e ai legatari (2649).
==== Art. 510 Accettazione o inventario fatti da uno dei chiamati ====
L’accettazione con beneficio d’inventario fatta da uno dei chiamati giova a tutti gli altri, anche se l’inventario è compiuto da un chiamato diverso da quello che ha fatto la dichiarazione.
==== Art. 511 Spese ====
Le spese dell’apposizione dei sigilli (Cod. Proc. Civ. 752 e seguente), dell’inventario e di ogni altro atto dipendente dall’accettazione con beneficio d’inventario sono a carico dell’eredità.
=== Capo VI: Della separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede ===
==== Art. 512 Oggetto della separazione ====
La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede assicura il soddisfacimento, con i beni del defunto, dei creditori di lui e dei legatari che l’hanno esercitata, a preferenza dei creditori dell’erede (490).</br>
Il diritto alla separazione spetta anche ai creditori o legatari che hanno altre garanzie (2741, 2772) sui beni del defunto.</br>
La separazione non impedisce ai creditori e ai legatari che l’hanno esercitata, di soddisfarsi anche sui beni propri dell’erede.
==== Art. 513 Separazione contro i legatari di specie ====
I creditori del defunto possono esercitare la separazione anche rispetto ai beni che formano oggetto di legato di specie (649).
==== Art. 514 Rapporti tra creditori separatisti e non separatisti ====
I creditori e i legatari che hanno esercitato la separazione hanno diritto di soddisfarsi sui beni separati a preferenza dei creditori e dei legatari che non l’hanno esercitata, quando il valore della parte di patrimonio non separata sarebbe stato sufficiente a soddisfare i creditori e i legatari non separatisti.</br>
Fuori di questo caso, i creditori e i legatari non separatisti possono concorrere con coloro che hanno esercitato la separazione; ma, se parte del patrimonio non e stata separata, il valore di questa si aggiunge al prezzo dei beni separati per determinare quanto spetterebbe a ciascuno dei concorrenti, e quindi si considera come attribuito integralmente ai creditori e ai legatari non separatisti (att. 54). Quando la separazione è esercitata da creditori e legatari, i creditori sono preferiti ai legatari. La preferenza è anche accordata, nel caso previsto dal comma precedente, ai creditori non separatisti di fronte ai legatari separatisti (756).</br>
Restano salve in ogni caso le cause di prelazione (2741 e seguenti).
==== Art. 515 Cessazione della separazione ====
L’erede può impedire o far cessare la separazione pagando i creditori e i legatari, e dando cauzione (1179) per il pagamento di quelli il cui diritto è sospeso da condizione o sottoposto a termine, oppure è contestato.
==== Art. 516 Termine per l’esercizio del diritto alla separazione ====
Il diritto alla separazione deve essere esercitato entro il termine di tre mesi dall’apertura della successione.
==== Art. 517 Separazione riguardo ai mobili ====
Il diritto alla separazione riguardo ai mobili si esercita mediante domanda giudiziale. La domanda si propone con ricorso al tribunale del luogo dell’aperta successione, il quale ordina l’inventario, se non e ancora fatto, e dà le disposizioni necessarie per la conservazione dei beni stessi.</br>
Riguardo ai mobili già alienati dall’erede, il diritto alla separazione comprende soltanto il prezzo non ancora pagato.
==== Art. 518 Separazione riguardo agli immobili ====
Riguardo agli immobili e agli altri beni capaci d’ipoteca, il diritto alla separazione si esercita mediante l’iscrizione del credito o del legato sopra ciascuno dei beni stessi. L’iscrizione si esegue nei modi stabiliti per iscrivere le ipoteche (2827 e seguenti), indicando il nome del defunto e quello dell’erede, se è conosciuto, e dichiarando che l’iscrizione stessa viene presa a titolo di separazione dei beni. Per tale iscrizione non è necessario esibire il titolo.</br>
Le iscrizioni a titolo di separazione, anche se eseguite in tempi diversi, prendono tutte il grado della prima e prevalgono sulle trascrizioni ed iscrizioni contro l’erede o il legatario, anche se anteriori.
Alle iscrizioni a titolo di separazione sono applicabili le norme sulle ipoteche (2808 e seguenti).
=== Capo VII: Della rinunzia all’eredità ===
==== Art. 519 Dichiarazione di rinunzia ====
La rinunzia all’eredità deve farsi con dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere della pretura del mandamento in cui si è aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni (att. 52, 53, 133). La rinunzia fatta gratuitamente a favore di tutti coloro ai quali si sarebbe devoluta la quota del rinunziante non ha effetto finché, a cura di alcuna delle parti, non siano osservate le forme indicate nel comma precedente.
==== Art. 520 Rinunzia condizionata, a termine o parziale ====
È nulla la rinunzia fatta sotto condizione o a termine o solo per parte (475).
==== Art. 521 Retroattività della rinunzia ====
Chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato.</br>
Il rinunziante può tuttavia ritenere la donazione o domandare il legato a lui fatto sino alla concorrenza della porzione disponibile (556), salve le disposizioni degli artt. 551 e 552.
==== Art. 522 Devoluzione nelle successioni legittime ====
Nelle successioni legittime la parte di colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero concorso col rinunziante, salvo il diritto di rappresentazione (467 e seguenti) e salvo il disposto dell’ultimo comma dell’Art. 571. Se il rinunziante e solo, l’eredità si devolve a coloro ai quali spetterebbe nel caso che egli mancasse.
==== Art. 523 Devoluzione nelle successioni testamentarie ====
Nelle successioni testamentarie, se il testatore non ha disposto una sostituzione (688) e se non ha luogo il diritto di rappresentazione (4672), la parte del rinunziante si accresce ai coeredi a norma dell’Art. 674, ovvero si devolve agli eredi legittimi a norma dell’Art. 677.
==== Art. 524 Impugnazione della rinunzia da parte dei creditori ====
Se taluno rinunzia, benché senza frode, a un’eredità con danno dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti (2652, 2740). Il diritto dei creditori si prescrive in cinque anni dalla rinunzia (2934 e seguenti).
==== Art. 525 Revoca della rinunzia ====
Fino a che il diritto di accettare l’eredità non e prescritto (480) contro i chiamati che vi hanno rinunziato, questi possono sempre accettarla, se non è già stata acquistata da altro dei chiamati, senza pregiudizio delle ragioni acquistate da terzi sopra i beni dell’eredità.
==== Art. 526 Impugnazione per violenza o dolo ====
La rinunzia all’eredità si può impugnare solo se è l’effetto di violenza o di dolo (1434 e seguenti).</br>
L’azione si prescrive in cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o e stato scoperto il dolo (1442).
==== Art. 527 Sottrazione di beni ereditari ====
I chiamati all’eredità, che hanno sottratto o nascosto beni spettanti all’eredità stessa, decadono dalla facoltà di rinunziarvi e si considerano eredi puri e semplici, nonostante la loro rinunzia.
=== Capo VIII: Dell’eredità giacente ===
==== Art. 528 Nomina del curatore ====
Quando il chiamato non ha accettato l’eredità e non è nel possesso di beni ereditari (458 e seguenti), il tribunale del mandamento in cui si e aperta la successione, su istanza delle persone interessate o anche d’ufficio, nomina un curatore dell’eredità.</br>
Il decreto di nomina del curatore, a cura del cancelliere, e pubblicato per estratto nel foglio degli annunzi legali della provincia e iscritto nel registro delle successioni (att. 52, 53).
==== Art. 529 Obblighi del curatore ====
Il curatore e tenuto a procedere all’inventario dell’eredità, a esercitarne e promuoverne le ragioni, a rispondere alle istanze proposte contro la medesima, ad amministrarla, a depositare presso le casse postali o presso un istituto di credito designato dal tribunale il danaro che si trova nell’eredità o si ritrae dalla vendita dei mobili o degli immobili, e, da ultimo, a rendere conto della propria amministrazione.
==== Art. 530 Pagamento dei debiti ereditari ====
Il curatore può provvedere al pagamento dei debiti ereditari e dei legati, previa autorizzazione del tribunale(Cod. Proc. Civ. 783).
Se però alcuno dei creditori o dei legatari fa opposizione, il curatore non può procedere ad alcun pagamento, ma deve provvedere alla liquidazione dell’eredità secondo le norme degli artt. 498 e seguenti (att. 134-2).
==== Art. 531 Inventario, amministrazione e rendimento dei conti ====
Le disposizioni della Sezione II del Capo V di questo Titolo, che riguardano l’inventario, l’amministrazione e il rendimento di conti da parte dell’erede con beneficio d’inventario, sono comuni al curatore dell’eredità giacente, esclusa la limitazione della responsabilità per colpa (491).
==== Art. 532 Cessazione della curatela per accettazione dell’eredità ====
Il curatore cessa dalle sue funzioni quando l’eredità è stata accettata.
==== Art. 533 Nozione ====
L’erede può (2652, 2690) chiedere il riconoscimento della qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi.</br>
L’azione è imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione rispetto ai singoli beni (1158 e seguenti).
==== Art. 534 Diritti dei terzi ====
L’erede può agire anche contro gli aventi causa da chi possiede a titolo di erede o senza titolo. Sono salvi i diritti acquistati, per effetto di convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente, dai terzi i quali provino di avere contrattato in buona fede.</br>
La disposizione del comma precedente non si applica ai beni immobili e ai beni mobili iscritti nei pubblici registri, se l’acquisto a titolo di erede (2648) e l’acquisto dall’erede apparente non sono stati trascritti anteriormente alla trascrizione dell’acquisto da parte dell’erede o del legatario vero, o alla trascrizione della domanda giudiziale contro l’erede apparente (2652, n. 7).
==== Art. 535 Possessore di beni ereditari ====
Le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni (1148 e seguenti).
Il possessore in buona fede, che ha alienato pure in buona fede una cosa dell’eredità, è solo obbligato a restituire all’erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Se il prezzo o il corrispettivo è ancora dovuto, l’erede subentra nel diritto di conseguirlo (2038).</br>
E possessore in buona fede colui che ha acquistato il possesso dei beni ereditari, ritenendo per errore di essere erede. La buona fede non giova se l’errore dipende da colpa grave (1147).
=== Capo IX: Dei legittimari ===
=== Sezione I: Dei diritti riservati ai legittimari ===
==== Art. 536 Legittimari ====
Le persone a favore delle quali la legge riserva (457, 549) una quota di eredità o altri diritti nella successione sono: il coniuge, i figli, gli ascendenti.</br>
Ai figli sono equiparati gli adottivi.</br>
A favore dei discendenti (77), i quali vengono alla successione in luogo di questi (467), la legge riserva gli stessi diritti che sono riservati ai figli.
==== Art. 537 Riserva a favore dei figli ====
Salvo quanto disposto dall’Art. 542, se il genitore lascia un figlio solo, a questi è riservata la metà del patrimonio.</br>
Se i figli sono più, è loro riservata la quota dei due terzi, da dividersi in parti uguali tra tutti i figli.
==== Art. 538 Riserva a favore degli ascendenti ====
Se chi muore non lascia figli, ma ascendenti, a favore di questi è riservato un terzo del patrimonio, salvo quanto disposto dall’art. 544.</br>
In caso di pluralità di ascendenti, la riserva è ripartita tra i medesimi secondo i criteri previsti dall’Art. 569.
==== Art. 539 (abrogato) ====
==== Art. 540 Riserva a favore del coniuge ====
A favore del coniuge (459) è riservata la metà del patrimonio dell’altro coniuge, salve le disposizioni dell’Art. 542 per il caso di concorso con i figli.</br>
Al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare (144), e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni.</br>
Tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli.
==== Art. 541 (abrogato) ====
==== Art. 542 Concorso di coniuge e figli ====
Se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio a quest’ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge.</br>
Quando i figli sono più di uno ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio e al coniuge spetta un quarto del patrimonio del defunto. La divisione tra tutti i figli è effettuata in parti uguali. Si applica il terzo comma dell’Art. 537.
==== Art. 543 (abrogato) ====
==== Art. 544 Concorso di ascendenti legittimi e coniuge ====
Quando chi muore non lascia figli ma ascendenti e il coniuge (459), a quest’ultimo è riservata la metà del patrimonio, ed agli ascendenti un quarto.</br>
In caso di pluralità di ascendenti, la quota di riserva ad essi attribuita ai sensi del precedente comma è ripartita tra i medesimi secondo i criteri previsti dall’Art. 569.
==== Art. 545-547 (abrogati) ====
==== Art. 548 Riserva a favore del coniuge separato ====
Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato (Cod. Proc. Civ. 324), ai sensi del secondo comma dell’art. 151, ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. L’assegno è commisurato alle sostanze ereditarie e alla qualità e al numero degli eredi legittimi, e non è comunque di entità superiore a quella della prestazione alimentare goduta. La medesima disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi.
==== Art. 549 Divieto di pesi o condizioni sulla quota dei legittimari ====
Il testatore non può imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari, salva l’applicazione delle norme contenute nel Titolo IV di questo libro (733 e seguenti).
==== Art. 550 Lascito eccedente la porzione disponibile ====
Quando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia (1872) il cui reddito eccede quello della porzione disponibile (556), i legittimari (536), ai quali è stata assegnata la nuda proprietà della disponibile o di parte di essa, hanno la scelta o di eseguire tale disposizione o di abbandonare (1350) la nuda proprietà della porzione disponibile. Nel secondo caso il legatario, conseguendo la disponibile abbandonata, non acquista la qualità di erede (588).</br>
La stessa scelta spetta ai legittimari quando il testatore ha disposto della nuda proprietà di una parte eccedente la disponibile.</br>
Se i legittimari sono più, occorre l’accordo di tutti perché la disposizione testamentaria abbia esecuzione.</br>
Le stesse norme si applicano anche se dell’usufrutto, della rendita o della nuda proprietà è stato disposto con donazione.
==== Art. 551 Legato in sostituzione di legittima ====
Se a un legittimario è lasciato un legato in sostituzione della legittima, egli può rinunziare al legato (649 e seguenti) e chiedere la legittima.</br>
Se preferisce di conseguire il legato, perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, e non acquista la qualità di erede (588). Questa disposizione non si applica quando il testatore ha espressamente attribuito al legittimario la facoltà di chiedere il supplemento.</br>
Il legato in sostituzione della legittima grava sulla porzione indisponibile. Se però il valore del legato eccede quello della legittima spettante al legittimario, per l’eccedenza il legato grava sulla disponibile.
==== Art. 552 Donazione e legati in conto di legittima ====
Il legittimario che rinunzia all’eredità (519 e seguenti), quando non si ha rappresentazione (467), può sulla disponibile ritenere le donazioni o conseguire i legati a lui fatti (521-2); ma quando non vi è stata espressa dispensa dall’imputazione (564-2), se per integrare la legittima spettante agli eredi è necessario ridurre le disposizioni testamentarie o le donazioni (554 e seguenti), restano salve le assegnazioni, fatte dal testatore sulla disponibile, che non sarebbero soggette a riduzione se il legittimario accettasse l’eredità, e si riducono le donazioni e i legati fatti a quest’ultimo.
=== Sezione II: Della reintegrazione della quota riservata ai legittimari ===
==== Art. 553 Riduzione delle porzioni degli eredi legittimi in concorso con legittimari ====
Quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o in parte la successione legittima (457), nel concorso di legittimari con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata (537 e seguenti) ai legittimari, i quali però devono imputare a questa, ai sensi dell’Art. 564, quanto hanno ricevuto dal defunto in virtù di donazioni o di legati.
==== Art. 554 Riduzione delle disposizioni testamentarie ====
Le disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre sono soggette a riduzione (557 e seguenti) nei limiti della quota medesima (2652).
==== Art. 555 Riduzione delle donazioni ====
Le donazioni (809, 1923), il cui valore eccede la quota della quale il defunto poteva disporre (172), sono soggette a riduzione fino alla quota medesima (att. 135).</br>
Le donazioni non si riducono se non dopo esaurito il valore dei beni di cui è stato disposto per testamento.
==== Art. 556 Determinazione della porzione disponibile ====
Per determinare l’ammontare della quota di cui il defunto poteva disporre si forma una massa di tutti i beni che appartenevano al defunto al tempo della morte, detraendone i debiti. Si riuniscono quindi fittiziamente i beni di cui sia stato disposto a titolo di donazione, secondo il loro valore determinato in base alle regole dettate negli artt. 747 e 750 e sull’asse così formato si calcola la quota ii cui il defunto poteva disporre (537 e seguenti, 737; att. 135-2).
==== Art. 557 Soggetti che possono chiedere la riduzione ====
La riduzione delle donazioni (809) e delle disposizioni lesive della porzione di legittima non può essere domandata che dai legittimari e dai loro eredi o aventi causa (537 e seguenti).</br>
Essi non possono rinunziare a questo diritto, finché vive il donante né con dichiarazione espressa, né prestando il loro assenso alla donazione (458).</br>
I donatari e i legatari non possono chiedere la riduzione, né approfittarne. Non possono chiederla né approfittarne nemmeno i creditori del defunto, se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato con il beneficio d’inventario (484 e seguenti).
==== Art. 558 Modo di ridurre le disposizioni testamentarie ====
La riduzione delle disposizioni testamentarie avviene proporzionalmente, senza distinguere tra eredi e legatari.</br>
Se il testatore ha dichiarato che una sua disposizione deve avere effetto a preferenza delle altre, questa disposizione non si riduce, se non in quanto il valore delle altre non sia sufficiente a integrare la quota riservata ai legittimari.
==== Art. 559 Modo di ridurre le donazioni ====
Le donazioni (809) si riducono cominciando dall’ultima e risalendo via via alle anteriori.
==== Art. 560 Riduzione del legato o della donazione d’immobili ====
Quando oggetto del legato o della donazione da ridurre è un immobile (812), la riduzione si fa separando dall’immobile medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò può avvenire comodamente (720).</br>
Se la separazione non può farsi comodamente e il legatario o il donatario ha nell’immobile un’eccedenza maggiore del quarto della porzione disponibile, l’immobile si deve lasciare per intero nell’eredità, salvo il diritto di conseguire il valore della porzione disponibile. Se l’eccedenza non supera il quarto, il legatario o il donatario può ritenere tutto l’immobile, compensando in danaro i legittimari.</br>
Il legatario o il donatario che è legittimario può ritenere tutto l’immobile, purché il valore di esso non superi l’importo della porzione disponibile e della quota che gli spetta come legittimario.
==== Art. 561 Restituzione degli immobili ====
Gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca di cui il legatario o il donatario può averli gravati, salvo il disposto del n. 8 dell’Art. 2652. I pesi e le ipoteche restano efficaci se la riduzione è domandata dopo venti anni dalla trascrizione della donazione, salvo in questo caso l'obbligo del donatario di compensare in denaro i legittimari in ragione del conseguente minor valore dei beni , purché la domanda sia stata proposta entro dieci anni dall'apertura della successione. La stessa disposizione si applica per i mobili iscritti in pubblici registri (2683, 2690).</br>
I frutti (820) sono dovuti a decorrere dal giorno della domanda giudiziale (1148).
==== Art. 562 Insolvenza del donatario soggetto a riduzione ====
Se la cosa donata è perita per causa imputabile al donatario o ai suoi aventi causa o se la restituzione della cosa donata non può essere richiesta contro l’acquirente, e il donatario è in tutto o in parte insolvente (2652), il valore della donazione che non si può recuperare dal donatario si detrae dalla massa ereditaria, ma restano impregiudicate le ragioni di credito del legittimario e dei donatari antecedenti contro il donatario insolvente.
==== Art. 563 Azione contro gli aventi causa dai donatari soggetti a riduzione ====
Se i donatari contro i quali è stata pronunziata la riduzione hanno alienato a terzi gli immobili donati, e non sono trascorsi venti anni dalla trascrizione della donazione, il legittimario, premessa l’escussione dei beni del donatario, può chiedere ai successivi acquirenti, nel modo e nell’ordine in cui si potrebbe chiederla ai donatari medesimi, la restituzione degli immobili (2652, n. 8).</br>
L’azione per ottenere la restituzione deve proporsi secondo l’ordine di data delle alienazioni, cominciando dall’ultima. Contro i terzi acquirenti può anche essere richiesta, entro il termine di cui al primo comma, la restituzione dei beni mobili, oggetto della donazione, salvi gli effetti del possesso di buona fede (1153 e seguenti).</br>
Il terzo acquirente può liberarsi dall’obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l’equivalente in danaro.</br>
Salvo il disposto del numero 8) dell'articolo 2652, il decorso del termine di cui al primo comma e di quello di cui all'articolo 561, primo comma, è sospeso nei confronti del coniuge e dei parenti in linea retta del donante che abbiano notificato e trascritto, nei confronti del donatario e dei suoi aventi causa, un atto stragiudiziale di opposizione alla donazione. Il diritto dell'opponente è personale e rinunziabile. L'opposizione perde effetto se non è rinnovata prima che siano trascorsi venti anni dalla sua trascrizione.
==== Art. 564 Condizioni per l’esercizio dell’azione di riduzione ====
Il legittimario che non ha accettato l’eredità col beneficio d’inventario (484 e seguenti) non può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati, salvo che le donazioni e i legati siano stati fatti a persone chiamate come coeredi, ancorché abbiano rinunziato all’eredità. Questa disposizione non si applica all’erede che ha accettato col beneficio d’inventario e che ne è decaduto (439 e seguenti).</br>
In ogni caso il legittimario, che domanda la riduzione di donazioni o di disposizioni testamentarie, deve imputare (737 e seguenti) alla sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti, salvo che ne sia stato espressamente dispensato (553; att. 1352).</br>
Il legittimario che succede per rappresentazione (467 e seguenti) deve anche imputare le donazioni e i legati fatti, senza espressa dispensa, al suo ascendente (740; att. 1352).</br>
La dispensa non ha effetto a danno dei donatari anteriori. Ogni cosa, che, secondo le regole contenute nel Capo II del Titolo IV di questo libro, è esente da collazione, è pure esente da imputazione.
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Codice civile/Libro II/Titolo II
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Titolo mancante
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Libro Secondo - Titolo II: Delle successioni legittime<section end="sottotitolo"/>
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== Titolo II: Delle successioni legittime ==
===== Art. 565 Categorie dei successibili =====
Nella successione legittima l’eredità si devolve al coniuge, ai discendenti, agli ascendenti, ai collaterali, agli altri parenti e allo Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite nel presente Titolo.
=== Capo I: Della successione dei parenti ===
===== Art. 566 Successione dei figli =====
Al padre ed alla madre succedono (459) i figli in parti uguali.
===== Art. 567 Successione dei figli legittimati e adottivi =====
Ai figli sono equiparati gli adottivi.</br>
I figli adottivi sono estranei alla successione dei parenti dell’adottante (300-2).
===== Art. 568 Successione dei genitori =====
A colui che muore senza lasciare prole, né fratelli o sorelle o loro discendenti (467 e seguenti), succedono (459) il padre e la madre in eguali porzioni, o il genitore che sopravvive.
===== Art. 569 Successione degli ascendenti =====
A colui che muore senza lasciare prole, ne genitori, ne fratelli o sorelle o loro discendenti (467 e seguenti), succedono per una metà gli ascendenti della linea paterna e per l’altra meta gli ascendenti della linea materna.</br>
Se però gli ascendenti non sono di eguale grado, l’eredità è devoluta al più vicino senza distinzione di linea.
===== Art. 570 Successione dei fratelli e delle sorelle =====
A colui che muore senza lasciare prole, né genitori, ne altri ascendenti, succedono (459) i fratelli e le sorelle in parti uguali.</br>
I fratelli e le sorelle unilaterali conseguono però la metà della quota che conseguono i germani.
===== Art. 571 Concorso di genitori o ascendenti con fratelli e sorelle =====
Se coi genitori o con uno soltanto di essi concorrono fratelli e sorelle germani del defunto, tutti sono ammessi alla successione del medesimo per capi, purché in nessun caso la quota, in cui succedono i genitori o uno di essi, sia minore della metà.</br>
Se vi sono fratelli e sorelle unilaterali, ciascuno di essi consegue la metà della quota che consegue ciascuno dei germani o dei genitori, salva in ogni caso la quota della metà in favore di questi ultimi. Se entrambi i genitori non possono o non vogliono (463, 521) venire alla successione, e vi sono ulteriori ascendenti, a questi ultimi si devolve, nel modo determinato dall’art. 569, la quota che sarebbe spettata a uno dei genitori in mancanza dell’altro.
===== Art. 572 Successione di altri parenti =====
Se alcuno muore senza lasciare prole, ne genitori, né altri ascendenti, ne fratelli o sorelle o loro discendenti, la successione si apre a favore del parente o dei parenti prossimi (76), senza distinzione di linea.</br>
La successione non ha luogo tra i parenti oltre il sesto grado (77, 586).
===== Art. 573 Successione dei figli naturali =====
Le disposizioni relative alla successione dei figli nati fuori del matrimonio si applicano quando la filiazione è stata riconosciuta o giudizialmente dichiarata (250 e seguenti), salvo quanto è disposto dall’art. 580.
===== Art. 574-576 (abrogati) =====
===== Art. 577 Successione del figlio naturale all’ascendente legittimo immediato del suo genitore =====
Il figlio naturale succede all’ascendente legittimo immediato del suo genitore che non può o non vuole accettare l’eredità, se l’ascendente non lascia ne coniuge, ne discendenti o ascendenti, ne fratelli o sorelle o loro discendenti, né altri parenti legittimi entro il terzo grado (Articolo dichiarato illegittimo dalla Corte Costit., con Sent. 14 aprile 1969, n. 79).
===== Art. 578 - 579 (agrogati) =====
<small>Articoli abrogati dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, a decorrere dal 7 febbraio 2014.</small>
===== Art. 580 Diritti dei figli naturali non riconoscibili =====
Ai figli nati fuori dal matrimonio aventi diritto al mantenimento, all’istruzione e alla educazione, a norma dell’art. 279, spetta un assegno vitalizio pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero diritto, se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. </br>
I figli nati fuori dal matrimonio hanno diritto di ottenere su loro richiesta la capitalizzazione dell’assegno loro spettante a norma del comma precedente, in denaro, ovvero, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari.
=== Capo II: Della successione del coniuge ===
===== Art. 581 Concorso del coniuge con i figli =====
Quando con il coniuge concorrono figli, il coniuge ha diritto alla metà dell’eredità, se alla successione concorre un solo figlio, e ad un terzo negli altri casi.
===== Art. 582 Concorso del coniuge con ascendenti, fratelli e sorelle =====
Al coniuge sono devoluti i due terzi dell’eredità se egli concorre con ascendenti o con fratelli e sorelle anche se unilaterali (459), ovvero con gli uni e con gli altri. In questo ultimo caso la parte residua è devoluta agli ascendenti, ai fratelli e alle sorelle, secondo le disposizioni dell’art. 571, salvo in ogni caso agli ascendenti il diritto a un quarto della eredità.
===== Art. 583 Successione del solo coniuge =====
In mancanza di figli, di ascendenti, di fratelli o sorelle, al coniuge si devolve tutta l’eredità.
===== Art. 584 Successione del coniuge putativo =====
Quando il matrimonio è stato dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi, al coniuge superstite di buona fede spetta la quota attribuita al coniuge dalle disposizioni che precedono. Si applica altresì la disposizione del secondo comma dell’art. 540.</br>
Egli è però escluso dalla successione, quando la persona della cui eredità si tratta è legata da valido matrimonio al momento della morte.
===== Art. 585 Successione del coniuge separato =====
Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato.</br>
Nel caso in cui al coniuge sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, si applicano le disposizioni del secondo comma dell’art. 548.
=== Capo III: Della successione dello Stato ===
===== Art. 586 Acquisto dei beni da parte dello Stato =====
In mancanza di altri successibili (459, 572), l’eredità è devoluta allo Stato (473). L’acquisto si opera di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia.
Lo Stato non risponde dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni acquistati (490).
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Codice civile/Libro II/Titolo III
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Libro Secondo - Titolo III: Delle successioni testamentarie<section end="sottotitolo"/>
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{{IncludiIntestazione|sottotitolo=Libro Secondo - Titolo III: Delle successioni testamentarie|prec=../Titolo II|succ=../Titolo IV}}
== Titolo III: Delle successioni testamentarie ==
=== Capo I: Disposizioni generali ===
===== Art. 587 Testamento =====
Il testamento è un atto revocabile (679 e seguenti) con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse (978, 1920, 2821).
Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (254, 256, 338, 348, 355, 424-3, 466), hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento (601 e seguenti), anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.
===== Art. 588 Disposizioni a titolo universale e a titolo particolare =====
Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale (633, 637, 647) e attribuiscono la qualità di erede (1141, 1399), se comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario.</br>
L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio.
===== Art. 589 Testamento congiuntivo o reciproco =====
Non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo né con disposizione reciproca (458).
===== Art. 590 Conferma ed esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie nulle =====
La nullità della disposizione testamentaria (att. 137), da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione (1444).
=== Capo II: Della capacità di disporre per testamento ===
===== Art. 591 Casi d’incapacità =====
Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge. Sono incapaci di testare:
# coloro che non hanno compiuto la maggiore età;
# gli interdetti per infermità di mente (414);
# quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.
Nei casi d’incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie (590, 620, 621, 623).
=== Capo III: Della capacità di ricevere per testamento ===
===== Art. 592 Figli naturali riconosciuti o riconoscibili =====
Se vi sono discendenti legittimi, i figli nati fuori dal matrimonio, quando la filiazione è stata riconosciuta o dichiarata (250 e seguenti), non possono ricevere per testamento più di quanto avrebbero ricevuto se la successione si fosse devoluta in base alla legge (573 e seguenti).</br>
I figli nati fuori dal matrimonio riconoscibili, quando la filiazione risulta nei modi indicati dall’art. 279, non possono ricevere più di quanto, secondo la disposizione del comma precedente, potrebbero conseguire se la filiazione fosse stata riconosciuta o dichiarata.
===== Art. 593 (abrogato) =====
===== Art. 594 Assegno ai figli non riconoscibili =====
Gli eredi, i legatari e i donatari sono tenuti, in proporzione a quanto hanno ricevuto, a corrispondere ai figli di cui all’art. 279, un assegno vitalizio nei limiti stabiliti dall’Art. 580, se il genitore non ha disposto per donazione o testamento in favore dei figli medesimi. Se il genitore ha disposto in loro favore, essi possono rinunziare alla disposizione e chiedere l’assegno.
===== Art. 595 (abrogato) =====
===== Art. 596 Incapacità del tutore e del protutore =====
Sono nulle le disposizioni testamentarie della persona sottoposta a tutela in favore del tutore, se fatte dopo la nomina di questo e prima che sia approvato il conto o sia estinta l’azione per il rendimento del conto medesimo (385 e seguenti), quantunque il testatore sia morto dopo l’approvazione. Questa norma si applica anche al protutore, se il testamento è fatto nel tempo in cui egli sostituiva il tutore (360).</br>
Sono però valide le disposizioni fatte in favore del tutore o del protutore che è ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore.
===== Art. 597 Incapacità del notaio, dei testimoni e dell’interprete =====
Sono nulle le disposizioni a favore del notaio o di altro ufficiale che ha ricevuto il testamento pubblico, ovvero a favore di alcuno dei testimoni o dell’interprete intervenuti al testamento medesimo.
===== Art. 598 Incapacità di chi ha scritto o ricevuto il testamento segreto =====
Sono nulle le disposizioni a favore della persona che ha scritto il testamento segreto, salvo che siano approvate di mano dello stesso testatore o nell’atto della consegna. Sono pure nulle le disposizioni a favore del notaio a cui il testamento segreto è stato consegnato in plico non sigillato.
===== Art. 599 Persone interposte =====
Le disposizioni testamentarie a vantaggio delle persone incapaci indicate dagli articoli 592, 593, 595, 596, 597 e 598 sono nulle anche se fatte sotto nome d’interposta persona.</br>
Sono reputate persone interposte il padre, la madre, i discendenti e il coniuge della persona incapace, anche se chiamati congiuntamente con l’incapace (738, 740, 779, 780, 2728).
<small>NOTA Il primo comma è stato dichiarato illegittimo (Corte Costit. 28 dicembre 1970). </small>
===== Art. 600 Enti non riconosciuti ===== [ABROGATO]
Le disposizioni a favore di un ente non riconosciuto non hanno efficacia, se entro un anno dal giorno in cui il testamento è eseguibile (620 e seguenti, 640) non è fatta l’istanza per ottenere il riconoscimento.</br>
Fino a quando l’ente non è costituito possono essere promossi gli opportuni provvedimenti conservativi (att. 3).
=== Capo IV: Della forma dei testamenti ===
==== Sezione I: Dei testamenti ordinari ====
art-600 abrogato
===== Art. 601 Forme =====
Le forme ordinarie di testamento sono il testamento olografo e il testamento per atto di notaio.</br>
Il testamento per atto di notaio è pubblico o segreto.
===== Art. 602 Testamento olografo =====
Il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore (684). La sottoscrizione deve essere posta alla fine delle disposizioni. Se anche non è fatta indicando nome e cognome, è tuttavia valida quando designa con certezza la persona del testatore.</br>
La data deve contenere l’indicazione del giorno, mese e anno. La prova della non verità della data è ammessa soltanto quando si tratta di giudicare della capacità del testatore (591), della priorità di data tra più testamenti (682) o di altra questione da decidersi in base al tempo del testamento (651, 656, 657).
===== Art. 603 Testamento pubblico =====
Il testamento pubblico è ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni.</br>
Il testatore, in presenza dei testimoni, dichiara al notaio la sua volontà, la quale è ridotta in iscritto a cura del notaio stesso. Questi da lettura del testamento al testatore in presenza dei testimoni. Di ciascuna di tali formalità è fatta menzione nel testamento.</br>
Il testamento deve indicare il luogo, la data del ricevimento e l’ora della sottoscrizione, ed essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio. Se il testatore non può sottoscrivere, o può farlo solo con grave difficoltà, deve dichiararne la causa, e il notaio deve menzionare questa dichiarazione prima della lettura dell’atto.</br>
Per il testamento del muto, sordo o sordomuto si osservano le norme stabilite dalla legge notarile per gli atti pubblici di queste persone. Qualora il testatore sia incapace anche di leggere, devono intervenire quattro testimoni.
===== Art. 604 Testamento segreto =====
Il testamento segreto può essere scritto dal testatore o da un terzo. Se è scritto dal testatore, deve essere sottoscritto da lui alla fine delle disposizioni; se è scritto in tutto o in parte da altri, o se è scritto con mezzi meccanici, deve portare la sottoscrizione del testatore anche in ciascun mezzo foglio, unito o separato.</br>
Il testatore che sa leggere ma non sa scrivere, o che non ha potuto apporre la sottoscrizione quando faceva scrivere le proprie disposizioni, deve altresì dichiarare al notaio, che riceve il testamento, di averlo letto ed aggiungere la causa che gli ha impedito di sottoscriverlo: di ciò si fa menzione nell’atto di ricevimento.</br>
Chi non sa o non può leggere non può fare testamento segreto.
===== Art. 605 Formalità del testamento segreto =====
La carta su cui sono stese le disposizioni o quella che serve da involto deve essere sigillata con impronta, in guisa che il testamento non si possa aprire né estrarre senza rottura o alterazione.
Il testatore, in presenza di due testimoni, consegna (685) personalmente al notaio la carta così sigillata, o la fa sigillare nel modo sopra indicato in presenza del notaio e dei testimoni, e dichiara che in questa carta è contenuto il suo testamento. Il testatore, se è muto o sordo, deve scrivere tale dichiarazione in presenza dei testimoni e deve pure dichiarare per iscritto di aver letto il testamento, se questo è stato scritto da altri.</br>
Sulla carta in cui dal testatore è scritto o involto il testamento, o su un ulteriore involto predisposto dal notaio e da lui debitamente sigillato, si scrive l’atto di ricevimento nel quale si indicano il fatto della consegna e la dichiarazione del testatore, il numero e l’impronta dei sigilli, e l’assistenza dei testimoni a tutte le formalità.</br>
L’atto deve essere sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio.</br>
Se il testatore non può, per qualunque impedimento, sottoscrivere l’atto della consegna, si osserva quel che è stabilito circa il testamento per atto pubblico. Tutto ciò deve essere fatto di seguito e senza passare ad altri atti.
===== Art. 606 Nullità del testamento per difetto di forma =====
Il testamento è nullo (1418 e seguenti) quando manca l’autografia o la sottoscrizione nel caso di testamento olografo, ovvero manca la redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione dell’uno o dell’altro, nel caso di testamento per atto di notaio.</br>
Per ogni altro difetto di forma il testamento può essere annullato (1441 e seguenti) su istanza di chiunque vi ha interesse. L’azione di annullamento si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
===== Art. 607 Validità del testamento segreto come olografo =====
Il testamento segreto, che manca di qualche requisito suo proprio, ha effetto come testamento olografo, qualora di questo abbia i requisiti.
===== Art. 608 Ritiro di testamento segreto od olografo =====
Il testamento segreto è il testamento olografo che è stato depositato possono dal testatore essere ritirati in ogni tempo dalle mani del notaio presso il quale si trovano (685).</br>
A cura del notaio si redige verbale della restituzione; il verbale è sottoscritto dal testatore, da due testimoni e dal notaio; se il testatore non può sottoscrivere, se ne fa menzione.</br>
Quando il testamento è depositato in un pubblico archivio, il verbale è redatto dall’archivista e sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dall’archivista medesimo.</br>
Della restituzione del testamento si prende nota in margine o in calce all’atto di consegna o di deposito.
==== Sezione II: Dei testamenti speciali ====
===== Art. 609 Malattie contagiose, calamità pubbliche o infortuni =====
Quando il testatore non può valersi delle forme ordinarie (601 e seguenti), perché si trova in luogo dove domina una malattia reputata contagiosa, o per causa di pubblica calamita o d’infortunio, il testamento è valido se ricevuto da un notaio, dal giudice di pace del luogo, dal sindaco o da chi ne fa le veci, o da un ministro di culto, in presenza di due testimoni di età non inferiore a sedici anni.</br>
Il testamento è redatto e sottoscritto da chi lo riceve; è sottoscritto anche dal testatore e dai testimoni. Se il testatore o i testimoni non possono sottoscrivere, se ne indica la causa.
===== Art. 610 Termine di efficacia =====
Il testamento ricevuto nel modo indicato dall’articolo precedente perde la sua efficacia tre mesi dopo la cessazione della causa che ha impedito al testatore di valersi delle forme ordinarie.</br>
Se il testatore muore nell’intervallo, il testamento deve essere depositato, appena è possibile, nell’archivio notarile del luogo in cui è stato ricevuto.
===== Art. 611 Testamento a bordo di nave =====
Durante il viaggio per mare il testamento può essere ricevuto a bordo della nave dal comandante di essa.</br>
Il testamento del comandante può essere ricevuto da colui che lo segue immediatamente in ordine di servizio.
===== Art. 612 Forme =====
Il testamento indicato dall’articolo precedente è redatto in doppio originale alla presenza di due testimoni e deve essere sottoscritto dal testatore, dalla persona che lo ha ricevuto e dai testimoni; se il testatore o i testimoni non possono sottoscrivere, si deve indicare il motivo che ha impedito la sottoscrizione.</br>
Il testamento è conservato tra i documenti di bordo (Cod. Nav. 169 e seguenti), ed è annotato sul giornale di bordo ovvero sul giornale nautico e sul ruolo d’equipaggio.
===== Art. 613 Consegna =====
Se la nave approda a un porto estero in cui vi sia un’autorità consolare, il comandante è tenuto a consegnare all’autorità medesima uno degli originali del testamento e una copia dell’annotazione fatta sul giornale di bordo ovvero sul giornale nautico e sul ruolo d’equipaggio.</br>
Al ritorno della nave nello Stato, i due originali del testamento, o quello non depositato durante il viaggio, devono essere consegnati all’autorità marittima locale insieme con la copia della predetta annotazione.
Della consegna si rilascia dichiarazione, di cui si fa cenno in margine all’annotazione sopraindicata.
===== Art. 614 Verbale di consegna =====
L’autorità marittima o consolare locale deve redigere verbale della consegna del testamento e trasmettere il verbale e gli atti ricevuti al Ministero della difesa o al Ministero della marina mercantile, secondo che il testamento sia stato ricevuto a bordo di una nave della marina militare o di una nave della marina mercantile. Il Ministero ordina il deposito di uno degli originali nel suo archivio, e trasmette l’altro all’archivio notarile del luogo del domicilio o dell’ultima residenza del testatore.
===== Art. 615 Termine di efficacia =====
Il testamento fatto durante il viaggio per mare, nella forma stabilita dagli artt. 611 e seguenti, perde la sua efficacia tre mesi dopo lo sbarco del testatore in un luogo dove è possibile fare testamento nelle forme ordinarie.
===== Art. 616 Testamento a bordo di aeromobile =====
Al testamento fatto a bordo di un aeromobile durante il viaggio si applicano le disposizioni degli artt. 611 e 615.</br>
Il testamento è ricevuto dal comandante, in presenza di uno o, quando è possibile, di due testimoni.</br>
Le attribuzioni delle autorità marittime a norma degli artt. 613 e 614 spettano alle autorità aeronautiche.</br>
Il testamento è annotato sul giornale di rotta (Cod. Nav. 772, 888).
===== Art. 617 Testamento dei militari e assimilati =====
Il testamento dei militari e delle persone al seguito delle forze armate dello Stato può essere ricevuto da un ufficiale o da un cappellano militare o da un ufficiale della Croce Rossa, in presenza di due testimoni; esso deve essere sottoscritto dal testatore, dalla persona che lo ha ricevuto e dai testimoni. Se il testatore o i testimoni non possono sottoscrivere, si deve indicare il motivo che ha impedito la sottoscrizione.</br>
Il testamento deve essere al più presto trasmesso al quartiere generale e da questo al Ministero competente, che ne ordina il deposito nell’archivio notarile del luogo del domicilio o dell’ultima residenza del testatore (43).
===== Art. 618 Casi e termini d’efficacia =====
Nella forma speciale stabilita dall’articolo precedente possono testare soltanto coloro i quali, appartenendo a corpi o servizi mobilitati o comunque impegnati in guerra, si trovano in zona di operazioni belliche o sono prigionieri presso il nemico, e coloro che sono acquartierati o di presidio fuori dello Stato o in luoghi dove siano interrotte le comunicazioni.</br>
Il testamento perde la sua efficacia tre mesi dopo il ritorno del testatore in un luogo dove è possibile far testamento nelle forme ordinarie.
===== Art. 619 Nullità =====
I testamenti previsti in questa Sezione sono nulli (1418 e seguenti) quando manca la redazione in iscritto della dichiarazione del testatore ovvero la sottoscrizione della persona autorizzata a riceverla o del testatore.</br>
Per gli altri difetti di forma si osserva il disposto del secondo comma dell’Art. 606 (590).
==== Sezione III: Della pubblicazione dei testamenti olografi e dei testamenti segreti ====
===== Art. 620 Pubblicazione del testamento olografo =====
Chiunque è in possesso di un testamento olografo deve presentarlo a un notaio per la pubblicazione, appena ha notizia della morte del testatore (p. 490 e seguente).</br>
Chiunque crede di avervi interesse può chiedere, con ricorso al tribunale del circondario in cui si è aperta la successione (456), che sia fissato un termine per la presentazione (Cod. Proc. Civ. 749). Il notaio procede alla pubblicazione del testamento in presenza di due testimoni, redigendo nella forma degli atti pubblici un verbale nel quale descrive lo stato del testamento, ne riproduce il contenuto e fa menzione della sua apertura, se è stato presentato chiuso con sigillo. Il verbale è sottoscritto dalla persona che presenta il testamento dai testimoni e dal notaio. Ad esso sono uniti la carta in cui è scritto il testamento, vidimata in ciascun mezzo foglio dal notaio e dai testimoni, e l’estratto dell’atto di morte del testatore o copia del provvedimento che ordina l’apertura degli atti di ultima volontà dell’assente o della sentenza che dichiara la morte presunta (50, 58).</br>
Nel caso in cui il testamento è stato depositato dal testatore presso un notaio, la pubblicazione è eseguita dal notaio depositario (685).</br>
Avvenuta la pubblicazione, il testamento olografo ha esecuzione (att. 3, 7).</br>
Per giustificati motivi, su istanza (Cod. Proc. Civ. 125) di chiunque vi ha interesse, il tribunale può disporre che periodi o frasi di carattere non patrimoniale siano cancellati dal testamento e omessi nelle copie che fossero richieste, salvo che l’autorità giudiziaria ordini il rilascio di copia integrale.
===== Art. 621 Pubblicazione del testamento segreto =====
Il testamento segreto deve essere aperto e pubblicato dal notaio appena gli perviene la notizia della morte del testatore. Chiunque crede di avervi interesse può chiedere, con ricorso al tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, che sia fissato un termine per l’apertura e la pubblicazione.</br>
Si applicano le disposizioni del terzo comma dell’Art. 620.
===== Art. 622 Comunicazione dei testamenti alla pretura =====
Il notaio deve trasmettere alla cancelleria del tribunale, nella cui giurisdizione si è aperta la successione (456), copia in carta libera dei verbali previsti dagli artt. 620 e 621 e del testamento pubblico (att. 55).
===== Art. 623 Comunicazione agli eredi e legatari =====
Il notaio che ha ricevuto un testamento pubblico, appena gli è nota la morte del testatore, o, nel caso di testamento olografo o segreto, dopo la pubblicazione, comunica l’esistenza del testamento agli eredi e legatari di cui conosce il domicilio o la residenza (43).
=== Capo V: Dell’istituzione di erede e dei legati ===
==== Sezione I: Disposizioni generali ====
===== Art. 624 Violenza, dolo, errore =====
La disposizione testamentaria può essere impugnata da chiunque vi abbia interesse quando è l’effetto di errore, di violenza o di dolo (1427 e seguenti).</br>
L’errore sul motivo, sia esso di fatto o di diritto, è causa di annullamento della disposizione testamentaria, quando il motivo risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre.
L’azione (2652, 2960) si prescrive in cinque anni dal giorno in cui si è avuta notizia della violenza, del dolo o dell’errore.
===== Art. 625 Erronea indicazione dell’erede o del legatario o della cosa che forma oggetto della disposizione =====
Se la persona dell’erede o del legatario è stata erroneamente indicata, la disposizione ha effetto, quando dal contesto del testamento o altrimenti risulta in modo non equivoco quale persona il testatore voleva nominare (628).</br>
La disposizione ha effetto anche quando la cosa che forma oggetto della disposizione è stata erroneamente indicata o descritta, ma è certo a quale cosa il testatore intendeva riferirsi.
===== Art. 626 Motivo illecito =====
Il motivo illecito rende nulla la disposizione testamentaria, quando risulta dal testamento ed è il solo che ha determinato il testatore a disporre (1345, 1418 e seguenti).
===== Art. 627 Disposizione fiduciaria =====
Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testamento possono indicare o far presumere che si tratta di persona interposta.</br>
Tuttavia la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione, salvo che sia un incapace (2034).</br>
Le disposizioni di questo articolo non si applicano al caso in cui l’istituzione o il legato sono impugnati come fatti per interposta persona a favore di incapaci a ricevere.
===== Art. 628 Disposizione a favore di persona incerta =====
È nulla ogni disposizione fatta a favore di persona che sia indicata in modo da non poter essere determinata.
===== Art. 629 Disposizioni a favore dell’anima =====
Le disposizioni a favore dell’anima sono valide qualora siano determinati i beni o possa essere determinata la somma da impiegarsi a tale fine.</br>
Esse si considerano come un onere a carico dell’erede o del legatario, e si applica l’Art. 648. Il testatore può designare una persona che curi l’esecuzione della disposizione, anche nel caso in cui manchi un interessato a richiedere l’adempimento.
===== Art. 630 Disposizioni a favore dei poveri =====
Le disposizioni a favore dei poveri e altre simili, espresse genericamente, senza che si determini l’uso o il pubblico istituto a cui beneficio sono fatte, s’intendono fatte in favore dei poveri del luogo in cui il testatore aveva il domicilio al tempo della sua morte, e i beni sono devoluti all’ente comunale di assistenza.</br>
La precedente disposizione si applica anche quando la persona incaricata dal testatore di determinare l’uso o il pubblico istituto non può o non vuole accettare l’incarico.
===== Art. 631 Disposizioni rimesse all’arbitrio del terzo =====
È nulla ogni disposizione testamentaria con la quale si fa dipendere dall’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario, ovvero la determinazione della quota di eredità (590).</br>
Tuttavia è valida la disposizione a titolo particolare (588) in favore di persona da scegliersi dall’onerato o da un terzo tra più persone determinate dal testatore o appartenenti a famiglie o categorie di persone da lui determinate, ed è pure valida la disposizione a titolo particolare a favore di uno tra più enti determinati del pari dal testatore. Se sono indicate più persone in modo alternativo e non è stabilito chi deve fare la scelta, questa si considera lasciata all’onerato.</br>
Se l’onerato o il terzo non può o non vuole fare la scelta, questa è fatta con decreto dal presidente del tribunale del luogo in cui si è aperta la successione (456), dopo avere assunto le opportune informazioni (Cod. Proc. Civ. 751).
===== Art. 632 Determinazione di legato per arbitrio altrui =====
È nulla la disposizione che lascia al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo di determinare l’oggetto o la quantità del legato (590).</br>
Sono validi i legati fatti a titolo di rimunerazione per i servizi prestati al testatore, anche se non ne sia indicato l’oggetto o la quantità.
==== Sezione II: Delle disposizioni condizionali, a termine e modali ====
===== Art. 633 Condizione sospensiva o risolutiva =====
Le disposizioni a titolo universale o particolare (588) possono farsi sotto condizione sospensiva o risolutiva (646, 1353; att. 139).
===== Art. 634 Condizioni impossibili o illecite =====
Nelle disposizioni testamentarie (558) si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, salvo quanto è stabilito dall’Art. 626 (1354).
===== Art. 635 Condizione di reciprocità =====
È nulla la disposizione a titolo universale o particolare fatta dal testatore a condizione di essere a sua volta avvantaggiato nel testamento dell’erede o del legatario (458).
===== Art. 636 Divieto di nozze =====
È illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori (634; att. 138). Tuttavia il legatario di usufrutto (978 e seguenti) o di uso, di abitazione (1021 e seguenti) o di pensione, o di altra prestazione periodica per il caso o per il tempo del celibato o della vedovanza, non può goderne che durante il celibato o la vedovanza.
===== Art. 637 Termine =====
Si considera non apposto a una disposizione a titolo universale (588) il termine dal quale l’effetto di essa deve cominciare o cessare (459).
===== Art. 638 Condizione di non fare o di non dare =====
Se il testatore ha disposto sotto la condizione che l’erede o il legatario non faccia o non dia qualche cosa per un tempo indeterminato, la disposizione si considera fatta sotto condizione risolutiva, salvo che dal testamento risulti una contraria volontà del testatore.
===== Art. 639 Garanzia in caso di condizione risolutiva =====
Se la disposizione testamentaria è sottoposta a condizione risolutiva, l’autorità giudiziaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può imporre all’erede o al legatario (Cod. Proc. Civ. 750) di prestare idonea garanzia (1179) a favore di coloro ai quali l’eredità o il legato dovrebbe devolversi nel caso che la condizione si avverasse.
===== Art. 640 Garanzia in caso di legato sottoposto a condizione sospensiva o a termine =====
Se a taluno è lasciato un legato sotto condizione sospensiva o dopo un certo tempo, l’onerato può essere costretto (Cod. Proc. Civ. 750) a dare idonea garanzia (1179) al legatario, salvo che il testatore abbia diversamente disposto.</br>
La garanzia può essere imposta anche al legatario quando il legato è a termine finale.
===== Art. 641 Amministrazione in caso di condizione sospensiva o di mancata prestazione di garanzia =====
Qualora l’erede sia istituito sotto condizione sospensiva, finché questa condizione non si verifica o non è certo che non si può più verificare, è dato all’eredità un amministratore. Vale la stessa norma anche nel caso in cui l’erede o il legatario non adempie l’obbligo di prestare la garanzia prevista dai due articoli precedenti.
===== Art. 642 Persone a cui spetta l’amministrazione =====
L’amministrazione spetta alla persona a cui favore è stata disposta la sostituzione (688 e seguenti), ovvero al coerede o ai coeredi, quando tra essi e l’erede condizionale vi è il diritto di accrescimento (674 e seguenti).</br>
Se non è prevista la sostituzione o non vi sono coeredi a favore dei quali abbia luogo il diritto di accrescimento, l’amministrazione spetta al presunto erede legittimo (565).</br>
In ogni caso l’autorità giudiziaria, quando concorrono giusti motivi, può provvedere altrimenti.
===== Art. 643 Amministrazione in caso di eredi nascituri =====
Le disposizioni dei due precedenti articoli si applicano anche nel caso in cui sia chiamato a succedere un non concepito, figlio di una determinata persona vivente (462). A questa spetta la rappresentanza del nascituro, per la tutela dei suoi diritti successori, anche quando l’amministratore dell’eredità è una persona diversa.</br>
Se è chiamato un concepito (462), l’amministrazione spetta al padre e alla madre (320).
===== Art. 644 Obblighi e facoltà degli amministratori =====
Agli amministratori indicati dai precedenti articoli sono comuni le regole che si riferiscono ai curatori dell’eredità giacente (528 e seguenti).
===== Art. 645 Condizione sospensiva potestativa senza termine =====
Se la condizione apposta all’istituzione di erede o al legato è sospensiva potestativa e non è indicato il termine per l’adempimento, gli interessati possono adire l’autorità giudiziaria perché fissi questo termine (Cod. Proc. Civ. 749).
===== Art. 646 Retroattività della condizione =====
L’adempimento della condizione ha effetto retroattivo (1360); ma l’erede o il legatario, nel caso di condizione risolutiva, non è tenuto a restituire i frutti (820) se non dal giorno in cui la condizione si è verificata. L’azione per la restituzione dei frutti si prescrive in cinque anni (2941 e seguenti).
===== Art. 647 Onere =====
Tanto all’istituzione di erede quanto al legato può essere apposto un onere (629).</br>
Se il testatore non ha diversamente disposto, l’autorità giudiziaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può imporre all’erede o al legatario gravato dall’onere una cauzione (1179).</br>
L’onere impossibile o illecito si considera non apposto; rende tuttavia nulla la disposizione, se ne ha costituito il solo motivo determinante.
===== Art. 648 Adempimento dell’onere =====
Per l’adempimento dell’onere può agire qualsiasi interessato (Cod. Proc. Civ. 99). </br>
Nel caso d’inadempimento dell’onere, l’autorità giudiziaria può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria (677, comma III), se la risoluzione è stata prevista dal testatore, o se l’adempimento dell’onere ha costituito il solo motivo determinante della disposizione (2652 n. 1)).
==== Sezione III: Dei legati ====
===== Art. 649 Acquisto del legato =====
Il legato si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare.</br>
Quando oggetto del legato e la proprietà di una cosa determinata o altro diritto appartenente al testatore, la proprietà o il diritto si trasmette dal testatore al legatario al momento della morte del testatore (2648).</br>
Il legatario però deve domandare all’onerato il possesso della cosa legata, anche quando ne è stato espressamente dispensato dal testatore.
===== Art. 650 Fissazione di un termine per la rinunzia =====
Chiunque ha interesse può chiedere che l’autorità giudiziaria fissi un termine (Cod. Proc. Civ. 749) entro il quale il legatario dichiari se intende esercitare la facoltà di rinunziare. Trascorso questo termine senza che abbia fatto alcuna dichiarazione, il legatario perde il diritto di rinunziare (481).
===== Art. 651 Legato di cosa dell’onerato o di un terzo =====
Il legato di cosa dell’onerato o di un terzo è nullo, salvo che dal testamento o da altra dichiarazione scritta dal testatore risulti che questi sapeva che la cosa legata apparteneva all’onerato o al terzo. In questo ultimo caso l’onerato è obbligato (1137) ad acquistare la proprietà della cosa dal terzo e a trasferirla al legatario (1478), ma è in sua facoltà di pagarne al legatario il giusto prezzo (1474). Se però la cosa legata, pur appartenendo ad altri al tempo del testamento, si trova in proprietà del testatore al momento della sua morte, il legato è valido.
===== Art. 652 Legato di cosa solo in parte del testatore =====
Se al testatore appartiene una parte della cosa legata o un diritto sulla medesima, il legato è valido solo relativamente a questa parte o a questo diritto salvo che risulti la volontà del testatore di legare la cosa per intero, in conformità dell’articolo precedente (1480).
===== Art. 653 Legato di cosa genericamente determinata =====
È valido il legato di cosa determinata solo nel genere, anche se nessuna del genere ve n’era nel patrimonio del testatore al tempo del testamento e nessuna se ne trova al tempo della morte (669).
===== Art. 654 Legato di cosa non esistente nell’asse =====
Quando il testatore ha lasciato una sua cosa particolare, o una cosa determinata soltanto nel genere da prendersi dal suo patrimonio, il legato non ha effetto se la cosa non si trova nel patrimonio del testatore al tempo della sua morte.</br>
Se la cosa si trova nel patrimonio del testatore al tempo della sua morte, ma non nella quantità determinata, il legato ha effetto per la quantità che vi si trova.
===== Art. 655 Legato di cosa da prendersi da certo luogo =====
Il legato di cose da prendersi da certo luogo ha effetto soltanto se le cose vi si trovano, e per la parte che vi si trova; ha tuttavia effetto per l’intero, quando, alla morte del testatore, le cose non vi si trovano, in tutto o in parte, perché erano state rimosse temporaneamente dal luogo in cui di solito erano custodite.
===== Art. 656 Legato di cosa del legatario =====
Il legato di cosa che al tempo in cui fu fatto il testamento era già di proprietà del legatario è nullo, se la cosa si trova in proprietà di lui anche al tempo dell’apertura della successione (456).
Se al tempo dell’apertura della successione la cosa si trova in proprietà del testatore, il legato è valido ed è altresì valido se in questo tempo la cosa si trova in proprietà dell’onerato o di un terzo, e dal testamento risulta che essa fu legata in previsione di tale avvenimento (651).
===== Art. 657 Legato di cosa acquistata dal legatario =====
Se il legatario, dopo la confezione del testamento, ha acquistato dal testatore, a titolo oneroso o a titolo gratuito, la cosa a lui legata, il legato è senza effetto in conformità dell’Art. 686.
Se dopo la confezione del testamento la cosa legata è stata dal legatario acquistata, a titolo gratuito, dall’onerato o da un terzo, il legato è senza effetto; se l’acquisto ha avuto luogo a titolo oneroso, il legatario ha diritto al rimborso del prezzo, qualora ricorrano le circostanze indicate dall’Art. 651.
===== Art. 658 Legato di credito o di liberazione da debito =====
Il legato di un credito o di liberazione (1236) da un debito ha effetto per la sola parte del credito o del debito che sussiste al tempo della morte del testatore.</br>
L’erede è soltanto tenuto a consegnare al legatario i titoli del credito legato che si trovavano presso il testatore (1262).
===== Art. 659 Legato a favore del creditore =====
Se il testatore, senza fare menzione del debito (2735), fa un legato al suo creditore, il legato non si presume fatto per soddisfare il legatario del suo credito.
===== Art. 660 Legato di alimenti =====
Il legato di alimenti, a favore di chiunque sia fatto, comprende le somministrazioni indicate dall’Art. 438, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto.
===== Art. 661 Prelegato =====
Il legato a favore di uno dei coeredi è a carico di tutta l’eredità si considera come legato per l’intero ammontare.
===== Art. 662 Onere della prestazione del legato =====
Il testatore può porre la prestazione del legato a carico degli eredi ovvero a carico di uno o più legatari. Quando il testatore non ha disposto, alla prestazione sono tenuti gli eredi.
Su ciascuno dei diversi onerati il legato grava in proporzione della rispettiva quota ereditaria o del legato, se il testatore non ha diversamente disposto.
===== Art. 663 Legato imposto a un solo erede =====
Se l’obbligo di adempiere il legato è stato particolarmente imposto a uno degli eredi, questi solo è tenuto a soddisfarlo (483, 1315).
Se è stata legata una cosa propria di un coerede, i coeredi sono tenuti a compensarlo del valore di essa con denaro o con beni ereditari, in proporzione della loro quota ereditaria, quando non consta una contraria volontà del testatore.
===== Art. 664 Adempimento del legato di genere =====
Nel legato di cosa determinata soltanto nel genere, la scelta, quando dal testatore non è affidata al legatario o a un terzo, spetta all’onerato. Questi è obbligato a dar cose di qualità non inferiore alla media (1178); ma se nel patrimonio ereditario vi è una sola delle cose appartenenti al genere indicato, l’onerato non ha facoltà né può essere obbligato a prestarne un’altra, salvo espressa disposizione contraria del testatore.</br>
Se la scelta è lasciata dal testatore al legatario o a un terzo, questi devono scegliere una cosa di media qualità; ma se cose del genere indicato si trovano nell’eredità, il legatario può scegliere la migliore. Se il terzo non può o non vuole fare la scelta, questa è fatta a norma del terzo comma dell’Art. 631 (Cod. Proc. Civ. 751).
===== Art. 665 Scelta nel legato alternativo =====
Nel legato alternativo la scelta spetta all’onerato, a meno che il testatore l’abbia lasciata al legatario o a un terzo (1286).
===== Art. 666 Trasmissione all’erede della facoltà di scelta =====
Tanto nel legato di genere quanto in quello alternativo, se l’onerato o il legatario a cui compete la scelta non ha potuto farla, la facoltà di scegliere si trasmette al suo erede.
La scelta fatta è irretrattabile (1286).
===== Art. 667 Accessioni della cosa legata =====
La cosa legata, con tutte le sue pertinenze (817 e seguenti), deve essere prestata al legatario nello stato in cui si trova al tempo della morte del testatore.</br>
Se è stato legato un fondo, sono comprese nel legato anche le costruzioni fatte nel fondo, sia che esistessero già al tempo della confezione del testamento, sia che non esistessero, salva in ogni caso l’applicabilità del secondo comma dell’art. 686.</br>
Se il fondo legato è stato accresciuto con acquisti posteriori, questi sono dovuti al legatario, purché siano contigui al fondo e costituiscano con esso una unità economica.
===== Art. 668 Adempimento del legato =====
Se la cosa legata è gravata da una servitù (1027 e seguenti), da un canone o da altro onere inerente al fondo, ovvero da una rendita fondiaria, il peso ne è sopportato dal legatario.</br>
Se la cosa legata è vincolata per una rendita semplice (1863 e seguenti), un censo o altro debito dell’eredità, o anche di un terzo, l’erede è tenuto al pagamento delle annualità o degli interessi e della somma principale, secondo la natura del debito, qualora il testatore non abbia diversamente disposto (756).
===== Art. 669 Frutti della cosa legata =====
Se oggetto del legato è una cosa fruttifera, appartenente al testatore al momento della sua morte, i frutti o gli interessi sono dovuti al legatario da questo momento (821).</br>
Se la cosa appartiene all’onerato o a un terzo (651), ovvero se si tratta di cosa determinata per genere o quantità, i frutti o gli interessi sono dovuti dal giorno della domanda giudiziale o dal giorno in cui la prestazione del legato è stata promessa, salvo che il testatore abbia diversamente disposto.
===== Art. 670 Legato di prestazioni periodiche =====
Se è stata legata una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, da prestarsi a termini periodici, il primo termine decorre dalla morte del testatore, e il legatario acquista il diritto a tutta la prestazione dovuta per il termine in corso, ancorché fosse in vita soltanto al principio di esso. Il legato però non può esigersi se non dopo scaduto il termine.</br>
Si può tuttavia esigere all’inizio del termine il legato a titolo di alimenti (660).
===== Art. 671 Legati e oneri a carico del legatario =====
Il legatario è tenuto all’adempimento del legato e di ogni altro onere a lui imposto entro i limiti del valore della cosa legata (7932).
===== Art. 672 Spese per la prestazione del legato =====
Le spese per la prestazione del legato sono a carico dell’onerato.
===== Art. 673 Perimento della cosa legata. Impossibilità della prestazione =====
Il legato non ha effetto se la cosa legata è interamente perita durante la vita del testatore.</br>
L’obbligazione dell’onerato si estingue se, dopo la morte del testatore, la prestazione è divenuta impossibile per causa a lui non imputabile (1256 e seguenti).
==== Sezione IV: Del diritto di accrescimento ====
===== Art. 674 Accrescimento tra coeredi =====
Quando più eredi sono stati istituiti con uno stesso testamento nell’universalità dei beni (558), senza determinazione di parti o in parti uguali, anche se determinate, qualora uno di essi non possa o non voglia accettare (70, 72, 463, 523), la sua parte si accresce agli altri.</br>
Se più eredi sono stati istituiti in una stessa quota, l’accrescimento ha luogo a favore degli altri istituti nella quota medesima.</br>
L’accrescimento non ha luogo quando dal testamento risulta una diversa volontà del testatore (688). È salvo in ogni caso il diritto di rappresentazione (467 e seguenti).
===== Art. 675 Accrescimento tra collegatari =====
L’accrescimento ha luogo anche tra più legatari ai quali è stato legato uno stesso oggetto, salvo che dal testamento risulti una diversa volontà e salvo sempre il diritto di rappresentazione (467).
===== Art. 676 Effetti dell’accrescimento =====
L’acquisto per accrescimento ha luogo di diritto. I coeredi o i legatari, a favore dei quali si verifica l’accrescimento, subentrano negli obblighi a cui era sottoposto l’erede o il legatario mancante, salvo che si tratti di obblighi di carattere personale.
===== Art. 677 Mancanza di accrescimento =====
Se non ha luogo l’accrescimento, la porzione dell’erede mancante si devolve agli eredi legittimi (565), e la porzione del legatario mancante va a profitto dell’onerato.</br>
Gli eredi legittimi e l’onerato subentrano negli obblighi che gravavano sull’erede o sul legatario mancante, salvo che si tratti di obblighi di carattere personale.</br>
Le disposizioni precedenti si applicano anche nel caso di risoluzione di disposizioni testamentarie per inadempimento dell’onere (648).
===== Art. 678 Accrescimento nel legato di usufrutto =====
Quando a più persone è legato un usufrutto (978) in modo che tra di loro vi sia il diritto di accrescimento, l’accrescimento ha luogo anche quando una di esse viene a mancare dopo conseguito il possesso della cosa su cui cade l’usufrutto (982).</br>
Se non vi è diritto di accrescimento, la porzione del legatario mancante si consolida con la proprietà.
==== Sezione V: Della revocazione delle disposizioni testamentarie ====
===== Art. 679 Revocabilità del testamento =====
Non si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto (458).
===== Art. 680 Revocazione espressa =====
La revocazione espressa può farsi soltanto con un nuovo testamento (587), o con un atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni, in cui il testatore personalmente dichiara di revocare, in tutto o in parte, la disposizione anteriore.
===== Art. 681 Revocazione della revocazione =====
La revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. In tal caso rivivono le disposizioni revocate.
===== Art. 682 Testamento posteriore =====
Il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili.
===== Art. 683 Testamento posteriore inefficace =====
La revocazione fatta con un testamento posteriore conserva la sua efficacia anche quando questa rimane senza effetto perché l’erede istituito o il legatario è premorto al testatore, o è incapace (592 e seguenti) o indegno (463 e seguenti), ovvero ha rinunziato all’eredità o al legato.
===== Art. 684 Distruzione del testamento olografo =====
Il testamento olografo (602) distrutto, lacerato o cancellato, in tutto o in parte, si considera in tutto o in parte revocato, a meno che si provi che fu distrutto, lacerato o cancellato da persona diversa dal testatore, ovvero si provi che il testatore non ebbe l’intenzione di revocarlo.
===== Art. 685 Effetti del ritiro del testamento segreto =====
Il ritiro del testamento segreto, a opera del testatore, dalle mani del notaio o dell’archivista presso cui si trova depositato (608), non importa revocazione del testamento quando la scheda testamentaria può valere come testamento olografo (607).
===== Art. 686 Alienazione e trasformazione della cosa legata =====
L’alienazione che il testatore faccia della cosa legata o di parte di essa, anche mediante vendita con patto di riscatto (1500), revoca il legato riguardo a ciò che è stato alienato, anche quando l’alienazione è annullabile per cause diverse dai vizi del consenso (1472), ovvero la cosa ritorna in proprietà del testatore.</br>
Lo stesso avviene se il testatore ha trasformato la cosa legata in un’altra, in guisa che quella abbia perduto la precedente forma e la primitiva denominazione (667).</br>
È ammessa la prova di una diversa volontà del testatore.
===== Art. 687 Revocazione per sopravvenienza di figli =====
Le disposizioni a titolo universale o particolare (588), fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio (250 e seguenti).</br>
La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento.</br>
La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi.</br>
Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione (467 e seguenti), la disposizione ha il suo effetti.
=== Capo VI: Delle sostituzioni ===
==== Sezione I: Della sostituzione ordinaria ====
===== Art. 688 Casi di sostituzione ordinaria =====
Il testatore può sostituire all’erede istituito altra persona per il caso che il primo non possa o non voglia accettare l’eredità (70, 72, 463, 523).</br>
Se il testatore ha disposto per uno solo di questi casi, si presume che egli si sia voluto riferire anche a quello non espresso, salvo che consti una sua diversa volontà.
===== Art. 689 Sostituzione plurima. Sostituzione reciproca =====
Possono sostituirsi più persone a una sola e una sola a più.</br>
La sostituzione può anche essere reciproca tra i coeredi istituiti. Se essi sono stati istituiti in parti disuguali, la proporzione fra le quote fissate nella prima istituzione si presume ripetuta anche nella sostituzione. Se nella sostituzione insieme con gli istituiti è chiamata un’altra persona, la quota vacante viene divisa in parti uguali tra tutti i sostituiti.
===== Art. 690 Obblighi dei sostituiti =====
I sostituiti devono adempiere gli obblighi imposti agli istituiti, a meno che una diversa volontà sia stata espressa dal testatore o si tratti di obblighi di carattere personale (676, 677).
===== Art. 691 Sostituzione ordinaria nei legati =====
Le norme stabilite in questa Sezione si applicano anche ai legati.
==== Sezione II: Della sostituzione fedecommissaria ====
===== Art. 692 Sostituzione fedecommissaria =====
Ciascuno dei genitori o degli altri ascendenti in linea retta o il coniuge dell’interdetto possono istituire rispettivamente il figlio, il discendente, o il coniuge con l’obbligo di conservare e restituire alla sua morte i beni anche costituenti la legittima (737), a favore della persona o degli enti che, sotto la vigilanza del tutore, hanno avuto cura dell’interdetto medesimo.</br>
La stessa disposizione si applica nel caso del minore di età, se trovasi nelle condizioni di abituale infermità di mente tali da far presumere che nel termine indicato dall’Art. 416 interverrà la pronuncia di interdizione.</br>
Nel caso di pluralità di persone o enti di cui al primo comma i beni sono attribuiti proporzionalmente al tempo durante il quale gli stessi hanno avuto cura dell’interdetto.</br>
La sostituzione è priva di effetto nel caso in cui l’interdizione sia negata o il relativo procedimento non sia iniziato entro due anni dal raggiungimento della maggiore età del minore abitualmente infermo di mente. È anche priva di effetto nel caso di revoca dell’interdizione o rispetto alle persone o agli enti che abbiano violato gli obblighi di assistenza.</br>
In ogni altro caso la sostituzione è nulla.
===== Art. 693 Diritti e obblighi dell’istituito =====
L’istituito ha il godimento e la libera amministrazione dei beni che formano oggetto della sostituzione, e può stare in giudizio per tutte le azioni relative ai beni medesimi. Egli può altresì compiere tutte le innovazioni dirette ad una migliore utilizzazione dei beni.</br>
All’istituito sono comuni, in quanto applicabili, le norme concernenti l’usufruttuario (981 e seguenti).
===== Art. 694 Alienazione dei beni =====
L’autorità giudiziaria può consentire l’alienazione dei beni che formano oggetto della sostituzione in caso di utilità evidente, disponendo il reimpiego delle somme ricavate. Può anche essere consentita, con le necessarie cautele, la costituzione d’ipoteche sui beni medesimi a garanzia di crediti destinati a miglioramenti e trasformazioni fondiarie.
===== Art. 695 Diritti dei creditori personali dell’istituito =====
I creditori personali dell’istituito possono agire soltanto sui frutti dei beni che formano oggetto della sostituzione.
===== Art. 696 Devoluzione al sostituito =====
L’eredità si devolve al sostituito al momento della morte dell’istituito.</br>
Se le persone o gli enti che hanno avuto cura dell’incapace muoiono o si estinguono prima della morte di lui, i beni o la porzione dei beni che spetterebbe loro è devoluta ai successori legittimi dell’incapace.
===== Art. 697 Sostituzione fedecommissaria nei legati =====
Le norme stabilite in questa Sezione sono applicabili anche ai legati.
===== Art. 698 Usufrutto successivo =====
La disposizione, con la quale è lasciato a più persone successivamente l’usufrutto, una rendita o un’annualità, ha valore soltanto a favore di quelli che alla morte del testatore si trovano primi chiamati a goderne (796).
===== Art. 699 Premi di nuzialità, opere di assistenza e simili =====
È valida la disposizione testamentaria avente per oggetto l’erogazione periodica, in perpetuo o a tempo, di somme determinate per premi di nuzialità o di natalità, sussidi per l’avviamento a una professione o un’arte, opere di assistenza, o per altri fini di pubblica utilità, a favore di persone da scegliersi entro una determinata categoria o tra i discendenti di determinate famiglie. Tali annualità possono riscattarsi secondo le norme dettate in materia di rendita (1865 e seguenti).
=== Capo VII: Degli esecutori testamentari ===
===== Art. 700 Facoltà di nomina e di sostituzione =====
Il testatore può nominare uno o più esecutori testamentari e, per il caso che alcuni o tutti non vogliano o non possano accettare, altro o altri in loro sostituzione.</br>
Se sono nominati più esecutori testamentari, essi devono agire congiuntamente, salvo che il testatore abbia diviso tra loro le attribuzioni, o si tratti di provvedimento urgente per la conservazione di un bene o di un diritto ereditario.</br>
Il testatore può autorizzare l’esecutore testamentario a sostituire altri a se stesso, qualora egli non possa continuare nell’ufficio.
===== Art. 701 Persone capaci di essere nominate =====
Non possono essere nominati esecutori testamentari coloro che non hanno la piena capacità di obbligarsi (2, 394, 424, 710; Cod. Pen. 32).</br>
Anche un erede o un legatario può essere nominato esecutore testamentario.
===== Art. 702 Accettazione e rinunzia alla nomina =====
L’accettazione della nomina di esecutore testamentario o la rinunzia alla stessa deve risultare da dichiarazione fatta nella cancelleria del tribunale nella cui giurisdizione si è aperta la successione (456), e deve essere annotata nel registro delle successioni (703; att. 52, 53).</br>
L’accettazione non può essere sottoposta a condizione o a termine.</br>
L’autorità giudiziaria, su istanza di qualsiasi interessato, può assegnare all’esecutore un termine per l’accettazione (Cod. Proc. Civ. 749), decorso il quale l’esecutore si considera rinunziante.
===== Art. 703 Funzioni dell’esecutore testamentario =====
L’esecutore testamentario deve curare che siano esattamente eseguite le disposizioni di ultima volontà del defunto.</br>
A tal fine, salvo contraria volontà del testatore, egli deve amministrare la massa ereditaria, prendendo possesso dei beni che ne fanno parte.</br>
Il possesso non può durare più di un anno dalla dichiarazione di accettazione, salvo che l’autorità giudiziaria, per motivi di evidente necessità, sentiti gli eredi, ne prolunghi la durata, che non potrà mai superare un altro anno.</br>
L’esecutore deve amministrare come un buon padre di famiglia (1176) e può compiere tutti gli atti di gestione occorrenti. Quando è necessario alienare beni dell’eredità, ne chiede l’autorizzazione all’autorità giudiziaria, la quale provvede sentiti gli eredi (Cod. Proc. Civ. 747 e seguenti).</br>
Qualsiasi atto dell’esecutore testamentario non pregiudica il diritto del chiamato a rinunziare all’eredità (519 e seguenti) o ad accettarla col beneficio d’inventario (484 e seguenti).
===== Art. 704 Rappresentanza processuale =====
Durante la gestione dell’esecutore testamentario, le azioni relative all’eredità devono essere proposte anche nei confronti dell’esecutore (Cod. Proc. Civ. 102). Questi ha facoltà d’intervenire nei giudizi promossi dall’erede e può esercitare le azioni relative all’esercizio del suo ufficio.
===== Art. 705 Apposizione di sigilli e inventario =====
L’esecutore testamentario fa apporre i sigilli (Cod. Proc. Civ. 752 e seguenti) quando tra i chiamati all’eredità vi sono minori, assenti, interdetti o persone giuridiche.</br>
Egli in tal caso fa redigere l’inventario (Cod. Proc. Civ. 769 e seguenti) dei beni dell’eredità in presenza dei chiamati all’eredità o dei loro rappresentanti, o dopo averli invitati.
===== Art. 706 Divisione da compiersi dall’esecutore testamentario =====
Il testatore può disporre che l’esecutore testamentario, quando non è un erede o un legatario, proceda alla divisione tra gli eredi dei beni all’eredità. In questo caso si osserva il disposto dell’Art. 733. Prima di procedere alla divisione l’esecutore testamentario deve sentire gli eredi.
===== Art. 707 Consegna dei beni all’erede =====
L’esecutore testamentario deve consegnare all’erede, che ne fa richiesta, i beni dell’eredità che non sono necessari all’esercizio del suo ufficio.</br>
Egli non può rifiutare tale consegna a causa di obbligazioni che debba adempiere conformemente alla volontà del testatore, o di legati condizionali o a termine se l’erede dimostra di averli già soddisfatti, od offre idonea garanzia (1179) per l’adempimento delle obbligazioni, dei legati o degli oneri.
===== Art. 708 Disaccordo tra più esecutori testamentari =====
Se gli esecutori che devono agire congiuntamente non sono d’accordo circa un atto del loro ufficio, provvede l’autorità giudiziaria, sentiti, se occorre, gli eredi (Cod. Proc. Civ. 750).
===== Art. 709 Conto della gestione =====
L’esecutore testamentario deve rendere il conto della sua gestione al termine della stessa, e anche spirato l’anno dalla morte del testatore, se la gestione si prolunga oltre l’anno (Cod. Proc. Civ. 263). </br>
Egli è tenuto, in caso di colpa, al risarcimento dei danni verso gli eredi e verso i legatari (703). Gli esecutori testamentari, quando sono più, rispondono solidalmente (1292), per la gestione comune.
Il testatore non può esonerare l’esecutore testamentario dall’obbligo di rendere il conto o dalla responsabilità della gestione.
===== Art. 710 Esonero dell’esecutore testamentario =====
Su istanza di ogni interessato, l’autorità giudiziaria può esonerare l’esecutore testamentario dal suo ufficio per gravi irregolarità nell’adempimento dei suoi obblighi, per inidoneità all’ufficio o per aver commesso azione che ne menomi la fiducia.</br>
L’autorità giudiziaria, prima di provvede re, deve sentire l’esecutore e può disporre opportuni accertamenti (Cod. Proc. Civ. 750).
===== Art. 711 Retribuzione =====
L’ufficio dell’esecutore testamentario è gratuito. Tuttavia il testatore può stabilire una retribuzione a carico dell’eredità.
===== Art. 712 Spese =====
Le spese fatte dall’esecutore testamentario per l’esercizio del suo ufficio sono a carico dell’eredità.
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Codice civile/Libro II/Titolo IV
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== Titolo IV: Della divisione ==
=== Capo I: Disposizioni generali ===
===== Art. 713 Facoltà di domandare la divisione =====
I coeredi possono sempre domandare la divisione (715 e seguenti, 1111 e seguenti, 2646; Cod. Proc. Civ. 784 e seguenti).</br>
Quando però tutti gli eredi istituiti o alcuni di essi sono minori di età, il testatore può disporre che la divisione non abbia luogo prima che sia trascorso un anno dalla maggiore età dell’ultimo nato. Egli può anche disporre che la divisione dell’eredità o di alcuni beni di essa non abbia luogo prima che sia trascorso dalla sua morte un termine non eccedente il quinquennio.</br>
Tuttavia in ambedue i casi l’autorità giudiziaria, qualora gravi circostanze lo richiedano, può, su istanza di uno o più coeredi, consentire che la divisione si effettui senza indugio o dopo un termine minore di quello stabilito dal testatore.
===== Art. 714 Godimento separato di parte dei beni =====
Può domandarsi la divisione anche quando uno o più coeredi hanno goduto separatamente parte dei beni ereditari, salvo che si sia verificata l’usucapione per effetto di possesso esclusivo (1102, 1158 e seguenti).
===== Art. 715 Casi d’impedimento alla divisione =====
Se tra i chiamati alla successione vi è un concepito (462), la divisione non può aver luogo prima della nascita del medesimo. Parimenti la divisione non può aver luogo durante la pendenza di un giudizio sulla filiazione di colui che, in caso di esito favorevole del giudizio, sarebbe chiamato a succedere, né può aver luogo durante lo svolgimento della procedura amministrativa per l’ammissione del riconoscimento previsto dal quarto comma dell’art. 252 o per il riconoscimento dell’ente istituito erede (600).</br>
L’autorità giudiziaria può tuttavia autorizzare la divisione, fissando le opportune cautele.</br>
La disposizione del comma precedente si applica anche se tra i chiamati alla successione vi sono nascituri non concepiti (462).</br>
Se i nascituri non concepiti sono istituiti senza determinazione di quote, l’autorità giudiziaria può attribuire agli altri coeredi tutti i beni ereditari o parte di essi, secondo le circostanze, disponendo le opportune cautele nell’interesse dei nascituri.
===== Art. 716 (abrogato) =====
===== Art. 717 Sospensione della divisione per ordine del giudice =====
L’autorità giudiziaria, su istanza di uno dei coeredi, può sospendere, per un periodo di tempo non eccedente i cinque anni, la divisione dell’eredità o di alcuni beni, qualora l’immediata sua esecuzione possa recare notevole pregiudizio al patrimonio ereditario (1111).
===== Art. 718 Diritto ai beni in natura =====
Ciascun coerede può chiedere la sua parte in natura dei beni mobili e immobili dell’eredità, salve le disposizioni degli articoli seguenti (1114).
===== Art. 719 Vendita dei beni per il pagamento dei debiti ereditari =====
Se i coeredi aventi diritto a più della metà dell’asse concordano nella necessità della vendita per il pagamento dei debiti e pesi ereditari (752 e seguenti), si procede (Cod. Proc. Civ. 747 e seguenti) alla vendita all’incanto dei beni mobili e, se occorre, di quei beni immobili la cui alienazione rechi minor pregiudizio agli interessi dei condividenti (2646).</br>
Quando occorre il consenso di tutte le parti, la vendita può seguire tra i soli condividenti e senza pubblicità, salvo che vi sia opposizione dei legatari o dei creditori (721, 723).
===== Art. 720 Immobili non divisibili =====
Se nell’eredità vi sono immobili non comodamente divisibili, o il cui frazionamento recherebbe pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene, e la divisione dell’intera sostanza non può effettuarsi senza il loro frazionamento, essi devono preferibilmente essere compresi per intero, con addebito dell’eccedenza, nella porzione di uno dei coeredi aventi diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione. Se nessuno dei coeredi è a ciò disposto, si fa luogo alla vendita all’incanto (2646; Cod. Proc. Civ. 748).
===== Art. 721 Vendita degli immobili =====
I patti e le condizioni della vendita degli immobili, qualora non siano concordati dai condividenti, sono stabiliti dall’autorità giudiziaria.
===== Art. 722 Beni indivisibili nell’interesse della produzione nazionale =====
In quanto non sia diversamente disposto dalle leggi speciali, le disposizioni dei due articoli precedenti si applicano anche nel caso in cui nell’eredità vi sono beni che la legge dichiara indivisibili nell’interesse della produzione nazionale (846 e seguenti).
===== Art. 723 Resa dei conti =====
Dopo la vendita, se ha avuto luogo, dei mobili e degli immobili si procede ai conti che i condividenti si devono rendere, alla formazione dello stato attivo e passivo dell’eredità e alla determinazione delle porzioni ereditarie e dei conguagli o rimborsi che si devono tra loro i condividenti.
===== Art. 724 Collazione e imputazione =====
I coeredi tenuti a collazione, a norma del Capo II di questo Titolo (737 e seguenti), conferiscono tutto ciò che è stato loro donato.</br>
Ciascun erede deve imputare alla sua quota le somme di cui era debitore verso il defunto e quelle di cui è debitore verso i coeredi in dipendenza dei rapporti di comunione.
===== Art. 725 Prelevamenti =====
Se i beni donati non sono conferiti in natura (746, 750), o se vi sono debiti da imputare alla quota di un erede a norma del secondo comma dell’articolo precedente, gli altri eredi prelevano dalla massa ereditaria beni in proporzione delle loro rispettive quote (1113).</br>
I prelevamenti, per quanto è possibile, si formano con oggetti della stessa natura e qualità di quelli che non sono stati conferiti in natura.
===== Art. 726 Stima e formazione delle parti =====
Fatti i prelevamenti, si provvede alla stima di ciò che rimane nella massa, secondo il valore venale dei singoli oggetti.</br>
Eseguita la stima, si procede alla formazione di tante porzioni quanti sono gli eredi o le stirpi condividenti in proporzione delle quote.
===== Art. 727 Norme per la formazione delle porzioni =====
Salvo quanto è disposto dagli artt. 720 e 722, le porzioni devono essere formate, previa stima dei beni, comprendendo una quantità di mobili, immobili e crediti di eguale natura e qualità, in proporzione dell’entità di ciascuna quota (1114).</br>
Si deve tuttavia evitare per quanto è possibile, il frazionamento delle biblioteche, gallerie e collezioni che hanno un’importanza storica, scientifica o artistica.
===== Art. 728 Conguagli in danaro =====
L’ineguaglianza in natura nelle quote ereditarie si compensa con un equivalente in danaro (2817, n. 2).
===== Art. 729 Assegnazione o attribuzione delle porzioni =====
L’assegnazione delle porzioni eguali e fatta mediante estrazione a sorte. Per le porzioni diseguali si procede mediante attribuzione. Tuttavia, rispetto a beni costituenti frazioni eguali di quote diseguali, si può procedere per estrazione a sorte (2646, 2685).
===== Art. 730 Deferimento delle operazioni a un notaio =====
Le operazioni indicate negli articoli precedenti possono essere, col consenso di tutti i coeredi, deferite a un notaio. La nomina di questo, in mancanza di accordo, è fatta con decreto dal tribunale del luogo dell'aperta successione (456).</br>
Qualora sorgano contestazioni nel corso delle operazioni, esse sono riservate e rimesse tutte insieme alla cognizione dell’autorità giudiziaria competente, che provvede con unica sentenza.
===== Art. 731 Suddivisione tra stirpi =====
Le norme sulla divisione dell’intero asse si osservano anche nelle suddivisioni tra i componenti di ciascuna stirpe.
===== Art. 732 Diritto di prelazione =====
Il coerede, che vuole alienare (1542 e seguenti) a un estraneo la sua quota o parte di essa, deve notificare la proposta di alienazione, indicandone il prezzo, agli altri coeredi, i quali hanno diritto di prelazione. Questo diritto deve essere esercitato nel termine (2964) di due mesi dall’ultima delle notificazioni. In mancanza della notificazione, i coeredi hanno diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria (1502).</br>
Se i coeredi che intendono esercitare il diritto di riscatto sono più, la quota è assegnata a tutti in parti uguali.
===== Art. 733 Norme date dal testatore per la divisione =====
Quando il testatore ha stabilito particolari norme per formare le porzioni, queste norme sono vincolanti per gli eredi, salvo che l’effettivo valore dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore.</br>
Il testatore può disporre che la divisione si effettui secondo la stima di persona da lui designata che non sia erede o legatario (706): la divisione proposta da questa persona non vincola gli eredi, se l’autorità giudiziaria, su istanza di taluno di essi, la riconosce contraria alla volontà del testatore o manifestamente iniqua.
===== Art. 734 Divisione fatta dal testatore =====
Il testatore può dividere i suoi beni tra gli eredi comprendendo nella divisione anche la parte non disponibile (536 e seguenti).</br>
Se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti conformemente alla legge (566 e seguenti), se non risulta una diversa volontà del testatore.
===== Art. 735 Preterizione di eredi e lesione di legittima =====
La divisione nella quale il testatore non abbia compreso qualcuno dei legittimari (536) o degli eredi istituiti è nulla.</br>
Il coerede che è stato leso nella quota di riserva può esercitare l’azione di riduzione contro gli altri coeredi (553 e seguenti).
===== Art. 736 Consegna dei documenti =====
Compiuta la divisione, si devono rimettere a ciascuno dei condividenti i documenti relativi ai beni e diritti particolarmente loro assegnati.</br>
I documenti di una proprietà che è stata divisa rimangono a quello che ne ha la parte maggiore, con l’obbligo di comunicarli agli altri condividenti che vi hanno interesse, ogni qualvolta se ne faccia richiesta. Gli stessi documenti, se la proprietà è divisa in parti eguali, e quelli comuni all’intera eredità si consegnano alla persona scelta a tal fine da tutti gli interessati, la quale ha obbligo di comunicarli a ciascuno di essi, a ogni loro domanda. Se vi è contrasto nella scelta, la persona è determinata con decreto dal tribunale del luogo dell’aperta successione (456), su ricorso di alcuno degli interessati, sentiti gli altri.
=== Capo II: Della collazione ===
===== Art. 737 Soggetti tenuti alla collazione =====
I figli e i loro discendenti ed il coniuge che concorrono alla successione devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati.</br>
La dispensa da collazione non produce effetto se non nei limiti della quota disponibile (556).
===== Art. 738 Limiti della collazione per il coniuge =====
Non sono soggetti a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge.
===== Art. 739 Donazioni ai discendenti o al coniuge dell’erede. Donazioni a coniugi =====
L’erede non è tenuto a conferire le donazioni fatte ai suoi discendenti o al coniuge, ancorché succedendo a costoro ne abbia conseguito il vantaggio.</br>
Se le donazioni sono state fatte congiuntamente a coniugi di cui uno è discendente del donante, la sola porzione a questo donata è soggetta a collazione.
===== Art. 740 Donazioni fatte all’ascendente dell’erede =====
Il discendente che succede per rappresentazione (467) deve conferire ciò che è stato donato all’ascendente anche nel caso in cui abbia rinunziato all’eredità di questo.
===== Art. 741 Collazione di assegnazioni varie =====
È soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso a favore dei suoi discendenti per assegnazioni fatte a causa di matrimonio, per avviarli all’esercizio di un’attività produttiva o professionale, per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita a loro favore o per pagare i loro debiti.
===== Art. 742 Spese non soggette a collazione =====
Non sono soggette a collazione le spese di mantenimento e di educazione e quelle sostenute per malattia, ne quelle ordinarie fatte per abbigliamento o per nozze.</br>
Le spese per il corredo nuziale e quelle per l’istruzione artistica o professionale sono soggette a collazione solo per quanto eccedono notevolmente la misura ordinaria, tenuto conto delle condizioni economiche del defunto (809).
Non sono soggette a collazione le liberalità previste dal secondo comma dell’Art. 770.
===== Art. 743 Società contratta con l’erede =====
Non è dovuta collazione di ciò che si è conseguito per effetto di società contratta senza frode tra il defunto e alcuno dei suoi eredi, se le condizioni sono state regolate con atto di data certa (2704).
===== Art. 744 Perimento della cosa donata =====
Non è soggetta a collazione la cosa perita per causa non imputabile al donatario (1256).
===== Art. 745 Frutti e interessi =====
I frutti (820) delle cose e gli interessi sulle somme soggette a collazione non sono dovuti che dal giorno in cui si è aperta la successione (456).
===== Art. 746 Collazione d’immobili =====
La collazione di un bene immobile si fa o col rendere il bene in natura o con l’imputarne il valore alla propria porzione, a scelta di chi conferisce.</br>
Se l’immobile è stato alienato o ipotecato, la collazione si fa soltanto con l’imputazione.
===== Art. 747 Collazione per l’imputazione =====
La collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo dell’aperta successione (456).
===== Art. 748 Miglioramenti, spese e deterioramenti =====
In tutti i casi, si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione (456, 1150).</br>
Devono anche computarsi a favore del donatario le spese straordinarie da lui sostenute per la conservazione della cosa, non cagionate da sua colpa.</br>
Il donatario dal suo canto è obbligato per i deterioramenti che, per sua colpa, hanno diminuito il valore dell’immobile.</br>
Il coerede che conferisce un immobile in natura può ritenerne il possesso sino all’effettivo rimborso delle somme che gli sono dovute per spese e miglioramenti (1152).
===== Art. 749 Miglioramenti e deterioramenti dell’immobile alienato =====
Nel caso in cui l’immobile è stato alienato dal donatario, i miglioramenti e i deterioramenti fatti dall’acquirente devono essere computati a norma dell’articolo precedente.
===== Art. 750 Collazione di mobili =====
La collazione dei mobili si fa soltanto per imputazione, sulla base del valore che essi avevano al tempo dell’aperta successione (456, att. 1353).</br>
Se si tratta di cose delle quali non si può far uso senza consumarle, e il donatario le ha già consumate, si determina il valore che avrebbero avuto secondo il prezzo corrente (1474) al tempo dell’aperta successione.</br>
Se si tratta di cose che con l’uso si deteriorano, il loro valore al tempo dell’aperta successione è stabilito con riguardo allo stato in cui si trovano.</br>
La determinazione del valore dei titoli dello Stato, degli altri titoli di credito quotati in borsa e delle derrate e delle merci il cui prezzo corrente è stabilito dalle mercuriali, si fa in base ai listini di borsa e alle mercuriali del tempo dell’aperta successione.
===== Art. 751 Collazione del danaro =====
La collazione del danaro donato (1923) si fa prendendo una minore quantità del danaro che si trova nell’eredità, secondo il valore legale della specie donata o di quella ad essa legalmente sostituita all’epoca dell’aperta successione (1277 e seguenti).</br>
Quando tale danaro non basta e il donatario non vuole conferire altro danaro o titoli dello Stato, sono prelevati mobili o immobili ereditari, in proporzione delle rispettive quote.
=== Capo III: Del pagamento dei debiti ===
===== Art. 752 Ripartizione dei debiti ereditari tra gli eredi =====
I coeredi contribuiscono tra loro al pagamento dei debiti e pesi ereditari in proporzione delle loro quote ereditarie, salvo che il testatore abbia altrimenti disposto (1295, 1315).
===== Art. 753 Immobili gravati da rendita redimibile =====
Ogni coerede, quando i beni immobili dell’eredità sono gravati con ipoteca da una prestazione di rendita redimibile (1865 e seguenti), può chiedere che gli immobili ne siano affrancati e resi liberi prima che si proceda alla formazione delle quote ereditarie. Se uno dei coeredi si oppone, decide l’autorità giudiziaria.</br>
Se i coeredi dividono l’eredità nello stato in cui si trova, l’immobile gravato deve stimarsi con gli stessi criteri con cui si stimano gli altri beni immobili, detratto dal valore di esso il capitale corrispondente alla prestazione, secondo le norme relative al riscatto della rendita (1866), salvo che esista un patto speciale intorno al capitale da corrispondersi per l’affrancazione.</br>
Alla prestazione della rendita è tenuto solo l’erede, nella cui quota cade detto immobile, con l’obbligo di garantire (1119) i coeredi.
===== Art. 754 Pagamento dei debiti e rivalsa =====
Gli eredi sono tenuti verso i creditori al pagamento dei debiti e pesi ereditari personalmente in proporzione della loro quota ereditaria (1295, 1315 e seguenti) e ipotecariamente per l’intero (2809). Il coerede che ha pagato oltre la parte a lui incombente può ripetere dagli altri coeredi soltanto la parte per cui essi devono contribuire a norma dell’Art. 752, quantunque si sia fatto surrogare nei diritti dei creditori (1201 e seguenti).</br>
Il coerede conserva la facoltà di chiedere il pagamento del credito a lui personale e garantito da ipoteca, non diversamente da ogni altro creditore, detratta la parte che deve sopportare come coerede.
===== Art. 755 Quota di debito ipotecario non pagata da un coerede =====
In caso d’insolvenza di un coerede, la sua quota di debito ipotecario è ripartita in proporzione tra tutti gli altri coeredi.
===== Art. 756 Esenzione del legatario dal pagamento dei debiti =====
Il legatario non è tenuto a pagare i debiti ereditari, salvo ai creditori l’azione ipotecaria sul fondo legato (2858 e seguenti) e l’esercizio del diritto di separazione (512 e seguenti); ma il legatario che ha estinto il debito di cui era gravato il fondo legato subentra nelle ragioni del creditore contro gli eredi (1203, 2866).
=== Capo IV: Degli effetti della divisione e della garanzia delle quote ===
===== Art. 757 Diritto dell’erede sulla propria quota =====
Ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all’incanto (719, 720), e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari (2646, 2825).
===== Art. 758 Garanzie tra coeredi =====
I coeredi si devono vicendevole garanzia per le sole molestie ed evizioni derivanti da causa anteriore alla divisione (1483 e seguenti).</br>
La garanzia non ha luogo, se è stata esclusa con clausola espressa nell’atto di divisione, o se il coerede soffre l’evizione per propria colpa.
===== Art. 759 Evizione subita da un coerede =====
Se alcuno dei coeredi subisce evizione (1483), il valore del bene evitto, calcolato al momento dell’evizione, deve essere ripartito tra tutti i coeredi ai fini della garanzia stabilita dall’articolo precedente, in proporzione del valore che i beni attribuiti a ciascuno di essi hanno al tempo dell’evizione e tenuto conto dello stato in cui si trovano al tempo della divisione (att. 140).</br>
Se uno dei coeredi è insolvente, la parte per cui è obbligato deve essere egualmente ripartita tra l’erede che ha sofferto l’evizione e tutti gli eredi solventi.
===== Art. 760 Inesigibilità di crediti =====
Non è dovuta garanzia per l’insolvenza del debitore di un credito assegnato a uno dei coeredi, se l’insolvenza è sopravvenuta soltanto dopo che è stata fatta la divisione (1267).</br>
La garanzia della solvenza del debitore di una rendita (1864) è dovuta per i cinque anni successivi alla divisione.
=== Capo V: Dell’annullamento e della rescissione in materia di divisione ===
===== Art. 761 Annullamento per violenza o dolo =====
La divisione può essere annullata quando è l’effetto di violenza o di dolo (1434 e seguenti). L’azione si prescrive (2941 e seguente) in cinque anni dal giorno in cui è cessata la violenza o in cui il dolo è stato scoperto (1442).
===== Art. 762 Omissione di beni ereditari =====
L’omissione di uno o più beni dell’eredità non dà luogo a nullità della divisione, ma soltanto a un supplemento della divisione stessa.
===== Art. 763 Rescissione per lesione =====
La divisione può essere rescissa quando taluno dei coeredi prova di essere stato leso oltre il quarto (1448 e seguenti).</br>
La rescissione è ammessa anche nel caso di divisione fatta dal testatore (734 e seguente), quando il valore dei beni assegnati ad alcuno dei coeredi è inferiore di oltre un quarto all’entità della quota ad esso spettante.</br>
L’azione si prescrive (2941 e seguente) in due anni dalla divisione.
===== Art. 764 Atti diversi dalla divisione =====
L’azione di rescissione è anche ammessa contro ogni altro atto che abbia per effetto di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari.</br>
L’azione non è ammessa contro la transazione (1965 e seguenti) con la quale si è posto fine alle questioni insorte a causa della divisione o dell’atto fatto in luogo della medesima, ancorché non fosse al riguardo incominciata alcuna lite.
===== Art. 765 Vendita del diritto ereditario fatta al coerede =====
L’azione di rescissione non è ammessa contro la vendita del diritto ereditario (477, 1542 e seguenti) fatta senza frode a uno dei coeredi, a suo rischio e pericolo, da parte degli altri coeredi o di uno di essi (14484).
===== Art. 766 Stima dei beni =====
Per conoscere se vi è lesione si procede alla stima dei beni secondo il loro stato e valore al tempo della divisione.
===== Art. 767 Facoltà del coerede di dare il supplemento =====
Il coerede contro il quale è promossa l’azione di rescissione può troncarne il corso e impedire una nuova divisione, dando il supplemento della porzione ereditaria, in danaro o in natura, all’attore e agli altri coeredi che si sono a lui associati (1450).
===== Art. 768 Alienazione della porzione ereditaria =====
Il coerede che ha alienato la sua porzione o una parte di essa non è più ammesso a impugnare la divisione per dolo o violenza, se l’alienazione è seguita quando il dolo era stato scoperto o la violenza cessata.</br>
Il coerede non perde il diritto di proporre l’impugnazione, se la vendita è limitata a oggetti di facile deterioramento o di valore minimo in rapporto alla quota.
=== Capo V-bis: Del patto di famiglia (1) ===
===== Art. 768-bis Nozione =====
È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.</br>
===== Art. 768-ter Forma =====
A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico.
===== Art. 768-quater Partecipazione=====
Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. </br>
Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.</br>
I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purchè vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione.
===== Art. 768-quinquies Vizi del consenso=====
Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti.
L’azione si prescrive nel termine di un anno.
===== Art. 768-sexies Rapporti con i terzi=====
All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali.
L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies.
===== Art. 768-septies Scioglimento=====
Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:
# mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;
# mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da un notaio.
===== Art. 768-octies Controversie=====
Le controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
(1) Articoli aggiunti, insieme al novellato art. 458 del codice civile, dalla L. 14 febbraio 2006, n.55.
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Codice civile/Libro II/Titolo V
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== Titolo V: Delle donazioni ==
=== Capo I: Disposizioni generali ===
===== Art. 769 Definizione =====
La donazione è il contratto (782, 1321 e seguenti) col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto (1376) o assumendo verso la stessa una obbligazione.
===== Art. 770 Donazione rimuneratoria =====
È donazione anche la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale rimunerazione (797, 805).
Non costituisce donazione la liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli usi (742, 809).
===== Art. 771 Donazione di beni futuri =====
La donazione non può comprendere che i beni presenti del donante (1348). Se comprende beni futuri, è nulla rispetto a questi (1419 e seguenti) salvo che si tratti di frutti non ancora separati (820). Qualora oggetto della donazione sia un’universalità di cose (816) e il donante ne conservi il godimento trattenendola presso di sé, si considerano comprese nella donazione anche le cose che vi si aggiungono successivamente, salvo che dall’atto risulti una diversa volontà.
===== Art. 772 Donazione di prestazioni periodiche =====
La donazione che ha per oggetto prestazioni periodiche si estingue alla morte del donante, salvo che risulti dall’atto una diversa volontà.
===== Art. 773 Donazione a più donatari =====
La donazione fatta congiuntamente a favore di più donatari s’intende fatta per parti uguali, salvo che dall’atto risulti una diversa volontà.
È valida la clausola con cui il donante dispone che, se uno dei donatari non può o non vuole accettare, la sua parte si accresca agli altri (676).
=== Capo II: Della capacità di disporre e di ricevere per donazione ===
===== Art. 774 Capacità di donare =====
Non possono fare donazione coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni (2, 394, 424, 427). È tuttavia valida la donazione fatta dal minore e dall’inabilitato nel loro contratto di matrimonio a norma degli artt. 165 e 166.
Le disposizioni precedenti si applicano anche al minore emancipato autorizzato all’esercizio di un’impresa commerciale (397).
===== Art. 775 Donazione fatta da persona incapace d’intendere o di volere =====
La donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta, può essere annullata su istanza del donante, dei suoi eredi o aventi causa (428).
L’azione si prescrive (2962) in cinque anni dal giorno in cui la donazione è stata fatta (428, 1442 e seguenti).
===== Art. 776 Donazione fatta dall’inabilitato =====
La donazione fatta dall’inabilitato, anche se anteriore alla sentenza d’inabilitazione o alla nomina del curatore provvisorio, può essere annullata (799, 1442) se fatta dopo che è stato promosso il giudizio d’inabilitazione (427).
Il curatore dell’inabilitato per prodigalità (415) può chiedere l’annullamento della donazione, anche se fatta nei sei mesi anteriori all’inizio del giudizio d’inabilitazione.
===== Art. 777 Donazioni fatte da rappresentanti di persone incapaci =====
Il padre e il tutore non possono fare donazioni per la persona incapace da essi rappresentata. Sono consentite, con le forme abilitative richieste, le liberalità in occasione di nozze a favore dei discendenti dell’interdetto o dell’inabilitato.
===== Art. 778 Mandato a donare =====
È nullo (1421 e seguenti) il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto della donazione.
È peraltro valida la donazione a favore di persona che un terzo sceglierà tra più persone designate dal donante o appartenenti i determinate categorie, o a favore di una persona giuridica tra quelle indicate dal donante stesso.
È del pari valida la donazione che ha per oggetto una cosa che un terzo determinerà tra più cose indicate dal donante o entro i limiti di valore dal donante stesso stabiliti.
===== Art. 779 Donazione a favore del tutore o protutore =====
È nulla (1418 e seguenti) la donazione a favore di chi è stato tutore o protutore del donante, se fatta prima che sia stato approvato il conto (385 e seguenti) o sia estinta l’azione per il rendimento del conto medesimo.
Si applicano le disposizioni dell’Art. 599.
===== Art. 780 (abrogato) =====
===== Art. 781 Donazione tra coniugi =====
(Art. dichiarato illegittimo: C. Cost. 27 giugno 1973, n. 91)
I coniugi non possono, durante il matrimonio, farsi l’uno all’altro alcuna liberalità, salve quelle conformi agli usi (1418 e seguenti).
=== Capo III: Della forma e degli effetti della donazione ===
===== Art. 782 Forma della donazione =====
La donazione deve essere fatta per atto pubblico (2699), sotto pena di nullità. Se ha per oggetto cose mobili, essa non è valida che per quelle specificate con indicazione del loro valore nell’atto medesimo della donazione, ovvero in una nota a parte sottoscritta dal donante, dal donatario e dal notaio.
L’accettazione può essere fatta nell’atto stesso o con atto pubblico posteriore. In questo caso la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione è notificato al donante. Prima che la donazione sia perfetta, tanto il donante quanto il donatario possono revocare la loro dichiarazione.
Se la donazione è fatta a una persona giuridica, il donante non può revocare la sua dichiarazione dopo che gli è stata notificata la domanda diretta a ottenere dall’autorità governativa l’autorizzazione ad accettare (17). Trascorso un anno dalla notificazione senza che l’autorizzazione sia stata concessa, la dichiarazione può essere revocata.
===== Art. 783 Donazioni di modico valore =====
La donazione di modico valore che ha per oggetto beni mobili (812) è valida anche se manca l’atto pubblico, purché vi sia stata la tradizione.
La modicità deve essere valutata anche in rapporto alle condizioni economiche del donante.
===== Art. 784 Donazione a nascituri =====
La donazione può essere fatta anche a favore di chi è soltanto concepito, ovvero a favore dei figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione benché non ancora concepiti (462).
L’accettazione della donazione a favore di nascituri, benché non concepiti, è regolata dalle disposizioni degli artt. 320 e 321.
Salvo diversa disposizione del donante, l’amministrazione dei beni donati spetta al donante o ai suoi eredi, i quali possono essere obbligati a prestare idonea garanzia (1179). I frutti (820) maturati prima della nascita sono riservati al donatario se la donazione è fatta a favore di un nascituro già concepito. Se è fatta a favore di un non concepito, i frutti sono riservati al donante sino al momento della nascita del donatario.
===== Art. 785 Donazione in riguardo di matrimonio =====
La donazione fatta in riguardo di un determinato futuro matrimonio (165 e seguenti, 437), sia dagli sposi tra loro, sia da altri a favore di uno o di entrambi gli sposi o dei figli nascituri da questi, si perfeziona senza bisogno che sia accettata, ma non produce effetto finché non segua il matrimonio (805).
L’annullamento del matrimonio (117 e seguenti) importa la nullità della donazione. Restano tuttavia salvi i diritti acquistati dai terzi di buona fede tra il giorno del matrimonio e il passaggio in giudicato (Cod. Proc. Civ. 324) della sentenza che dichiara la nullità del matrimonio. Il coniuge di buona fede (128) non è tenuto a restituire i frutti percepiti anteriormente alla domanda di annullamento del matrimonio (1 148).
La donazione in favore di figli nascituri rimane efficace per i figli rispetto ai quali si verificano gli effetti del matrimonio putativo.
===== Art. 786 Donazione a ente non riconosciuto =====
La donazione a favore di un ente non riconosciuto non ha efficacia, se entro un anno non è notificata al donante l’istanza per ottenere il riconoscimento (att. 2-3). La notificazione produce gli effetti indicati dall’ultimo comma dell’Art. 782.
Salvo diversa disposizione del donante, i frutti (820) maturati prima del riconoscimento sono riservati al donatario.
===== Art. 787 Errore sul motivo della donazione =====
La donazione può essere impugnata per errore sul motivo, sia esso di fatto o di diritto, quando il motivo risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante alla liberalità (1428 e seguenti).
===== Art. 788 Motivo illecito =====
Il motivo illecito rende nulla (799) la donazione quando risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante alla liberalità (1345, 1418 e seguenti).
===== Art. 789 Inadempimento o ritardo nell’esecuzione =====
Il donante, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’eseguire la donazione, è responsabile soltanto per dolo o per colpa grave.
===== Art. 790 Riserva di disporre di cose determinate =====
Quando il donante si è riservata la facoltà di disporre di qualche oggetto compreso nella donazione o di una determinata somma sui beni donati, e muore senza averne disposto, tale facoltà non può essere esercitata dagli eredi.
===== Art. 791 Condizione di riversibilità =====
Il donante può stipulare la riversibilità delle cose donate, sia per il caso di premorienza del solo donatario, sia per il caso di premorienza del donatario e dei suoi discendenti.
Nel caso in cui la donazione è fatta con generica indicazione della riversibilità, questa riguarda la premorienza, non solo del donatario, ma anche dei suoi discendenti.
Non si fa luogo a riversibilità che a beneficio del solo donante. Il patto a favore di altri si considera non apposto.
===== Art. 792 Effetti della riversibilità =====
Il patto di riversibilità produce l’effetto di risolvere tutte le alienazioni dei beni donati e di farli ritornare al donante liberi da ogni peso o ipoteca, ad eccezione dell’ipoteca iscritta a garanzia della dote (2817, 2832) o di altre convenzioni matrimoniali, quando gli altri beni del coniuge donatario non sono sufficienti, e nel caso soltanto in cui la donazione è stata fatta con lo stesso contratto matrimoniale da cui l’ipoteca risulta.
È valido il patto per cui la riversione non deve pregiudicare la quota di riserva spettante al coniuge superstite (540 e seguenti) sul patrimonio del donatario, compresi in esso i beni donati.
===== Art. 793 Donazione modale =====
La donazione può essere gravata da un onere.
Il donatario è tenuto all’adempimento dell’onere entro i limiti del valore della cosa donata. Per l’adempimento dell’onere può agire, oltre il donante, qualsiasi interessato, anche durante la vita del donante stesso.
La risoluzione per inadempimento dell’onere, se preveduta nell’atto di donazione, può essere domandata dal donante o dai suoi eredi (2652, n. 1).
===== Art. 794 Onere illecito o impossibile =====
L’onere illecito o impossibile si considera non apposto; rende tuttavia nulla (1421 e seguenti) la donazione se ne ha costituito il solo motivo determinante. (788).
===== Art. 795 Divieto di sostituzione =====
Nelle donazioni non sono permesse le sostituzioni se non nei casi e nei limiti stabiliti per gli atti di ultima volontà (688 e seguenti).
La nullità delle sostituzioni non importa nullità della donazione.
===== Art. 796 Riserva di usufrutto =====
È permesso al donante di riservare l’usufrutto (978 e seguenti, 1002-3) dei beni donati a proprio vantaggio, e dopo di lui a vantaggio di un’altra persona o anche di più persone, ma non successivamente (698).
===== Art. 797 Garanzia per evizione =====
Il donante è tenuto a garanzia verso il donatario, per l’evizione che questi può soffrire delle cose donate (1483 e seguenti), nei casi seguenti (168, 180):
se ha espressamente promesso la garanzia;
se l’evizione dipende dal dolo o dal fatto personale di lui;
se si tratta di donazione che impone oneri al donatario, o di donazione rimuneratoria (770), nei quali casi la garanzia è dovuta fino alla concorrenza dell’ammontare degli oneri o dell’entità delle prestazioni ricevute dal donante.
===== Art. 798 Responsabilità per vizi della cosa =====
Salvo patto speciale, la garanzia del donante non si estende ai vizi della cosa, a meno che il donante sia stato in dolo (1490 e seguenti).
===== Art. 799 Conferma ed esecuzione volontaria di donazioni nulle =====
La nullità della donazione da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa dal donante che, conoscendo la causa della nullità, hanno, dopo la morte di lui, confermato la donazione o vi hanno dato volontaria esecuzione (590, 1444).
=== Capo IV: Della revocazione delle donazioni ===
===== Art. 800 Cause di revocazione =====
La donazione può essere revocata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli.
===== Art. 801 Revocazione per ingratitudine =====
La domanda di revocazione per ingratitudine non può essere proposta (2652) che quando il donatario ha commesso uno dei fatti previsti dai nn. 1, 2 e 3 dell’Art. 463, ovvero si è reso colpevole d’ingiuria grave verso il donante o ha dolosamente arrecato grave pregiudizio al patrimonio di lui o gli ha rifiutato indebitamente gli alimenti dovuti ai sensi degli artt. 433, 435 e 436 (att. 141).
===== Art. 802 Termini e legittimazione ad agire =====
La domanda di revocazione per causa d’ingratitudine deve essere proposta dal donante o dai suoi eredi, contro il donatario o i suoi eredi, entro l’anno dal giorno in cui il donante è venuto a conoscenza del fatto che consente la revocazione (2964 e seguenti).
Se il donatario si è reso responsabile di omicidio volontario in persona del donante o gli ha dolosamente impedito di revocare la donazione, il termine per proporre l’azione è di un anno (2964) dal giorno in cui gli eredi hanno avuto notizia della causa di revocazione (att. 141).
===== Art. 803 Revocazione per sopravvenienza di figli =====
Le donazioni, fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti legittimi al tempo della donazione, possono essere revocate per la sopravvenienza o l’esistenza di un figlio o discendente legittimo del donante. Possono inoltre essere revocate per il riconoscimento di un figlio naturale (250 e seguenti), fatto entro due anni dalla donazione, salvo che si provi che al tempo della donazione il donante aveva notizia dell’esistenza del figlio.
La revocazione può essere domandata anche se il figlio donante era già concepito al tempo della donazione.
===== Art. 804 Termine per l’azione =====
L’azione di revocazione per sopravvenienza di figli deve essere proposta entro cinque anni (2964 e seguenti) dal giorno della nascita dell’ultimo figlio o discendente legittimo ovvero della notizia dell’esistenza del figlio o discendente ovvero dell’avvenuto riconoscimento del figlio naturale.
Il donante non può proporre o proseguire l’azione dopo la morte del figlio o del discendente.
===== Art. 805 Donazioni irrevocabili =====
Non possono revocarsi per causa d’ingratitudine, ne per sopravvenienza di figli, le donazioni rimuneratorie (770) e quelle fatte in riguardo di un determinato matrimonio (785).
===== Art. 806 Inammissibilità della rinunzia preventiva =====
Non è valida la rinunzia preventiva alla revocazione della donazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli.
===== Art. 807 Effetti della revocazione =====
Revocata la donazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli, il donatario deve restituire i beni in natura, se essi esistono ancora, e i frutti relativi, a partire dal giorno della domanda (1148; Cod. Proc. Civ. 163).
Se il donatario ha alienato i beni, deve restituirne il valore, avuto riguardo al tempo della domanda, e i frutti relativi, a partire dal giorno della domanda stessa.
===== Art. 808 Effetti nei riguardi dei terzi =====
La revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli non pregiudica i terzi che hanno acquistato diritti anteriormente alla domanda, salvi gli effetti della trascrizione di questa (2652, n. 1).
Il donatario, che prima della trascrizione della domanda di revocazione ha costituito sui beni donati diritti reali (959, 981, 1021 e seguenti) che ne diminuiscono il valore, deve indennizzare il donante della diminuzione di valore sofferta dai beni stessi.
===== Art. 809 Norme sulle donazioni applicabili ad altri atti di liberalità =====
Le liberalità, anche se risultano da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 (1237, 1411, 1875, 1920), sono soggette alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli (800 e seguenti), nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari (553 e seguenti).
Questa disposizione non si applica alle liberalità previste dal secondo comma dell’art. 770 e a quelle che a norma dell’art. 742 non sono soggette a collazione.
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Discussione:Dies Iræ
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OrbiliusMagister
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{{Infotesto
| Progetto= Cristianesimo
| Edizione = ''"Rime e prose"'', vol. II, del conte Giovanni Marchetti<br/>Sesta edizione italiana eseguita sull'ultima<br/>di Bologna, per cura dell'Autore.<br/>Napoli, Tipografia di Francesco Saverio Tornese, 1857
| Fonte = Trascrizione da [http://books.google.it/books?id=xgw_AAAAIAAJ&pg=RA1-PA73&dq=&lr=&as_brr=1#PRA1-PA73,M1 Google Libri]
| Eventuale nome del traduttore = [[Autore:Giovanni Marchetti|Giovanni Marchetti]]
| Nome del primo contributore = [[Utente:Gavagai|Gavagai]]
| Nome del rilettore = [[Utente:Accurimbono|Accurimbono]]
| Note =
}}
==Cristianesimo==
Data la natura di ''testo sacro'' tradotto sarei propenso a cambiare intestazione ed infotesto da "Duecento" a "Cristianesimo", ritenendo che più che il valore documentario di un'epoca ("Duecento" per una traduzione ottocentesca?) o letterario ("Letteratura" per un testo di valore più devozionale che poetico?). Attendo qualche cenno prima di muovermi autonomamente. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:57, 26 set 2008 (CEST)
:{{+1}} --[[Utente:Aubrey|<span style= "font-family:Palatino Linotype, serif" >Aubrey</span>]] [[Discussioni_utente:Aubrey|<span style= "font-family:Palatino Linotype, serif" >McFato</span>]] 19:05, 26 set 2008 (CEST)
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La sifilide
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Alex brollo
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| Nome e cognome del curatore =
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| Anno di traduzione =
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==Indice==
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Alex brollo
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Alex brollo
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Discussione:La sifilide
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Alex brollo
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/* ahia... */
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text/x-wiki
{{Infotesto
| Progetto= letteratura
| Edizione = ''"La sifilide"''. Poema di Girolamo Fracastoro<br/>Recato in altrettanti versi italiani, con note<br/>Venezia, 1842, Tipografia all'ancora<br/>Presso l'asilo infantile alla Pietà<br/>A spese ed in proprietà di G. A. Molena
| Fonte = Trascrizione da [http://books.google.it/books?id=QcsEAAAAYAAJ&pg=PA27&dq=&as_brr=1&ei=p5HWR_nOJIqEjAH939iFBA#PPA1,M1 Google Libri]
| Eventuale nome del traduttore =[[Autore:Filippo Scolari|Filippo Scolari]]
| Nome del primo contributore =[[User:Gavagai|Gavagai]] ([[User talk:Gavagai|disc.]])
| Note =
| Nome del rilettore =
}}
== ahia... ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] avanti col secondo, ma qui la cosa è tosta, mancano le note e altro.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:07, 9 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo]], non preoccuparti troppo: c' è perfino il testo latino... se ti riesce di effettuare il M&S del testo qui da noi bene, altrimenti amen. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 13:37, 9 ago 2022 (CEST)
:: @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] OK, faccio una cosa atipica, un M&S limitato al puro testo italiano in versi. Penso che il ns0, fatto questo, possa mantenere il SAL 75% e più. Poi vediamo. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 18:09, 9 ago 2022 (CEST)
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/* ahia... */
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{{Infotesto
| Progetto= letteratura
| Edizione = ''"La sifilide"''. Poema di Girolamo Fracastoro<br/>Recato in altrettanti versi italiani, con note<br/>Venezia, 1842, Tipografia all'ancora<br/>Presso l'asilo infantile alla Pietà<br/>A spese ed in proprietà di G. A. Molena
| Fonte = Trascrizione da [http://books.google.it/books?id=QcsEAAAAYAAJ&pg=PA27&dq=&as_brr=1&ei=p5HWR_nOJIqEjAH939iFBA#PPA1,M1 Google Libri]
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== ahia... ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] avanti col secondo, ma qui la cosa è tosta, mancano le note e altro.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:07, 9 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo]], non preoccuparti troppo: c' è perfino il testo latino... se ti riesce di effettuare il M&S del testo qui da noi bene, altrimenti amen. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 13:37, 9 ago 2022 (CEST)
:: @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] OK, faccio una cosa atipica, un M&S limitato al puro testo italiano in versi. Penso che il ns0, fatto questo, possa mantenere il SAL 75% e più. Poi vediamo. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 18:09, 9 ago 2022 (CEST)
::Ottimo! - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 22:59, 9 ago 2022 (CEST)
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Alex brollo
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text/x-wiki
<!--{{Infotesto
| Progetto= letteratura
| Edizione = ''"La sifilide"''. Poema di Girolamo Fracastoro<br/>Recato in altrettanti versi italiani, con note<br/>Venezia, 1842, Tipografia all'ancora<br/>Presso l'asilo infantile alla Pietà<br/>A spese ed in proprietà di G. A. Molena
| Fonte = Trascrizione da [http://books.google.it/books?id=QcsEAAAAYAAJ&pg=PA27&dq=&as_brr=1&ei=p5HWR_nOJIqEjAH939iFBA#PPA1,M1 Google Libri]
| Eventuale nome del traduttore =[[Autore:Filippo Scolari|Filippo Scolari]]
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== ahia... ==
@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] avanti col secondo, ma qui la cosa è tosta, mancano le note e altro.... [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 12:07, 9 ago 2022 (CEST)
:@[[Utente:Alex brollo]], non preoccuparti troppo: c' è perfino il testo latino... se ti riesce di effettuare il M&S del testo qui da noi bene, altrimenti amen. - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 13:37, 9 ago 2022 (CEST)
:: @[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] OK, faccio una cosa atipica, un M&S limitato al puro testo italiano in versi. Penso che il ns0, fatto questo, possa mantenere il SAL 75% e più. Poi vediamo. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 18:09, 9 ago 2022 (CEST)
::Ottimo! - '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 22:59, 9 ago 2022 (CEST)
:::@[[Utente:OrbiliusMagister|OrbiliusMagister]] Andata. Per il resto, faremo; le annotazioni comunque si riferiscono, mi pare, al testo latino. Lo sposto fra i M&S incompleti. --[[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 23:47, 9 ago 2022 (CEST)
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Progetto:Trascrizioni/Match and split
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
{{Intestazione indice progetto
|Titolo pagina=Match and split
|Nome categoria=
|Nome progetto=Trascrizioni
|Titolo livello 1=Match & Split
|Link livello 1=../Match and split
|Titolo livello 2=
|Link livello 2=
}}
Dal 5 ottobre 2010 il tool '''Match and split''' è installato e funzionante. Grazie anche alla [[Aiuto:Match and Split|pagina di aiuto]], questo tool permetterà di allineare it.source alle "sorelle maggiori" che da tempo hanno focalizzato il lavoro sulla procedura di trascrizione collaborativa (''proofread'').
Questa pagina serve a monitorare i lavori completati, quelli in corso e quelli da iniziare. La sua [[Discussioni progetto:Trascrizioni/Match and split|pagina di discussione]] può essere utilizzata per commenti, richieste e suggerimenti vari.
L'operazione di Match and Split è definita dalle seguenti fasi: dato il ritrovamento della fonte cartacea per un testo preesistente qui in nsPrincipale,
# {{Sc|Preliminari}}: Caricamento su commons del djvu o del pdf della fonte cartacea;
#*Creazione qui su Wikisource della pagina indice corrispondente;
# {{Sc|M&S vero e proprio}} Marcatura delle pagine in ns0 con i codici di Match
#*Avvio della procedura di Match tra testo in ns0 e strato OCR in nsPagina;
#*Avvio della procedura di split: il testo in ns0 è riversato in nsPagina;
# {{Sc|Riallineamento del SAL}}: Revisione del testo in nsPagina (aggiunta di intestazioni o formattazioni mancanti)
<big>'''Opere in cui il match and split è stato completato (solo da rileggere)'''</big>
* {{Testo|Lettera sul romanticismo a Cesare D'Azeglio}}
* {{Testo|Lettera a Giacinto Carena}}
* {{Testo|Lettera a Ruggero Bonghi intorno al vocabolario}}
* {{testo|Inni sacri}}
* {{testo|Specchio di vera penitenza}}
* {{Testo|Storia Segreta}}
* {{testo|Don Chisciotte della Mancia}}
* {{Testo|Le rive della Bormida nel 1794}}
* {{Testo|Fiore di virtù}}
<big>'''Opere in cui il match and split è avvenuto ma che devono essere controllate'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo; il nome della pagina indice; il nome/i nomi dell'utente/degli utenti che se ne occupa/occupano. A Match and split completato, le pagine possono essere passate nella categoria di testa (sopra).
* {{Testo|Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750}}
* {{testo|La geometria non-euclidea}}, scansione del volume in due file pdf presso [http://mathematica.sns.it/opere/136/ mathematica.sns.it]
* {{Testo|La guerra del vespro siciliano}}
<big>'''Opere per cui il Match and Split non è ancora avviato o è attuato parzialmente'''</big>
* {{testo|Della natura delle cose}}, la fonte è già caricata, gli indici sono presenti ma il M&S è rimasto a metà.
* {{testo|Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze}}
* {{testo|Il Saggiatore}}
* {{testo|Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono}}
* {{testo|Le mecaniche}}
* {{testo|Le operazioni del compasso geometrico e militare}}
* {{testo|Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano}}
* (segue)
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo; il nome della pagina indice.
<big>'''Opere in cui va caricata su commons la versione immagine'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo e la fonte (da verificare e caricare su Commons)
* {{testo|La sifilide}}, scansioni della fonte su {{GB|QcsEAAAAYAAJ}}
* {{Testo|Delle funzioni riproduttive negli animali}},scansioni della fonte su {{GB|o7NYAAAAcAAJ}}
* {{Testo|Vita di Frate Ginepro}}, scansioni da {{IA|ifiorettidisanct0000uns}}
* {{Testo|Azioni egregie operate in guerra}}, scansioni della fonte su {{GB|_O--YGTu0_sC}}
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
{{Intestazione indice progetto
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|Nome categoria=
|Nome progetto=Trascrizioni
|Titolo livello 1=Match & Split
|Link livello 1=../Match and split
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|Link livello 2=
}}
Dal 5 ottobre 2010 il tool '''Match and split''' è installato e funzionante. Grazie anche alla [[Aiuto:Match and Split|pagina di aiuto]], questo tool permetterà di allineare it.source alle "sorelle maggiori" che da tempo hanno focalizzato il lavoro sulla procedura di trascrizione collaborativa (''proofread'').
Questa pagina serve a monitorare i lavori completati, quelli in corso e quelli da iniziare. La sua [[Discussioni progetto:Trascrizioni/Match and split|pagina di discussione]] può essere utilizzata per commenti, richieste e suggerimenti vari.
L'operazione di Match and Split è definita dalle seguenti fasi: dato il ritrovamento della fonte cartacea per un testo preesistente qui in nsPrincipale,
# {{Sc|Preliminari}}: Caricamento su commons del djvu o del pdf della fonte cartacea;
#*Creazione qui su Wikisource della pagina indice corrispondente;
# {{Sc|M&S vero e proprio}} Marcatura delle pagine in ns0 con i codici di Match
#*Avvio della procedura di Match tra testo in ns0 e strato OCR in nsPagina;
#*Avvio della procedura di split: il testo in ns0 è riversato in nsPagina;
# {{Sc|Riallineamento del SAL}}: Revisione del testo in nsPagina (aggiunta di intestazioni o formattazioni mancanti)
<big>'''Opere in cui il match and split è stato completato (solo da rileggere)'''</big>
* {{Testo|Lettera sul romanticismo a Cesare D'Azeglio}}
* {{Testo|Lettera a Giacinto Carena}}
* {{Testo|Lettera a Ruggero Bonghi intorno al vocabolario}}
* {{testo|Inni sacri}}
* {{testo|Specchio di vera penitenza}}
* {{Testo|Storia Segreta}}
* {{testo|Don Chisciotte della Mancia}}
* {{Testo|Le rive della Bormida nel 1794}}
* {{Testo|Fiore di virtù}}
<big>'''Opere in cui il match and split è avvenuto ma che devono essere controllate'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo; il nome della pagina indice; il nome/i nomi dell'utente/degli utenti che se ne occupa/occupano. A Match and split completato, le pagine possono essere passate nella categoria di testa (sopra).
* {{Testo|Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750}}
* {{testo|La geometria non-euclidea}}, scansione del volume in due file pdf presso [http://mathematica.sns.it/opere/136/ mathematica.sns.it]
* {{Testo|La guerra del vespro siciliano}}
<big>'''Opere per cui il Match and Split non è ancora avviato o è attuato parzialmente'''</big>
* {{testo|Della natura delle cose}}, la fonte è già caricata, gli indici sono presenti ma il M&S è rimasto a metà.
* {{testo|Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze}}
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* (segue)
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<big>'''Opere in cui va caricata su commons la versione immagine'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo e la fonte (da verificare e caricare su Commons)
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Alex brollo
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Dal 5 ottobre 2010 il tool '''Match and split''' è installato e funzionante. Grazie anche alla [[Aiuto:Match and Split|pagina di aiuto]], questo tool permetterà di allineare it.source alle "sorelle maggiori" che da tempo hanno focalizzato il lavoro sulla procedura di trascrizione collaborativa (''proofread'').
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<big>'''Opere in cui il match and split è stato completato (solo da rileggere)'''</big>
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<big>'''Opere in cui il match and split è avvenuto ma che devono essere controllate'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo; il nome della pagina indice; il nome/i nomi dell'utente/degli utenti che se ne occupa/occupano. A Match and split completato, le pagine possono essere passate nella categoria di testa (sopra).
* {{Testo|Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750}}
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<big>'''Opere per cui il Match and Split non è ancora avviato o è attuato parzialmente'''</big>
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* (segue)
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OrbiliusMagister
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Dal 5 ottobre 2010 il tool '''Match and split''' è installato e funzionante. Grazie anche alla [[Aiuto:Match and Split|pagina di aiuto]], questo tool permetterà di allineare it.source alle "sorelle maggiori" che da tempo hanno focalizzato il lavoro sulla procedura di trascrizione collaborativa (''proofread'').
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L'operazione di Match and Split è definita dalle seguenti fasi: dato il ritrovamento della fonte cartacea per un testo preesistente qui in nsPrincipale,
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<big>'''Opere in cui il match and split è stato completato (solo da rileggere)'''</big>
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<big>'''Opere in cui il match and split è avvenuto ma che devono essere controllate'''</big>
Elencare sotto: il nome dell'opera con template testo; il nome della pagina indice; il nome/i nomi dell'utente/degli utenti che se ne occupa/occupano. A Match and split completato, le pagine possono essere passate nella categoria di testa (sopra).
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* {{testo|La geometria non-euclidea}}, scansione del volume in due file pdf presso [http://mathematica.sns.it/opere/136/ mathematica.sns.it]
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<big>'''Opere per cui il Match and Split non è ancora avviato o è attuato parzialmente'''</big>
* {{testo|Della natura delle cose}}, la fonte è già caricata, gli indici sono presenti ma il M&S è rimasto a metà.
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* (segue)
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<big>'''Opere in cui il match and split è stato completato (solo da rileggere)'''</big>
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Era in penser d'amor quand'i' trovai
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OrbiliusMagister
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Porto il SAL a SAL 100%
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Guido Cavalcanti<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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Dr Zimbu
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/* Riletta */
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|c o m m e n t o}}|761|}}</noinclude>similitudine, et è la seconda, quivi: ''E quando la Fortuna'' ec.; nella terza adatta le dette istorie alla similitudine sua, quivi: ''Ma nè di Tebe'' ec.; nella quarta induce lo Aretino, nominato nell’altro canto, a manifestare quali erano quelli rabbiosi, che correano così mordendo quelli della bolgia, quivi: ''E l’Aretin, che rimase'' ec.; nella quinta pone come intese poi a riguardare li altri della detta bolgia, quivi: ''E poi che i due rabbiosi'' ec. Divisa adunque la prima lezione, è da vedere ora la sentenzia litterale la quale è questa.
Prepone l’autore una istoria della città di Tebe che fu in Grecia, dicendo cosi: Nel tempo che Giunone, la quale li poeti fingono essere la maggiore tralle idee e moglie di Giove, era crucciata contra li Tebani, perchè una della casa reale di Tebe, chiamata Semele era stata concubina del marito suo Giove, venne tanta insania e furore sopra li regi tebani che spesse volte feciono grandissimi mali; et avvenne a quel tempo che Atamante re de’ Tebani, essendo diventato furioso, vedendo la moglie ch’avea nome Ino, venire verso lui con due figliuoli in braccio, l’uno dall’un braccio, e l’altro dall’altro, parveli in quella furia che la moglie fosse una leonessa e figliuoli fossono leoncini, e però gridò: Tendiamo le reti sì ch’io pigli la leonessa e’ leoncini; et accostatosi a lei prese l’uno ch’avea nome Learco, e roteandolo lo percosse ad un sasso; ond’ella per dolore corse sopra uno monte che pendea sopra il mare, e gittovisi dentro con l’altro figliuolo. E poi ch’à fatto menzione di questa istoria, fa menzione di quella di Troia, dicendo che quando Troia, città posta in Asia, fu disfatta da’ Greci, la reina Ecuba, veduto morto il suo marito; lo re Priamo e li figliuoli grandi, e Polissena e Polidoro ch’era piccolo, diventò insana; cioè pazza, e cominciò ad abbaiare e mordere come cane: tanto la rivolse lo dolore. Poi adatta queste due istorie al suo proposito, per trarre quindi la similitudine, dicendo che mai non si vidono tanto crude in alcuno le furie tebane e troiane, non che a pugnere uomini; ma eziandio bestie, quanto elli vide due ombre smorte e nude, che correano mordendo quelli della decima bolgia, come corre lo porco quando escie del porcile, e giunse l’uno a Capocchio, del quale fu detto di sopra, e morselo in sul nodo del collo e trascinollo per lo fondo della bolgia, tirandoselo col morso di rietro. E quello maestro Grisolino d’Arezzo, del quale fu detto di sopra, disse a Dante rimaso con grande paura che non facesse così a lui: Quel furioso, che va così conciando altrui, è Gianni Schicchi de’ Cavalcanti. Et allora Dante li disse: Io ti priego, se l’altro di quelli due rabbiosi non ti ficchi i denti a dosso, dimmi chi è quelli. Allora colui rispose che quella era Mirra scelerata, figliuola di Cinara re di Cipri che, innamorata del padre, si contrafece sì che giacque con lui, così come si contrafece Gianni Schicchi in messer Buoso Donati, per<noinclude>
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Dr Zimbu
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/* Riletta */
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|762|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxx.}}}}|[''v''. 1-12]}}</noinclude>guadagnare una cavalla ch’era nella torma di messer Buoso, che si chiamava la donna della torma e valea molti denari, facendo testamento in persona di messer Buoso. E dice l’autore che, poichè furono passati li due rabbiosi li quali avea attentamente ragguardati, elli si rivolse a ragguardare li altri miseri; e dice che vide uno fatto a modo di liuto: sì avea grosso il ventre, pur che non avesse avuta se non l’una gamba; e fìnge che costui era così diventato enfiato<ref>''Enfiato; infiato'', cambiato l’''i'' in ''e'' alla guisa de’ Provenzali. Così ''enteriora'' abbiamo visto più addietro, e Ciullo d’Alcamo cantò «Entendi bella, quel che ti dich’eo». ''E''.</ref>, per ch’era idropico, e faceali la idropesi tenere le labbra aperte, come fa l’etico che arrovescia<ref>C. M. che rinversa l’un labbro</ref> l’uno labbro in su, l’altro in giù per la sete. E qui è fine della lezione: ora è da vedere il testo con le allegorie.
C. XXX — ''v''. 1-12. In questi quattro ternari l’autor nostro induce una storia poetica, acciò che quindi e dell’altra, che inducerà nelli altri, traga<ref>''Traga; tragga'', da ''traiere'', dove gli antichi mutavano l’''i'' in due ''g'', e talora eziandio in uno solo. ''E''.</ref> la sua similitudine; e questa si è presa dall’{{AutoreCitato|Publio Ovidio Nasone|Ovidio}}, Metamorfoseos libro {{Sc|iii}}, ove l’autor tratta de’ fatti di Tebe, e questa è la storia. Poi che lo re Cadmo ebbe edificata Tebe, ebbe figliuoli e figliuole molto belle, tra le quali era Semele bellissima di tutte, della quale s’innamorò Giove, sommo delli dii, come fingono li poeti; et avuto effetto della sua intenzione, ella ingravidò da lui. Sentendo questo Giunone moglie di Giove, fu crucciata contra questa Semele e contra tutti li Tebani, sicchè molte volte fece loro danno assai; ma pur di Semele si puose in quore<ref>C. M. in cuore</ref> di vendicarsi; e preso l’abito di una vecchia, andò a stare con Semele come va l’una donna a visitar l’altra, e finsesi d’essere una delle sue parenti; e ragionando con lei dimesticamente, vennono a ragionamento dell’amor di Giove, et in questo ragionamento disse questa vecchia: Tu se’ ingannata da Giove, elli non ti vuole bene come a Giunone: imperò che s’elli ti volesse bene, elli ti si mosterrebbe in quella forma ch’elli si mostra a Giunone, quando si congiugne con lei, che mai non vedesti sì maravigliosa cosa; e però fatti promettere che qualunque grazia tu li domanderai, elli te la debba osservare; e fatta la promessione, li domanda questo, e avrai da lui quello che mai non ài avuto. A Semele entrò in cuore questo fatto; e venendo Giove a lei, si fece promettere una grazia quale ella addomandasse; e fatta la promessione, li domandò ch’elli si giugnesse a lei in quella forma, ch’elli si congiugnea con Giunone. Udita Giove la domanda, si pentè d’aver fatta la promessione; et osservando la promessione, si congiunse con lei in ispezie di fulminante, come si congiugnea con Giunone; e non<noinclude>
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Dr Zimbu
1553
/* Riletta */
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|[''v''. 13-21]|{{Sc|c o m m e n t o}}|763|}}</noinclude>potendo Semele sostenere così fatta spezie, perch’era mortale, si morì. Allora Giove li fece trarre il fanciullo del ventre, e portollo elli tanto, che vennono li nove mesi; e compiuto il tempo, lo diede a nutricare ad Ino sirocchia di Semele e moglie di Atamante re di Tebe. E poi che fu allevato, fu fatto questo fanciullo idio e fu chiamato Bacco; e gloriandosi Ino et Atamante di avere allevato sì fatto figliuolo, Giunone crucciata mandò furore in Atamante et in Ino tanto, che Atamante vedendo venire la moglie Ino con due suoi figliuoli in braccio, che l’uno avea nome Learco e l’altro Melicerta, parendoli che la moglie fosse leonessa, e figliuoli due leoncini, gridò a’ suoi che tendesseno le reti per pigliare la leonessa et i leoncini, e prese Learco e roteandolo lo percosse ad un sasso. Onde Ino vedendo questo, fuggì con l’altro alla marina e d’in su uno scoglio si gittò con esso in mare accesa di furore, e secondo li poeti furono fatti idii del mare, ella chiamata Leucotoe e il figliuolo Palemona. Ora dice così il testo: ''Nel tempo che Giunone''; cioè la moglie di Giove, ''era crucciata Per Semele''; figliuola del re Cadmo e concubina di Giove, ''contra il sangue tebano''; cioè contra li reali di Tebe, e per loro contro a tutto il popolo, ''Come mostrò una et altra fiata''; cioè come dimostrò due volte o più, ''Atamante''; marito d’Ino che fu sirocchia di Semele, ''divenne tanto insano''; cioè diventò tanto furioso, ''Che veggendo la moglie''; cioè Ino, ''con due figli''; cioè Learco e Melicerta, ''Andar carcata''; cioè caricata, ''da ciascuna mano''; cioè da ciascun braccio, ''Gridò''; a’ suoi: ''Tendiam le reti'': imperò che in quella furia gli parea essere a cacciare, ''sì ch’io pigli La leonessa e’ leoncini al varco''; della moglie e de’ figliuoli dicea che li pareano diventati la leonessa e leoncini; ''E poi distese i dispietati artigli''; delle mani sue, parla l’autore, le quali chiama artigli perchè feciono crudeltà, come fanno li uccelli feritori, ''Prendendo l’un ch’avea nome Learco''; de’ due suoi figliuoli, ''E roteollo e percosselo ad un sasso''; lo detto suo figliuolo Learco, ''E quella''; cioè Ino sua moglie, ''s’annegò con l’altro carco'', perch’ella si gittò in mare con l’altro figliuolo, ch’avea nome Melicerta.
C. XXX — ''v''. 13-21. In questi tre ternari l’autor nostro premette una istoria<ref>C. M. un’altra istoria poetica,</ref> poetica, acciò che da questa e da quella di sopra tragga la sua similitudine poi; e la storia è questa. Quando Troia, contrada e città posta in Asia, fu disfatta; presa e disfatta la città, che n’era capo, per li Greci et ucciso lo re Priamo co’ suoi figliuoli, come di ciò è fatto menzione di sopra cap. {{Sc|i}}, rimase la reina Ecuba, ch’era fatta<ref>C. M. era stata moglie</ref> moglie del re Priamo, presa insieme con una sua figliuola che si chiamava Polissena, la quale fu morta e sacrificata da<noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|764|{{Sc|i n f e r n o{{spazi|3}}{{Sc|xxx.}}}}|[''v''. 13-21]}}</noinclude>Pirro alla sepoltura<ref>C. M. da Pirro al tumulo d’Achille</ref> d’Achille suo padre, in vendetta della morte sua, poichè pervennono in Tracia, sì come pone Ovidio, Metamorfosi nel libro 13. Onde Ecuba andando alla piaggia del mare, per lavare lo corpo di Polissena, vide lo corpo del suo figliuolo Polidoro, lo quale essendo piccolino nel tempo della guerra, lo re Priamo avea accomandato al re Polinestorre re di Tracia, cognato suo, e mandatogliele con molto tesoro acciò che, se le cose andassono avverse, questo Polidoro rifacesse la città e lo regno. Ma questo Polinestor non servò<ref>C. M. non tenne fede;</ref> la fede; e per avere lo tesoro, udita la destruzione di Troia, fece uccidere questo Polidoro alla riva del mare occultamente; per la qual cosa la reina Ecuba, vedendo lo suo figliuolo piccolino morto, nel quale restava la sua speranza, diventò furiosa e cominciò ad abbaiare<ref>C. M. cominciò a latrare come cane,</ref> come cane, e mordere qualunque trovava dinanzi da sè; onde i Greci la feciono lapidare, e secondo che pone Ovidio, ella andò così furiosa al detto re Polinestor, e trasseli li occhi della testa e straccioni la faccia. Dice adunque così lo testo: ''E quando la Fortuna''; cioè la ministra di Dio, della quale fu detto di sopra cap. {{Sc|vii}}, ''volse in basso''; cioè arrecò a disfacimento, ''L’altezza de’ Troian''; ch’erano signori d’Asia, ''che tutto ardiva''; questo dice, perchè i Troiani aveano prima combattuto li Greci, e tolto Elena, ''Sì che insieme col regno il re fu casso''; cioè fatto vano, e venne meno ad una ora il re, e il regno disfatto, ''Ecuba trista''; perduti tanti figliuoli, ''misera''; perduta tanta felicità, ''e cattiva''; perch’era menata dal re Ulisse serva, come l’altre Troiane, ''Poscia che vide Polissena morta''; la qual fu sacrificata da Pirro all’avello<ref>C. M. al tumulo d’Achille,</ref> d’Achille, come già è detto, ''E del suo Polidoro''; il quale avea dato in guardia al suo fratello Polinestor, come è detto, ''in su la riva Del mar'': imperò che sulla piaggia vide il corpo di Polidoro, che si scoperse dalla terra ov’era coperto, secondo che finge Ovidio nel detto libro e luogo, ''si fu la dolorosa accorta''; cioè ch’allora si avvide ch’era morto, ''Fuorsennata''; cioè fuor del senno, cioè insanita e diventata furiosa; questo è vocabolo fiorentino, ''latrò''; cioè abbaiò, ''sì come cane''; cioè siccome abbaia il cane: ''Tanto dolor le fe la mente torta''; dalla ragione umana, vincendo lo dolore la ragione.
C. XXX — ''v''. 22-30. In questi tre ternari l’autor nostro adatta le dette due istorie alla sua similitudine che vuol fare et alla sua intenzione, dicendo che, benchè i Tebani fossono furiosi come detto è, e benché i Troiani fossono furiosi come detto è d’Ecuba; mai non si vidono tanto crudeli li furiosi Tebani e Troiani, quanto questi due ch’elli pone che vedesse andare correndo per la {{sc|x}} bolgia, {{Pt|strac-|}}<noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|[''v''. 22-30]|{{Sc|c o m m e n t o}}|765|}}</noinclude>{{Pt|ciando|stracciando}} e mordendo li altri; e però dice: ''Ma nè di Tebe furie, nè troiane Si vider mai in alcun''; cioè contra ad alcun, ''tanto crude''; cioè tanto crudeli, ''No in punger bestie''; che sarebbe minor crudeltà, ''non che membra umane''; che è maggior crudeltà, ''Quant’io''; cioè Dante, ''vidi in due ombre smorte e nude''; pone che vedesse due anime così furiose e pone loro due accidenti; cioè ch’erano ''smorte'' et erano ''nude''. E queste due condizioni si convengono a chi per furore d’avere, o d’amore, s’induce a falsificare sè in altrui, o altrui in sè, come fanno questi due de’ quali si dirà di sotto; e sì per conveniente pena nell’inferno: imperò che degna cosa è che chi per ispogliare altrui di sua onestà, o di suo avere, se è falsificato, sia nudo e privato di quello e d’ogni altro bene: e come la paura, che è significata per lo smortore, l’àe accompagnato in questa vita; così l’accompagni sempre nelle pene. E sì ancora per allegoria si convengono questi due accidenti a quelli del mondo: imperò che, quando l’uomo è sì<ref>C. M. sì iunto dal furore</ref> vinto dal furore dell’amore e dell’avere, ch’elli s’arreca a falsificare sè o in altrui, o altrui in sè, elli è sempre in paura che non si scuopra la sua falsità, et è nudo d’ogni difensione<ref>C. M. defensione</ref> quanto al vero e quanto alla sua coscienzia, benchè si veli e cuopra alli altri. ''Che mordendo correvan di quel modo''; due altre condizioni nota qui; correre e mordere, le quali benchè sieno segno di furore, ancora si convengono loro per pena nell’inferno: imperò che degna cosa è che chi à avuto tanto furore, che à sostenuto di falsificarsi e non à riposato quel furore, sempre corra e mai non abbia posa: e come è stato bestiale in questa vita, mordendo l’onestà e facultà altrui; cioè togliendo con violenza e con inganno; così rimanga sempre in quella bestialità. Ma per allegoria di quelli del mondo puose queste condizioni: imperò che mai non si riposano li lor pensieri; ma sempre corrono e mordono sempre la facultà e l’onestà altrui: e che l’autor ponga in questi così fatti, che falsificano sè in altrui, o altrui in sè, lo furore che non l’à posto nelli altri, non è senza cagione: imperocchè falsificare li metalli o altre cose è minor peccato, e puossi dire che sia infermità di mente, e però à finto che sieno infermi. Ma falsificare sè medesimo è maggior peccato, e puossi dire che al tutto è uscito della ragione chi tal cosa adopera; e però convenientemente l’autor finge alli dannati debita pena, poi che l’ànno avuto in questa vita, che l’abbiano ancora di là. E notantemente per allegoria mostra in quelli del mondo essere maggiore errore, in quanto li finge furiosi per rispetto delli altri che finge essere infermi di varie infermità, sì come varie circustanzie può avere sì fatto peccato. ''Che porco, quando del porcil si schiude''; qui fa<noinclude>
<references/></noinclude>
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Pagina:Archivio Glottologico Italiano, vol. 10, 1886-88.djvu/455
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<noinclude><pagequality level="1" user="Mizardellorsa" /></noinclude>{{Centrato|{{x-larger|NOTERELLE}}}}
{{Centrato|di}}
{{Centrato|'''G. I. A.'''}}
{{Centrato|1. Il dialetto tergestino}}
La descrizione dei ’territorj friulani’, che si conteneva nei ''Saggi
ladini'', moveva dalla sezione intitolata: Lido adriatico orientale,
così registrando le due varietà che vi spettano (Arch. I 479): ''1. Dialetto friulano di Trieste, ora spento, che dico tergestino, per
distinguerlo dal triestino, che oggi è l’appellativo del vernacolo
veneto di quella città. - 2. Dialetto friulano di Muggia, ormai sullo
spegnersi'' <ref>1 Non ostante che entrambe le varietà, nella condizione in cui ci è dato riconoscerle, abbiano molto sofferto, in ispecie per gl’influssi veneti, come appunto era notato nel detto luogo, il loro posto era e rimane giustamente fissato nel modo che ivi si faceva. Il complesso dei caratteri ladini o friulani che spiccano in codeste varietà e in ispecie la piena permanenza del ca da CA e la permanenza del -s di plurale, le distaccava manifestamente dalle varietà che si raccoglievano nella serie intitolata ’Ladino e Veneto’ e le assegnava inconfutabilmente al territorio in cui eran collocate.</ref>^ — Per la varietà di Muggia (borgata che rimane a breve
distanza da Trieste e nella direzione verso Capodistria), la qual varietà
bastava da sola a accertar la friulanità di un antico filone che
si estendesse al lido adriatico orientale, avevo i saggi fornitimi da un
egregio uomo, nativo di colà, che li raccoglieva con molta cura dal
labbro degli ultimi che ancora la parlassero <ref name=pag455>Codesto muggese egregio era l’ingegnere Vallon, membro del Consiglio municipale di Trieste (1870). Più innanzi, mi varrò largamente della sua raccolta (già messa a profitto anche ne’ Saggi ladini), conservandone la ortografia originale. Vi si contiene anche una strofa, il cui primo verso così suona: <poem> Mugla biella di quattro ciantons! </poem> Del rimanente, questo degli ’ultimi parlanti’ altro non poteva essere se</ref>. Per la varietà della
^<noinclude>
<references/></noinclude>
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Pagina:Archivio Glottologico Italiano, vol. 10, 1886-88.djvu/456
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<noinclude><pagequality level="1" user="Mizardellorsa" />{{RigaIntestazione|448|Ascoli,|}}</noinclude>vecchia Trieste, non avevo allora se non i Dialoghi del Mainati (1828). Che questi fossero genuini, m’era accertato, oltre e ben più che dagli argomenti d’ordine tradizionale, di cui tocco più in là, dall’insistente esame critico, a cui naturalmente io li aveva sottoposti, e in ispecie dalla piena congruenza che interveniva tra essi Dialoghi e i saggi viventi che m’arrivavano da Muggia. Di che pure è riparlato qui appresso.
Più tardi, ebbi notizia di un sonetto Tergestino’, che risaliva al 1796 e pur esso entrava pienissimamente nel complesso organico a cui spettano i Dialoghi e la varietà evanescente dell’antica Muggia <ref>1 Ecco il sonetto, con la sua introduzione e la firma, pubblicatosi primamente nel periodico triestino ’Il Caleidoscopio’ anno IV, num. xxvi (22 giugno 1845): Memoria per i nuestri posterior della consacrazion fatta nella Glesia de san Zust martir del nov Vesco, nella persona dell’illustrissem e reverendissem monsignor Ignazio Gaetam de Buset in Fraistemberg ecc., nel am 1796. - Sonet. - Nell’am, che chi de sora se segna, - Ai ventitrei Ottober, de domenia el di - Nella Glesia Cattedral, che avem noi chi,- El Vesco, nuestro Pastor, an consacra — So Altezza Brigido Consacrator se sta - Arzivesco de Lubiana e a Lui unì- Come prescriv la Glesia, an assisti, - El Vesco Derbe, col Degam mitra — Ai treni de chel am e de chel mess - Monsignor consacra Vesco de Buset - Ai chiolt el spiritual e temporal possess. — Grazia riendem, e preghèm Dio benedet - Che lo conservis de ogni mal illes - Col Papa e Jmperator che l’ara elett. — In segn de venerazion, tm ver Triestin. — G. M. B.</ref>. Ho anche, più tardi ancora, avuto occasione di considerare la versione ’istriana’, che è tra le sa‘lviatesche’ della novella di Boccaccio (secolo XVI), e di avvertire perciò le attinenze singolari che corron tra quel testo e i saggi del vecchio linguaggio tergestino e muggese (Arch. Ili 469 sgg.). La molta cortesia dell’abate Cavalli mi aveva intanto aggiunto una buona messe di spogli dialettali, che l’egregio uomo era venuto fa-
<ref follow=pag447>non un modo di dire per gli ultimi che ancora avessero più o men puro l’antico linguaggio. Ma spento non deve egli sicuramente essere ancora; e farebbe davvero opera benemerita chi si studiasse di raccoglierne e ordinarne le reliquie. Intanto va ringraziato l’autore della pregevole versione ‘muggese’ che è nella collezione del Papanti (Giacomo Zaccaria), pubblicatasi nel 1875; della qual versione pur mi varrò, citandola per ‘nov. boccacc.’ o semplicemente per ’Novella’.</ref><noinclude>
<references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="Mizardellorsa" />{{RigaIntestazione|448|Ascoli,|}}</noinclude>vecchia Trieste, non avevo allora se non i Dialoghi del Mainati (1828). Che questi fossero genuini, m’era accertato, oltre e ben più che dagli argomenti d’ordine tradizionale, di cui tocco più in là, dall’insistente esame critico, a cui naturalmente io li aveva sottoposti, e in ispecie dalla piena congruenza che interveniva tra essi Dialoghi e i saggi viventi che m’arrivavano da Muggia. Di che pure è riparlato qui appresso.
Più tardi, ebbi notizia di un sonetto Tergestino’, che risaliva al 1796 e pur esso entrava pienissimamente nel complesso organico a cui spettano i Dialoghi e la varietà evanescente dell’antica Muggia <ref>1 Ecco il sonetto, con la sua introduzione e la firma, pubblicatosi primamente nel periodico triestino ’Il Caleidoscopio’ anno IV, num. xxvi (22 giugno 1845): Memoria per i nuestri posterior della consacrazion fatta nella Glesia de san Zust martir del nov Vesco, nella persona dell’illustrissem e reverendissem monsignor Ignazio Gaetam de Buset in Fraistemberg ecc., nel am 1796. - Sonet. - Nell’am, che chi de sora se segna, - Ai ventitrei Ottober, de domenia el di - Nella Glesia Cattedral, che avem noi chi,- El Vesco, nuestro Pastor, an consacra — So Altezza Brigido Consacrator se sta - Arzivesco de Lubiana e a Lui unì- Come prescriv la Glesia, an assisti, - El Vesco Derbe, col Degam mitra — Ai treni de chel am e de chel mess - Monsignor consacra Vesco de Buset - Ai chiolt el spiritual e temporal possess. — Grazia riendem, e preghèm Dio benedet - Che lo conservis de ogni mal illes - Col Papa e Jmperator che l’ara elett. — In segn de venerazion, tm ver Triestin. — G. M. B.</ref>. Ho anche, più tardi ancora, avuto occasione di considerare la versione ’istriana’, che è tra le sa‘lviatesche’ della novella di Boccaccio (secolo XVI), e di avvertire perciò le attinenze singolari che corron tra quel testo e i saggi del vecchio linguaggio tergestino e muggese (Arch. Ili 469 sgg.). La molta cortesia dell’abate Cavalli mi aveva intanto aggiunto una buona messe di spogli dialettali, che l’egregio uomo era venuto fa-
<ref follow=pag455>non un modo di dire per gli ultimi che ancora avessero più o men puro l’antico linguaggio. Ma spento non deve egli sicuramente essere ancora; e farebbe davvero opera benemerita chi si studiasse di raccoglierne e ordinarne le reliquie. Intanto va ringraziato l’autore della pregevole versione ‘muggese’ che è nella collezione del Papanti (Giacomo Zaccaria), pubblicatasi nel 1875; della qual versione pur mi varrò, citandola per ‘nov. boccacc.’ o semplicemente per ’Novella’.</ref><noinclude>
<references/></noinclude>
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Discussione:Novella I.9 del Decameron in dialetto muglisano
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text/x-wiki
{{Infotesto
| Edizione = Giovanni Papanti, ''I parlari italiani in Certaldo<br />alla festa del V centenario<br />di Messer Giovanni Boccacci;<br />omaggio di Giovanni Papanti
| Fonte = [https://archive.org/details/iparlariitalian00villgoog/page/614/mode/2up Internet Archive]
| Eventuale nome del traduttore =
| Nome del primo contributore = [[utente:Mizardellorsa|Mizar]]
| Progetto = letteratura
| Nome del rilettore =
| Note = Uno scampolo citato da G. Devoto è in [https://archive.org/details/idialettidellere00devo/page/53/mode/1up questo saggio].
Giacomo Zaccaria fu il Podestà di Muggia che alla fine del XIX secolo ha raccolto una traduzione della novella per conto del il Papanti. Non è certo che sia l'autore della traduzione, anzi.
}}
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Lirici marinisti/VI/Giuseppe Salomoni
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Giuseppe Salomoni<section end="autore"/>
<section begin="sottotitolo"/>Liriche di Giuseppe Salomoni<section end="sottotitolo"/>
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<section begin="arg"/>Da definire<section end="arg"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Qualità|avz=100%|data=26 settembre 2021|arg=Da definire}}{{IncludiIntestazione|autore=Giuseppe Salomoni|sottotitolo=Liriche di Giuseppe Salomoni|prec=../../VI|succ=../Bernardo Morando}}
<pages index="AA. VV. - Lirici marinisti.djvu" from=275 to=275 fromsection="s1" tosection="s1" />
== Indice ==
*{{Testo|Qual or ti miro, oh che gentil diletto|I. Brama di forze moltiplicate|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Famelica d'amor, l'amato volto|II. I morsi e i baci|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Mentre la bella bocca onde talora|III. Le fragole e la bocca|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Voi del nome crudel ben degna siete|IV. Antea|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|L'uomo è nel mondo un corridore umano|V. Dio, auriga delle anime|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Oh quanto a te degg'io|VI. Il pensiero amoroso|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Qualor da bel desio|VII. Il riso|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Già menzognero e stolto|VIII. Palinodia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|O rauca sì, ma rara|IX. Alla cicala|tipo=tradizionale}}
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Lirici marinisti/VI/Bernardo Morando
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Bernardo Morando<section end="autore"/>
<section begin="sottotitolo"/>Liriche di Bernardo Morando<section end="sottotitolo"/>
<section begin="prec"/>../Giuseppe Salomoni<section end="prec"/>
<section begin="succ"/>../Antonio Giulio Brignole-Sale<section end="succ"/>
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<section begin="arg"/>Da definire<section end="arg"/>
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<pages index="AA. VV. - Lirici marinisti.djvu" from=290 to=305 fromsection="s1" tosection="s1" />
== Indice ==
*{{Testo|O coralli animati, o vive rose|I. Invocazione del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ecco pur, labra mie, rompeste al fine|II. Inappagamento del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ben veggo, Amor, che il cibo tuo non pasce,|III. Inappagamento in amore|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Lascia di coglier piú ricci pungenti|IV. La raccoglitrice di castagne|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|China il sen, nuda il braccio, accesa il volto|V. La filatrice di seta|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto|VI. L'amante e gli occhiali|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Contra il tiranno Amor, cui sempre cura|VII. Il dente mancante|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Mentre con umil socco in cari accenti |VIII. Alla comica Lavinia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quando al lugubre suon di mesti accenti|IX. A un'attrice di traedia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Vaga ninfa del Tebro, a cui concessa|X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Su la cetra del ciel poeta il sole|XI. Invito alla poesia nel'inizo dell'estate|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Non piú benigni raggi, amici lampi|XII. Estate e vino|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quanto la terra e l'acque han di gentile|XIII. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Clizio, un animo grande, un petto augusto|XIV. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Folle volgo, che fai? Deh, chi t’ha tratto|XV. Le maschere di carnevale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|O de le umane brame |XVI. L'avarizia punita|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Luminosa stendea l’aurora in cielo|XVII. La visitazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Dai tenebrosi orrori |XVIII. Per monacazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Di che stupido t’ammiri|XIX. Il nano di nome «Amico»|tipo=tradizionale}}
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Bernardo Morando<section end="autore"/>
<section begin="sottotitolo"/>Liriche di Bernardo Morando<section end="sottotitolo"/>
<section begin="prec"/>../Giuseppe Salomoni<section end="prec"/>
<section begin="succ"/>../Antonio Giulio Brignole-Sale<section end="succ"/>
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<section begin="arg"/>Da definire<section end="arg"/>
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== Indice ==
*{{Testo|O coralli animati, o vive rose|I. Invocazione del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ecco pur, labra mie, rompeste al fine|II. Inappagamento del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ben veggo, Amor, che il cibo tuo non pasce|III. Inappagamento in amore|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Lascia di coglier piú ricci pungenti|IV. La raccoglitrice di castagne|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|China il sen, nuda il braccio, accesa il volto|V. La filatrice di seta|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto|VI. L'amante e gli occhiali|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Contra il tiranno Amor, cui sempre cura|VII. Il dente mancante|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Mentre con umil socco in cari accenti|VIII. Alla comica Lavinia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quando al lugubre suon di mesti accenti|IX. A un'attrice di tragedia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Vaga ninfa del Tebro, a cui concessa|X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Su la cetra del ciel poeta il sole|XI. Invito alla poesia nel'inizo dell'estate|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Non piú benigni raggi, amici lampi|XII. Estate e vino|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quanto la terra e l'acque han di gentile|XIII. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Clizio, un animo grande, un petto augusto|XIV. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Folle volgo, che fai? Deh, chi t’ha tratto|XV. Le maschere di carnevale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|O de le umane brame|XVI. L'avarizia punita|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Luminosa stendea l’aurora in cielo|XVII. La visitazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Dai tenebrosi orrori|XVIII. Per monacazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Di che stupido t’ammiri|XIX. Il nano di nome «Amico»|tipo=tradizionale}}
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== Indice ==
*{{Testo|O coralli animati, o vive rose|I. Invocazione del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ecco pur, labra mie, rompeste al fine|II. Inappagamento del bacio|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Ben veggo, Amor, che il cibo tuo non pasce|III. Inappagamento in amore|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Lascia di coglier piú ricci pungenti|IV. La raccoglitrice di castagne|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|China il sen, nuda il braccio, accesa il volto|V. La filatrice di seta|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto|VI. L'amante e gli occhiali|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Contra il tiranno Amor, cui sempre cura|VII. Il dente mancante|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Mentre con umil socco in cari accenti|VIII. Alla comica Lavinia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quando al lugubre suon di mesti accenti|IX. A un'attrice di tragedia|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Vaga ninfa del Tebro, a cui concessa|X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Su la cetra del ciel poeta il sole|XI. Invito alla poesia nel'inizo dell'estate|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Non piú benigni raggi, amici lampi|XII. Estate e vino|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Quanto la terra e l'acque han di gentile|XIII. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Clizio, un animo grande, un petto augusto|XIV. A Giovan Vincenzo Imperiale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Folle volgo, che fai? Deh, chi t’ha tratto|XV. Le maschere di carnevale|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|O de le umane brame|XVI. L'avarizia punita|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Luminosa stendea l’aurora in cielo|XVII. La visitazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Dai tenebrosi orrori|XVIII. Per monacazione|tipo=tradizionale}}
*{{Testo|Di che stupido t’ammiri|XIX. Il nano di nome «Amico»|tipo=tradizionale}}
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Lirici marinisti/VI/Antonio Giulio Brignole-Sale
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="autore"/>Anton Giulio Brignole Sale<section end="autore"/>
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== Indice ==
*{{Testo|La man che ne le dita ha le quadrella|I. La cortigiana frustata|tipo=tradizionale}}
**1. La man che ne le dita ha le quadrella
**2. Troppo tenero cor, perché, commosso
**3. Per qual sua colpa essaminata e vinta
**4. Verso i giardin di Cipro a voi sciogliete
*{{Testo|De l'arrabbiato can sotto i latrati|II. Ricordi di una morta|tipo=tradizionale}}
* {{Testo|Chi nel regno almo d'Amore|III. Contro la fedeltà in amore}}
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Autore:Giambattista Pucci
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Candalua
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<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome"/>Giambattista<section end="Nome"/>
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<section begin="Attività"/>poeta<section end="Attività"/>
<section begin="Nazionalità"/>italiano<section end="Nazionalità"/>
</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Autore
| Nome = Giambattista
| Cognome = Pucci
| Attività = poeta
| Nazionalità = italiano
| Professione e nazionalità =
}}
== Opere ==
* {{Testo|Lirici marinisti/IV/Giambattista Pucci|Liriche di Giambattista Pucci}}
** {{Testo|Ardo quando talor vien ch'io rimiri}}
** {{Testo|Dentro al candido sen, tra le mammelle}}
** {{Testo|Era il vel di madonna al volto e al crine}}
[[Categoria:Autori marinisti]]
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È utile qui dire, che nessun bimbo può essere assolutamente brutto; che nessun bimbo ispira una completa ripugnanza. Se sono malaticci, hanno la dolcezza di una malattia; se sono rachitici, hanno la malinconia attraente di un corpo condannato; se sono precoci, hanno quel sapore strano e acre delle piccole anime, già troppo grandi. Infine potranno avere il naso camuso o gli occhi piccoli o la bocca grande — ma avranno sempre qualche cosa bella: o la guancia rotonda o la delicatezza della pelle o la morbidezza dei capelli, o avranno, nello<noinclude>
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insieme, tanta grazia soave, tanta freschezza, tanta gioventù che vale come bellezza. Vi sono uomini brutti e vi sono uomini ripugnanti: ma Dio volle che non vi fosse infanzia senza sorriso e senza fascino di amore.
Così, io credo la più facile, la più deliziosa cosa per una madre, vestire il proprio bimbo. Vi deve essere una gioia minuta, ma molto acuta, nel preparare le leggiadre ed eleganti cose che renderanno più bella la propria creatura; credo che debba essere una delle contentezze più intense della maternità, questa cura assidua e immaginosa, di adornare graziosamente questo essere piccoletto e bello.
Quando, per la via, s’incontra una mammina col bimbo, se ella è più elegante del suo bimbo, bisogna diffidare un poco di quella madre. Quando il bimbo è addirittura goffo, trascurato, non riparato contro il freddo, allora il senso della maternità è molto debole in quella madre. Quando il bimbo ha un abituccio gramo, simile a quello ricco della madre, vale a dire<noinclude></noinclude>
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''combinato'' coi ritagli — allora questa madre ha il cuore deplorabilmente inaridito dalla vanità e guastato da una feroce avarizia. Invece ho conosciuto una madre, ancora giovane, ancora bella, che vestiva sempre la lana, mandando fuori la sua creatura vestita di seta; che non aveva più vanità per sè; che rientrava da ogni passeggiata, riportando un nastro, un cappellino, una mantellina per la sua creatura, che passava le ore a fantasticare qualche cosa di nuovo e di bello, sempre per la sua creatura; che si tormentava, se ne vedeva un’altra meglio vestita; che quando le dicevano: ''come è graziosa oggi la vostra creatura!'' impallidiva di gioia, sorrideva e soggiungeva subito:
— Ora, ora, le sto facendo un altro vestitino, più bello ancora, con cui vedrete come sarà carina.
E non dite che questa sia vanità riflessa. O ditelo che sia e rallegratevene. Perchè molti vestitini fatti in casa, molti sottanini di maglia, molte camiciuole ricamate, molti colletti {{Pt|smer-|}}<noinclude></noinclude>
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lati, sono il pericolo evitato, sono il peccato sfuggito, sono il dramma scongiurato.
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La moda è sempre semplice per i bimbi e per le bimbe. Quei corpi piccini sono così puri di linee o così graziosamente grassotti, che non hanno bisogno di tutte le balze, di tutte le pieghe, di tutte le arricciature di cui abbiamo bisogno — o fingiamo di avere — noi altre donne. Una bimba di sette anni, che porta la gonna sgheronata, i ''pouffs'' sui fianchi e il grosso ciuffo dietro, è sicuramente una stonatura. Intanto se ne vedono spesso, di queste bambole troppo bene vestite: è il modo di renderle ridicole e molto infelici. Se per noi altre persone grandi è una serie di problemi difficoltosi, entrare nelle vesti, poi affibbiarle, poi respirarci, poi camminarci, poi sedersi, poi salire in carrozza — caso gravissimo, quasi sempre con risultato di stringhe rotte e di nastri scuciti<noinclude></noinclude>
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— figuratevi quanto possa essere misera una bambina, dentro una di queste armature medievali, che scricchiolano a ogni movimento. La tunica liscia, lievemente assettata, abbottonata sul dorso, che cade sopra un gonnellino rotondo, a pieghe larghe e profonde, è sempre l’abito più bello per le fanciullette. Così mentre rimangono libere nei loro movimenti, quella linea semplice, allungata, le veste benissimo.
Per i bimbi nulla di meglio di questa tunica che cade sui calzoncini assettati e abbottonati al ginocchio: è per loro un orgoglio, la cintura di cuoio giallo, con la fibbia di acciaio, messa molto giù. Vi sono certe maglie di lana nera o azzurro molto cupo, come una tonacella, sul gonnellino di lana bianca, che sono una cosa incantevole a vedersi. E per confessioni infantili che io raccolgo, comodissime, perchè si prestano a qualunque corsa e a qualunque capriola.
Anche per confessioni, i bimbi maschi preferiscono i calzoncini corti, al ginocchio, a quelli<noinclude></noinclude>
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lunghi: quelli lunghi impacciano, seccano, si sporcano facilmente. Poi nascondono le calze che sono una vanità infantile, poi nascondono a metà gli stivalini, che sono la più forte vanità infantile. Certo il bimbo tiene assai ai calzoncini, umiliato sempre profondamente dalle gonnelle femminili: ma vuole le calze colorate, stirate sulla gamba, e gli stivalini alti, coi lacci o coi bottoni. Tanto più che questo insieme dà loro una grande sveltezza e li fa apparire più alti. Un vestitino di velluto marrone, con bottoni dorati — o di raso nero coi bottoni di madreperla, a pallottoline, le calze dello stesso colore dell’abito, gli stivalini neri: ecco una figurina seducente.
Le bimbe possono essere vestite di bianco più facilmente e con minori pericoli, perchè sono più pulite. Se ne incontrano per il Corso, tutte in bianco, con le mantelline in felpa bianca, e un berretto di pelliccia bianco: sembrano gattine freddolose, rosee, cogli occhioni bigi. Maschietti e femminucce non possono soffrire quei<noinclude></noinclude>
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colletti di tela insaldati, duri come il cartone, che fanno una riga rossa sulla pelle del collo. È una moda inglese: ma serve per quei bimbi inglesi, serii, riflessivi e stecchiti che sono già ''gentlemen'' a sette anni. Il colletto deve essere morbido, largo — o deve essere una folta arricciatura di trina, che lasci ogni libertà di azione al collo. Così la cravatta non deve avere un nodo corretto che abbisogni di spilli per reggere, ma deve essere a nodo facile e artistico, a cappi svolazzanti: del resto, un bimbo, col nodo della cravatta che gli è arrivato sulla spalla o sulla nuca, è anche grazioso — come è grazioso vedere le agili ed inquiete dita della madre che glielo rimette al posto, ogni cinque minuti.
Per i bimbi da dieci a dodici anni, una consolazione sono le ghette, specie quelle caffè e latte, con una fila di bottoncini: se le sognano la notte, come mi narrava il mio amico Ninì, in tutta confidenza. Mentre per le bimbe di dieci anni, i guanti sono un desiderio segreto,<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|120|{{Sc|moda}}||riga=si}}</noinclude>
ma non quelli di pelle, difficili a mettersi, e di cui saltano via così presto i bottoni: sibbene quelli di filo o di seta, che s’infilano presto e sono senza bottoni. In questo modo, quello che essi preferiscono, è quello che va loro meglio. Essi non si curano dei gioielli, ed è certamente un’abitudine barocca quella di metter loro al collo catenine d’oro con medaglioni, di dar loro degli anellini, degli orecchini di brillanti. Quella carne fresca e tenera non ha bisogno di questi ornamenti. Essi non amano i profumi, e basta unicamente che quella pelle sottile sia cosparsa di polvere di riso, senza odore: basta che la biancheria odori di ''ireos'' o di lavanda. Tutti gli ''Champacca'', gli ''Ylang-Ylang'', i ''White-rose'' che eccitano e deprimono i nervi squisiti di noi altri grandi ammalati, non arriveranno a superare quella bontà di odore giovane, che ha la faccia e il collo dei bimbi.
Quello che essi più odiano è il parrucchiere, che taglia loro i capelli sino alla cute, col {{Pt|pre-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|moda}}|121|riga=si}}</noinclude>
{{Pt|testo|pretesto}} che debbano crescere loro più forti; e infatti, un bimbo con la testa pelata, è brutto quanto infelice. Quello che essi odiano, è la pomata, che impiastriccia e insudicia i capelli. Bisogna che la madre o la sorella grande o la zia zitellona abbiano il senso artistico di quelle onde brune che cadono sulle spalle, di quelle ciocche pioventi sulla fronte, di quelle forti trecce battenti sugli omeri, di quei riccioli che sfuggono a un berretto messo alla sgherra. Un bimbo che esce pettinato dalla sua casa, può essere bello; ma quando ritorna dal Pincio, la sua spettinatura è bellissima. Come semplice riflessione, ho da aggiungere che è odioso tagliare la frangetta sulla fronte delle bambine e far arricciare dal parrucchiere i capelli dei bimbi.
In quanto ai cappelli dei bimbi, possono essere grandissimi o piccolissimi, messi di traverso, buttati indietro, purchè non vi siano sopra nè piume, nè fiori, nè veli — basta un semplice nastro, un fiocco di seta. Purchè siano di feltro, molle, o di panno o di paglia {{Pt|fles-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|122|{{Sc|moda}}||riga=si}}</noinclude>
{{Pt|sibile|flessibile}}, in modo da resistere ai colpi; purchè abbiano l’elastico che si passa sotto il mento; purchè non imitino le forme pretensiose dei cappelli materni o paterni: saranno sempre belli.
Per le bambine delicate e infermicce si fa una eccezione, dando loro quelle cappottine chiuse che riparano dal freddo e mettono il visino gracile come in una bomboniera. In quanto ai piccoli marinari, alle piccole scozzesi, ai piccoli bersaglieri, è inutile dire che è una prova la più completa di goffaggine che possa andare per le vie. Per un minuto i bimbi se ne contentano, dopo sono impacciati, annoiati, nervosi: è un grande torto sovraccaricarli, essi che sono la semplicità — dare una tesi ai loro abiti, mentre chi li porta è la chiarezza — renderli pensierosi, essi che sono la gioia.<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" /></noinclude>{{ct|f=150%|t=6|v=6|w=5px|L=3px|PERDIZIONE}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" /></noinclude>{{FI
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{{ct|f=120%|t=3|v=1|L=2px|PERDIZIONE}}
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Mentre la bionda mammina placidamente ricamava un orlo di camiciuola e Mario, seduto sul tappeto, intagliava certi soldatini dipinti di rosso e di azzurro sulla carta, entrò improvvisamente il giovane padre, tutto allegro:
— Su, Mario, su fantoccetto mio, fatti vestire da mammina ed usciamo: ti conduco a spasso.
La mammina aveva lievemente aggrottate le sopracciglia e non si era mossa: Mario era balzato in piedi, abbracciando le gambe di papà, strofinandosi contro i calzoni:<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|126|{{Sc|perdizione}}||riga=si}}</noinclude>
— O papuccio mio bello, o piccolo papà caro — ripeteva, ridendo, avvinghiandosi come un serpentello.
— Andiamo, Tecla, vesti Mario: si fa tardi.
— Veramente vuoi condurlo a spasso? — chiese ella, sorpresa, senza alzarsi.
— Figùrati, ho due ore di libertà, un vero miracolo! Questa creatura non esce mai con me.
— Se lo conduci al Pincio, avrà freddo.
— Non lo conduco al Pincio. È vero, burattinello mio, che non te ne importa niente del Pincio?
— Non me ne importa, papino, purché tu mi conduca e la mammina mi metta l’abito di raso.
— Ai Prati di Castello ci farà umido — osservò la madre.
— Non lo conduco ai Prati — non lo vuoi far uscire, il bimbo? Sei gelosa eh?
— Ma che! — fece lei, dando una spallata.
E alzandosi lentamente, con una grande svo-<noinclude></noinclude>
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2022-08-09T15:03:42Z
Dr Zimbu
1553
/* Riletta */
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|perdizione}}|127|riga=si}}</noinclude>
gliatezza andando e venendo senza fretta, aprendo tutti i cassetti e tutti gli armadi, senza trovare nulla, la mammina bionda vestì Mario. Il quale ritto, in camicia, sul letto, agitava le gambe aspettando le calze e gli stivalini, scherzando con suo padre, buttandosi giù sul letto, facendosi solleticare, ridendo sempre, baciucchiando il suo papà bello che si abbandonava, ridendo, sul letto, anche lui. Più d’una volta, mentre gli tirava su le calze, gli allacciava gli stivaletti e gli abbottonava il vestitino, la bionda mammina si era chinata sul collo di Mario, come se avesse voluto dire qualche cosa in segreto al bimbo. Ma il papà era sempre lì, fermo ad aspettare, sorridente. La mammina sbagliò tutta la fila di bottoni e dovette ricominciarla. Mario fremeva d’impazienza, dimenandosi: il papà aveva già il cappello in testa e mammina cercava ancora un fazzolettino da dare a Mario.
— Gli dò il mio, Tecla, se gli serve.
— Non mi serve, andiamo, papà piccino.<noinclude></noinclude>
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Pagina:Serao - Piccole anime, Milano, Galli, 1890.djvu/130
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2022-08-09T15:03:47Z
Dr Zimbu
1553
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text/x-wiki
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— Non gli comprare giocattoli — disse sottovoce la mammina al papà.
— Non dubitare, non glieli compro.
E allora la mamma diede un lungo bacio sulla fronte del figlioletto, come se volesse far parlare alle labbra una lingua sconosciuta. Essa uscì sul pianerottolo e guardò il padre ed il figlio che scendevano le scale, saltellando e chiacchierando:
— Mario? — chiamò ella.
— Che c’è, mamma?
— Senti una cosa.
— Dilla di lassù, mammuccia.
— Se hai freddo, ti dò il cappottino.
— Non ho freddo. Addio, mamma.
{{Asterismo}}
Sulla porta del baraccone, dove si entrava a vedere la vasca dei coccodrilli e il gabbione delle tigri, a Mario era venuta meno la curiosità ed il coraggio. Guardava il suo papà con<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|perdizione}}|129|riga=si}}</noinclude>
una faccia fra la paura e il desiderio, ma stava fermo, in mezzo all’esedra di Termini, non osando entrare.
— Sono grossi i coccodrilli, papà?
— Sì, pauroso mio.
— Grossi come Nanna, la cuoca?
— Più lunghi e più schiacciati.
— Andiamo via, papà. Raccontami tu i coccodrilli e le trigi. Mi comprerai un giocattolo a via Nazionale, coi quattrini che dovevi spendere nella baracca.
— No, gioia mia, ne hai troppi di giocattoli.
— O papà, che dici! Alessandro, alla scuola, se sapessi quanti ne ha, di belli, di complicati, con le macchinette dentro, per far camminare! Ci ha la ferrovia, con tre vagoncini, e dentro vi sono i viaggiatori e sulla caldaia vi è un macchinista, tutto nero, poveretto! Poi ci ha un ''giuoco di cavallo'', coi saltatori, coi cavalerizzi che girano, girano. Capisci, si dà la corda, papà. Avevi tu giocattoli, quando eri piccolo piccolo, come me?<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
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— Pochi, Mario.
— E le impertinenze le facevi?
— Meno di te, biricchino.
— Gli scappellotti te li davano, papà?
— Sì, caro.
— E ti facevano male?
— Qualche volta, Mario.
— Vedi, papuccio, quando mamma mi dà uno schiaffetto, non mi fa mai male. Io piango forte e strillo, ma non è vero niente. Ora non me ne dà più mamma.
— Le vuoi bene a mamma?
— Si, papà piccolo: ma voglio più bene a te.
— Non lo devi dire, questo. Perchè vuoi più bene a me?
— Non ti vedo che a pranzo, papà mio! E la mamma, la vedo sempre. Se mi compri un giocattolo, dico che voglio bene lo stesso a tutti due.
— Brutto bugiardone! Non preferisci prendere una granita da Singer?<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|perdizione}}|131|riga=si}}</noinclude>
— Sì, papà; la granita di amarena che è rossa.
Poi quando ebbe lentamente presa la sua granita per farla durare di più, Mario volle comprare le paste per portarle alla mammina che, poveretta, era rimasta in casa e non aveva avuto granita. Volle portare il pacchetto, infilando il dito nel nodo dello spago.
— Papà, quando sarò grande, potrò mangiare una granita ogni giorno?
— Ti faranno male allo stomaco.
— No, no, non mi faranno niente. Papà, io voglio essere corazziere.
— E se rimani piccolo? Tu sei ancora il mio pupazzetto!
— Oh dammi da mangiare, fammi diventare alto e grosso, papà. Se resto piccolo, non mi vogliono per corazziere, papà.
Ma la grande vetrina di Natali lo sedusse. Tacendo, con gli occhi intenti, con la bocca socchiusa, guardava quei giocattoli meravigliosi. La manina stringeva quella del padre, come se<noinclude></noinclude>
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2022-08-09T15:04:27Z
Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|132|{{Sc|perdizione}}||riga=si}}</noinclude>
volesse comunicargli i tuoi fremiti. E il visino era così pallido di desiderio, gli occhi buoni supplicavano tanto, che il padre non seppe resistere ed entrò con Mario nella bottega per compargli un giocherello.
— Sono contento che tu mi abbia comprato questo ''paese'' — mormorava Mario, salendo in carrozza, per tornare a casa. — Quante saranno le case?
— Venti, forse.
— Ed io ti darò venti baci piccoli, e se vi è un lungo campanile, te ne darò uno grosso grosso. Sono più contento, perchè questo è un giocattolo con cui posso giuocare a casa. Venerdì mamma m’ha comprato un cerchio di legno e una palla elastica. Che n’ho da fare, in casa, del cerchio e della palla? Guastano i mobili e possono rompere gli specchi.
— Ti servono al Pincio, mummietta mia ragionevole.
— No, no, mi servono a villa Pamphily. Venerdì ci siamo stati, con mamma. Io ero<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|perdizione}}|133|riga=si}}</noinclude>
annoiato di stare in carrozza chiusa, con mamma, ma essa m’ha detto: quando siamo lì, scenderemo.
— Non eri mai andato in carrozza chiusa, Mario?
— Mai, papà.
— E lassù hai giuocato col cerchio e con la palla?
— Sì, mentre mamma discorreva con Riccardo.
— Con Riccardo?
— Sì, papà.
— Che faceva Riccardo?
— Passeggiava, papà. Per un pezzo sono stato con loro, ma non mi davano retta e sono corso innanzi, con la palla: poi la palla è andata in un viale di contro e, per cercarla, non ho più trovata la mamma. Se mi perdevo, papà, mi avrebbero mangiato i lupi, in quella foresta.
— Sì... forse. E... la mamma?
— L’ho riacchiappata vicino alla carrozza, che mi aspettava.
— Dopo quanto tempo, Mario?<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione|134|{{Sc|perdizione}}||riga=si}}</noinclude>
— Dopo cinque minuti, papà.
— È troppo poco.
— Allora dopo cinque giorni, papà. M’ha sgridato ed io ho pianto. La colpa era del cerchio e della palla e li ho bastonati. Riccardo è salito in carrozza con noi. Allora hanno abbassate le tendine e non vedevamo più la strada. Siamo scesi a Ripetta, papà, ma prima Riccardo ha baciato mamma sul collo. Perchè lo ha fatto, papà?
— . . . . . . . .
— Noi siamo andati via e lui è rimasto in carrozza. Ma perchè lui bacia la mamma sul collo? Lui non è il mio papuccio bello; lui non è Mario, la mummietta bella, per baciare la mamma. Digli che non lo faccia più, papà.
— Glielo dirò, figlio mio.
{{Asterismo}}
La madre aspettava il bimbo sul pianerottolo, tendendo l’orecchio al rumore dei passi.<noinclude></noinclude>
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Dr Zimbu
1553
/* Riletta */
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="Dr Zimbu" />{{RigaIntestazione||{{Sc|perdizione}}|135|riga=si}}</noinclude>
— Sei solo, Mario?
— Solo. Papà m’ha comprato il ''paese'', mamma, e le paste per te.
Ella tremò tutta, impallidendo. Il bimbo, ritto innanzi a lei, la guardava, con gli occhi lucenti.
— Dove è tuo padre, Mario?
— È andato a dire a Riccardo che non ti baci più, mamma.
— Figlio mio! — gridò lei, piombando a terra, con le braccia aperte.<noinclude></noinclude>
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Piccole anime/Moda
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Dr Zimbu
1553
Porto il SAL a SAL 100%
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text/x-wiki
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Piccole anime/Perdizione
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Dr Zimbu
1553
Porto il SAL a SAL 100%
wikitext
text/x-wiki
{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Perdizione<section end="sottotitolo"/>
<section begin="prec"/>../Moda<section end="prec"/>
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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/59
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MadMox
12296
/* Riletta */ Rilettura pagina. Ripristinata la dieresi su "ingiurïosa" in stanza 4.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MadMox" />{{RigaIntestazione||{{Sc|canto primo}}|57}}</noinclude><poem>
{{Ottava|3}}Dettami tu del Giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe:
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe,
e le dolci querele, e ’l dolce pianto:
e tu de’ Cigni tuoi m’impetra il canto.
{{Ottava|4}}Ma mentr’io tento pur, Diva cortese,
d’ordir testura ingiurïosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati, e poi sì gravi affanni;
Amor con grazie almen pari a l’offese
lievi mi presti a sì gran volo i vanni:
e con la face sua (s’io ne son degno)
dia quant’arsura al cor, luce a l’ingegno.
{{Ottava|5}}E te, ch’Adone istesso, o gran {{Type|l=.3em|{{Sc|Luigi}}}},
di beltà vinci, e di splendore abbagli,
e seguendo ancor tenero i vestigi
del morto Genitor, quasi l’agguagli;
per cui suda Vulcano; a cui Parigi
convien che palme colga, e statue intagli;
prego intanto m’ascolti: e sostien’ ch’io
intrecci il Giglio tuo col lauro mio.
{{Ottava|6}}Se movo ad agguagliar l’alto concetto
la penna, che per sé tanto non sale,
facciol per ottener dal gran suggetto,
col favor che mi regge, ed aure, ed ale.
Privo di queste, il debile intelletto,
ch’al Ciel degli onor tuoi volar non vale,
teme a l’ardor di sì lucente sfera
stemprar l’audace e temeraria cera.
</poem><noinclude></noinclude>
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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/60
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MadMox
12296
/* Riletta */ Eliminato il piè di pagina che causava tag spaiati.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MadMox" /></noinclude><poem>
{{Ottava|7}}Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna.
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.
{{Ottava|8}}Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortal de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
{{Ottava|9}}La Donna che dal {{Type|l=.3em|{{Sc|Mare}}}} il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.
{{Ottava|10}}Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
''smoderato piacer termina in doglia''.
</poem><noinclude></noinclude>
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2022-08-09T16:26:43Z
MadMox
12296
Corretta punteggiatura nell'Ottava 7.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MadMox" /></noinclude><poem>
{{Ottava|7}}Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna,
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.
{{Ottava|8}}Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortal de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
{{Ottava|9}}La Donna che dal {{Type|l=.3em|{{Sc|Mare}}}} il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.
{{Ottava|10}}Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
''smoderato piacer termina in doglia''.
</poem><noinclude></noinclude>
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2022-08-09T16:43:05Z
MadMox
12296
Aggiunta la riga di intestazione
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MadMox" />{{RigaIntestazione|58|{{Sc|la fortuna}}|}}</noinclude><poem>
{{Ottava|7}}Ma quando quell’ardir, ch’or gli anni avanza,
sciogliendo al vento la paterna insegna,
per domar la superbia e la possanza
del Tiranno crudel che ’n Asia regna,
vinta col suo valor l’altrui speranza
fia che ’n su ’l fiore a maturar si vegna,
allor con spada al fianco e cetra al collo
l’un di noi sarà Marte, e l’altro Apollo.
{{Ottava|8}}Così la Dea del sempreverde alloro,
Parca immortal de’ nomi e degli stili,
a le fatiche mie con fuso d’oro
di stame adamantin la vita fili,
e dia per fama a questo umil lavoro
viver fra le pregiate opre gentili,
come farò che fulminar tra l’armi
s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
{{Ottava|9}}La Donna che dal {{Type|l=.3em|{{Sc|Mare}}}} il nome ha tolto,
dove nacque la Dea ch’adombro in carte:
quella, che ben a lei conforme molto
produsse un novo Amor d’un novo Marte:
quella, che tanta forza ha nel bel volto
quant’egli ebbe ne l’armi ardire ed arte,
forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
tenerezze d’Amor penna lasciva.
{{Ottava|10}}Ombreggia il ver Parnaso, e non rivela
gli alti misteri ai semplici profani,
ma con scorza mentita asconde e cela
(quasi in rozo Silen) celesti arcani.
Però dal vel, che tesse or la mia tela
in molli versi, e favolosi, e vani,
questo senso verace altri raccoglia:
''smoderato piacer termina in doglia''.
</poem><noinclude></noinclude>
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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/61
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2022-08-09T16:33:07Z
MadMox
12296
/* Riletta */ Eliminati i tag spaiati a piè di pagina. Aggiunto il tratto in fine di verso all'Ottava 12.
proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MadMox" />{{RigaIntestazione||{{Sc|canto primo}}|59}}</noinclude><poem>
{{Ottava|11}}{{Type|l=.3em|{{Sc|Amor}}}} pur dianzi, il fanciullin crudele,
Giove di nova fiamma acceso avea.
Arse di sdegno, e ’l cor d’amaro fiele
sparsa, gelò la sua gelosa Dea,
e ’ncontro a lui con flebili querele
richiamossi del torto a Citherea:
onde il Garzon sovra l’etade astuto
da la materna man pianse battuto.
{{Ottava|12}}— Oimè, possibil fia — dicea Ciprigna —
ch’io mai per te di pace ora non abbia?
Qual Cerasta più livida e maligna
nutre del Nilo la deserta sabbia?
qual Furia insana, o qual Arpia sanguigna
là negli antri di Stige ha tanta rabbia?
Dimmi, quel tosco, ond’ogni core appesti,
Aspe di Paradiso, onde traesti?
{{Ottava|13}}Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
le leggittime gioie e i casti amori?
udrò di te mai più richiamo alcuno,
ministro di follie, fabro d’errori?
sollecito avoltor, verme importuno,
morbo de’ sensi, ebrïetà de’ cori,
di fraude nato e di furor nutrito,
omicida del senno, empio appetito?
{{Ottava|14}}Ira mi vien di romperti que’ lacci
e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
né so chi mi ritien, ch’or or non stracci
quante reti malvage ordisci e spandi,
che per sempre dal Ciel non ti discacci,
che ’n essilio perpetuo io non ti mandi
su i gioghi ircani, e tra le caspie selve,
Arcier villano, a saëttar le belve.
</poem><noinclude></noinclude>
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Pagina:Marino, Giambattista – Adone, Vol. I, 1975 – BEIC 1869702.djvu/62
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2022-08-09T16:52:20Z
MadMox
12296
/* Trascritta */
proofread-page
text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione|60|{{Sc|la fortuna}}|}}</noinclude><poem>
{{Ottava|15}}Che tu fra gli egri e languidi mortali,
di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
semini colaggiù martìri e mali
convien, malgrado mio, ch’io mi contenti.
Ma soffrirò che ’n Ciel vibri i tuoi strali,
non perdonando a le beate genti?
che sostengan per te strazii sì rei,
serpentello orgoglioso, anco gli Dei?
{{Ottava|16}}Che più? fin de le stelle il sommo Duce
questo malnato di sforzar si vanta:
e spesso a stato tale anco il riduce,
ch’or in mandra, or in nido, or mugghia, or canta.
Un pestifero mostro, orbo di luce,
avrà dunque fra noi baldanza tanta?
un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
cotanto ardisce? — E ciò dicendo il batte.
{{Ottava|17}}Con flagello di rose insieme attorte,
ch’avea groppi di spine, ella il percosse,
e de’ bei membri, onde si dolse forte,
fe’ le vivaci porpore più rosse.
Tremaro i poli, e la stellata Corte
a quel fiero vagir tutta si mosse.
Mossesi il Ciel, che più d’Amor infante
teme il furor, che di Tifeo Gigante.
{{Ottava|18}}De la reggia materna il figlio uscito,
con quello sdegno allor se n’allontana
con cui soffiar per l’arenoso lito
calcata suol la Vipera Africana
o l’Orso cavernier, quando ferito
si scaglia fuor de la sassosa tana
e va fremendo per gli orror più cupi
de le valli Lucane, e de le rupi.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione||{{Sc|canto primo}}|61}}</noinclude><poem>
{{Ottava|19}}Sferzato, e pien di dispettosa doglia,
fuggì piangendo a la vicina sfera,
là dove cinto di purpurea spoglia
(gran Monarca de’ tempi) il Sole impera.
E ’n su l’entrar de la dorata soglia
stella nunzia del giorno e condottiera
Lucifero incontrò, che ’n Orïente
apria con chiave d’or l’uscio lucente.
{{Ottava|20}}E ’l Crepuscolo seco a poco a poco
uscito per la lucida contrada
sovra un corsier di tenebroso foco
spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
di fresco giglio e di vivace croco,
Forier del bel mattin, spargea la strada,
e con sferza di rose e di vïole
affrettava il camino innanzi al Sole.
{{Ottava|21}}La bella Luce, che ’n su l’aurea porta
aspettava del Sol la prima uscita,
era di Citherea ministra e scorta,
d’amoroso splendor tutta crinita.
Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta
già la biga rotante avea spedita,
e ’l venir de la Dea stava attendendo,
quando il fier pargoletto entrò piangendo.
{{Ottava|22}}Pianse al pianger d’Amor la mattutina
del Re de’ lumi ambasciadrice stella,
e di pioggia argentata e cristallina
rigò la faccia rugiadosa e bella,
onde di vive perle accolte in brina
poté l’urna colmar l’Alba novella:
l’Alba, che l’asciugò col vel vermiglio
l’umido raggio al lagrimoso ciglio.
</poem><noinclude></noinclude>
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{{Ottava|23}}Ricoverato al ricco albergo Amore,
trovò che, posto a’ corridori il morso,
già s’era accinto il Principe de l’ore
con la verga gemmata al novo corso;
e i focosi destrier sbuffando ardore
l’altere iube si scotean su ’l dorso:
e sdegnosi d’indugio, il pavimento
ferian co’ calci, e co’ nitriti il vento.
{{Ottava|24}}Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
che sempre il fin col suo principio annoda,
e ’n forma d’angue innanellato e torto
morde l’estremo a la volubil coda;
e qual Anteo, caduto, e poi risorto,
cerca nova materia ond’egli roda.
V’ha la serie de’ mesi, e i dì lucenti,
i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.
{{Ottava|25}}L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
del Tempo gli ponean le quattro figlie.
Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
dodici brune, e dodici vermiglie.
Mentre accoppiavan queste al carro adorno
gli aurati gioghi e le rosate briglie,
gli occhi di foco il Sol rivolse, e ’l pianto
vide d’Amor, che gli languiva a canto.
{{Ottava|26}}Era Apollo di Venere nemico,
e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
da che lassù de l’adulterio antico
publicò lo spettacolo lascivo,
quando accusò del talamo impudico
al fabro adusto il predator furtivo,
e con vergogna invidïata in Cielo
ai suoi dolci legami aperse il velo.
</poem><noinclude></noinclude>
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{{Ottava|27}}Or che gli espone Amor sua grave salma,
— E che sciocchi dolor — dice — son questi?
Se’ tu colui che litigar la palma
in riva di Peneo meco volesti?
Tu tu mente del mondo, alma d’ogni alma,
vincitor de’ mortali e de’ celesti,
or con strale arrotato e face accesa
vendicar non ti sai di tanta offesa?
{{Ottava|28}}Quanto fora il miglior, sì come afflitto
di lagrime infantili il volto or bagni,
volgere il duolo in ira, e ’l dardo invitto
aguzzar ne l’ingiuria onde ti lagni?
Fa’ che con petto lacero e trafitto
per te pianga colei, per cui tu piagni;
ché (se vorrai) non senza gloria e nome
seguiranne l’effetto; ascolta come.
{{Ottava|29}}Là ne la regïon ricca e felice
d’Arabia bella Adone il giovinetto
quasi competitor de la Fenice,
senza pari in beltà vive soletto.
Adon nato di lei, cui la nutrice
col proprio genitor giunse in un letto;
di lei, che volta in pianta, i suoi dolori
ancor distilla in lagrimosi odori.
{{Ottava|30}}Schernì la scelerata il Re mal saggio
accesa il cor di sozzo foco indegno,
ond’egli poi per così grave oltraggio,
quant’ella già d’amore, arse di sdegno;
e le convenne in loco ermo e selvaggio
girne ad esporre il malconcetto pegno:
pegno furtivo, a cui la propria madre
fu sorella in un punto, avolo il padre.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione|64|{{Sc|la fortuna}}|}}</noinclude><poem>
{{Ottava|31}}Fattezze mai sì signorili e belle
non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
Sventurato fanciullo, a cui le stelle
prima il rigor, che lo splendor mostraro!
Contro gli armò crude influenzie e felle
ancor da lui non visto, il Cielo avaro:
poi che, mentre l’un sorse, e l’altra giacque,
al morir de la madre il figlio nacque.
{{Ottava|32}}Qual trofeo più famoso? e qual altronde
spoglia attendi più ricca, o più superba,
se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,
il cor le ferirai di piaga acerba?
Dolci le piaghe fian, ma sì profonde,
ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.
Questa fia del tuo mal degna vendetta:
spirto di profezia così mi detta.
{{Ottava|33}}Più oltre io ti dirò. Mira là dove
a caratteri Egizzii in note oscure
intagliati vedrai per man di Giove
i vaticinii de l’età future.
Havvi quante il Destino al mondo piove
da’ canali del Ciel sorti e venture,
che de’ Pianeti al numero costrutte
sono in sette metalli incise tutte.
{{Ottava|34}}Quivi ciò che seguir deggia di questo
legger potrai, quasi in vergate carte.
Prole tal nascerà del bell’innesto,
che non ti pentirai d’avervi parte.
In lei, pur come gemme in bel contesto,
saran tutte del Ciel le grazie sparte;
e questa (oh per tai nozze a pien beato)
al Tiranno del mar promette il fato.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione||{{Sc|canto primo}}|65}}</noinclude><poem>
{{Ottava|35}}Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
la memoria tra noi de’ gran contrasti,
ma tal premio n’avrai d’un dono mio
che ’n mercé di tant’opra io vo’ che basti.
Lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
c’ha d’or le corde, e di rubino i tasti.
Fu d’Harmonia tua suora, e io di lei
con questa celebrai gli alti imenei.
{{Ottava|36}}Questa fia tua. Cosi qualor ti stai
di cure e d’armi alleggerito e scarco,
Musico com’Arcier, trattar potrai
il plettro a par di me non men che l’arco:
ché l’armonia non sol ristora assai
qualunque sia più faticoso incarco,
ma molto può co’ numeri sonori
ad eccitare ed incitar gli amori. —
{{Ottava|37}}Fur queste efficacissime parole
fòlli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio:
ond’irritato abbandonò del Sole
senza far motto il lampeggiante soglio;
e rüinando da l’eterea mole
invèr le piagge del materno scoglio,
corse col tratto de le penne ardenti,
più che vento leggier, le vie de’ venti.
{{Ottava|38}}Come prodigïosa acuta stella,
armata il volto di scintille e lampi,
fende de l’aria, orribil sì, ma bella
passaggiera lucente, i larghi campi:
mira il nocchier da questa riva e quella
con qual purpureo piè la nebbia stampi,
e con qual penna d’or scriva e disegni
le morti ai Regi, e le cadute ai regni:
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione|66|{{Sc|la fortuna}}|}}</noinclude><poem>
{{Ottava|39}}così mentre ch’Amor dal Ciel disceso
scorrendo va la region più bassa,
con la face impugnata, e l’arco teso,
gran traccia di splendor dietro si lassa.
D’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
riga intorno le nubi, ovunque passa,
e trae per lunga linea in ogni loco
striscia di luce, impressïon di foco.
{{Ottava|40}}Su ’l mar si cala, e sì com’ira il punge,
se stesso aventa impetuoso a piombo.
Circonda i lidi quasi mergo, e lunge
fa de l’ali stridenti udire il rombo.
Né grifagno Falcon quando raggiunge
col fiero artiglio il semplice Colombo
fassi lieto così, com’ei diventa
quando il leggiadro Adon gli si presenta.
{{Ottava|41}}Era Adon ne l’età che la facella
sente d’Amor più vigorosa e viva,
ed avea dispostezza a la novella
acerbità degli anni intempestiva.
Né su le rose de la guancia bella
alcun germoglio ancor d’oro fioriva;
o se pur vi spuntava ombra di pelo,
era qual fiore in prato, o stella in cielo.
{{Ottava|42}}In bionde anella di fin or lucente
tutto si torce e si rincrespa il crine.
De l’ampia fronte in maëstà ridente
sotto gli sorge il candido confine.
Un dolce minio, un dolce foco ardente
sparso tra vivo latte e vive brine
gli tinge il viso in quel rossor, che suole
prender la rosa in fra l’Aurora e ’l Sole.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="MadMox" />{{RigaIntestazione||{{Sc|canto primo}}|67}}</noinclude><poem>
{{Ottava|43}}Ma chi ritrar de l’un e l’altro ciglio
può le due stelle lucide serene?
Chi de le dolci labra il bel vermiglio,
che di vivi tesor son ricche e piene?
O qual candor d’avorio, o qual di giglio
la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
quasi colonna adamantina, accolto
un Ciel di meraviglie in quel bel volto?
{{Ottava|44}}Qualor, feroce e faretrato Arciero,
di quadrella pungenti armato e carco
affronta, o segue, in un leggiadro e fiero,
o fere attende fuggitive al varco,
e in atto dolce Cacciator guerriero,
saëttando la morte, incurva l’arco,
somiglia in tutto Amor: se non che solo
mancano a farlo tale il velo, e ’l volo.
{{Ottava|45}}Egli tanto tesoro in lui raccolto
di Natura e d’Amor par ch’abbia a vile,
e cerca del bel ciglio e del bel volto
turbar il Sole, inorridir l’Aprile.
Ma minacci cruccioso, o vada incolto,
esser però non sa, se non gentile;
e rustico quantunque, e sdegnosetto,
convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
{{Ottava|46}}Or mentre per l’Arabiche foreste,
dov’ei nacque e menò l’età primiera,
l’orme seguia per quelle macchie e queste
d’alcuna vaga e timidetta fera,
errore il trasse, o pur destin celeste,
da la terra deserta a la costiera,
colà dove fa lido a la marina
del lembo ultimo suo la Palestina.
</poem><noinclude></noinclude>
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{{Ct|f=140%|v=1|t=3|L=0px|VI}}
{{Ct|f=180%|v=1|L=0px|LA CHIOMA DI BERENICE}}
{{Ct|f=100%|v=1|L=0px|{{Sc|poema}}}}
{{Ct|f=120%|v=1|L=1px|DI CALLIMACO}}
{{Ct|f=110%|v=1|L=0px|TRADOTTO DA VALERIO CATULLO}}
{{Ct|f=100%|v=1|L=0px|{{Sc|volgarizzato ed illustrato}}.}}
{{a destra|Ὁ δ' ἤεισεν κρείσσονα βασκανίης.<br />
{{Wl|Q192417|Callimachus}}, de se, ''Epigr''. {{Sc|xxii}}}}.
{{Ct|f=100%|v=3|L=0px|[1803]}}<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|240|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}|}}</noinclude>
IX. Interpretando un antico poeta, fabbro di arte bella, per cui usa di modi figurati e di peregrine parole, che tocca fatti di principi e di nazioni, onde ritorcerli alla istruzione degli uomini, il commento deve essere critico, per mostrare la ragione poetica; filologico, per dilucidare il genio della lingua e le origini delle voci solenni; istorico, per illuminare i tempi ne’ quali scrisse l’autore ed i fatti da lui cantati; filosofico, acciocché dalle origini delle voci solenni e da’ monumenti della storia tragga quelle veritá universali e perpetue, rivolte all’utilitá dell’animo, alla quale mira la poesia. Chi piú congiunge queste doti, quegli, a mio parere, consegue l’essenza d’interprete, ch’io definisco: «far intendere la lettera e lo spirito dell’autore». Perciò, primo de’ commentatori a’ poeti latini reputo l’inglese {{Wl|Q3525012|Thomas Creech}}<sup>nota</sup>, degnamente seguace anche sotterra<sup>nota</sup> del suo poeta, e per me onorato e caro come fosse vivo e presente. Ma, esaminando con queste norme gli espositori della ''Chioma di Berenice'',
<ref>{{Sc|Lucretius}}, ''cum interpretatione et notis'' {{Sc|Thomae Creech}}, ''collegii omnium animarum socii'', Oxonii, 1695.</ref>
<ref>* Taluno di quegli uomini letterati che scriveano il ''Diario italiano'', nel dicembre del 1803, mi appose «la mia feroce ammirazione pel suicidio»; e trasse l’accusa forse da questo passo e dall’altro, ov’io lodo {{AutoreCitato|Pier della Vigna|Pier delle Vigne}}. Ma, se io per natura e per destino sono astretto a reputar veramente libero e sapiente chi sa morire a tempo, a che non piuttosto compiangermi, s’io deliro in questo error malinconico? a che non convincermi prima di rinfacciarmi? Letterati godenti! né so né posso vivere con voi né per voi: e piú m’insegnano l’ultime ore del suicida che tutta la vostra cortigiana filosofia. E da forte il sostenere la sciagura, ma l’accoglierla spensieratamente è debolezza e follia. Sfugge l’uomo alla tirannia della onnipotente fortuna, se sa come e quando morire. E, poiché i lieti letterati de’ miei giorni non mel possono insegnare, io vivo con gli uomini morti con generosa laude antica, e gl’interrogo, e mi rispondono.
<poem class="m6">
Γέρων γέροντι γλῶσσαν ἡδίστην ἔχει:
παῖς παιδί, καὶ γυναικὶ πρόσφορον γυνή·
νοσῶν τ' ἀνὴρ νοσῶντι: καὶ δυσπραξίᾳ
ληφθεὶς ἐπῳδός ἐστί τῳ πειρωμένῳ.
</poem>
<poem class="m4">
Al vecchio la lingua senile è giocondissima:
ben si sta il fanciullo col fanciullo, la femmina con la femmina,
e il malato col malato: e l’uomo rotto dai guai
è conforto di chi è sbattuto dalla sciagura.
</poem>
{{a destra|{{Sc|Menandeo. *}}|margin-left=3em}}</ref><noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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Pagina:Foscolo, Ugo – Prose, Vol. II, 1913 – BEIC 1823663.djvu/282
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|276|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Ond’io credo, con gli altri cementatori, che l’Ortalo sia Q. Ortensio oratore, da Cicerone (''De Claris orat''., cap. 88) lodato altamente, e morto l’anno 703, tre anni prima di Catullo. «Ortalo» per «Ortensio» vedilo in Cicerone, epist. 25 ad Attico, lib. {{Sc|ii}}. — Dal carme {{Sc|cxiv}}
appare che Catullo vigilasse sempre sopra Callimaco, il quale al Discorso quarto, num. {{Sc|vi}}, s’è mostrato maestro di molti poeti di quell’etá. Dicesi chiamato Battiade, pel fondatore di Cirene, Aristotele Batto, di cui puoi vedere nell’oda splendida di Pindaro (pitica IV), la quale trovo senza pari in tutta la lirica sublime; e solo felicemente la siegue l’oda inglese (''Il bardo'') di Giovanni Gray, esemplare anche questo di lirica, in gran parte imitato nell’atto quinto della ''Maria Stuarda'' dall’Alfieri, ove Lamorre va profetando. Inesattamente congettura il Volpi che Callimaco si chiami Battiade pel nome di alcuno degli avi suoi. Per me trovo probabile la derivazione da Batto, padre di Callimaco, nominato da Suida, illustre per armi; e di cui il figliuolo lasciò scritto (epigram. {{Sc|xxvii}}): «praefuit armis patriae» :
<poem>
...Ὁ μέν ποτε πατρίδος ὅπλων
ἤρξεν.
</poem>
— Cirene è cittá libica, fondata da una colonia di lacedemoni nell’olimpiade {{Sc|xli}}. Fiorì per molti ingegni: Aristippo, filosofo cortigiano, fondatore della setta cirenaica, che tutto riponeva il sommo bene nella voluttá; Eratostene, poeta, astronomo e filosofo eminente; e Cameade, principe degli accademici, sono i piú illustri. Il regno di Cirene era celebrato per feracitá di pecore, e molto piú pe’ suoi fiori. Teofrasto, lib. {{Sc|vi}}, cap. 6: «''Odoratissimae quae apud Cyretnas rosae; nude etiam unguentum rosaceum illis suavissimum: violarum etiam et reliquorum floruim odor ibi eximius ac divinus; maxime autem croci''». *Dopo la sciagura d’Azzio fu provincia romana, denudata da’ proconsoli ladroni del mondo. Pedio Bleso fu raso del senato, perché in Cirene manomise il tesoro di Esculapio: «''Sed tu victrix provincia ploras!''» (Tacit., ''Annal''., {{Sc|xiv}}, 18). E dopo Bleso, «''Antonius Flamma Cyrenetisibus damnatur lege repetundarum, et exsilio ob saevitiam''» (id., ''Hist''., lib. {{Sc|iv}}, 45)*<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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Pagina:Foscolo, Ugo – Prose, Vol. II, 1913 – BEIC 1823663.djvu/286
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OrbiliusMagister
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|280|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Il nume della Luna, o Diana-Ecate, fu dunque anteriore agli altri custodi e re dell’inferno. Donde derivarono gli incantesimi e le orrende evocazioni, alle quali presiede sempre la Luna (Teucr., idil. {{Sc|ii}}; Orazio, ''Epod''., ode {{Sc|v}}, v. 52; od. {{Sc|xvii}}, v. 3). Questo soprannaturale e mirabile orrendo degli incantesimi nasce nei tempi barbari, come si vede sopra tutto dalle tragedie di Shakespeare. Quindi Diana può movere fin Radamanto (Teocrito, idil. {{Sc|ii}}), e se v’ha cosa altra piú salda. È «dea mangiacani», κυνοσφαγὴς θεός (Licofrone, v. 77), rozzo e barbarico attributo; e le donne prese d’amore (passione eterna ed universale della natura, onde il Petrarca dice, ''Trionfo d’Amore'', in, v. 150, ch’ella «aggiunge»
{{Ct|f=100%|v=-1|t=1|L=0px|di cielo in terra, universale, antiqua)}}
invocavano la Luna (Scoliaste di Teocr., idil. {{Sc|ii}}, v. 10).
Il nome stesso greco di Diana, Ἄρτεμις, è composto delle parole ἀερα τεμνω, «aere rompere», onde ella ha doinio anche sopra l’aria; e fu quindi consecrato da’ greci un promontorio col nome d’Artemisio, perché v’era il tempio di Diana, ch’essi chiamavano «orientale» (TPlutarco, in ''Temistocle''; Erodoto, lib. {{Sc|vii}}).
Abbiamo da’ poeti (Callimaco, in ''Diana'') ch’ella era preside de’ porti e delle isole mediterranee, le prime che si conobbero, di tutti i monti e di tutte le selve, prime abitazioni de’ mortali: ed a Diana fu dedicato un timone di nave (Callimaco, loc. cit., v. 229); e Pindaro la chiama «fluviale» (pitica {{Sc|ii}}, V. 12): ποταμίας ἔδος Ἀρτέμιδος .
Perché questa dea aveva possanza in cielo, in terra e nell’inferno, venne ch’ella accompagnava gli uomini nel nascere, ed assisteva alle madri (Orazio, ''Carme secolare'', v. 13). Gli ateniesi chiamavanla λυσίζωνος;, «scioglicinto», ed a lei veggonsi ne’ poeti appese le zone muliebri (Teocrito, idil. {{Sc|xvii}}, 60). Era seguita dalle Parche, ministre di tutta l’umana vita: però vediamo in alcuni monumenti etruschi ch’ella assiste con le Parche agli sponsali. Ed Orazio con Diana nomina le tre dive (''ibid''., v. 25). La «''lenis''
{{Spaziato|''Ilithia''}}» di questo poeta (v. 14) è la Εἰλείθυια de’ greci, diva tutrice di tutti i parti. Da Platone ({{Sc|vi}} delle ''Leggi'') è mentovato il tempio di lei aperto alle incinte.
È anche detta «lucifera», portatrice di luce; e nelle medaglie si rappresenta con una face. Questo nome fu dato anche al pianeta di Venere; quindi e Venere e Diana sono chiamate «celesti». Vedi Considerazione nostra decima.<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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''Quaest. tusc''., lib. {{Sc|ii}}, cap. 14). Numa, intento ad incivilire i romani, razza di masnadieri, ricusò anch’egli l’umano sangue alla dea, che si dice trasportata in Italia da Oreste (Ovid., ''Metam''., {{Sc|xv}}, 481 e sg.; Lil. Giraldi, ''Syntag''., {{Sc|xii}}). Ma, per adonestare presso a’ popoli ancor feroci questi miti sacrifici, si favoleggiò la cerva sacrificata sotto sembianze della vergine Ifigenia; e, per mantenere il terrore, fu il simolacro tenuto ne’ luchi, ed appagato di molte vittime, * sino dal tempo di Teseo: onde Virgilio, nel bellissimo episodio del viaggio d’Ippolito in Italia, 400 anni prima dell’èra di Romolo * (''En''., {{Sc|vii}}, 763):
<poem>
<i>... Egeriae lucis, Hymettia <ref>* Altri leggono «humentia» *.</ref> circum
litora, {{Spaziato|pinguis}} ubi et {{Spaziato|placabilis}} ara Dianae.</i>
</poem>
* Vedi anche Ovid., ''Metamorf''., lib. xv *.
E per lungo ordine i sacerdoti si successero in Roma tutti barbari di nazione; disfidati da altro sacerdote, doveano combattere, ed il sacerdozio rimaneva al vincitore. Vedeasi in Sagunto di Spagna, sino da due secoli prima della guerra troiana (Plin., lib. {{Sc|xvi}}, cap. 40), un tempio di Diana trasportata dalla mia Zacinto.
Artemide s’è detto poc’anzi essere il nome proprio di Diana presso i greci, ed ha la etimologia dalle parole ἀέρα τέμνω). Presso i romani il regno dell’aria spettava a Giunone, ''Iuno''. Ma ''Diana'' e ''Iuno'' vennero da un nome solo. Macrobio, ''Saturn''., lib. {{Sc|i}}, cap. 9: «''Pronunciavit Nigidius Apollinem Ianum esse. Dianam Ianam, apposita D litera, quae saepe I literae caussa decoris apponitur: ut ‘reditur’, ‘redhibetur’, ‘redintegretur’et similia''». Oltre a questa etimologia, che divide fra Giunone e Diana il regno dell’aria, due altre, derivanti pure dal Lazio, confermano l’antichitá di questa dea. ''Diana'' viene da ''dies''; e s’è veduto che si chiamava ''Lucifera''; onde Lucifero appunto dagli italiani è chiamato «Stella Diana», chiamata anche da Plotino ( ''Ennead''., lib. {{Sc|vi}}) «Iunonis stella», e da Platone nel Timeo: Δύο δε ἰσόδρομοι Ἀελίῳ ἐντὶ, Ἑρμᾶ τε καὶ Ἥρας τῆς Ἀφροδίτης καὶ Φωσφόρον τοὶ πολλοὶ καλέοντι. «Due astri vanno con corso al pari col Sole. L’astro di Mercurio e di Giunone, che da molti Venere e da altri Lucifero è detto». Anzi Plinio (lib. {{Sc|i}}, 8) la chiama «stella d’Iside e della madre degli dèi». Ecco la derivazione del nome ''Lucina'', dato alla diva invocata ne’ parti, comune a Giunone ed a Diana: quindi è celebrato ne’ poeti (Callim., in ''Diana'', v. 228;<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|300|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Plinio (lib. {{Sc|vii}}, 56) scrive: «''Aerariam fabricam alii Chalybas, alii, Cyclopas [putant monstrasse] Ferrimi Hesiodus in Creta eos qui vocali sunt Dactyli Idaei''». Strabone (lib. {{Sc|xii}}) narra che i calibi furono caldei, i quali passarono a fondare le colonie di Smirna, di Cuma, e le vicine, tenute poi dai greci. * I caldei si chiamavano anticamente calibi non solo al tempo di Strabone e de’ geografi posteriori (Eustazio, ''Ad Dionisium'', v. 768), ma anche di Senofonte (''Ciropedia'', lib. {{Sc|iii}}), ove alcune edizioni leggono Χάλυβες per Χαλδαῖοι. Allo stesso terzo, Senofonte (pag. dell’ediz. Oxford, 194) narra che i caldei eran bellicosi, poveri, e soldati a prezzo come gli svizzeri; quindi può essere derivata la credenza della invenzione dell’armi ch’essi sí bene trattavano. * Rispetto a’ Dattili idei, detti talor cureti, talor coribanti e telchini, è universale opinione nelle antiche memorie che fossero i primi signori di Creta; e di Strabone (lib. {{Sc|x}}) che fossero dalla Frigia chiamati in Grecia da Rea per nutrire Giove. Ma che da questi fosse trovato il ferro, non è sola opinione di Esiodo e di Plinio, l’abbiamo chiaramente ne’ celebri marmi d’Oxford. Ecco la traduzione letterale italiana, lasciando i frammenti a lor luogo. — Epoca XI. «Da che Minos pr... [supplisci: «primo»] regnò e fabbricò... donia [Cidonia] e fu il ferro ritrovato nell’Ida [monte di Creta]; trovatori gli Idei Dattili, Celmi e Damnaneo, anni {{Sc|mclxvii}}; regnante in Atene Pandione». Epoca che viene a cadere nel {{Sc|dcli}} anno prima di Roma. Eccoti intanto trovato e lavorato il ferro dagli iberi, dai siciliani, dagli sciti, da’ caldei, da’ greci, tutti tenendo gli stessi nomi di calibi e telchini; il che mi porta a credere che, essendosi da varie genti in varie parti del mondo trovato il ferro, sia poi restato il nome χάλυβες dal ferro temprato, che e nella Grecia ed in Roma chiama vasi «''chalybs''», acciaio. Onde leggesi nell’''Eneide'', {{Sc|viii}}, 446:
<poem class="mtb">
''Volnificusque chalybs vasta fornace liquescit.''
</poem>
Ed Eschilo piú poeticamente nel ''Prometeo'', v. 133:
<poem class="mtb">
Κτύπου γάρ ἀχώ χάλυβος διῇξεν ἄντρων.
Il suono dello stridente calibe penetrò gli antri.
</poem>
* Nella stessa tragedia Eschilo chiama i calibi {{greco da controllare|}}. Apoll. Rodio, Argonaut., lib. 11, 374-76:
<poem>
{{gap|5em}}...μετά δὲ σμυγερώτατοι ἀνδρῶν
Ἐργατίναι · τοί δ'ἀμφὶ σιδήρεα ἔργα μέλονται.
</poem><noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|300|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Plinio (lib. {{Sc|vii}}, 56) scrive: «''Aerariam fabricam alii Chalybas, alii, Cyclopas [putant monstrasse] Ferrimi Hesiodus in Creta eos qui vocali sunt Dactyli Idaei''». Strabone (lib. {{Sc|xii}}) narra che i calibi furono caldei, i quali passarono a fondare le colonie di Smirna, di Cuma, e le vicine, tenute poi dai greci. * I caldei si chiamavano anticamente calibi non solo al tempo di Strabone e de’ geografi posteriori (Eustazio, ''Ad Dionisium'', v. 768), ma anche di Senofonte (''Ciropedia'', lib. {{Sc|iii}}), ove alcune edizioni leggono Χάλυβες per Χαλδαῖοι. Allo stesso terzo, Senofonte (pag. dell’ediz. Oxford, 194) narra che i caldei eran bellicosi, poveri, e soldati a prezzo come gli svizzeri; quindi può essere derivata la credenza della invenzione dell’armi ch’essi sí bene trattavano. * Rispetto a’ Dattili idei, detti talor cureti, talor coribanti e telchini, è universale opinione nelle antiche memorie che fossero i primi signori di Creta; e di Strabone (lib. {{Sc|x}}) che fossero dalla Frigia chiamati in Grecia da Rea per nutrire Giove. Ma che da questi fosse trovato il ferro, non è sola opinione di Esiodo e di Plinio, l’abbiamo chiaramente ne’ celebri marmi d’Oxford. Ecco la traduzione letterale italiana, lasciando i frammenti a lor luogo. — Epoca XI. «Da che Minos pr... [supplisci: «primo»] regnò e fabbricò... donia [Cidonia] e fu il ferro ritrovato nell’Ida [monte di Creta]; trovatori gli Idei Dattili, Celmi e Damnaneo, anni {{Sc|mclxvii}}; regnante in Atene Pandione». Epoca che viene a cadere nel {{Sc|dcli}} anno prima di Roma. Eccoti intanto trovato e lavorato il ferro dagli iberi, dai siciliani, dagli sciti, da’ caldei, da’ greci, tutti tenendo gli stessi nomi di calibi e telchini; il che mi porta a credere che, essendosi da varie genti in varie parti del mondo trovato il ferro, sia poi restato il nome χάλυβες dal ferro temprato, che e nella Grecia ed in Roma chiama vasi «''chalybs''», acciaio. Onde leggesi nell’''Eneide'', {{Sc|viii}}, 446:
<poem class="mtb">
''Volnificusque chalybs vasta fornace liquescit.''
</poem>
Ed Eschilo piú poeticamente nel ''Prometeo'', v. 133:
<poem class="mtb">
Κτύπου γάρ ἀχώ χάλυβος διῇξεν ἄντρων.
Il suono dello stridente calibe penetrò gli antri.
</poem>
* Nella stessa tragedia Eschilo chiama i calibi σιδηροτέκτονας. Apoll. Rodio, Argonaut., lib. 11, 374-76:
<poem>
{{gap|5em}}...μετά δὲ σμυγερώτατοι ἀνδρῶν
Ἐργατίναι · τοί δ'ἀμφὶ σιδήρεα ἔργα μέλονται.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione ottava}}|305}}</noinclude>
imprese narrate da Diodoro siculo (lib. {{Sc|i}}). Sotto la sua statua era scritto:
<poem class="mtb">
Βασιλεύς, βασιλέων Ὀσυμανδύας εἰμί.
Εἰ δέ τις εἰδέναι βούλεται πηλίκος εἰμὶ, καὶ ποῦ κεῖμαι,
νικάτω τὶ τῶν ἐμῶν ἔργον.
</poem>
«Re dei regi Osimande sono. Se alcuno saper vuole quanto io sia, e dove io giaccia, vinca alcuna delle mie gesta».
Vengo ora alla statua. Gli autori che ne parlano, per quanto io ho incontrato leggendo gli antichi, sono: Pausania (in ''Atticis'' ), Filostrato (luoghi cit. e altrove), Luciano con l’usata ironia (in ''Philopseude''), Giovenale (sat. {{Sc|xv}}, v. 5), Giovanni Tzetze ( ''Chiliad'' ., {{Sc|iv}}, 64), Callistrato nel libro ''De statuis'', Tacito (''Ann''., {{Sc|ii}}, 61), Strabone (lib. {{Sc|xvii}}), e Dionisio il geografo nei versi 249-250, che, tradotti letteralmente, suonano:
<poem class="mtb">
La prisca Tebe dalle cento porte,
ove Mennon saluta, risuonando,
la sua nascente aurora.
</poem>
Ma il piú antico ed il primo che ne parli è il padre della storia greca (Erodoto, lib. {{Sc|ii}}), ove descrive le statue de’ signori vetustissimi d’Egitto, sebbene egli non la creda (come altri a’ suoi tempi congetturavano, Μέμνονος εἰκόνα εἰκάζουσί μιν) statua di Mennone: seppure Erodoto in quel luogo intende di questa statua «vocale», poiché altrove quel viaggiatore d’Egitto e cercatore di meraviglie non ne fa motto. Manetone bensí, scrittore a’ tempi di Filadelfo, diligentemente ne scrisse (presso Sincello, in ''Chronographia''), se nondimeno non fosse questa una delle solite giunte d’Eusebio. Il che ammettendosi, niuno della statua «vocale» fa motto, né latino né greco scrittore, sino a’ tempi d’Augusto. Ma che sino dall’etá di Cambise, re persiano, la statua parlasse, è tradizione universale. Cambise, or son quasi secoli ventiquattro, la fece mutilare (Pausania, in ''Atticis''; vedi anche la ''Cronaca alessandrina''), sospettando fraudi; e nella statua v’è un’iscrizione, donde, quantunque guasta, si tragge che Cambise ferí la pietra parlante, immagine del sole. Nondimeno Strabone scrive che la parte del colosso crollò per terremoto. Il vero è che a’ tempi di Domiziano il Mennone parlante era dimezzato. Giovenale, loco citato:
<poem class="mtb">
<i>Dimidio magicae resonant ubi Memnone chordae,
atque velus Thebe centum iacet obruta portis.</i>
</poem><noinclude>{{PieDiPagina|{{smaller|{{Sc|U. Foscolo}}, ''Prose'' - II.}}||{{smaller|20}}}}
[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione decima}}|313}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=3|L=0px|CONSIDERAZIONE DECIMA}}
{{Ct|f=100%|v=2|L=0px|{{Sc|venere celeste.}}}}
Verso 56. {{gap|3em}}''Et Veneris casto conlocat in gremio''.
Il Conti crede che la Venere, nel cui «grembo casto» Zefiro posa le chiome, sia la Venere planetaria; la quale, prescindendo dalle moderne nozioni, noi andremo considerando secondo le idee degli antichi. E’ s’è giá veduto il pianeta di Venere essere stella di Giunone, d’Iside, di Diana, della madre degli dèi (Considerazione III, p. 283), e Plinio lo chiama (lib. {{Sc|i}}, cap. 8) «''ingens sidus appellatum Veneris, alterno meatu vagum ipsisque cognominibus aemulum Solis ac Lunae... Huius natura cuncta generantur in terris''». Quindi reggeva col nome d’Espero i cavalli della Luna quando sorgeva dall’Oceano, come tuttoggi si vede in Roma nell’arco costantiniano; e col nome di Lucifero, Φωσφόρος, era detto «portatore del Sole». Due nomi ch’egli ebbe ne’ tempi piú illustrati dalle scienze. Cicerone, ''De natura deorum'', lib. {{Sc|ii}}: «''Stella Veneris, quae Phosphoros graece, Lucifer latine dicitur, cum antegreditur Solem, cum subsequitur vero Hesperus''». Ma sino dagli antichissimi tempi i persiani con uno stesso rito e con diversi nomi adoravano Espero, Diana e Venere (G. Gern. Vossio, ''Dell’idolat.'', lib. {{Sc|vii}}, 1 ). Quindi, per le ragioni dimostrate nella precedente Considerazione, Semiramide fu adorata sotto il nome di Venere, figliuola di Dione o per Venere Dione, uno de’ primi idoli femminili dell’Asia (Bianchini, ''Storia univers'' ., deca {{Sc|iii}}, cap. 21). E da Dione venne il nome di Diana: il che prova ognor piú le congetture nostre sull’antichitá del dio cacciatore. I poeti frattanto, dopo Omero, che chiamò Espero la piú bella delle stelle (''Il''., {{Sc|xxii}}, 318), la ascrissero sempre alla piú bella delle dive. Mosco, ''Id''., {{Sc|vii}}:
<poem>
Ἕσπερε τἄς ἐρατᾶς χρύσεον φάος Ἀφρογενείας,
Ἕσπερε, κυανέας ίερὸν φίλε νυκτὸς ἄγαλμα.
Espero, aureo splendore dell’amabile Venere,
Espero caro, sacro ornamento della notte cerulea.
</poem><noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|314|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
E veramente è si splendida, che talora non è vinta dalla luce diurna. Anche Virgilio:
<poem class="mtb">
<i>Qualis ubi Oceani perfusus Lucifer unda,
quem Venus ante alias astrorum diligit ignis,
extulit os sacrum coelo tenebrasque resolvit.</i>
</poem>
Divini versi, de’ quali fu fonte Omero (''Il''., v, v. 5), imitato da Pindaro (istmica {{Sc|iv}}, 41 e sg.), da Dante ( ''Purg'' ., canto {{Sc|xii}}, 88). * E la grazia del Berni cantò di Lucifero (''Orlando inn''., canto {{Sc|xxvii}}, st. 47):
<poem>
Ogni stella del ciel s’era partita,
fuorché quella che il Sol si manda avante.
</poem>
Ma il divino ingegno dell’epico inglese adornò la stella di Venere d’uffici sacri. Perché, quando Adamo libò le prime dolcezze dalla sua vergine sposa, «l’augello amoroso della notte cantò il cantico dell’imeneo, ordinando all’astro della sera di apparire pronto sulla cima della montagna per farvi brillare la face nuziale».*
Or, tornando alla questione, se fosse vera la osservazione del Conti, che Zefiro, dovendo passare per la regione planetaria, abbia deposta la chioma nel grembo della «Venere celeste», converrebbe credere che questa diva fosse locata anche da Callimaco nel terzo cielo, cominciando a numerare que’ globi dal Sole. Or vediamo come questa Diana o Dione, o universa natura abitante nel cielo, fosse adorata sotto il nome di «Venere celeste». Ricavo da Cicerone (libro {{Sc|iii}} ''De nat. deor''., cap. 41) quattro Veneri, donde poi pullulò quel numero di Veneri con diversi e strani cognomi: 1° Procreata dal Cielo e dall’Aria. 2° Dalla spuma del mare e dal sangue de’ genitali. 3° Da Giove. 4° La dea Siria, di cui abbondantemente Luciano: sebbene è da osservarsi che quest’ultima Venere è derivazione della prima, a cui fu associata Semiramide. * L’autore degl’inni apposti ad Orfeo chiama con religione egizia Venere anche la «genitrice Notte», origine delle cose, e degli uomini, e de’ celesti.* Platone nel ''Convito'' distingue due Veneri, una terrestre e sensuale, l’altra celeste e spirituale, e quindi due Amori. Ora la Venere, a cui «reca Zefiro le chiome» di Berenice, sia quella del terzo cielo, sia un’altra seduta nel coro degli dèi, deve certamente essere la celeste, di cui non abbiamo favole invereconde. Dal seguente passo d’Artemidoro si desume ch’ella era la inventrice della divinazione. Τὴν Ἀφροδίτην Οὐρανίαν φύσεων<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione decima}}|315}}</noinclude>εἶναι μητέρα ὅλων, πάσης μαντείας, καὶ κρογνώσεος εὑρέτην. Ed eravi un oracolo della celeste dea in Cartagine, che Apuleio (Fior., {{Sc|iv}}) chiama «''coelestem illam Afrorum daemonem''»: la quale non è insomma, per tradurre le parole di Artemidoro, se non la madre di tutte le cose, come s’è giá notato (Consideraz. terza) di Diana {{Spaziato|natura}}, di Diana {{Spaziato|madre}}. Ed i critici moderni (Conti, ''Sogno nel globo di Venere'', comento, p. 15) pretendono, con l’autoritá della Bibbia, che la Venere celeste non sia che l’Astarte, e l’Astarte la luna; ed eccoci di nuovo all’antichitá ed alla universale divinitá di Diana * (vedi Considerazione terza sopra Diana Trivia) *. Quindi dal {{Spaziato|furore}} divino, di cui è inventrice questa Venere celeste, ne vennero (Platone nel ''Fedro'' ) Apollo, ossia il Vaticinio; Bacco, ossia il Mistero, le Muse o la Poesia, l’Amore, le Veneri, le Grazie, e poi si torna all’idea solenne della Notte e dell’Amore universale, di cui parla Aristofane (''Uccelli''), e parmi per farsene beffe.
<poem class="mtb">
* Non era ancor la Terra ampia frugifera,
ma il Buio e il Caos che a rimembrar fa pavido;
né splendea l’alta region stellifera,
quando d’Èrebo in sen, giá di vite avido,
la prolifica notte atro-pennifera
un uovo generò, di vento gravido,
e, covato ch’ei fu, picchiando all’uscio,
Amore, il divo Amore usci del guscio.
{{gap|10em}}Aristofane, loc. cit.*
</poem>
Sino al tempo degli imperadori romani si cercavano le profezie di questa Venere primitiva, madre del Furore: «''Vaticinationes quae de tempio coelestis emergunt''» (Capitol., in ''Pertinace''); la quale, se bene ricordo ciò ch’io lessi in Xifilino, che ora non ho per le mani, fu data in isposa da Eliogabalo a quell’Alogabalo, suo nume. Cosí questa Venere, di casta e celeste, divenne meretrice e volgare, poiché fu sposa e sorella di quanti regi vollero essere numi, madre di quanti numi bisognavano a’ sacerdoti, protettrice di quante passioni erano care a’ popoli, i quali vogliono avere sempre societá col cielo, quantunque per lunga esperienza sappiano che il cielo non vuole alcuna societá co’ mortali. Aggiungi che i poeti teologi e gli storici-filosofi, intendendo la Natura sotto questo nome di Venere (Lucr., lib. {{Sc|i}}, sul principio), lo applicavano a tutte le cagioni e gli effetti della procreazione. Anche del culto di questa dea abbiamo memorie antichissime, e le egizie piú rimote<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|316|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
ci tramandano la profanazione commessa dagli sciti del tempio di Venere celeste in Ascalona, a’ tempi del re Psammetico (Erod., lib. {{Sc|i}}, sez. 105). La Venere volgare ha piú recenti adorazioni, e primo a fondarne culto per gli ateniesi fu Teseo: però Pausania nel ''Viaggio di Attica'' racconta: «A’ tempi miei non v’erano piú ornamenti antichi della Venere volgare: que’, che la troppa etá risparmiò, pareano d’artefici non oscuri». Ogni nazione ed ogni principe vestivano gli dèi secondo i propri istituti. Adoravano i lacedemoni una Venere armata (Pausania, in ''Laconicis''; Quintiliano, ''Institut''., lib. {{Sc|ii}}, 4). Donde poi vennero quegli epigrammi di Venere, che disfida nuovamente Pallade, e due tra gli altri di Ausonio (il {{Sc|xli}} e {{Sc|xlii}}). E Cesare, per la boria di essere sangue d’Enea. figlio di Venere, e perch’egli era veramente, come tutte le gentili anime, seguace della dea, la portava nel suo sigillo, sebbene tutta armata, come quegli che era altissimo capitano e piú ch’altri fatto e dalla natura e dalla fortuna guerriero. Ma anche questa «armata» è una discendente della «volgare». La qual distinzione di «volgare» e «celeste» si vede a’ tempi de’ Tolomei dall’epigramma {{Sc|xiii}} di Teocrito sopra il simolacro dedicato da una moglie pudica alla casa del marito e de’figliuoli:
<poem class="mtb">
Ἡ Κύπρις οὐ πάνδημος· ἰλάσκεο τὴν θεὸν εἰπών
οὐρανίαν.
</poem>
«Venere non è questa la volgare: propizia fa’ la dea, chiamandola celeste». Si può dunque desumere che questa Venere fosse la «casta», di cui parla Callimaco, poiché ella è dea delle matrone pudiche. Ma è ella la stessa Venere Arsinoe Zefiritide? Ho sospettato, nella nota ai vv. 55-6, che si. Eccone le ragioni: 1° Arsinoe fu celebrata come pudica ed amorosa moglie, e fu si passionatamente amata da Filadelfo, ch’ei morí pel dolore di averla perduta. 2° Vediamo molti nomi e molti attributi dati alla stessa divinitá, senza che i poeti ed i popoli si curino gran fatto di storie e di cronologie: Arsinoe, essendo associata al culto di Venere, poteva avere gli attributi della celeste. 3° Callimaco, avendo per argomento l’amor coniugale di Berenice e per fine l’apoteosi de’ suoi signori, e fondando in questo poema un culto per le spose pudiche, né potea, né dovea lasciare ad Arsinoe gli attributi della Venere «volgare», negandole quelli della «celeste».<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione decimaseconda}}|319}}</noinclude>
{{Ct|f=100%|v=1|t=2|L=0px|CONSIDERAZIONE DECIMASECONDA}}
{{Ct|f=100%|v=2|L=0px|{{Sc|chiome bionde}}.}}
Era per gli antichi popoli d’assai pregio la bionda capigliatura e la fulva. Bionde sono le favolose persone de’ greci: Arianna (Ovid., ''De arte'', lib. {{Sc|i}}, 532), Atalanta (Ebano, ''Stor. var''., {{Sc|xiii}}, 1; Stazio, ''Tebaid''. {{Sc|iv}}, 262), Cariclea (Eliodoro, lib. 11, in ''Aethiop''.), Europa (Ovid., ''Fast''., v, 609), Rodogine (Filostrato, nelle ''Immagini'', lib. {{Sc|ii}}), Narciso (Callistrato, nelle ''Statue''), Cupido (Apuleio, ''Metam''., lib. 5), Fetonte (Ovid., ''Metam''., {{Sc|ii}}), Antiloco (Filostr., ''ibid''.). E molti eroi: Giasone (A. Gellio, N''otti att''., lib. {{Sc|ii}}, 26), Achille (''Il''., {{Sc|xxii}}. 141 et passim.; Filostr., nel proemio delle ''Immag'' .), Menelao (''Il''., {{Sc|x}}, 240; ''Odiss''., {{Sc|i}}, 285, ed altrove), Radamanto (''Odiss''., lib. {{Sc|vii}}, 323), Meleagro (''Il''., lib. {{Sc|ii}}, 149), per non dir di tant’altri in Omero. Sappiamo che Davide (lib. ''De‘ regi'', {{Sc|i}}, cap. {{Sc|xvi}}, 17) «''erat rufus, et pulcher aspectu, decoraque facie''»; e biondo era il grand’Alessandro (Elian., ''Stor. var''., {{Sc|xii}}, 14) e Filadelfo (Teocr., idil. {{Sc|xvii}},δ' ὀ μὲν αὐτῶν πυῤος, 103). Molte celebri donne: Lucrezia (Ovidio, ''Fast''., {{Sc|ii}}, 763), Aspasia (Elian., ''Stor. var.'', {{Sc|xii}}, 1), Poppea (Plin., {{Sc|xxxvii}}, 3). Darete frigio fa biondi tutti gli eroi e le eroine dell’''Iliade'', ed Omero dá questo attributo a’ cavalli (''Il''., {{Sc|ix}}, 407;
{{Sc|viii}}, 185). E piacemi di riferire i più gentili passi de’ poeti che dipingono le bionde chiome. Euripide dice che Amore
{{Ct|f=100%|v=.6|t=1|L=0px|φιλεῖ κατόπτρα, καὶ κόμης ξανθίσματα,
{{Ct|f=100%|v=-1|L=0px|ama gli specchi e della chioma i biondeggiamenti,}}
e nell’Elettra, v. 1071:
{{Ct|f=100%|v=.6|t=1|L=0px|Ξανθὸν κατόπτρῳ πλόκαμον ἐξήσκεις κόμης.}}
{{Ct|f=100%|v=-1|L=0px|I biondi ricci della chioma ti componevi allo specchio.}}
Teocrito, volendo divisare la beltá di un pastore e la giovinezza di un altro: idil. {{Sc|vi}}:
{{blocco centrato|<poem>
{{gap|4em}}... ἤς δ' ὀ μὲν αὐτῶν
πυῤῥος, ὁ δ'ἠμιγένειος.
Un d’essi,rosso, l’altro erasi imberbe.
</poem>}}<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|320|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Ed altrove riunisce questi due pregi (idil. vili, v. 3):
{{Ct|f=100%|v=.6|t=1|L=0px|Ἄμφω τώδ' ἤτην πυῤῥοτρίχω, ἄμφω ἀνάβω.}}
{{Ct|f=100%|v=-1|L=0px|Era ad ambo il pel rosso, e imberbe il mento.}}
Donde Virgilio formò quel suo verso gentile, con che dipinse Mercurio (''Eneid''., lib. {{Sc|iv}}, 559):
{{Ct|f=100%|v=-1|t=1|L=0px|''Et crines flavos et membra decora iuventae.''}}
Quando Aconzio in Ovidio (''Eroid''., {{Sc|xx}}, v. 57) descrive tutte le bellezze della sua Cidippe:
<poem>
<i>Hoc flavi faciunt crines et eburnea cervix,
quaeque, precor, veniant in mea colla mantis.</i>
</poem>
Ed Ociroe, nelle ''Metamorfosi'', lib. {{Sc|ii}}, v. 635:
<poem>
<i>Ecce venit rulilis humeros protecta capillis
fllia Centauri.</i>
</poem>
Bionda è la Didone di Virgilio: ''Eneid''., {{Sc|iv}}, 589:
<poem>
<i>Terque quaterque manu pectus percussa decorum
flaventesque abscissa comas:</i>
</poem>
e v. 698:
<poem>
Nondum illi flavum Proserpina vertice crinem
abstulerat, Stygioque caput damnaverat Orco.
</poem>
* Soavemente imitato dal Petrarca, ''Trionfo della morte'', {{Sc|i}}, 113:
<poem>
Allor di quella bionda testa svelse
Morte con la sua mano un aureo crine.*
</poem>
E nel lib. {{Sc|xii}}, dove dipinge con gii stessi atteggiamenti la disperazione di Lavinia:
<poem>
<i>Filia prima manu flavos Lavinia crines,
et roseas laniata genas.</i>
</poem>
Nell’{{Sc|viii}}, v. 659:
<poem>
<i>Aurea caesaries ollis, atque aurea vestis
virgalis lucent sagulis; tum lactea colla
auro innectuntur.</i>
</poem><noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione decimaseconda}}|323}}</noinclude>
gl’imperadori (perocché l’une e gli altri, inebriati per continue adulazioni, affettano divinitá) coltivassero le bionde capigliature. Apollo e Bacco, bellissimi numi, Mercurio e Minerva, protettori de’ capelli (vedi Considerazione nostra quarta), erano biondi. Ne’ frammenti dell’''Inno alle Grazie'' da me citato, il capo di Pallade è detto Πυῤῥοκόμης<ref>Il F. aveva stampato dapprima Πυῤῥόκαμος, che poi nell’errata-corrige, corresse in Πυῤῥόκομης inesattamente, per colpa del tipografo; e questa correzioni accolsero gli edd. fiorentini [Ed.].</ref>. Ecco la mia versione:
<poem class="m6">
Involontario nel Pierio fonte
vide Tiresia giovinetto i fulvi
capei di Palla, liberi dall’elmo,
coprir le rosee disarmate spalle;
sentí l’aura celeste, e mirò le onde
lambir a gara della diva il piede,
e spruzzar riverenti e paurose
la sudata cervice e il casto petto,
che i fulvi crin discorrenti dal collo
coprian siccome li moveano l’aure.
</poem>
Ovidio, di Minerva ( ''Tríst'' ., {{Sc|i}}, eleg. {{Sc|x}}):
<poem class="it m6">
Est mihi sitque, precor, flavae tutela Minervae.
</poem>
E nel primo degli Amori, eleg. 1, v. 7:
<poem class="it m4">
Quid, si praeripiat flavae Venus arma Minervae,
ventilet accensas flava Minerva faces?
</poem>
Ma le Grazie stesse (Pindaro, ode nemea v, versi ultimi):
<poem class="it m4">
Ἄνθεα ποιάντεα φέρειν στεφανώ-
ματά, σὺν ξανθαῖς Χάριsιν.
I fiori verdeggianti portano corona-
menti con le bionde Grazie.
</poem>
E lo stesso poeta loda i greci pe’ biondi capelli. Nemea tx, v. 40:
<poem class="m6">
Ξανθοκομᾶν Δαναῶν
ἦσαν μέγιστοι.
</poem>
Ma ben conveniva alle Grazie la capigliatura di colore dilicato e soave, che presume il candore delle membra, e non isbatte sí {{Pt|forte-|}}<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione||{{Sc|considerazione decimaterza}}|329}}</noinclude>
Laonde io credo che il μύρον d’Archiloco, voce generale che spiega una materia liquida ed odorosa, derivi dalle voci speciali μύῤῥα, «mirra», preziosa e naturale gomma di una pianta. Cosí dalla voce speciale «''vir''» vennero le solenni «''vis''*», «''virtus''»; «''fortis''», «''fors''», «''fortuita''»: ἀνήρ, «uomo»; ἀνδρεία, «forza»; ἄνξ, «re». E qui notino i politici che «forza», «virtú» e «fortuna» hanno anche in gramatica la stessa radice. Quindi il nome della mirra, cosa preziosa e fragrante, s’applicò alle materie che avevano le medesime qualitá. Non era dunque unguento quello di cui si ungevano le compagne di Elena in Teocrito, e molto meno quello di cui Venere imbalsamò il corpo di Ettore ( ''Iliad'' ., {{Sc|xxiii}}) per farlo incorruttibile; ma era oglio semplice di rosa, immaginato, al mio parere, dal poeta per significare cosa divina e degna degli immortali, come l’ambrosia. Che se presso gli orientali e nei libri piú antichi si legge: «''Aaron unguentum capiti affundere solitus, quod in barba descenderet''» (Esodo), non perciò prova che * questo non fosse oglio, poiché nei medesimi libri si trova «''Impinguasti in oleo caput meum''» ( ''Psalm'' ., {{Sc|xxii}}, 5); né che d’altronde* i greci dovessero sin d’allora usarne. Ma che la mirra non fosse fra gli unguenti anche presso gli orientali, e che si distinguesse il culto delle vergini da quello delle spose, si vede chiaramente da quel passo nel ''Libro di Ester'' (cap. 11, 12): «''Cum venisset tempus singularum per ordinem puellarum, ut intrarent ad regem, expletis omnibus quae ad cultum muliebrem pertinebant, mensis duodecimus vertebatur; ita dumtaxat, ut sex mensibus oleo ungerentur myrrhino, et aliis sex quibusdam pigmentis et aromafibus uterentur''». Perocché, essendo riguardate quelle donzelle riserbate al letto del re quali fanciulle regali, ne’ primi sei mesi usavano della semplice mirra come vergini, e negli ultimi sei di unguenti composti come prossime alle nozze. * La meretrice, sí eloquentemente dipinta nella Bibbia, profumava di mirra il suo letto (''Liber proverb''.,cap. {{Sc|vii}}, v. 16): «''Intexui funibus lectutum vieum, stravi tapetibus pictis ex Aegypto: aspersi cubite meurn myrrha et aloè et cinnamomo. Veni, inebriemur uberibus et fruamur cupitis amplexibus, dome illucescat dies''». *
Oserò pur aggiungere una mia congettura, che non ho potuto impetrare da me stesso di abbandonare, tanto io sono convinto che nelle favole degli antichi fosse riposta tutta la teologia, la fisica e la morale di quelle nazioni. Le giovinette, e piú ancora le ingenue e regali, piú facilmente pericolavano negli amori domestici, poiché alla voce soave dell’amore si aggiungeva la ritiratezza con che il<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|332|{{Sc|vi - commento alla «chioma di berenice»}}}}</noinclude>
Il codice cartaceo, sebbene scorretto né anteriore al {{Sc|xv}} secolo, è degno di essere attentamente esplorato. Il Vossio, nel suo comento a Catullo, cita spesso un codice ch’ei chiama «''eximiae pulchritudinis''», cognominandolo or «italiano», or «milanese». Tutte le lezioni vossiane della C''hioma berenicea'' concordano con parecchie del codice A, e con tutte quasi di questo cartaceo (vedi nostre varianti e note, ''passim''). Un’altra pruova che il Vossio parli di uno di questi due codici si è ch’ei viaggiò in Italia verso l’anno 1650 * (nacque il Vossio a Leide l’anno 1618, morí sul principio del 1689);* né la biblioteca Braidense era ancora fondata, bensí l’Ambrosiana aperta sin dal 1609. E, sebbene sieno stati negli ultimi anni molti codici δορύκτητα, si sa di certo che niuno de’ catulliani è stato carpito. Vero è che il Vossio, nel corso del suo comento, cita alcuna lezione del suo codice favorito, a cui l’ambrosiano non risponde: ma chi credesse di buona fede un erudito, ove si tratti di «varie lezioni» e di dottissime «emendazioni», gli farebbe piú torto che onore. I codici, citati a dozzine e sí vantati dagli editori ed interpreti de’ classici, non sono perduti. Tutti, o la piú parte, si possono vedere nelle biblioteche, specialmente d’Italia e d’Olanda. Chi li svolgesse con critico acume, s’accorgerebbe che la maggior parte o sono triste copie d’amanuensi venali ed ignoranti, o simulazioni di letterati per arricchire le loro biblioteche e sostenere le proprie opinioni; e queste dei letterati posteriori alla stampa. *L’Heyne, esaminati i codici tibulliani tutti, li trovò posteriori al secolo {{Sc|xiv}}
(''Praefatio ad Tibul''., edit. 1, Lipsiae, 1755).* Chi non sa le gare, i rancori, le villanie degli eruditi nel secolo {{Sc|xv}} e {{Sc|xvi}}? Marc’Antonio Mureto, il piú gentile di tutti, lasciò anch’egli due esempi di mala fede; e Gioselfo Scaligero, ὁ πάνυ, due esempi di ignoranza. L’''Inno a Cibele'', che si trova nel carme {{Sc|xlii}} di Catullo, è in metro galliambo, raro fra’ latini. Lo imitò il Mureto. Piponzio Valente (nel {{Sc|ii}} delle Georgiche virgiliane, v. 392) citò come antichi alcuni galliambi foggiati dal Mureto; nel quale errore cadde lo Scaligero. Donde vennero contumelie erudite ed eruditi e scabrosissimi nulla. Pendendo tanta lite, lo Scaligero stabili nel carme {{Sc|xvii}}, v. 6, di Catullo la seguente lezione:
<poem class="it m6">
In quo vel salisubsuli sacra suscipiunto,
</poem>
fidando nel verso di Pacuvio:
<poem class="it m6">
Pro imperio sic salisubsulus nostra excubet.
</poem><noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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Pagina:Foscolo, Ugo – Prose, Vol. III, 1920 – BEIC 1824364.djvu/170
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|164|{{Sc|notizia intorno a didimo chierico}}|}}</noinclude>
volte ne risero; ma non s’assumevano d’interpretarmelo. E mi dispongo a lasciarlo inedito, per non essere liberale di noia a molti lettori, che forse non penetrerebbero nessuna delle trecentotrentatré allusioni, racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui l’opuscoletto è composto. Taluni fors’anche, presumendo troppo del loro acume, starebbero a rischio di parere cementatori maligni. Però, s’altri n’avesse copia, la serbi. Il farsi ministri degli altrui risentimenti, benché giusti, è poca onestà; massime quando paiono misti al disprezzo, che la coscienza degli scrittori teme assai piú dell’odio.
{{Ct|f=100%|v=1|t=1|lh=1.5|{{Sc|iii}}}}
Bensí gli uomini letterati, che Didimo, scrivendo, nomina «maestri miei», lodarono lo spirito di veracità e d’indulgenza d’un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal pubblicarlo, e a taluno piacerebbe ch’io lo abolissi. È un giusto volume, dettato in greco nello stile degli ''Atti degli apostoli'', ed ha per titolo: Διδύμου κληρικοῦ Ὑπομνημάτών βιβλία πέντε, e suona ''Didymi clerici libri memoriales quinque''. L’autore descrive schiettamente i casi per lui memorabili dell’età sua giovanile; parla di tre donne delle quali fu innamorato, e, accusando se solo delle loro colpe, ne piange; parla de’ molti paesi da lui veduti, e si pente d’averli veduti: ma, piú che d’altro, si pente della sua vita perduta educata dagli uomini letterati; e, mentre par ch’ei gli esalti, fa pur sentire ch’ei li disprezza. Malgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per pochi, ei dettò questi ''Ricordi'' in lingua nota a rarissimi, affinché — com’ei dice — i soli colpevoli vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene; le quali, non sapendo leggere che nella propria lingua, sono men soggette all’invidia, alla boria, ed alla {{Spaziato|venalità}}: ho contrassegnato quest’ultima voce, perché è mezzo cassata nel manoscritto. L’autore inoltre mi diede arbitrio di far tradurre quest’operetta, purché trovassi scrittore italiano che avesse piú merito che celebrità di grecista. «E siccome — dicevami<noinclude>[[Categoria:Pagine con testo greco]]</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione||{{Sc|e notizie}} ec.|183|}}</noinclude>modo egli prescinde da tutto ciò, e solamente considera il ''Fluido Elettrico'' sempre esistente già nell’Atmosfera, che ci preme, e circonda, e ch’egli chiama ''Elettricismo Aereo'', quello che sempre esiste ne’ corpi umani, e che perciò lo chiama ''Elettricismo Animale''.
L’Elettricità difatto sempre esiste nell’Aria, ma ora vi si trova in ''eccesso'', ora in ''difetto'', ora ''positiva'', ed ora ''negativa'' al variarsi principalmente delle Stagioni, e delle Meteore. Trovasi pur anche attivissima sempre nelle macchine umane, ma essendo queste capaci in varj modi ''elettrizzarsi'' pure ora in ''eccesso'', ed ora in ''difetto'', e di dare, o togliere tal fluido a’ corpi circostanti, perciò dall’Atmosfera ora ne ricevono in aggiunta, ora ne versano in essa, e {{Pt|varian-}}<ref follow="p182">principalmente col loro combinarsi, e comporsi: col loro scombinarsi, e decomporsi, ardere, fermentare, bollire, variano al sommo, e la ''Elasticità'', ed il ''Peso'', e l’''Umidità'', e la ''Seccura'', ed il ''Calore'' ec . ''I Gas aeriformi'' sono anche salubri alcuni, e respirabili, insalubri, e non respirabili altri, e più, o meno ''Affini'', poi all’''Elettricità'' stessa, alla ''Luce'', al ''Calorico'', a quelle sostanze in somma, che formano una parte integrante, e propria forse dell’Atmosfera stessa.</ref><noinclude>{{Rule}}
<references />
{{Ct|class=a destra|M 4}}</noinclude>
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Candalua
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Paperoastro" />{{RigaIntestazione|184|{{Sc|osservazioni}},|}}</noinclude>{{Pt|do|variando}} quello che in questa esiste provano pure delle massime varietà anche in quello ch’esiste dentro di loro. L’Elettricità tende costantemente a porsi in equilibrio, e accorrere ne’ corpi ne’ quali essa scarseggia. Perciò se i nostri corpi ne scarseggiano, ne ricevono subito dall’Aria, se questa poca ne contiene ne riceve subito da quelli, appunto come succede anche ne’ vegetabili. Anzi veggiamo ciò succedere in questi con una grande energia, e forza; e se questi al variare delle Stagioni, e delle Meteore molto risentonsi dell’''Elettricità'', lo stesso a proporzione succederà anche negli animali per legge di analogia, perchè niente v’è d’isolato in natura, e perchè non v’è una differenza decisa, ed assoluta tra la macchina degli uni, e degli altri.
Vediamo certamente i Corpi nostri dar forti segni d’Elettricità colle fregazioni, col moto gagliardo, col comunicare con corpi pieni di tal fluido, e farsi ''Analettrici'', o ''Idiolettrici'' anch’essi, come gli altri corpi, al caso, e nelle circostanze. Siamo certi in somma che di elettricismo sono pieni, e questi dentro di essi, secondo l’Autore, sempre nasce, e si genera dalla fregagione con-<noinclude></noinclude>
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Pagina:Leopardi - Canti, Starita (corretta), Napoli 1835.djvu/133
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OrbiliusMagister
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="BrolloBot" />{{RigaIntestazione|||127}}</noinclude><noinclude>{{FI
|file = Leopardi - Canti, Starita, Napoli 1835 (page 133 crop).jpg
| width = 190px
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| caption =
}}</noinclude>
{{A destra|῝Ον οἱ θεοὶ φιλοῦσιν, ἀποθνήσκει νέος.<br/>
Muor giovane colui ch’al cielo è caro.<br/>{{AutoreCitato|Menandro|{{Sc|Menandro}}.}}}}
<poem>
{{xxx-larger|F}}ratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
Ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle.
{{R|5}}Nasce dall'uno il bene,
Nasce il piacer maggiore
Che per lo mar dell’essere si trova;
L’altra ogni gran dolore,
Ogni gran male annulla.
{{R|10}}Bellissima fanciulla,
Dolce a veder, non quale
La si dipinge la codarda gente,
Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente;
{{R|15}}E sorvolano insiem la via mortale,</poem><noinclude><references/>
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{{raccolta|Il buon cuore - Anno X - 1911}}
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[[Categoria:Archivio Meraviglioso]]
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<noinclude><pagequality level="3" user="Yiyi" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=X|Data=Sabato, 25 Novembre 1911|Numero=48}}
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{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=25 novembre 1911|Numero=48|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|A. Baldacci}}. La Tripolitania e la Cirenaica.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=25 novembre 1911|Numero=48|Titolo=Religione|Testo=R. B. Vangelo della domenica terza d’Avvento — {{sc|Armida Lambrughi}}. Mesto e gentile ricordo — Pensieri — In memoriam.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=25 novembre 1911|Numero=48|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Per la Provvidenza Materna — Giubileo di Mons. Pogliani — Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=X|Data=25 novembre 1911|Numero=48|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Bibliografia — Diario — Piccola Posta.}}
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|-
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{{larger|Il giorno 20 corrente, in tutta Italia, ed anche a Tripoli, fu solennizzato il natalizio di Sua Maestà la Regina Madre.}}
{{larger|I bambini Ciechi dell’Asilo Infantile, inviarono a Sua Maestà, augusta patrona del loro Asilo, una gentile letterina di auguri. Il Rettore dell’Asilo riceveva il seguente telegramma:}}
{{A destra|margine=1em|Stupinigi, Real Castello, 23 Novembre.}}
{{larger|«Sua Maestà la Regina Madre la ringrazia dei devoti auguri e la prega rendersi interprete suoi benevoli sentimenti presso i Bambini Ciechi, di cui molto gradiva le gentili affettuose felicitazioni».}}
{{A destra|margine=4.5em|La dama d’onore}}
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{{centrato|OFFERTE DI OGGETTI.}}
Contessa Antonietta Sola, 18 paia mutandine, 18 corpettini e
paia calze.
{{AltraColonna}}
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C. Dotti e Fr. Vitali — Deposito Porcellane S. Paolo, 8. — Dieci pezzi: un grande vaso, 2 busti, 6 porta cenere e un vassoio per fiori.
Signora Grassi Castelli, n. 6 scialli lana.
Signora Udilia Orio Cabrini, n. 12 coperte di lana, 6 fazzoletti, 2 giubboncini e 6 paia calze.
Signorina Laura Monti, n. so capi indumenti vani.
Ditta Anita Saibene Noè, n. 6 tagli vestinette.
Drogheria Gaffuri Antonio, 39, Corso Venezia, n. to bottiglie
Marsala.
{{centrato|OFFERTE IN DENARO.}}
{{Vi|titolo=Ditta Imperiali Realini|pagina=L. 10 — }}
Si prega inviare il danaro o gli oggetti all’Istituo dei Ciechi, o ai seguenti recapiti:
{{Mlb|{{sc|Barbiano di Belgiojoso d’Este}} Principessa {{sc|Madeleine}} — Via Passione, 1.
{{sc|Bonzi Nathan}} Contessa {{sc|Sarina}} — Via Brera, 10.
{{sc|Cramer Mosterts}} Signora {{sc|Frida}} — Via Fatebenefratelli, 15.
{{sc|Denti Zaffaroni}} signora {{sc|Augusta}} — Via Rugabella, 11.
{{sc|Leonino Alatri}} Baronessa {{sc|Nina}} — Via Borgonuovo, 21.
{{sc|Osculati}} Signorina {{sc|Sofia}} — Via Principe Amedeo, 1.
{{sc|Pazzini Sajno}} signora {{sc|Alma}} — Via Borgonuovo, 2.
{{sc|Radice-Fossati Marietti}} signora {{sc|Maria}} — Via Cappuccio, 13.
{{sc|Robecchi Gagliardi}} Signora {{sc|Giuseppina}} — Via Fatebenefratelli, 15.
{{sc|Staurenghi Fossati}} signora {{sc|Amalia}} — Grand Hôtel Continental, Via Manzoni.
{{sc|Camera}} cav. {{sc|Giovanni}} — Corso P. Romana, 53.}}
Si raccomanda a chi mandasse direttamente all’Istituto dei Ciechi pacchi od offerte destinate ad un banco speciale, di mettervi il nome della Signora alla quale sono diretti.
Il giornale ''Il Buon Cuore'' pubblicherà il nome degli offerenti.
{{Nop}}
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Spinoziano
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C. Dotti e Fr. Vitali — Deposito Porcellane S. Paolo, 8. — Dieci pezzi: un grande vaso, 2 busti, 6 porta cenere e un vassoio per fiori.
Signora Grassi Castelli, n. 6 scialli lana.
Signora Udilia Orio Cabrini, n. 12 coperte di lana, 6 fazzoletti, 2 giubboncini e 6 paia calze.
Signorina Laura Monti, n. 30 capi indumenti varii.
Ditta Anita Saibene Noè, n. 6 tagli vestinette.
Drogheria Gaffuri Antonio, 39, Corso Venezia, n. 10 bottiglie
Marsala.
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Si prega inviare il danaro o gli oggetti all’Istituo dei Ciechi, o ai seguenti recapiti:
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Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 36 - 7 settembre 1912.pdf/1
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MARIO ZANELLO
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{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=7 settembre 1912|Numero=36|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo=C., Da Bellano a Taceno}}
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''Diceva il Signore Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi vestiti da pecore, ma al di dentro sono lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e, ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, sarà tagliata e gettata nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. MATTEO, Cap. 8.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
L’avviso amoroso di Gesù di guardarci dai falsi profeti ci suggerisce per vero quanto debba essere nostro impegno e come dobbiamo preoccuparci d’essere ben amici del vero profeta: vale a dire di colui che ci parla — così si deriva dalla parola ''profeta'' — la verità nell’ordine delle idee, e la giustizia nel campo sereno della pratica azione della vita.
E ciò perchè?
Oh! Gesù, sa Egli solo, quale tesoro sia la verità e la giustizia. Per vero: in cento luoghi promette ai suoi seguaci — solo grande, solo vero e più ambito premio{{AltraColonna}} — il possesso della verità, di questa forza spirituale, immateriale che ci farà liberi! Dio mio! qual cosa è mai la verità? Essa è la luce che ci avvisa dell’inciampo nel cammino della vita: luce che ne guarda dai traviamenti, dai pregiudizi, luce che dà gioia, che dà piacere, che ci fa vivere in un ambiente sereno di pace, di quiete fuori, fuori dalla tristezza d’una lotta — come la terrena — di dove vinti o vincitori tutti si ritirano vinti ed esausti.
E la giustizia? Essa è il premio — senso infinito ed inenarrabile di bontà e pace celeste — che segue l’uomo giusto. Il giusto vive appresso a Dio nel miglior rapporto: Dio esso scorge nel suo prossimo, Dio in sè e Dio si fa vicino al giusto, intorno a lui gli piove un’onda di gioia, la luce del vero, il piacere della carità, lo squisito del sacrificio, e dai fiori come dai lutti della vita gli fa sentire un sapore di gioia di paradiso!... Chi ci dà il vero, chi ci dice — temperando le esagerazioni del nostro essere — il giusto, quegli solo è il vero, il solo profeta: ci è dunque il solo, il vero amico, quell’amico che la Scrittura chiama tesoro.
{{Asterismo}}
Dove sono allora i ''falsi profeti'', quei profeti contro i quali Gesù ha — pur nella sua mitezza — parole e frasi così forti e vibrate!?
Gesù non può tollerare indugi, transazioni quando si tratta dei diritti della verità e della giustizia: dimentica d’essere mite quando sente il bisogno di scagliarsi contro i vili, che usurpando ciò che non hanno, o tradendo una santa missione di verità e giustizia, del vero e del santo hanno fatto maschera ai loro turpi fini ed opere nefande. Per costoro guerra implacabile! contro di questi il sospetto, la diffidenza ed in guardia!
Ma come scoprirli se ci si presentano non già come lupi rapaci, ma nascosti sotto il pelo d’agnello timido, mansueto, innocente?...
Non vorrei fosse la frase di Cristo applicata alla forma esteriore del profeta, per quante alle volte la parola di Cristo possa anche applicarsi materialmente: quante volte una mentita pietà, una esagerata manifestazione religiosa, una vernice di bontà non ha fatto la fortuna d’un falso profeta!... Molti ingenui — eterni bambini — contenti e soddisfatti d’una certa quiete{{FineColonna}}<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 37 - 14 settembre 1912.pdf/1
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 14 Settembre 1912|Numero=37}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Titolo=Beneficenza|Testo=Il II Congresso del Sodalizio di S. Pietro Claver per le Missioni Africane.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Titolo=Religione|Testo=B. R. Vangelo della domenica terza dopo la Decollazione — Congresso Eucaristico di Vienna.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Titolo=Necrologio|Testo={{sc|Armida Lambrughi}}, cav. dott. Lorenzo Brera.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|D. Ciampoli}}, Una pagina di Turgheniew: Un incendio in mare.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=14 settembre 1912|Numero=37|Titolo=Notiziario|Testo=Diario.}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Beneficenza}}
{{centrato|{{larger|'''Il II Congresso del Sodalizio di S. Pietro Claver'''}}}}
{{centrato|'''per le Missioni Africane.'''}}
''Einsiedeln (Svizzera)''. — Dal 27 al 31 agosto si è tenuto il II Congresso del Sodalizio sotto l’alta presidenza onoraria del R.mo Abbate dei Benedettini, Dom. Tommaso Bossart e la presidenza effettiva della Contessa Ledóchowska, direttrice generale del Sodalizio.
Ogni giorno durante i tre giorni furono tenute sedute dei direttori e delle direttrici, come pure degli zelatori e zelatrici della Pia Opera, una adunanza plenaria, e la sera una riunione intima di tutti i congressisti con discorsi, illustrati di proiezioni luminose. Nelle adunanze plenarie tennero discorsi: il R.mo Abbate Dom. Bossart, S. A. R. il principe Massimiliano di Sassonia, il Canonico Conte Ledóchowski, il Teologo von Ernst, il parroco Mäder, il P. Voibert, C. d. G. e la Contessa Ledóchowska, direttrice generale del Sodalizio. Il concorso al Congresso fu grande, e cosi la direttrice fu lieta di poter fare conoscenza personale coi più benemeriti zelatori e zelatrici del Sodalizio Claveriano dei paesi di lingua tedesca e trattar con loro dei mezzi più efficaci per la maggior diffusione del Sodalizio.
Lo scopo per il quale quest’opera per le Missioni africane e la liberazione degli schiavi lavora è nobilissimo e santo, e richiede che tutti i buoni e specialmente il clero lo sostengano. Possa il II Congresso del Sodalizio Claveriano aver contribuito a tal fine!
Nella prima adunanza plenaria, su proposta della direttrice generale furono inviati telegrammi di omaggio{{AltraColonna}} a S. Santità, Pio X, a S. Em. il Cardinale Gotti, ed a S. Em. il Cardinale Cassetta.
Ecco il testo della risposta inviata da S. Santità per mezzo dell’Em. Cardinale Merry del Val alla Contessa Ledóchowska, e che l’assemblea ascoltò in piedi:
«Santo Padre ringrazia filiale devoto omaggio zelatori e zelatrici di San Pietro Claver riuniti Congresso
pro Missioni d’Africa ed imparte adunati tutti implorata apostolica Benedizione. Card. {{sc|{{wl|Q507540|Merry del Val}}}}».
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<section begin="3" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica terza dopo la Decollazione'''}}}}
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{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''Allora alzatosi un certo dottor della legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli rispose a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? Come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, e con tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono, e avendogli dato delle ferite se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per l’istessa strada un sacerdote, il quale, vedutolo, passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui tirò innanzi. Ma un Samaritano, che faceva il suo viaggio, giunse presso di lui, e vedutolo si mosse a compassione, e se gli accostò, fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due denari, e li diede all’oste e dissegli: Abbi cura di lui, tutto quello che spenderai di più, te lo restituirò al''{{FineColonna}}<section end="3" /><noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno XI, n. 38 - 21 settembre 1912.pdf/1
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MARIO ZANELLO
54906
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 21 Settembre 1912|Numero=38}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Titolo=Religione|Testo=B. R. Vangelo della domenica quarta dopo la Decollazione.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Titolo=Necrologio|Testo=L. V, Prevosto Cesare Rolandi.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|D. Ciampoli}}, Una pagina di Turgheiew: Un incendio in mare — {{sc|A. Cantono}}, I progressi delle leggi operaie nei paesi europei — {{sc|E. A. Marchi}}, Lettere americane: Villeggiatura....}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=21 settembre 1912|Numero=38|Titolo=Notiziario|Testo=Avviso — Bibliografia — Diario.}}
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<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica quarta dopo la Decollazione'''}}}}
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{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''In quel tempo vedendo il Signore Gesù lungo la strada una pianta di fico, si accostò ad essa, e non vi trovò altro che foglie, e le disse: non nasca mai più da te frutto in eterno. E subito il fico si disseccò. Avendo ciò veduto i discepoli, ne restarono ammirati, e dicevano: Come si è disseccato in un attimo? Ma Gesù rispose, e disse loro: In verità vi dico, che se avrete fede, e non vacillerete, farete non solo quel che è stato di questo fico: ma quand’anche diciate a questo monte: levati e gettati in mare, sarà fatto. E ogni qualunque cosa che domanderete nell’orazione credendo, lo otterrete.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. MATTEO, Cap. 2.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
Gesù — evidentemente — prende occasione di quest’albero sgraziato per parlare una volta di più della fede. È la sua preoccupazione questa del bisogno della fede per la salute, per il bene di tutti: nè a Gesù sfugge occasione per parlare di ciò: dice cosa sia, in che si trovi, quale ne sarà il frutto, quale forza d’azione essa crei, come si moltiplichi, come e dove tenda, ecc. Ad ogni pagina — dirò così — del Vangelo noi ci imbattiamo in questa magica parola, che Gesù primo portò in mezzo agli uomini superbi ed orgogliosi dell’acutezza della loro mente, della forza irresistibile della logica e del pensiero. A fianco della ragione, luce che la guida e sorregge, brilla più alta, più tranquilla, più{{AltraColonna}} fulgida una seconda luce, un raggio più vivido, la fiaccola della fede. Tanto è ciò vero che i nemici della Chiesa crearono la strana teoria, essere solo sufficiente a salute la fede, quest’essere l’unico e solo mezzo di giustificazione, indipendentemente dall’azione morale.
Tale teoria è perniciosissima. Persuasi da una parte che il mondo segni la propria rovina il giorno nel quale o la vera fede impallidirà ed altre fedi d’origine e finalità umane prenderanno il suo posto, pure dal discorso di Cristo, troviamo il controllo sano, il reagente per conoscere quale sia la ''vera'' fede, la fede ''buona'', la fede alla quale sono solo ed unicamente legate le grandi promesse di Cristo, del Redentore.
{{Asterismo}}
Ed a ragione Gesù ci dà modo d’un suo controllo. Ogni giorno versa nella società — vestita di scienza, di progresso, d’ardire, di nuovo — teorie che s’allargano e chiedono il tributo delle umane menti.... come avere il controllo quale delle molte sia la vera, dato che se l’una dice il vero, l’altre che l’avversano sono false? Dove il reagente che m’assicuri delle purità dell’oro dalle mistificazioni dell’orpello?
Gesù lo dice.
Osservate il frutto, come egli aveva detto quando aveva invitato già i discepoli a distinguere i buoni dai cattivi, dai frutti che avrebbero dato: ''Ex fructibus eorum cognoscetis eos''.
Gesù non maledice la pianta perchè non ha fatto frutto, ma solo perchè la frondosità di quell’albero — segno esteriore di grande vitalità e vigoria — l’aveva tratto in inganno, e dal fatto sfuggito era stata dolorosamente sorpresa la sua buona e ragionevole speranza. La maledizione di lui era meritata.... Avesse avuto innanzi una grama, stecchita pianta sbattuta dal vento, aridita dalla siccità ostinata; disseccata dalla mancanza d’umore, bruciata dal solleone, oh! l’avrebbe tollerata, ma non poteva darsi tolleranza qui dove l’abbondanza di tutti gli elementi vitali mal lavorati avevano dato foglie e foglie senza l’utile d’un solo frutto.
Al contatto della parola di Cristo — parola che opera, che agisce, parola di verità — luce che si tramuta in azione, ecco la fede! — la ficaia inaridisce e muore.
{{FineColonna}}<noinclude><references/></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 28 Settembre 1912|Numero=39}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Titolo=Beneficenza|Testo=Una festa a Bellano: Inaugurazione della bandiera della Società Femminile di Mutuo Soccorso.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Titolo=Religione|Testo=B. R. Vangelo della domenica quinta dopo la Decollazione — Congresso Eucaristico di Vienna.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|F. Meda}}, Impressioni lauretane — {{sc|Samarita}}, Sonatore d’organino.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Francobolli usati.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=28 settembre 1912|Numero=39|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Beneficenza}}
{{centrato|{{larger|'''Una festa a Bellano'''}}}}
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}}
{{centrato|'''Benedizione della Bandiera'''}}
{{centrato|'''della Società Femminile di Mutuo Soccorso.'''}}
Domenica scorsa, 22 corrente, la grossa borgata di Bellano era in festa. Si inaugurava, colla benedizione in chiesa, la bandiera delia ''Società Femminile di Mutuo Soccorso''. Molte Società, coi loro vessilli, erano convenute, con larghe rappresentanze, dai paesi vicini, dai monti e dal lago. Un corteo, preceduto dalla banda del paese, si organizzò prima di recarsi alla Chiesa. Monsignor Nogara, in mitra e pluviale, benedisse la bandiera, e {{wl|Q60484781|Mons. Vitali}} recitò un breve discorso di circostanza.
La festa fu resa più animata e solenne, da una copiosa pesca di beneficenza, che fruttò più di lire quattromila, e da una esposizione di svariati lavori, nel nuovo salone della ''Scuola di lavoro femminile'' e dell’''Oratorio festivo''.
Discorsi vennero poi tenuti di propaganda dell’azione cattolica sulla piazza dello storico tempio da diversi distinti oratori, dal signor Capellini, dall’avv. Narizzano e dalla signorina Lina Brambilla. Il senatore Gavazzi e il cav. Domenico Arrigoni, chiusero la serie dei discorsi, ai quali avevano fatto d’esordio alcune appropriate parole del sac. Giuseppe Melasi.
Ecco le parole di Mons. Vitali.
{{Rule|4em|000}}
Una cara e geniale solennità, religiosa e insieme patriottica oggi ne raccoglie qui nel Tempio.
Voi siete qui convenuti a chiedere la benedizione di{{AltraColonna}} Dio sulla bandiera della ''Società femminile di Mutuo Soccorso''. Questa solennità è completata da altre, dalla costruzione del fabbricato per l’''Oratorio'' e per la ''Scuola femminile di lavoro'', unita ad una pesca di beneficenza per raccogliere i mezzi necessari ai molteplici scopi. Son diverse forme, son diversi momenti di un’opera sola importantissima, la elevazione morale e materiale della giovane.
Annunciare lo scopo è farne conoscere l’importanza. Provvedere al bene della gioventù femminile è giovare al bene di tutto il paese, non solo pel presente, ma anche pel futuro: salvare la giovane in modo indiretto ma efficace sono salvati in un paese anche i giovani. E pel futuro?
La giovine di oggi sarà domani madre, la madre centro della famiglia, che tanta influenza ha nel preparare il benessere di tutta la società. Giustamente fu detto che sulle ginocchia della madre, nel bambino si forma e passa tutta l’umanità.
Il bene della giovane è procurato mediante l’educazione e il lavoro; educazione cristiana, formata dalla dottrina del Vangelo, vivificata dall’ambiente salutare dell’''Oratorio festivo'', e dal lavoro, nota caratteristica dell’epoca presente, il lavoro è ciò che ora costituisce la dignità dell’uomo in mezzo alla società. Una volta si diceva: l’uomo tanto vale, quanto sa: oggi si dice: l’uomo tanto vale quanto lavora.
E questo lavoro, sempre utile e lodevole, anche quando è isolato, assume maggior forza e importanza, quando abbia il carattere di mutuo soccorso. L’organizzazione è la forza dell’operaio e del lavoratore: è forza nella difesa contro le sopraffazioni di classe opposte, è forza nella rivendicazione dei propri diritti: ciò vale a un tempo per gli uomini e per le donne.
Le diverse forme della vita collettiva della gioventù operaia femminile vogliono però avere un simbolo che le rappresenti, che le associ, che le spinga all’azione. Questo simbolo è la bandiera.
Voi siete venuti qui per far scendere su questa bandiera la benedizione di Dio, e il suo ministro l’ha solennemente invocata.
Benedite, o Signore, questo simbolo della istruzione cristiana della giovane, e sia per essa luce di verità, preservazione dall’errore e dai corrotti costumi.
{{Nop}}
{{FineColonna}}<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 5 Ottobre 1912|Numero=40}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=5 ottobre 1912|Numero=40|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=5 ottobre 1912|Numero=40|Titolo=Religione|Testo=B. R. Vangelo della domenica prima d’ottobre — Congresso Eucaristico di Vienna — Fiori d’arancio.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=5 ottobre 1912|Numero=40|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo={{sc|Un’antica allieva}}, Tributo di riconoscenza — {{sc|F. Meda}}, Impressioni lauretane.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=5 ottobre 1912|Numero=40|Titolo=Società Amici del bene|Testo=Per la Provvidenza Materna.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=5 ottobre 1912|Numero=40|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica prima d’Ottobre'''}}}}
{{Rule|6em|000}}
{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''Il Signore Gesù disse questa Parabola: Un uomo aveva un albero di fico piantato nella sua vigna, e andò per cercare dei frutti di questo fico e non ne trovò. Allora disse al vignaiuolo: Ecco che son tre anni che vengo a cercar frutto da questo fico e non ne trovo: troncalo adunque: perchè occupa egli ancora il terreno? Ma questi rispose e dissegli: Signore, lascialo stare ancora per qualche anno, fintanto che io abbia scalzato intorno ad esso la terra, e vi abbia messo del letame: e se darà frutto, bene, se no, allora lo taglierai. E Gesù stava insegnando nella loro Sinagoga in giorno di sabato. Quand’ecco una donna, la quale da diciotto anni aveva uno spirito che la teneva ammalata, ed era curva e non poteva per niun conto guardar all’insù. E Gesù vedutala, la chiamò a sè e le disse: Donna, tu sei sciolta dalla tua infermità. E le impose le mani, e immediatamente fu raddrizzata e glorificava Iddio. Ma il capo della Sinagoga, sdegnato che Gesù l’avesse curata in giorno di sabato, prese a dire al popolo: Vi sono sei giorni nei quali si convien lavorare: in quelli adunque venite per essere curati, e non nel giorno di sabato. Ma il Signore prese la parola e disse: Ipocriti, chicchessia di voi non iscioglie egli in giorno di sabato il suo bue, o il suo asino dalla mangiatoia, e lo conduce a bere? E questa figlia di Abramo, tenuta già legata da Satana per diciott’anni, non doveva essere sciolta da questo laccio in giorno di sabato? E mentre diceva tali cose,{{AltraColonna}} arrossivano tutti i suoi avversari; e tutto il popolo si godeva di tutte le gloriose opere che da lui si facevano.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. LUCA, cap. 13.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
Quando Gesù ebbe a recitare il brano evangelico d’oggi agli Ebrei era impressionato dall’annunzio a lui dato d’un’ecatombe di connazionali ordinata da Erode, e d’una disgrazia occorsa in una caduta della torre in Siloe, dove diciotto persone vi trovarono la morte.
Gesù — inveendo contro il pregiudizio solito — occorrere le disgrazie od infortunii materiali in castigo di colpe di carattere morale — li scagiona dall’accusa d’essere stati quelli più debitori verso la divina giustizia che non altri ch’erano in Gerusalemme, e che si erano meritato per re quella volpe d’Erode. Passando poi — rapidamente — da questo all’insegnamento morale — ciò che più gli era a cuore — li esorta perchè abbiano a fare penitenza, sacrificio, abnegazione, assicurandoli che, ove a ciò si fossero rifiutati, tutti quanti sarebbero periti similmente.
Da ciò l’esemplificazione della parabola, che posta in seguito e nel tempo in cui fu recitata acquista il suo vero significato, cioè: Dio ha per noi delle cure della pazienza: allorchè è imminente un atto di giustizia, una intercessione ci salva domandando una dilazione di grazia, di tempo, di cure maggiori: non invano si irride alla divina pietà.
Più sotto Gesù si adopera — col suo esempio — a significarci in che consista o cosa sia la penitenza, la pietà, la forza religiosa: non istare cioè in un semplice ed esagerato culto di esterne formole legali, ma — senza trascurarle od ometterle — la penitenza — secondo Gesù — si trova in quello spirito pronto ed alacre a tollerare contradizione sopra di sè, dando a favore del bisognoso e del fratello l’energia della virtù del soccorso.
{{Asterismo}}
La pianta sgraziata che da tre anni — tre epoche — occupa inutilmente il terreno, nè dà alcun frutto, pur troppo ci rappresenta a meraviglia. Nè ciò dico della società: no, ogni individuo vi è rappresentato, e forse più l’individuo religioso: Il padrone — Dio — {{FineColonna}}<noinclude><references/></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" /></noinclude><section begin="1" />{{Il buon cuore - Intestazione|Annata=XI|Data=Sabato, 12 Ottobre 1912|Numero=41}}
{{Colonna}}
{{Il buon cuore - Sommario|Annata=XI|Data=12 ottobre 1912|Numero=41|Ordine fisso=no|1={{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=12 ottobre 1912|Numero=41|Titolo=Educazione ed Istruzione|Testo=Un Cardinale inglese che fa l’elogio del Rosmini — {{sc|G. Morando}}, La Duchessa di Genova Madre.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=12 ottobre 1912|Numero=41|Titolo=Religione|Testo=B. R. Vangelo della domenica seconda d’ottobre — Congresso Eucaristico di Vienna — I primi martiri d’Uganda — Echi e letture.}}
{{Il buon cuore/Titoli sommario|Annata=XI|Data=12 ottobre 1912|Numero=41|Titolo=Notiziario|Testo=Necrologio settimanale — Diario.}}
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}}<section end="1" />
<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Educazione ed Istruzione}}
{{centrato|{{larger|'''Un Cardinale inglese che fa l’elogio del Rosmini'''}}}}
{{centrato|{{smaller|(dalla ''Rivista Rosminiana'')}}}}
Il giorno di domenica 23 dello scorso giugno il cardinale {{wl|Q729679|Bourne}}, Arcivescovo di Westminster e Primate della Chiesa Cattolica in Inghilterra, onorò della sua presenza e della sua parola la festa patronale della chiesa parrocchiale di S. Etheldreda nel quartiere di Holborn in Londra, l’unica chiesa anteriore alla rivoluzione protestante, che sia stata poi, nel 1876, restituita al culto cattolico. La parrocchia di S. Etheldreda è governata dai Padri dell’Istituto della Carità (i Padri Rosminiani), ai quali la volle affidata il grande cardinale Manning.
Ricordando questa scelta, nella sua predica, il cardinale Bourne ne prese occasione per pronunciare intorno ad {{wl|Q337311|Antonio Rosmini}} alcune parole, le quali riescono degne di nota, non tanto in se stesse, quanto per le circostanze in cui vennero pronunziate, da un porporato, da un arcivescovo davanti ai suoi fedeli, in chiesa e in mezzo ai sacri riti. Dopo aver ripetuto che il fondatore dell’Istituto della Carità fu «uno dei più sapienti e santi uomini della Chiesa Cattolica del secolo scorso», il cardinale continuò: «Io non credo coll’aver detto ciò di aver esagerato. Egli fu un uomo di talenti straordinari. Mostrò, nel mezzo degli avvenimenti politici della prima metà del secolo scorso, una profonda preveggenza, quale a pochi è data. Fu uomo di carità grande e soffrì come pochi hanno sofferto, perchè vi fu un momento nella sua vita in cui, umanamente parlando, sembrava certa la sua elevazione a un’altissima dignità nei consigli del governo della Chiesa Universale, onde avrebbe esercitato un’influenza {{pt|va-}}{{AltraColonna}}{{pt|stissima|vastissima}}. Ad un tratto tutto cambiò. Nuovi fatti politici attraversarono la via a deliberazioni già prese ed annunciate<ref>Pio IX aveva già fatto conoscere iteratamente a lui e ad
altri la sua volontà di crearlo cardinale.</ref> e in tutto il resto della sua vita, che fu circa sei anni, egli dovette portare in cuore la consapevolezza di esser stato mal compreso o guardato con sospetto. Sappiamo come passò quegli anni. Un’abnegazione e una carità meravigliosa sigillarono le sue labbra.... ''Nel silenzio e nella speranza sarà la vostra forza'', divenne il suo motto....».
L’intero discorso si legge nel ''The Universe'' del 28 giugno passato.
{{FI
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{{centrato|{{larger|'''La Duchessa di Genova Madre'''}}}}
{{centrato|{{smaller|(Dalla ''Rivista Rosininiana)'',}}}}
Pure la memoria di S. A. R. {{wl|Q58788|Elisabetta Principessa di Sassonia e Duchessa di Genova}}, morta nello scorso agosto tra il compianto dell’Italia tutta, si lega alla memoria del sommo nostro filosofo. Ella visse per più di mezzo secolo nella villa che era stata di Antonio Rosmini, ed ivi educò {{wl|Q135631|Margherita}}, il fiore delle Regine, e {{wl|Q2253617|Tommaso}}, il capo supremo della nostra ammirabile Armata.
Il Rosmini s’era stabilito a Stresa fino dal 1835, nel quale anno acquistò dalla signora Anna Maria Bolongaro un casino sopra Stresa che fu il principio di quel magnifico Collegio che porta il nome di lui ed è detto per la sua ridentissima posizione «occhio del lago». Nel ’48 la pia vedova, ammirando l’altissima carità con cui il Rosmini prodigava le sue proprie ricchezze e tutto sè in sante opere, gli lasciò in eredità la sua villa giù in riva al Verbano. Quivi egli si stabili definitivamente dopo il ritorno dalla sua burrascosa Missione a Roma, e dalla sua ''Vita'' appare quale nobile esistenza vi condusse e quali insigni ospiti del mondo ecclesiastico e del mondo politico vi si recarono a visitarlo. Basti ricordare — ''sufficit unus Plato'' — {{wl|Q1064|Alessandro Manzoni}} e le sue frequenti gite dalla vicina Lesa, e le ''Stresiane'' che ne scrisse il giovane {{wl|Q1394707|Bonghi}}.
Morto il Rosmini, nel 1857 la villa fu comprata dalla{{FineColonna}}<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="2" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|333|riga=si}}</noinclude>{{FI
|file = Il buon cuore - Anno XIII, n. 42 - 24 dicembre 1914 (page 5 crop).jpg
}}
Angeli di Natale
Fra le abbrunate spose
le madri dogliose,
Fra bimbi senza lane
vecchi senza pane
Annunziate piamente
Che tornerà l’Assente.
Angeli di Natale,
Bianche stendete l’aie
E per l’azzurra via
Degli astri sulla scia
Ridiscendete a volo
In fiammeggiante stuolo
Nel trambasciato mondo
Gemente dal profondo....
Dove cade la neve
A fiocchi, lieve, lieve;
Dove la nebbia frigida
Infosca l’aria rigida;
Dove mormora il vento
In tono di lamento,
Sovra i negletti avelli
Spargete i fior più belli,
Alle insepolte salme
Alloro date e palme.
Trista l’ora che volge!
Da maledette bolge
Or disfrenata, bieca
Nuova barbarie impreca
E i popoli trascina
All’ultima rovina
In lotta fratricida
Con ferocia omicida.
Fra i solchi insanguinati
Fra morti e mutilati,
Sovra il campo macabro
Di gelo e d’armi scabro
Scendete voi pietosi
Fra vinti e vittoriosi..
Poi riprendete il volo
Su nell’azzurro a stuolo,
In cielo risalite
Ed all’Eterno dite
Tutto lo scempio atroce
Della guerra feroce....
Di quest’orrenda guerra
Che sconvolge la terra!
Dite i dolor, le pene
Dei captivi in catene,
Gli strazi d’innocenti
E dei giusti i lamenti.
Ditegli che un vagito
I-la l’uomo redimito!
Per tal divino pianto
Mite lavacro santo
Sovra il percosso mondo
Di sangue e colpa immondo
Che nel terror si sfate,
Implorate la pace!
Rapite al focolare
L’eco di voci care
Per tutte le esiliate
Anime sconsolate.
Fra i rovi della siepe
Rievocate il presepe,
Fra i rami dell’abete
La speranza intessete
Che allieti e rassicuri
Il cuor dei morituri!
Nelle deserte case
Dall’angoscia pervase,
Angeli di Natale,
Salvateci dal male
Torino.
Contessa Rosa di S. Marco.<noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno XIII, n. 42 - 24 dicembre 1914.pdf/8
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Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="0" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|336|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{FI
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}}<noinclude><references/></noinclude>
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Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 46 - 11 novembre 1911.pdf/7
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Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|367|riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}''l’un l’altro. E usciranno fuori risolti falsi profeti, e sedurranno molta gente. E per essere soprabbondata la iniquità, raffredderassi la carità in molti. Ma chi persevererà sino alla fine, questi sarà salvo. E sarà predicato questo Vangelo del regno per tutta la terra, per testimonianza a tutte le nazioni, e allora verrà la fine. Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): Allora coloro che si troveranno nella Giudea, fuggano ai monti, e chi si troverà sopra il solaio, non iscenda per prendere qualche cosa di casa sua, e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide o che avranno bambini al petto in quei giorni. Pregate perciò che non abbiate a fuggire di verno o in giorno di sabato. Imperocchè grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, nè mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saran no accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo: non date retta. Imperocchè usciranno fuora de’ falsi cristi e de’ falsi profeti, e faranno miracoli grandi e prodigi da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco io ve l’ho predetto. Se dunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto: non vogliate movervi: Eccolo in fondo della casa, non date retta. Imperocchè siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere sino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni, si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potestà de’ cieli saranno sommosse. Allora il regno del Figliuol dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra e vedranno il Figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi angeli, i quali con tromba a voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità dei cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine: quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che la state è vicina: così ancora, quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino alla porta. In verità io vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno: ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, nemmeno gli angeli del cielo, eccetto il solo Padre. E come (fu) ai tempi di Noè, così sarà ancora al venire del Figliuol dell’uomo. Imperocchè siccome nei giorni avanti al diluvio gli uomini se ne stavano mangiando e bevendo, sposando e dando a marito le donne, sino a quel giorno che Noè entrò nell’arca, e non si detter pensiero, fino a tanto che venne il diluvio, e uccise tutti; così sarà alla venuta del Figliuol dell’uomo. Allora due saranno in un campo: uno sarà preso, e l’altro abbandonato. Due donne saranno a macinare al mulino; una sarà presa, e l’altra abbandonata. Vegliate dunque perchè non sapete a che ora sia per venire il Signore vostro.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. MATTEO, cap. 24.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
Una prima lettura può darci l’impressione d’una discontinuità nel discorso di Cristo. Così non è in realtà. Agli Apostoli risponde nella prima parte con{{altraColonna}} linguaggio presente, predicendo il futuro: nella seconda Gesù — che intende più l’opera morale e spirituale che non ciò che sarà di Geruralemme città — passa al tipo da detta città rappresentato nei redenti di Lui, nel giudizio che verrà a dire l’ultima, suprema parola sull’opera del mondo.
A dar maggior peso alle proprie parole, a richiamare una più profonda attenzione nei suoi apostoli, Cristo richiama «l’orror della desolazione» di Daniele profeta, e s’accinge a volta sua a parlare della opera sua non più di Redentore, ma di Giudice.
{{asterismo}}
La venuta di Cristo viene da lui medesimo annunciata così: «Come il lampo esce dall’Oriente e compare in Occidente, così sarà la venuta del Figlio».
Già nel Vangelo sta scritto che «ogni giudizio il Padre ha confidato al Figlio» ma qui si nota e manifesta il terribile modo di sua apparizione.
Nella notte densa e tenebrosa della malizia umana, nella notte delle indefinite colpe degli uomini, nella notte oscura delle verità religiose, della morale cristiana, delle opere buone, nella notte terribile sopra quel mare immenso che sarà stata la vita umana per tutto lo spazio, per tutti i tempi, d’improvviso tanta tenebre d’un sobbalzo verrà illuminata da un lampo di folgore.... Ripiomberà tantosto in più densa tenebra, ma quell’istante basterà al Figliuol dell’Uomo per il trionfo del vero, del bene. Sarà stato sufficiente un’istante di luce per la fuga delle tenebre e l’orrore del vizio: sara più che sufficiente a Cristo il muover del ciglio per far alato il trionfo della verità oppressa, della virtù conculcata.
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Ha detto il Signore: «Chiunque avrà dato gloria a me io lo farò glorioso».
Si rende gloria a Dio mediante l’opere buone: riflettendo in terra parte di quel bene che Dio — prima che il mondo fosse — operava nel cielo.
Argomento di consolazione! Quante sofferenze patite, quante secrete torture in un anima innocente al contatto forzato di tante cattiverie e di tante iniquità!... quante lotte nel cuore d’una madre sul futuro dei figli teneri, pel figlio lontano, sulla gentile che le cresce allato, fiore vergine oggi... forse domani!... quale ansia per il giovane gagliardo da mille insidie or aperte, or ascose, or violenti, or blande per essere fedele al timido ambiente di casa, alle cure dei genitori, a Cristo!
L’Apostolo S. Paolo a questo pensiero così conchiudeva: «....per questo ho giudicato un discapito tutte le cose e le stimo come rifiuto per fare acquisto di Cristo, affine di conoscere Lui e l’efficacia della sua risurrezione e la partecipazione dei suoi patimenti confermatemi dalla morte di Lui, onde in qualche modo giunga io pure alla risurrezione da morte».
Parole augurali e sante! Ogni cosa quaggiù non vivificata dal pensiero di Cristo è frutto sterile o di morte:
in unione a Cristo ogni minima cosa si trasnatura e si
rende frutto di vita eterna.
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'''Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’''Enciclopedia dei Ragazzi''.'''
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Domenica, fra l’esultanza dell’intera borgata che, accolse le Autorità e la folla degli invitati al suono quiste che rinsaldano i migliori rapporti tra le diverse della ''Marcia Reale'' — si è benedetto con rito solenne dal Rev.mo Monsignor G. Polvara — per speciale delegazione dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo di Milano: — e si è inaugurato questo magnifico Asilo. Esso onora il nome della nobil famiglia Uboldi, e ne testimonia l’illuminata beneficenza. — Questa parola che spesso commuove ed esalta, ha avuto nel forbito e limpido discorso inaugurale del cav. Ferdinando Uboldi — il quale con la madre, donna Angelina Uboldi Cavallotti, ostenne tutte le spese — la più simpatica illustrazione.
Accennati gli inconvenienti dell’urbanesimo, e ricordata l’opportunità di un discentramento della beneficenza, per meglio aiutare i bisogni dei piccoli comuni, mentre i grandi centri trovano nel loro crescente sviluppo di energie i mezzi sufficienti per provvedere alle varie forme di assistenza, il cav. Uboldi disse le ragioni che già da tempo premevano sul cuore della madre sua e di lui, perchè anche a Paderno sorgesse un Asilo infantile. Pur lodando il fervore delle numerose benefiche iniziative che si sono segnalate in questi ultimi anni, la mentò la soverchia specializzazione della beneficenza, la quale appunto va a danno di coloro che si vogliono beneficare. L’opera dei buoni dovrebbe più specialmente raccogliersi intorno alle istituzioni che più specialmente provvedono agli ammalati, ai vecchi, e ai bambini. E dando rilievo alla dolcezza del sentimento che la Regina Elena, grande protettrice dell’infanzia, ed affermato che non vi debbono essere fanciulli cattivi, il cav. Uboldi fece un inno alla bellezza e alla poesia del fanciullo. Con quella geniale erudizione che viene dal cuore, egli fece una rapida sintesi dell’amore e del culto pei bambini attraverso la storia e i popoli più antichi e più rozzi. E fini tra applausi ricordando la necessità del concetto educativo e morale, che deve campeggiare nella vita di un Asilo: integrazione dell’opera della famiglia, la quale non deve mai sottrarsi ai doveri che le incombono anche rispetto alla società.
Il Prefetto, sen. Panizzardi, espresse la sua viva {{pt|com-}}{{altraColonna}}{{pt|piacenza|compiacenza}} di dover di frequente assistere a feste inaugurali che documentano il progresso civile, lo spirito di iniziativa e di beneficenza delle popolazioni lombarde. Tutto ciò costituisce la più schietta manifestazione di sana democrazia, che si palesa più specialmente nella beneficenza da parte delle classi dirigenti, intesa con alto sentimento di solidarietà umana. Sono queste con classi sociali. Chiuse il suo discorso, applauditissimo, con un plauso alle benemerenze antiche della casa Uboldi e ai generosi donatori.
Il Rev.mo Monsignor Polvara, data comunicazione di una lettera dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo bene augurando ai generosi donatori, aggiunse una serie di apprezzate considerazioni intorno all’obbligo di educare cristianamente la prole — e, manifestata tutta la sua compiacenza di presenziare tanta solennità, imsplorava le più elette benedizioni dal Cielo sulla nobil famiglia Uboldi e sull’opera loro.
Parlarono quindi — pure applauditi — il dott. Maga, sindaco del Comune, facendosi interprete della riconoscenza del paese, l’onorevole Taverna con poche ma vibrate parole dimostrò come la formazione del cittadino si debba curare fin dalla prima infanzia, affinchè le nuove generazioni sieno cresciute nel sentimento del dovere e mirino alla grandezza della Patria.
La cerimonia si è chiusa con un nuovo plauso espresso dal Rev. sig. Parroco locale — e coll’offerta di una artistica pergamena con una medaglia d’oro al cav. Ferdinando Uboldi da parte dei suoi coloni a testimonianza dei buoni ed antichi rapporti che intercedono fra i coloni e la famiglia Uboldi.
Erano fra gli intervenuti il comm. Giuseppe De Capitani d’Arzago, l’on. Dozzio, i fratelli baroni Bagatti-Valsecchi, il marchese Stanga, il conte Bazzero, il generale Costantini, il cav. Gavazzi per la Provincia, l’ispettore prof. cav. Fontana pel Provveditore agli studi, molte e molte signore della nostra aristocrazia; e rispettabili famiglie della città e dintorni.
La direzione dell’Asilo è affidata alle Religiose della Piccola Casa della divina Provvidenza (Cottolengo).
L’Emin. signor Cardinale Arcivescovo faceva tenere alla nobil famiglia Uboldi in sì fausta occasione il prezioso suo autografo:
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Accennati gli inconvenienti dell’urbanesimo, e ricordata l’opportunità di un discentramento della beneficenza, per meglio aiutare i bisogni dei piccoli comuni, mentre i grandi centri trovano nel loro crescente sviluppo di energie i mezzi sufficienti per provvedere alle varie forme di assistenza, il cav. Uboldi disse le ragioni che già da tempo premevano sul cuore della madre sua e di lui, perchè anche a Paderno sorgesse un Asilo infantile. Pur lodando il fervore delle numerose benefiche iniziative che si sono segnalate in questi ultimi anni, la mentò la soverchia specializzazione della beneficenza, la quale appunto va a danno di coloro che si vogliono beneficare. L’opera dei buoni dovrebbe più specialmente raccogliersi intorno alle istituzioni che più specialmente provvedono agli ammalati, ai vecchi, e ai bambini. E dando rilievo alla dolcezza del sentimento che la Regina Elena, grande protettrice dell’infanzia, ed affermato che non vi debbono essere fanciulli cattivi, il cav. Uboldi fece un inno alla bellezza e alla poesia del fanciullo. Con quella geniale erudizione che viene dal cuore, egli fece una rapida sintesi dell’amore e del culto pei bambini attraverso la storia e i popoli più antichi e più rozzi. E fini tra applausi ricordando la necessità del concetto educativo e morale, che deve campeggiare nella vita di un Asilo: integrazione dell’opera della famiglia, la quale non deve mai sottrarsi ai doveri che le incombono anche rispetto alla società.
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Il Rev.mo Monsignor Polvara, data comunicazione di una lettera dell’Emin. signor Cardinale Arcivescovo bene augurando ai generosi donatori, aggiunse una serie di apprezzate considerazioni intorno all’obbligo di educare cristianamente la prole — e, manifestata tutta la sua compiacenza di presenziare tanta solennità, imsplorava le più elette benedizioni dal Cielo sulla nobil famiglia Uboldi e sull’opera loro.
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La cerimonia si è chiusa con un nuovo plauso espresso dal Rev. sig. Parroco locale — e coll’offerta di una artistica pergamena con una medaglia d’oro al cav. Ferdinando Uboldi da parte dei suoi coloni a testimonianza dei buoni ed antichi rapporti che intercedono fra i coloni e la famiglia Uboldi.
Erano fra gli intervenuti il comm. Giuseppe De Capitani d’Arzago, l’on. Dozzio, i fratelli baroni Bagatti-Valsecchi, il marchese Stanga, il conte Bazzero, il generale Costantini, il cav. Gavazzi per la Provincia, l’ispettore prof. cav. Fontana pel Provveditore agli studi, molte e molte signore della nostra aristocrazia; e rispettabili famiglie della città e dintorni.
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Accennati gli inconvenienti dell’urbanesimo, e ricordata l’opportunità di un discentramento della beneficenza, per meglio aiutare i bisogni dei piccoli comuni, mentre i grandi centri trovano nel loro crescente sviluppo di energie i mezzi sufficienti per provvedere alle varie forme di assistenza, il cav. Uboldi disse le ragioni che già da tempo premevano sul cuore della madre sua e di lui, perchè anche a Paderno sorgesse un Asilo infantile. Pur lodando il fervore delle numerose benefiche iniziative che si sono segnalate in questi ultimi anni, la mentò la soverchia specializzazione della beneficenza, la quale appunto va a danno di coloro che si vogliono beneficare. L’opera dei buoni dovrebbe più specialmente raccogliersi intorno alle istituzioni che più specialmente provvedono agli ammalati, ai vecchi, e ai bambini. E dando rilievo alla dolcezza del sentimento che la Regina Elena, grande protettrice dell’infanzia, ed affermato che non vi debbono essere fanciulli cattivi, il cav. Uboldi fece un inno alla bellezza e alla poesia del fanciullo. Con quella geniale erudizione che viene dal cuore, egli fece una rapida sintesi dell’amore e del culto pei bambini attraverso la storia e i popoli più antichi e più rozzi. E fini tra applausi ricordando la necessità del concetto educativo e morale, che deve campeggiare nella vita di un Asilo: integrazione dell’opera della famiglia, la quale non deve mai sottrarsi ai doveri che le incombono anche rispetto alla società.
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L’Asilo Infantile Uboldi costruito a Dugnano: fu studiato in base alle migliori e più moderne norme, che
formano i regolamenti e le leggi concernenti
tal genere di costruzione.
La località scelta in posizione adattatissima all’uopo per ubicazione e per orientamento, favoriscono in modo non indifferente questa costruzione che nella sua semplice grandiosità viene ad imporsi allo sguardo del profano.
Il fabbricato consta a chi lo osserva sulla fronte principale, verso la strada comunale Paderno da Dugnano ad Incirano, di un fabbricato centrale a due piani e di due parti laterali ad un piano solo; la facciata in rientranza dal ciglio della strada di parecchi metri, è formata da un alto zoccolo di pietra artificiale imitante il Breno, il resto in mattoni a vista con fascie chiare fino alla cornice di gronda che sulla parte centrale porta un fregio con la scritta: ''Asilo Infantile Uboldi'' in gres racchiuso da fascie in piastrelle policrome.
Tutta la grondaia dell’edificio è in legno con mensole racchiudenti una fascia in graffito. La linea di distacco tra lo zoccolo e la{{altraColonna}} parte in mattoni è attenuata da una ricca cornice in gres policromi e in corrispondenza ai cappelli delle finestre del primo piano, una fascia interrotta di piastrelle a colori, passa e divide il piano terreno dal superiore.
I cappelli delle finestre semplici e delle trifore della facciata, la porta in tre parti, cioè l’apertura centrale, e le due finestrelle laterali, sono pure della stessa pietra artificiale dello zoccolo, allo scopo di creare un distacco chiaro sul rosso bruno dei mattoni e sui colori varii delle piastrelle e dei gres decorativi. La facciata quindi, nel suo assieme è severa e semplice, vaga di tinte e nello stesso tempo, seria, sobria nella massa e nei particolari architettonici, ricca di quella originalità tale che dà un senso di gaiezza a chi l’osserva. Una grandiosa cancellata, chiusa da pilastri recinge la fronte del terreno adibito a detta costruzione alla quale si accede per mezzo di un cancello centrale e di due cancelletti laterali formanti un unico motivo architettonico.
In resto del fabbricato, pure a mattoni in vista eccetto i piccoli fabbricati interni destinati ai servizi, seguono le stesse linee della facciata con minor ricchezza di decorazioni, e con maggior sobrietà di particolari.
Dall’esterno, per tre ampi gradini, si accede all’interno. Il piano terreno rialzato per aver ambienti asciutti è costruito su un vespaio a libera circolazione di aria esterna.
Il piano terreno si compone di un atrio che si interna a forma di T ed accede direttamente al grande salone centrale di refettorio o ricreazione di 105 metri quadrati e lateralmente a due grandi corridoi larghi metri 2,50 di disimpegno. Da questi corridoi si passa da una parte ad uno spogliatoio e ad un’aula capace di 70 bambini e ad una seconda aula destinata alla ginnastica; dall’altra al secondo spogliatoio ad una terza aula della medesima capacità e al gruppo cucina e servizi dell’Asilo.
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Il fabbricato consta a chi lo osserva sulla fronte principale, verso la strada comunale Paderno da Dugnano ad Incirano, di un fabbricato centrale a due piani e di due parti laterali ad un piano solo; la facciata in rientranza dal ciglio della strada di parecchi metri, è formata da un alto zoccolo di pietra artificiale imitante il Breno, il resto in mattoni a vista con fascie chiare fino alla cornice di gronda che sulla parte centrale porta un fregio con la scritta: ''Asilo Infantile Uboldi'' in gres racchiuso da fascie in piastrelle policrome.
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tal genere di costruzione.
La località scelta in posizione adattatissima all’uopo per ubicazione e per orientamento, favoriscono in modo non indifferente questa costruzione che nella sua semplice grandiosità viene ad imporsi allo sguardo del profano.
Il fabbricato consta a chi lo osserva sulla fronte principale, verso la strada comunale Paderno da Dugnano ad Incirano, di un fabbricato centrale a due piani e di due parti laterali ad un piano solo; la facciata in rientranza dal ciglio della strada di parecchi metri, è formata da un alto zoccolo di pietra artificiale imitante il Breno, il resto in mattoni a vista con fascie chiare fino alla cornice di gronda che sulla parte centrale porta un fregio con la scritta: ''Asilo Infantile Uboldi'' in gres racchiuso da fascie in piastrelle policrome.
Tutta la grondaia dell’edificio è in legno con mensole racchiudenti una fascia in graffito. La linea di distacco tra lo zoccolo e la{{altraColonna}} parte in mattoni è attenuata da una ricca cornice in gres policromi e in corrispondenza ai cappelli delle finestre del primo piano, una fascia interrotta di piastrelle a colori, passa e divide il piano terreno dal superiore.
I cappelli delle finestre semplici e delle trifore della facciata, la porta in tre parti, cioè l’apertura centrale, e le due finestrelle laterali, sono pure della stessa pietra artificiale dello zoccolo, allo scopo di creare un distacco chiaro sul rosso bruno dei mattoni e sui colori varii delle piastrelle e dei gres decorativi. La facciata quindi, nel suo assieme è severa e semplice, vaga di tinte e nello stesso tempo, seria, sobria nella massa e nei particolari architettonici, ricca di quella originalità tale che dà un senso di gaiezza a chi l’osserva. Una grandiosa cancellata, chiusa da pilastri recinge la fronte del terreno adibito a detta costruzione alla quale si accede per mezzo di un cancello centrale e di due cancelletti laterali formanti un unico motivo architettonico.
In resto del fabbricato, pure a mattoni in vista eccetto i piccoli fabbricati interni destinati ai servizi, seguono le stesse linee della facciata con minor ricchezza di decorazioni, e con maggior sobrietà di particolari.
Dall’esterno, per tre ampi gradini, si accede all’interno. Il piano terreno rialzato per aver ambienti asciutti è costruito su un vespaio a libera circolazione di aria esterna.
Il piano terreno si compone di un atrio che si interna a forma di T ed accede direttamente al grande salone centrale di refettorio o ricreazione di 105 metri quadrati e lateralmente a due grandi corridoi larghi metri 2,50 di disimpegno. Da questi corridoi si passa da una parte ad uno spogliatoio e ad un’aula capace di 70 bambini e ad una seconda aula destinata alla ginnastica; dall’altra al secondo spogliatoio ad una terza aula della medesima capacità e al gruppo cucina e servizi dell’Asilo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|372|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}I due sopra accennati corridoi prima di accedere al giardino posto nella parte posteriore dell’Asilo hanno due piccoli chioschi che contengono il gruppo delle ritirate, bagni e locale infermeria.
Il piano superiore che corrisponde al solo corpo centrale del fabbricato verso la facciata è destinato all’abitazione del personale addetto alla direzione e all’esercizio dell’Asilo, e comprende sette locali, con bagno e servizio. Una parte del fabbricato, la posteriore, è coperta a terrazzo accessibile dal piano superiore.
L’impressione di confort che si prova girando nell’interno è giustificata dall’equilibrio che fu raggiunto in queslo fabbricato in cui nulla fu trascurato dal lato comodità, modernità dei servizi ed una certa aristocratica semplicità di tutta la parte finimento dell’edificio. Buoni e comodi sono gl’impianti di riscaldamento a termosifone, quello d’acqua potabile, e diramazione ai vani servizi con motore proprio installato nel sotterraneo; pratica la cucina economica, con doppio servizio e apparecchio per distribuzione d’acqua calda alla lavanderia. Tutti i locali sono chiarissimi con circolazione d’aria esterna. Ampie finestre e finestrate ricevono luce ed aria dalla circostante campagna creando all’interno un ambiente gaio salubre ed arioso. Anche i locali di servizio e gabinetti sono improntati allo stesso carattere, e possono lasciar supporre che durante il funzionamento rispondano perfettamente all’uopo.
Inutile osservare che ovunque furono seguite e con larghezza di particolari le norme e le regole più minuziose riflettenti l’igiene e la sanità.
Un capace piazzale dietro l’Asilo e sui fianchi, crea un campo di giuoco per i bambini e riesce così, il miglior complemento al miglioramento materiale dei bambini che frequenteranno questo provvido istituto, destinato ad una missione così altamente umanitaria ed educativa!
Questo grandioso monumento della carità fu progettato e diretto dal sig. cav. ing. Carlo Bianchi di Milano.
'''''N.B.''''' — Nella settimana prossima pubblicheremo i discorsi del cav. Uboldi e di mons. Polvara.
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<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Religione}}
{{centrato|{{larger|'''Vangelo della domenica seconda d’Avvento'''}}}}
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{{centrato|'''Testo del Vangelo.'''}}
''Nell’anno quintodecimo dell’impero di Tiberio Cesare, essendo procuratore della Giudea Ponzio Pilato, Tetrarca della Giudea Erode, e Filippo suo fratello Tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania Tetrarca dell’Abilene: sotto i pontefici Anna e Caifa il Signore parlò a Giovanni figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli andò per tutto il paese intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, conforme sta scritto nel libro dei{{altraColonna}} Sermoni di Isaia profeta: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate le vie del Signore: raddrizzate i suoi sentieri, tutte le valli si riempiranno, e tutti i monti e le colline si abbasseranno; e i luoghi tortuosi {{ec|ai|si}} raddrizzeranno; e i malagevoli si appianeranno, e vedranno tutti gli uomini la salute di Dio. Diceva adunque (Giovanni) alle turbe, che andavano per essere da {{ec|lai|lui}} battezzate: Razza di vipere, chi vi ha insegnato a fuggire l’ira che vi sovrasta? Fate dunque frutti degni di penitenza e non vi mettete a dire: Abbiamo Abramo per padre. Imperocchè io vi dico che può Dio da queste pietre suscitar figliuoli ad Abramo. Imperocchè già anche la scure è alla radice degli alberi. Ogni albero adunque che non porta buon frutto, sarà tagliato e gettata nel fuoco. E le turbe lo interrogavano, dicendo: Che abbiamo noi dunque a fare? Ed ei rispondeva loro: Chi ha due vesti ne dia a chi non ne ha: e il simile faccia chi ha dei commestibili. E andarono anche dei pubblicani per essere battezzati, e gli dissero: Maestro, che abbiamo da fare? Ed egli disse loro: Non esigete più di quello che vi è stato fissato. Lo interrogavano ancora i soldati dicendo: Che abbiamo da fare anco noi? Ed ei disse loro: non togliete il suo ad alcuno per forza, nè per frode, e contentatevi della vostra paga. Ma stando il popolo in aspettazione e pensando tutti in cuor loro se mai Giovanni fosse il Cristo, Giovanni rispose, e disse a tutti: Quanto a me, io vi battezzo con acqua, ma viene uno più possente di me, di cui non sono io degno di sciogliere le corregge delle scarpe; egli vi battezzerà collo Spirito Santo e col fuoco: Egli avrà alla mano la sua pala, e pulirà la sua via, e radunerà il frumento nel suo granaio, e brucerà la paglia in un fuoco inestingnibile. E molte altre cose ancora predicava al popolo istruendolo.''
{{A destra|margine=1em|{{smaller|S. LUCA, Cap. 3.}}}}
{{centrato|'''Pensieri.'''}}
''Ego... vox clamantis...''
Cos’è una voce?
Non ogni rumore che percuota il nostro orecchio può dirsi una voce. Solo voce si dice un complesso d’armonie, che, udito, suscita e rivive nel senso l’impressione grata, nello spirito i fremiti buoni. Questo è voce! S’io guardo ed osservo il creato quale, quanta voce mi percuote! La distesa dei cieli, l’azzurro dell’onde, la varietà della terra, il brillare delle stelle ha per me un linguaggio potente: come piccino il mio essere innanzi a tanto mare!.. quanto grande il mio spirito che tutto lo domina.... quanta sublime l’intelligenza che ne misura le grandezze, ne divina le leggi, dal più pro. fondo degli abissi strappa — vincitrice sempre — ogni più oscuro segreto....
Abbassiamo lo sguardo sul re del creato, sull’uomo, ''sul principe della terra''. Nell’uomo grave mi parla il senno, la prudenza: nella madre il sublime atto del sacrificarsi alla vita, all’educazione, all’amore: nella timida fanciulla l’onor della vergine: nel giovane ardito l’ardire generoso, gagliardo degli anni primi... nel bambino l’ingenuo candore dell’angelo.... Non è una voce? non è grande, immensa come tutto il creato questa voce?..<noinclude><references/></noinclude>
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Il buon cuore - Anno X, n. 47 - 18 novembre 1911/Beneficenza
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Beneficenza<section end="sottotitolo"/>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|373|riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}{{asterismo}}Tutto ci parla quaggiù. Lo stesso silenzio — disse il poeta — talvolta è un inno, ma questa voce è vaga, incerta per l’orecchio che la deve raccogliere: manca alle volte la parola che fissi la voce del creato, della natura.... senza le note si perde il ritmo che freme nello spirito, senza la parola si perde il grandioso ritmo del cosmos.
Occorreva la parola. Venne da Dio. La religione ce la svela. Grandiosa voce della religione, che si fece udire in tutti i tempi, sino agli estremi confini della terra, dalle più superbe metropoli al tugurio del povero, dagli ampli palazzi alla tenda, al tucul del selvaggio abitator del deserto, della foresta!
S’inchinarono i popoli — felici loro! — a quella voce, alla voce di Cristo, il profetato, l’annunciato dal profeta del deserto.
S’inchinarono i popoli — felici loro! — e n’ebbero
civiltà, progresso, fraternità.
S’inchinarono i popoli — felici loro! — cessò l’egoismo in terra, l’odio, le gare disoneste.
S’inchinarono i popoli — felici loro! — e levato il
lor capo videro i cieli, scoprirono una seconda, una miglior vita; scoprirono non la materia dissolventesi e
passeggera, trovarono l’ideale, la vita eterna.
S’inchinarono i popoli — felici loro! — raccolsero
non i triboli e le spine, raccolsero la felicità.
{{asterismo}}
Banditore di questa voce è il sacerdote di Cristo.
Dalla viva sua voce apprese il suono di giustizia, di
libertà, di verità e corse i popoli interi perchè si svegliassero dal sonno di morte alla voce di vita. Per ogni
dove generosamente quella voce — a mezzo della
Chiesa — dei sacerdoti essa risuonò: nel tempio, nelle
piazze, nelle arti, nelle scienze, nella libera voce, dei
giornali che la stampa scarica ogni giorno. Come mai
fu raccolta questa voce?
Parla il sacerdote: la sua semplice parola è raccolta
dalla vergine pia, dalla vecchierella cadente, dall’uomo
a cui l’età fugò l’ardor delle passioni, dal vecchio uso
ai casti pensieri della tomba.
Parla il sacerdote: verso di lui l’ingiuria villana dell’operaio, l’odio verso di lui, il sorriso beffardo dell’uomo d’affari; verso di lui la benevola compassione del
giovane signore che passa veloce, elegante, che apprezza quella voce per gli altri, la disdegna per sè.
Parla il sacerdote: al vibrar della sua voce freme
d’amor nel suo cuore, all’amor di Cristo unisce l’amor
dei fratelli che gemono in povertà, che soffrono fra gli
ori ed i comodi, di tutti.... Chiede che l’amino, che lo
abbiano a seguire dietro l’orme luminose di Cristo,
della Chiesa.... L’urlo lo osteggia.... il popolo preferisce
la voce delle proprie passioni, di chi lo adula, di chi
lo avvince di catene d’oro.
Il sacerdote?... ''vox clainantis in deserto''.
{{A destra|margine=1em|B. R.}}
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'''La ''NONNA'' è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.'''
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{{centrato|{{larger|'''Origine d’un curioso ricorso al Protomartire'''}}}}
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Forse chissà in quanti altri paesi, certo a Vedano al Lambro, poco oltre Monza, quando una siccità ostinata minaccia e i raccolti e la salute pubblica, si ricorre, con tridui solenni, all’intercessione di {{wl|Q161775|S. Stefano}} patrono di quella parrocchia, perchè cessi il flagello. Non ricordo più con precisione l’anno, ma, ancora fanciullo, una estate terribilmente calda accompagnata da una siccità lunga, di cui nulla lasciava presagire la fine — non lontano annunzio di temporali, non una nuvoletta diafana come una sfumatura nel plumbeo cielo, non una di quelle reazioni metereologiche determinate dall’aumentarsi di elettricità in eccesso nell’aria tutta satura. — A Vedano si ricorse al rimedio che una lontana tradizione degli antenati aveva lasciato in eredità: ad un triduo solenne a S. Stefano. Io, pur non avvezzo alla disciplina del ragionare secondo le regole della logica, trovavo un po’ inesplicabile quel ricorso, non vedendo un rapporto tra la grazia che si impetrava dal cielo e l’intercessore messo di mezzo. Pure, a malgrado della mia precoce saccenteria, in quell’occasione cadde — proprio al terzo giorno del triduo — una pioggia torrenziale e ristoratrice.
Inutile dire che fu la benvenuta per tutti e anche
per me. Ma il rapporto tra la pioggia e il Protomartire restava sempre un enigma insoluto, mi faceva nodo
alla gola; tuttavia, pur senza perderlo di vista, me ne
disinteressai; tanto, non era cosa di vitale importanza
e d’altronde non speravo più di spiegarmelo.
Quando, nello scartabellare vecchi libri della Biblioteca Ambrosiana per determinar bene l’antichità del
culto a S. Stefano, mi cadde sotto gli occhi ciò che
avevo disperato di trovar mai: la spiegazione del rapporto tra la pioggia e S. Stefano.
Sappiamo tutti che il Protomartire, dopo un suo famoso discorso, irrecusabile, ma appunto perciò esasperante al sommo pei Giudei, venne trascinato fuori di Gerusalemme e lapidato (Act. VII, 57). Sotto l’imperatore Onorio (395) un cotal prete Luciano, per monito avuto in sogno da parte di Gamaliele, persuase il vescovo di Gerusalemme, Giovanni, di far ricerche per ritrovare i resti di S. Stefano, Gamaliele istesso, Abibone e Nicodemo e dar loro più degna sepoltura. Difatti, al luogo indicato a Cafargamala, vicino a Gerusalemme, le ricerche ebbero pieno esito, colla contro. prova di strepitose guarigioni di ammalati che risanarono sul posto. Quando si fece la traslazione di quelle sacre reliquie, una copiosa pioggia cadde ad inaffiare la terra inaridita per lunga siccità, a premiare tanto atto di pietà di quegli abitanti e — se volete — in ricambio forse della pioggia di sassi che i loro padri quattro secoli prima avevano rovesciato sul santo giovane diacono, per quanto bello come un angelo; giacche le vendette dei Santi sono tali. Da quell’epoca non si smise più di tributare a S. Stefano un culto eccezionale, commemorando il 3 di Agosto lo scoprimento o Invenzione delle Reliquie, e il 26 la Traslazione da Cafargamala alla Chiesa di Sionne. Di là<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|374|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}vennero portate a Costantinopoli sotto Teodosio il giovane (408), indi a Roma sotto Papa Pelagio II che le fece collocare nella Basilica di S. Lorenzo.
Questa semplice cronaca delle vicende delle reliquie di S. Stefano mi spiegò la ragione del ricorso del popolo di Vedano di cui sopra è parola, e per me fu spiegazione esauriente.
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<section begin="2" />{{Il buon cuore - Titolo sommario|Educazione ed Istruzione}}
{{centrato|{{larger|'''La Tripolitania e la Cirenaica'''}}}}
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Il clima della Tripolitania, considerata nel suo insieme amministrativo, è il sahariano, caldo ed asciutto, salvo nelle oasi, dove, di solito, è caldo umido e perciò malsano. Sul litorale è temperato dalle influenze marittime anche del suolo, e ciò specialmente nella Cirenaica. La piovosità diminuisce con l’altitudine. Rare e scarse sul litorale, le pioggie sono più abbondanti sugli orli settentrionali degli altipiani e riempiono di frequente i nadi fino al mare. Nell’estate una benefica influenza viene a temperare gli ardori del caldo, e questa è esercitata dalle brezze marine e terrestri; venti colà dominanti sono il «Ghibli», che spira dal deserto, ed il «Gherra», che spira da nord-est nei primi tre mesi dell’anno, ed apporta temporali e burrasche.
Le notizie che si hanno sulla flora della Tripolitania sono raccolte nell’opera del Durand e Barratte. La Tripolitania propriamente detta comprende fino ad ora 606 specie e varietà, oltre a r3 specie e varietà speciali; la Cirenaica 755 specie e varietà, oltre 47 specie e varietà speciali; la Marmarica turca 302 specie e 4 specie e varietà endemiche; il Fezzan 98 specie e varietà, le oasi di Kufra 14, le oasi di Anzila 20. In generale le oasi hanno una flora molto povera. Non sarebbe difficile provare che la flora della Tripolitania va distinta in due grandi regioni: la mediterranea che si estende dal litorale fino all’altipiano, e la sahariana che comprende l’interno, cioè il gran deserto libico, il Sahara le oasi. La flora tripolitana mediterranea ha sostanzialmente i caratteri di quella del mezzogiorno di Europa particolarmente dell’Italia meridionale, della Sicilia, della Grecia, di Creta; sotto questo rapporto, la flora tripolina mediterranea si può considerare come l’anello di congiunzione fra il bacino del Mediterraneo e il deserto. La flora sahariana è povera ed ha i caratteri della flora desertica. La ricchezza di questa flora sta tutta nella palma datterifera, che si coltiva nelle oasi che è senza dubbio la pianta più bella, più utile e più diffusa dell’Africa settentrionale. Il numero dei palmeti è grandissimo entro i confini della Tripolitania venne calcolato sopra dati del governo ottomano, il quale trae da essi un’imposta speciale: la statistica ufficiale porta a due milioni le palme datterifere dell’intera regione.
{{altraColonna}}
{{centrato|'''Popolazione e lingua.'''}}
La popolazione della Tripolitania è rappresentata principalmente da Berberi e Arabi: i primi originari del paese, gli altri venuti per invasione. Vanno aggiunti a questi due tipi gli Ebrei, che si trovano nei centri ed i Negri provenienti dal Sedan e dall’Aussa. Le tre razze, Berbera, Araba e Negra si sono da tempo cosi mescolate per gli incroci che riesce difficile riscontrare tipi puri in qualunque parte del paese. I tratti fisici, come il colorito bronzino, i capelli neri e ricciuti, il corpo magro e sottile sono comuni ai tre tipi suddetti e le differenze morali che li potrebbero meglio distinguere da quelle fisiche non appariscono facilmente. In generale gli Arabi abitano le pianure, i Berberi gli altipiani e le oasi (in queste essi hanno meglio conservato alcuni dei caratteri fondamentali della razza) e i Negri in villaggi di capanne presso le città, secondo gli usi primitivi. Dopo vengono gli Ebrei, i quali erano un tempo in prevalenza nel paese. Oggi, pur essendo in minoranza, essi formano una quantità importante per l’influenza che esercitano nel commercio.
Altro elemento importante della popolazione è il Turco, che è composto esclusivamente da funzionari civili e militari e da soldati. Vengono finalmente gli europei in numero da tre a quattromila, per la maggior parte italiani di Malta e del Regno, ai quali seguono per numero i greci e quindi le altre nazionalità. La popolazione della Tripolitania (comprese la Cirenaica e le oasi) non è mai stata censita dal governo. Secondo i calcoli più approssimativi essa non sembra superare molto il milione di individui, e cioè 700 mila per la Tripolitania propriamenie detta e il Fezzan, e 302 mila per la Cirenaica. Le colonie estere erano rappresentate nel 1910 dalle seguenti cifre: sudditi inglesi (compresi 1900 maltesi che parlano l’italiano) 2350, italiani 639 (dei quali 512 in Tripoli, 22 a Homs, 2 a Misrata, 100 a Bengasi, 5 a Derna), francesi 580, spagnuoli 100, olandesi 79, austriaci 44, ellenici 55, tedeschi 1.
La lingua comunemente parlata in Tripolitania è l’araba. In alcune regioni si parla un misto di arabo e di berbero detto ''scelha''; a Ghadames si parla un dialetto berbero puro; i Libî della Cirenaica parlano l’arabo puro dell’Arabia. La lingua ufficiale è la turca, ma essa non è conosciuta mediocremente che nelle città per i rapporti dei dominatori con gl’indigeni. Fra le lingue europee la più diffusa è l’italiana, che sì può dire in generale la lingua del commercio marittimo, come l’araba è la lingua del commercio con l’interno.
La religione dominante in Tripolitania è la musulmana, di rito malexita per gli indigeni ed hanefita per i turchi. Il capo del culto è il mufti, e presidente del tribunale religioso è il cadi: ambedue sono nominati da Costantinopoli, il primo a vita e il secondo per un periodo di trenta mesi. Vengono quindi l’ebraica, professata da circa dodicimila persone che vivono sotto il governo di un rabbino maggiore riconosciuto per autorità suprema dagli ebrei. La religione cristiana è rappresentata da cattolici amministrati da una Missione dell’Ordine dei Minori Osservanti: quindi da Greci ortodossi, dipendenti spiritualmente nella loro qualità di<noinclude><references/></noinclude>
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Il buon cuore - Anno X, n. 47 - 18 novembre 1911/Religione
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="sottotitolo"/>Religione<section end="sottotitolo"/>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|375|riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}sudditi ottomani, dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, e da protestanti.
{{centrato|'''La dominazione turca.'''}}
I fenicî prima, poi i cartaginesi e i romani ebbero l’egemonia della Tripolitania e della Cirenaica. Negli ultimi anni dell’Impero di occidente, cioè nel 455, i Vandali di Genserico occuparono l’intero paese; ma dopo meno di un secolo (nel 534) essi furono scacciati alla loro volta da Belisario. Gli arabi, dopo settant’anni di guerra continua con i bizantini e gl’indigeni, riuscirono a conquistare l’Africa settentrionale nel 650 e a governarla con la dinastia degli Almoravidi prima e poscia con quella dei Beni Amer, che ridussero la Tripolitania a regno indipendente. Contro il dominio arabo non mancò la resistenza e in settant’anni i Berberi insorsero quattordici volte, ma il paese rimase agli arabi vincitori che v’introdussero la loro religione, la loro lingua e i costumi. Durante il medio evo Tripoli ebbe frequenti relazioni con le repubbliche marinare che accentrarono nelle loro mani tutto il commercio del suo porto, il quale venne occupato nel 1510 dagli spagnuoli e dopo incerta sorte cadda sotto i turchi, nel 1551. Nel 1835 la Turchia fortificò il suo dominio in Tripolitania, estendendolo poi (1842) al Fezzan, all’oasi di Ghadamès, all’oasi di Ghat (1875) e al resto. La diretta dominazione turca comincia, dunque, nel 1835, ma da allora ad oggi non ha fatto — bisogna riconoscerlo — alcun passo utile nel campo della civiltà. I turchi rimangono estranei alla popolazione, contentandosi di riscuotere le imposte e i tributi possibili per il tesoro di Costantinopoli.
La Tripolitania e i paesi dipendenti sono considerati dai turchi come territori integranti dell’Impero e non come possessi. Perciò, anche dopo la costituzione, la Tripolitania, venne invitata ad inviare a Costantinopoli i suoi rappresentanti. Nello stesso modo venne trattata la Cirenaica, che è considerata come regione del tutto separata dalla Tripolitania, e che, come questa, costituisce una provincia dell’impero ottomano. Sono elettori coloro che sanno leggere e scrivere e che hanno residenza stabile nella provincia. Per la Tripolitania i deputati dovrebbero essere sei (uno per Tripoli, Homs, Gebel, Murzuk, Ghadamès e Orfella); ma attualmente gli eletti non sono che quattro (Tripoli, Homs, Gebel e Murzuk), perchè negli altri due collegi elettorali l’autorità della Porta è nulla o quasi e mancan persone che sappiano leggere e scrivere il turco, la quale condizione è obbligatoria per essere nominato deputato ottomano.
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Dopo l’ultima conquista turca del 1835, il governo di Costantinopoli decretò di fare della Tripolitania un vilayet o provincia generale, governata da un valy (quasi sempre ufficiale generale dell’esercito ottomano) residente a Tripoli e avente allora sotto la sua giurisdizione le tre provincie o sanciaccati di Tripoli, Misrata e Barca. Nel 1879 la provincia di Barca o della Cirenaica fu eretta in mutessariftato indipendente, detto di Bengasi, il quale ha un governatore civile e militare a{{altraColonna}} sè. Tanto il governatore generale o vali di Tripoli, quanto il mutessarif di Bengasi vengono nominati direttamente dal Sultano per un tempo indeterminato. Anche i capi dei sanciaccati e dei kazà vengono nominati direttamente da Costantinopoli; mentre i mudir sono designati dal governatore e confermati dal governo. La Tripolitania è divisa in quattro sanciaccati ossia: Tripoli (con un governatore militare, generale di divisione), Homs, Gebel e Murzuk, governati da mutessarif. Questi quattro sanciaccati formano insieme 12 circondari o kazà governati da ''kaimakam'' e 26 sottocircondari o ''nahiie'' con a capo ciascuno un mudir o direttore.
Il mutessariffato di Bengasi ha alle sue dipendenze i cinque kaimakam di Derna, Mergi, Ghegab, Angila e Tobruk. Dopo la costituzione, anche la Cirenaica dovrebbe eleggere i suoi deputati in numero di quattro (Bengasi, Derna, Kufra e Hadma), ma per la medesima ragione che si è accennato per la Tripolitania, ne ha potuto eleggere due soltanto (Bengasi e Derna).
Il valì di Tripoli e il mutessarif di Bengasi rappresentano il potere esecutivo dell’impero ottomano in Africa e il potere politico di fronte ai rappresentanti delle potenze estere. Ambedue questi personaggi hanno alla loro dipendenza l’esercito e presiedono alla direzione superiore degli affari civili e finanziari. Tanto l’uno quanto l’altro vengono coadiuvati nella loro amministrazione da un Consiglio di amministrazione.
Il Consiglio superiore dei vilayet di Tripoli è composto di sei membri indigeni, nominati per elezione e senza stipendio dalla popolazione. Fanno parte, di diritto, del Consiglio stesso, il ''cadì'' o presidente del tribunale religioso, il mufti o capo spirituale della religione, il mektubgi o controllore generale della finanza. I membri elettivi rimangono in carica due soli anni, dopo i quali sono confermati o sostituiti da altri. Il Consiglio si occupa di tutte le questioni amministrative interessanti il vilayet. Il suo parere è richiesto in ogni caso di provvedimenti di indole civile o finanziaria. Ad esso vengono riferiti gli affari contenziosi fra i privati e amministrazione ed emette il giudizio contro i funzionari prevaricatori. Il Consiglio amministrativo che coadiuva il governatore di Bengasi è composto del cadi, del sindaco di Bengasi, del segretario capo e del contabile del mutessariffato e di otto membri di nomina del governatore.
Attualmente si trova in Tripolitania una divisione militare di circa 4 mila uomini dei quali mille di fanteria e 150 di cavalleria sono stanziati in Tripoli. L’artiglieria che presidia la città è formata da 12 cannoni da campagna e da 4 pezzi Krupp da montagna. In Cirenaica si trovano complessivamente 2500 uomini. Non esiste nelle acque ottomane di Africa alcuna marina militare; soltanto nella rada di Tripoli è stazionaria perpetua una cannoniera il cui comandante avendo ricevuto l’incarico dal vali parecchi anni or sono di andare a Malta, fece ritorno dopo tre giorni e riferì al governatore che Malta non esisteva più. I marinai turchi non avevano saputo navigare e non avendo trovato l’isola, pensarono che fosse scomparsa.
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Pia casa Bethlem, L. 5000 — Croce Rossa Italiana, 1000 — Figli della Divina Provvidenza, 1000 — Opera Pia Catena, 1000 — Assistenza bisognosi cura Salsomaggiore, 1000 — Istituto Guanella a Milano, 1000 Società Dame S. Vincenzo, 1000 — Piccole Suore dei Poveri, 1000 — Ai vecchi degenti all’Ospedale, 1000 — Istituto S. Vincenzo pei deficienti, 500 — Istituto Pedagogico Forense, 500 — Fanciullezza abbandonata, 500 — Patronato S. Antonio per giovani operai, 500.
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'''Una lapide a Barnaba Oriani.''' — A Sesto S. Giovanni venne Scoperta ieri nella scuola comunale una lapide a {{wl|Q708082|Barnaba Oriani}}, opera dello scultore prof. Anelli e reca la seguente epigrafe: Al sacerdote astronomo — Barnaba Oriani — Garegnano 19-7-1752, Milano 12-11-1832 — Nato dal popolo — Fu grande per scienza Austerità di vita — Fierezza di carattere — A ricordare la lunga dimora — in questo paese — ammiratori e cittadini 12 novembre 1911.
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— A Torino, il comm. dott. ''Camillo Tacconis''.
— A Gallarate, il comm. rag. ''Leopoldo Ranchet''.
— A Palermo, il comm. ''Giuseppe Somano'' conte di Saint-Cergues, tenente generale nella riserva, competente scrittore di cose militari e storiche, decorato della croce d’oro con corona per anzianità di servizio.
— A Verona, la signora ''Elvira Fuà'' vedova Voghera Rietti.
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MILANO — Monsignor V. — Ben tornato a nome dei bambini ciechi, ben tornato a nome di tutte
le opere buone che L’aspettano e che Ella ispira e
benedice.
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tuo lavoro gentile e benefico: i piccoli ciechi ti considerano già come un caro amico. Verrai alla Fiera
a loro vantaggio e a far poi una visitina all’Asilo,
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speriamo.
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Pagina:Il buon cuore - Anno X, n. 48 - 25 novembre 1911.pdf/2
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<noinclude><pagequality level="3" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|378|{{Sc|il buon cuore}}||riga=si}}</noinclude>{{Colonna}}{{centrato|{{x-larger|DISCORSO}}}}
{{centrato|{{larger|'''letto dal Rev.mo Monsignor G. POLVARA'''}}}}
{{centrato|{{larger|'''alla solenne inaugurazione dell’''Asilo Uboldi'''''}}}}
{{centrato|{{larger|'''Paderno Dugnano'''}}}}
{{FI
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}}
L’Eminentissimo sig. Card. Arcivescovo, che nello slancio del suo cuore paterno, sarebbe stato ben lieto di presenziare alla solenne inaugurazione e benedizione di questo monumento della Carità, si è compiaciuto far tenere alla nobile famiglia Uboldi, in sì fausta occasione il seguente prezioso suo autografo:
{{smaller|«Fausta quaeque ac prospera a Domino atque ex animo ominamur Asylo, quod puerulis iuste et religiose curandis, Paderni ad Mediolanum munifice nuper extructum Angela Cavallotti et Ferdinandus Uboldi desideratissimi vivi ac patris memoria soltmniter modo dicarunt.}}
{{smaller|«Benefactores insignes sospitet usque Benignissimus Deus ac
resoleat omni bono».}}
{{Blocco a destra|
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{{centrato|{{smaller|{{wl|Q493594|{{sc|Andreas}} C. Card. {{sc|Ferrari}}}}.}}}}}}
{{centrato|{{smaller|Arch. Mediolan.}}}}}}
{{smaller|Prid. Id. Nov. a. r. s. MCMXI.}}
Le umili mie parole non saranno, che l’eco di queste
nobili espressioni dell’Eminentissimo Presule.
::''Eccellenza, Onorevole, Signore e Signori'' (<ref>Erano presenti: — Sua Eccell. il signor prof. sen. Panizzardi Carlo; Taverna conte Lodovico; l’On. Taverna Deputato al Parlamento Nazionale (Desio); — nobili Signore della nostra aristocrazia e rispettabili Famiglie della città e dintorni.</ref>).
«Quando pochi istanti or sono, a nome di Dio dava
la solenne benedizione rituale a questo sacro luogo ed
invocava su di esso la protezione celeste, mi risuonavano all’orecchio le infallibili parole, che il divin Redentore pronunciò in un momento di tenerezza ineffabile:
«Chiunque accoglie nel nome mio questi piccoli, accoglie me!».
«Se la fanciullezza adunque rappresenta in certo qual
modo Gesù stesso; se essa, per la fede e per la grazia,
è oggetto di speciale amore da parte del Divin Redentore,
quanto è dolce, è soave, è doveroso poterle fornire un
santuario di pace, dove sia custodita, difesa, allevata,
come sacro deposito di Colui, che disse: «Lasciate che
i pargoli vengano a me!».
«Sempre Gesù ha una parola dolce per i bambini;
ma sullo stesso tempo non risparmia i fulmini della sua ira
divina contro quelli che oseranno scandalizzarli: «Guai
a voi che mi toccate queste creaturine!» Io le amo
di un amore tutto particolare: io le prediligo tanto che
li ho affidati a’ miei Angeli da custodire; e voi oserete
far loro del male? Legatevi al collo una pietra; buttatevi in mare, ma non scandalizzatemi uno di questi
bambini!
«Ecco il vostro rifugio, bambini carissimi, questo Asilo di pace, preparatovi dalla gentilezza di due cuori che vi amano, voi siete le piccole rondini alle quali essi hanno preparato il nido. Di qui vedrete le chiare albe della vostra primavera e i primi bei raggi della vostra giornata. Qui sentirete il caldo che fa germogliare le anime; ed anche nel gelo della vostra casa forse {{pt|po-}}<noinclude>
<references/>{{AltraColonna}}</noinclude>{{pt|vera|povera}} e sconsolata, potrete pensare bimbi, che un sentimento di amore e di carità trasforma le cose e le abbellisce, e potrete credere che verrà il sole anche per voi! perchè c’è il sole dell’anima e voi qui lo avrete sentito.
{{asterismo}}
«Senonchè nel fanciullo abbiamo il futuro uomo, anzi, in lui sta racchiusa in embrione la società avvenire. E chiaro adunque, che quali furono i primi suoi passi, tali saranno i secondi; e quali furono i giorni dell’infanzia, tali saranno quelli della vecchiaia. Voglio accennare qui alla necessità dell’educazione cristiana, alla necessità che queste tenere pianticelle, fin dal loro primo germogliare, abbiano da ricevere elementi sani, perchè possano crescere vigorosi e dare frutti condequi.
«Oh la prima parola che giunge all’orecchio del
bambino! oh il primo aere morale che respira! il primo sorriso che si incontra col suo! quale impressione
lasciano su di lui!... forse per sempre incancellabili! Di
qui i nostri angioletti prenderanno il volo — oh, sarà
certo che di qui lo prenderanno, da queste mura amate
e benedette, dove avranno conosciuto i primi compiacimenti dello spirito e d’onde porteranno per il mondo
con la fibra della nostra gente, colla fede gagliarda dei
nostri avi, coll’immagine della loro mamma e del loro
padre, il nostalgico ricordo della prima scuola!
«E ben lo sanno i nobili fondatori di questo splendido Asilo, che hanno preparato a questi fiori appena sbocciati una aiuola dove si respira l’aria vivificante della Religione. E perchè questo non rimanesse solo un voto, ma si realizzasse, essi, con una fede degna delle tradizioni della loro illustre famiglia, hanno voluto affidare le sorti dei nostri bimbi alle Suore del Cottolengo. Permettete che porga il mio riverente saluto anche a voi, Suore gentili e pietose, che vi siete fatto così alto apostolato della educazione del cuore e della mente dei piccoli; voi che cercate il compenso dell’opera vostra solamente nel pensiero di Dio, così avrete l’omaggio del più soave e nobile sentimento degli uomini: la gratitudine!
{{asterismo}}
«Mirando le condizioni nelle quali è posta talora l’infanzia, quali e quante non dubbie ragioni rendono commendevole l’opera, che oggi si inaugura per la munificenza dell’illustre famiglia Uboldi!
«La fanciullezza non è solo abbandonata per imperdonabile incuria dei genitori: lo è spesso per una
fatale necessità della vita. Il padre, la madre devono
lavorare da mane a sera..., come custodiranno i loro
figlioli? Come impediranno che aria meno pura non li
abbia ad offendere?
«In tali deplorevoli circostanze ecco altre menti, altri cuori, che ispirandosi a sentimenti che vengono
dall’alto, suppliscono l’opera de’ genitori nella custodia
amorosa di tante povere esistenze!
«Qui i bambini impareranno i primi rudimenti della istruzione; qui ritroveranno tutto quello che si esige pure per lo sviluppo della loro vita corporea che esplicata nei moltissimi movimenti, servirà a dare alla Patria giovani forti, prodi e valorosi. A questo fine i {{pt|si-}}<noinclude><references/></noinclude>
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«Più efficaci ancora erano i roghi» gridò con accento rabbioso il Segretario: e la voce avvelenata del minor scarafaggio fu interrotta dal suono di un campanello, dal comparire d’un servo in livrea, e finalmente da monsignor Corvo, introdotto con segni di rispetto nell’aula.
Seduto che fu in una poltrona damascata il nuovo venuto che — se bene inferiore in grado ai due principi della Chiesa (che modestia!) non mostrava perciò verun imbarazzo od umiltà, tanta era l’importanza acquistata dal seduttore della bella Contessa — seduto che fu, dico, e dopo di aver squadrato da capo a piedi i presenti da lui ben conosciuti, esclamò come Archimede al famoso ritrovato del quadrato dell’ipotenusa, uguale alla somma di quelli dei cateti: «L’ho trovato! — Sì l’ho trovato l’enimma che da tanti giorni cercavo sulle distrazioni e procedimenti della Contessa . . . Essa è innamorata d’un perduto ! . . . d’uno di quegli esseri perversi, che per principii, per dovere (come essi lo intendono per i loro atroci giuramenti, per ogni propensione insomma) sono i nemici nostri mortali!»
— «Innamorata d’un Repubblicano!»
Repubblicano! . . . ed il protervo campione della malizia umana, forse il più astuto, non ardì aggiungere un epiteto degradante a quel nobile titolo, che equivale a quello di onesto, forse anche nella coscienza dei reprobi.
«Ma che monta!» esclamò il Cardinale Volpe, «se una donna è innamorata più d’uno che<noinclude></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|212|{{Sc|i mille}}}}</noinclude>
dell’altro, è cosa tanto naturale! una donna cambia di amanti come di vestiti» (Morale veramente dei preti).
E qui scorgendo il dispetto sulla fisonomia di Corvo, il capo della polizia chercuta caricò sulle ultime parole, pronunciandole pacatamente ed in modo solenne. — Volpe era ingelosito della grande influenza esercitata nella Corte pontificia dalla setta gesuitica, e massime di quella del Monsignore che riconosceva d’assai superiore a lui stesso in intelligenza e furberie, per cui colla quantità di vittime sedotte, più della stessa polizia era informatissimo d’ogni cosa importante in Roma e nel mondo.
«Che monta! (esclamò il seguace di Loiola) — voi non sapete che quella donna conosce i più reconditi secreti di questa Corte e della potente società nostra, che n’è la più solida colonna».
Un cenno di approvazione del generale gesuitico e del suo segretario, all’onorevole menzione fatta da un membro sì rispettabile dell’Ordine, fece rintuzzare alquanto l’alterigia del Cardinale, mentre ringalluzzì l’ardimento del Monsignore, il quale più francamente di prima riprese:
«Noi siamo in circostanza di dover temere più dai nostri nemici di dentro che da quei di fuori. Quella volpe di Monarchia sabauda, mentre si protesta umilissima figlia della santa Sede, distrugge il nostro esercito, si fa padrona delle nostre province e delle nostre sostanze; e siatene certi, essa non si fermerà nelle sue depredazioni<noinclude></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione||{{Sc|capitolo xl}}|213}}</noinclude>
se non che dopo d’essersi seduta padrona sul trono del Vaticano, come fece a Parma, Modena, Firenze, Milano e Napoli. Comunque, l’impudente suo ardimento mai giungerà a distruggere la Chiesa, che ad essa conviene, né il potere spirituale del santo Padre. — Non così i nostri nemici interni, essi non si contenteranno di distruggere una cosa e l’altra, ma getteranno le loro mani sacrileghe sui sacerdoti di Dio, e sul santissimo di lui rappresentante sulla terra, rovesciando nella polve e nel sangue dei fedeli ogni cosa sacra esistente in Roma! — Roma Capitale d’Italia! — Essi si senton piccini quei miserabili Macchiavelli della Dora a tanta grandezza. — Il peggio si è, che oggi non son più padroni di loro stessi, e sono obbligati di ubbidire a chi più di loro vale, benché sempre stupida , sempre ingannata, la nazione, ch’essi taglieggiano, come fanno di noi, e come noi, sono in obbligo di adulare rubando».
Un momento di silenzio seguì la mordente favella del Corvo, e tutti sembraron meditare sulla veracità delle sue asserzioni, e sulla delicata e pericolosa posizione della bottega.
Incoraggito dal silenzio dei compagni, così proseguì il gesuita:
«Osteggiati barbaramente al di fuori da chi si manifesta pubblicamente servo della santa Sede, noi stiamo su d’un vulcano nell’interno di Roma. — La setta dei perduti, profittando delle sventure del nostro esercito, e dell’entusiasmo suscitato in<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione|214|{{Sc|i mille}}}}</noinclude>
tutta Italia dalla vittoriosa spedizione dei Filibustieri del mezzogiorno, tenta in questo momento un colpo decisivo sul santo Padre, ed il suo governo, per farla finita una volta (come dicono quei malviventi) coi chercuti. — E ciò che mi fa supporre tanto più terribile tale infernale congiura, si è: di veder sedotta da uno dei capi la contessa Virginia N.... — tanto influente sulla società nostra, e padrona dei nostri segreti — » .
— «Che si congiuri in Roma, è cosa vecchia» esclamò il Volpe spaventato dalle tremende rivelazioni , e poi stizzito, nel vedere ed udire, che un semplice mortale ne sapesse più dello stesso Capo di polizia — «ma che la contessa N.... creatura nostra, sì zelante sempre, siasi lasciata sedurre dal serpente, è ben straordinario, e duro fatica a crederlo».
«Io proverò coi fatti a V. S. che quanto dissi è vero, e chiedo anzi tutto l’appoggio possibile per far sventare la tremenda congiura che si prepara a distruggere fino alle fondamenta il santissimo tempio del Signore».
Come già cominciano a mutar tuono cotesti ministri di Dio; non sono più le porte dell’inferno, né le legioni degli Arcangeli che essi invocano, ma spie, birri, ben pagate polizie, e non bastando tutto ciò invocano anche il soccorso di Maometto. Poveri impostori! sono veramente da compiangere, dopo d’aver trovato un mondo di stupidi, che sì grassamente li manteneva, esser essi minacciati d’esterminio dalle stesse loro pecore!<noinclude></noinclude>
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MARIO ZANELLO
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<noinclude><pagequality level="4" user="MARIO ZANELLO" />{{RigaIntestazione||{{Sc|capitolo xl}}|215}}</noinclude>
Dopo alcune intelligenze prese col Volpe e col suo generale, il gesuita congedossi; Volpe rimase ancora colla volontà di ciarlare, millantare i suoi servigi al potente suo ospite e persuaderlo che il Corvo operava finalmente sotto le sue ispirazioni. Il generale però, ben persuaso della capacità del monsignore, lasciò il poliziotto con tanto di naso, e con un pretesto futile, se la svignò nel suo gabinetto.
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<noinclude><pagequality level="0" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|337|riga=si}}</noinclude>{{FI
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<noinclude><pagequality level="1" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|339|riga=si}}</noinclude>addormentò qui per destarsi in un’altra vita migliore di questa.
Ho tratteggiato a volo l’origine e lo svolgimento delle mie relazioni col Senatore T. Canonico; ora
concedete che su queste relazioni metta in rilievo
il suo profilo, specialmente morale e religioso, quale io l’ho concepito. — Sui vent’anni, mi diceva il
Senatore, io avea terminato i miei studi di legge a
Torino e mio phdre come premio e insieme come
mezzo eccellente per l’istruzione pratica e per il conoscimento della vita sociale, desiderò che facessi un
viaggio in Inghilterra e lo feci e me ne trovai ben
contento. —
Ho notato che tra le diverse regioni italiane
{{FI
|file = Monsignor Geremia Bonomelli, ante 1914 - Archivio Meraviglioso ICM BC1914n42f7.jpg
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| caption = Mons. GEREMIA BONOMELLI
}}
forse il Piemonte fu quello che prima di tutte e in
proporzioni maggiori mandò i suoi figli a fare come un tirocinio della vita reale in Inghilterra. Canonico e Cavour, per ricordarne die soli, si formarono alla vita pubblica in quella grande salala inglese, che è un misto singolare di aristocrazia e democrazia. di rispetto profondo per l’autorità é la legge, di culto sacro per la dignità personale e per l’amore e grandezza del proprio paese. Tra il carattere piemontese e l’inglese vi è una affinità speciale,
che balza all’occhio di primo tratto: io parlo del
piemontese a preferenza di tutte le altre provincie
italiane. Hanno comune la serietà, la tenacità del
volere, la riflessione e una certa apparente durezza
e l’amore del lavoro, del risparmio e dell’ordine. 11
Piemonte fu ed è rimasto fino ad oggi il paese più
militare d’Italia e dalla natura stessa preparato a
darle il primo e più valido impulso verso la sua indipendenza: senza la scuola e la energia del Piemonte difficilmente l’Italia si sarebbe formata a nazione. Tale era la persuasione del Canonico, che avea
simpatie.spiegate per l’Inghilterra.
Non ricordo bene, se prima o dopo la sua andata in Inghilterra, egli fece una visita a Stresa ad
Antonio Rosmini. Avea sentito parlare spesso di quest’uomo straordinario, come fornito di un ingegno
maraviglioso, d’un profondo pensatore, amante della patria e di una vita virtuosa, che gli conciliava non
solo la stima, ma la riverenza universale.
— Mi sono sentito fortemente e misteriosamente attratto verso di questo uomo, del quale avea
letto alcuni scritti filosofici, così mi dieta. Canonico. Andai a Stresa, domandai di Rosmini e il portinaio a cui mi rivolsi, mi disse: è in giardino, e mi
additava il giardino. Proprio in quella, Rosmini
usciva e gli mossi incontro. Egli mi accolse con un
sorriso pieno di bontà e mi condusse nel suo modestissimo studiolo e mi trattenne a lungo e mi disse tante cose e con tal garbo ch’io ne fui innamorato. Non sarei più partito.da quell’uomo benedetto. Delle cose udite da lui, questa sopra tutto ritenni nella memoria. Mi chiese, nel licenziarmi, se amava la verità? — Risposi: Oh, sì, amo la verità,
almeno desidero di amarla. -- Bene: allora preparatevi a soffrire molto.
Il Canonico fu più volte a Stresa per vedere
ed udire Rosmini, e ne partiva sempre compreso d.
maggiore venerazione per lui e ripieno di nuova
energia a camminare sulla via del dovere: — mi
parea di diventare migiore — così egli. Ho voluto
qui riferire il fatto e quasi con le stesse parole del
Canonico perchè fanno onore a lui e riflettono bella luce sul Rosmini. Non è già che la fede del giovane Tancredi Canonico nel primo periodo della sua
vita ( non posso determinare precisainente quale)
non avesse a superare una grave e dolorosa prova.
Deve essere stata terribile, s’egli un giorno con tutta
franchezza potè dirmi: — Fu tempo ch’io avea perduta ogni fede — e dal suo linguaggio mi parve di
poter arguire, che non ammetteva nemmeno l’esistenza di Dio..Non dobbiamo maravigliarcene punto. Per quella poca esperienza che ho della società nostra istruita, che è passata attraverso alle scuole universitarie e
che tiene uffici pubblici anche di secondo, di terzo
quarto ordine, credo di poter dire che sono rari
assai quegli uomini, i quali massime nei primi anni, non abbiano sofferto qualche eclissi nella fede e
fatto miseramente naufragio. Talvolta si rialzano e,
superata la crisi, come si suol dire, spiegano una
fede raddoppiata salda ai più duri cimenti e gli esempi splendidi non mancano anche ai nostri giorni.
Tale fu il nostro Canonico. Come, per quali vie
riacquistò la fede e qual fede? Lo dirà egli stesso
in modo solenne e direttamente al S. Padre Pio IX.<noinclude><references/></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="0" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione|||}}</noinclude>{{FI
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<noinclude><pagequality level="1" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|343|riga=si}}</noinclude>Un grande rimpianto
in questo Natale
Ci credono loro, lettori miei, all’anima delle cose?.... Io sì, ecco! Come definirla quest’anima non
saprei davvero, e meno che mai saprei fare una
dissertazione metafisica intorno ad essa, per indurre il mio più o meno riverito prossimo che non
ci crede, a persuadersi che c’è, e che è in corrispondenza continua con l’anime umane, con quelle, ben
inteso, che sono capaci di comprendere quanto di bello, di buono, di caro, e di grande, talvolta, viene da
animucce inferiori. Che cosa possono mai capirne
certe anime, tutte dedite alla politica, all’affarismo,
ai piaceri, a tutte le grandi o ’piccole vanità della
vita? É neppure, credo. ci arrivano certe anime che
si abbandonano a severe speculazioni scientifiche,
s’immergono nello studio di grandi problemi sociali
{{FI
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}}
afferrano esse, sciolgono talora le grandi questioni, ma sfuggono a certe sottili, delicate comprensioni. Ci vogliono delle anime sognatrici, pensose, le quali si appassionano per un filo d’erba che
trema, per un fiorellino che langue, per un rivoletto
che canta piano piano la sua tenue canzone, per una
cappellina solitaria tra i monti, con le sue mura scretolate, con qualche ramoscello d’edera che s’inerpica
e sale.... Oh quali piccple storie allora si ascoltano
nell’intimi) nostro! quali dolci o tristi espansioni si
accolgono allóra in noi, quasi da cuore amico a
cuore amico!
Certo qualche cosa, un fluido forse sottile, etereo vagola nello spazio, e dove trova omogeneità
scende, ci prende, ci avvolge, e ci si rivela con una
squisitezza di ’sensazioni che, anche quando c’inclinano a tristezza, hanno un fascino incomparabile.
Ecco perchè ora io sono tutto preso da queste misteriose Voci di rimpianto, che mi vengono da lontano
lontano... E ciò che esse mi dicono lamentevolmente,
dolorosamente, lo racconto qui alle semplici anime
che sanno comprenderle. Non c’è nulla qui per la
gente frivola; nulla per i grandi pensatori, e neppure per il mondo degli intellettuali, a cui appartengono, o credono di appartenere, tanti signori e tante
signore.
Anime fantasiose di poeti, serene anime di artisti, care piccole anime buone, povere anime visionarie, così calunniate spesso,’ io parlo per voi. Sentite!
In questi giorni del Natale vicino, quando le
campane, squillando alto e gioconde tra ncii, chiamano alla Novena, e va per l’aria il grande annunzio del
Natale che viene, ho sentito nei cuore angosciati lamenti, disperati rimpianti e invocazioni, supplicazioni, preghiere!... Donde partono essi? Ah l’ho sentito! Partono dalle belle città bombardate di Francia
e dell’eroico Belgio. Sono di magnifiche cattedrali
rovinate, di belle chiese distrutte, di povere umili
chiesette di villaggi squarciate dagli obici, abbattute
dalla mitraglia; sono di millenarie torri campanarie
su le quali passò il tremendo uragano di guerra, già
superbe manifestazioni del genio e della pietà un-lana, e divenute ora testimonianza spaventosa della
umana ferocia e barbarie.
Sono voci di piccole campane atterrate e spez.:ate, giacenti tra le macerie dei loro campaniletti rusticani da cui dominavano tutto il villaggio raccolto
al loro piede; sono le storiche, monumentali campane
di Lovanio, di Malines, di Liegi, di, BruXelles, che
gemono, piangono, o già cadute o ancora erette su
in alto, ma che, ad ogni modo, non potranno mandare i loro doppi solenni e gioiosi in questo desolato
Natale dei paesi loro.
Sono le maestose, gloriose campane della Cattedrale di Reims, che giacciono travolte in mezzo alle
macerie della superba loro torre, da cui, come da un
meraviglioso troni di pietra, fiorito di colonnini, di
guglie, rabescato di volute, ricamato a trafori, regnavano da sovrane su la storica città. Gemono e
spasimano le campane della Cattedrale di Reims per
non potere, quest’anno, mandare nell’aria, i loro
squillanti inni di gioia per il satro Natale.
E ricordano, ricordano... E, tra loro, le desolate
campane, giù in mezzo ai rottami, si raccontano la
festività del Natale attraverso. tanti secoli, quando
turbe infinite, al loro appello, accorrevano alla Cattedrale su le cui rovine ora piange tutto il mondo civile, e sotto le gotiche arcuate volte cantavano: Gloria g Dio negli eccelsi. e pace in Terra agli uomini
di buona volontà!
Oh che grandiosità, che bellezza! oh che festa
allora! E adesso?...
Ahimè, anche per le campane di Reims, come
per gli uomini, va bene il grido desolato del Divino
Poeta,....«nessun maggior dolore,
che ricordarsi del tempo felice nella miseria.»<noinclude><references/></noinclude>
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Spinoziano
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<noinclude><pagequality level="1" user="Spinoziano" />{{RigaIntestazione||{{Sc|il buon cuore}}|345|riga=si}}</noinclude>Non sapevano essi capire quanto di lieto e di bello
era nelle nostre voci, quante invocazioni sacre mandavamo anche per essi al Cielo, quanti augurii pii avevano per i popoli i nostri rintocchi festanti, le ondate di suoni gioiosi che lanciavamo sopra la terra
sempre cara della Francia!
E questi gemiti e rimpianti arrivano fino a me
per arcane vie, e mi vengono da tutti i desolati paesi
dove la guerra inruria, facendo infame scempio di
uomini e di cose, e mi prendono e mi struggano il
cuore!
Ma ecco, le grandi campane di Santa Maria del
Fiore, dalla mirabile Torre di Giotto coi loro fiotti
d’armonie giubilanti dominano
queste intime voci
che mi arrivano nell’intimo da lontano lontana, e le
sopiscono. Dominano su la bella Firenze avvolta tutta nel velo roseo dei suoi tramonti stupendi, e chiamano il popolo cristiano adla Novena di Natale.
Non c’è inno di poeta che uguagli la grandiosità
degli inni di queste campane, ripetuti dagli echi dei
colli virenti sempre di Bellosguardo e di Arcetri, e
che annunziano il Natale che viene. Cntano i loro
inni di Natale le campane di Santa Maria del Fiore; e
il popolo ascolta i metallici ritmi, e li crede espansioni
di tripudio e di esultanza.
Ben altro dicono essi a me, che solitario comprendo le intime voci delle cose: dicono essi a me altri gemiti, altri rimpianti.
Nelle sonore ondate che fanno quasi direi palpitare la Cupola di Brunellesco e il campanile di Giotto, le campane di S. Maria del Fiore, gemono: O Signore, o Signore, per lo strazio di tanti corpi umani.
sfracellati, per tanto sangue versato da orrende ferite, per tante agonie desolate, per tante lacrime di
madri, di spose, di orfanelli, per tante vittime innocenti di donne, di fanciulli,.di vecchi, peí- tanto massacro di popoli, per lo scempio sacrilego di tante tue
chiese, pace, o Signbre, pace! Non guardare, Signore, ai delitti dei Grandi, dei Potenti; guarda agli umili, ai poveri, ai derelitti dilaniati nel corpo e nell’anma, che non hanno più pane, rion hanno più tetto,
non hanno più amore intorno a sè, e dà pace al mondo finalmente!
Pace, o piccolo Divino Gesù, per il tuo Natale,
cosi luttuoso a tutti quest’anno!... Pace, ngiali del
Natale, che sopra la Grotta di Bethlem annunziaste
al mondo la pace nella Notte Santa!...
Questo dicono a me le campane di Santa Maria
del Fiore!
E l’ultima eco, spegnendosi come un lamento, un
rimpianto accorato, nel diffuso cielo di Firenze geme: Pace, o Signore,• pace
(Firenze)
Eliseo Battaglia.
L’Enciclopedia dei Ragazzi è il
libro più completo, più divertente, più
utile, che si possa regalare.
Felice Orsini
nel 1849 ad Ancona
Chi lo avrebbe immaginato? Orsini, che nel ’58
doveva inaugurare l’orribile sistema degli attentati
moderni a base di bombe e di consimili mezzi distruggitori barbarici, venne chiamato nel 1849 ad
un’opera altamente civile di epurazione politica: ad
estirpare cioè i metodi terroristici, che avrebbero disonorato la Repubblica romana, se una geldra di sche-
{{FI
|file = Felice Orsini, 1849 circa - Archivio Meraviglioso ICM BC1914n42f10.jpg
| float = center
| caption = Felice Orsini nel 1849 e 49 <br> da un’incisione del tempo
}}
rani feroci avesse potuto impunemente sfogare i
suoi appetiti di vendette e di stragi.
«Pochi giorni dopo verificati i poteri (verbale
3 febbraio), fui mandato dal Governo come commissario militare in Terracina, onde reprimere alcuni
abusi che si commettevano verso la popolaione e
verso chi si credeva aderente alla parte papale dal
cap. Zambianchi (2). Non potei riuscire nell’intento, poichè il colonnello Amadei, che doveva prestarmi la forza si ricusava alle mie istanze, temendo
che le proprie forze non fossero bastevoli allo scopo.
Me ne tornai subito a Roma, onde dare il relativo
rapporto al governo».
Al triumvirato, composto dell’«insignificante»
Armellini: del Saffi «tutto mitezza e filosofia»; del
Mazzini, meraviglioso di attività e di finezza diplomatica, ma non abbastanza energico e pratico nell’amministrazione dello Stato, Orsini avrebbe allora<noinclude><references/></noinclude>
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Spinoziano
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Elecorra67
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/* Trattato coniche */ Risposta
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== ==
{{Benvenuto|firma='''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 17:25, 27 lug 2022 (CEST)}}
== Trattato coniche ==
Ciao! Sto seguendo con molto interesse l'inserimento del libro di Malfatti. Non sono pratico di calligrafie, ma posso dare una mano per rendere leggibili le formule matematiche, tramite i tag <nowiki><math></math></nowiki>, che usano al loro interno la sintassi del linguaggio di videoscrittura LaTeX. Se hai bisogno di chiarimenti, chiedi pure!
Per quanto riguarda le figure, conviene estrarle singolarmente e inserirle a parte su Commons, in modo da metterle nel testo e richiamarle con un'ancora in caso di riferimenti. A parole sembra difficile, ma vedrai che con un paio di esempi, sarà tutto più semplice... ;-) [[User:Paperoastro|Paperoastro]] ([[User talk:Paperoastro|disc.]]) 11:59, 2 ago 2022 (CEST)
:Buongiorno! Stiamo caricando il manoscritto con il supporto di matematici pertanto le formule matematiche non dovrebbero essere un problema; tuttavia volevo chiederle come fare i rimandi alle tavole (le pagine singole le ho già caricate su wikicommons) e come effettuare una transclusione. Dalla guida mi risulta che serva il comando pages che però non capisco quale sia. Grazie ancora dell'aiuto. [[User:Elecorra67|Elecorra67]] ([[User talk:Elecorra67|disc.]]) 14:37, 2 ago 2022 (CEST)
::Buongiorno@[[Utente:Paperoastro|Paperoastro]]! Stiamo caricando il manoscritto con il supporto di matematici pertanto le formule matematiche non dovrebbero essere un problema; tuttavia volevo chiederle come fare i rimandi alle tavole (le pagine singole le ho già caricate su wikicommons) e come effettuare una transclusione. Dalla guida mi risulta che serva il comando pages che però non capisco quale sia. Grazie ancora dell'aiuto. [[User:Elecorra67|Elecorra67]] ([[User talk:Elecorra67|disc.]]) 10:17, 10 ago 2022 (CEST)
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Teretru83
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<noinclude><pagequality level="3" user="Teretru83" />{{rigaIntestazione|44|CAPITOLO IV — § 11-12||}}
----</noinclude><section begin "1">somma <math>b_{n - h}</math> di tutti i possibili prodotti ad <math>n - h</math> ad <math>n - h</math> delle <math>n</math> quantità <math>a_1, a_2, ....., a_n</math>.
Si avrà così:
{{centrato|<math>(x + a_1)(x + a_2) ..... (x + a_n) = x^n + b_1 x^{n - 1} + b_2 x{n + 2} + ..... + b_{n - 1} x + b_n</math>}}
dove il coefficiente <math>b_k</math> di <math>x^{n - k} (k = 1, 2, ....., n)</math> è la somma degli <math>{n \choose k} = {n \choose n - k}</math> prodotti, che si ottengono moltiplicando a <math>k</math> a <math>k</math> in tutti i modi possibili le <math>a_1, a_2, ....., a_n</math>. Se <math> a_1 = a_2 = ..... = a_n = a</math>, questi prodotti sono tutti uguali ad <math>a^k</math>. E perciò:
<math>(x + a)^n = x^n + {n \choose 1} ax^{n - 1} + {n \choose 2} a^2x^{n - 2} + ..... + {n \choose n - 1} a^{n - 1} x + {n \choose n} a^n</math>.
Come si riconosce dal teor. di questo § 11 a pag. 43, i coefficienti del 2° membro equidistanti dagli estremi sono uguali tra di loro, ciò che si poteva prevedere ''a priori'', osservando che il 1° e quindi anche il 2° membro non mutano scambiando <math>x</math> con <math>a</math>. Se nella formola iniziale poniamo <math>- a_i</math> al posto di <math>a_i</math> troviamo, indicando ancora con <math>b_h</math> la somma degli <math>{n \choose h} = {n \choose n-h}</math> prodotti ad <math>h </math> ad <math>h</math> delle <math>n</math> quantità <math>a_1, a_2, ....., a_n</math>:
<math>(x - a_1)(x - a_2) ..... (x - a_n) = x^n - b_1x^{n - 1} + b_2 x^{n - 2} + ..... + (-1)^h b_h x^{n - h} + ..... + (-1)^n b_n</math>.<section end"1">
<section begin"2">{{centrato|§ 12. — '''Divisione di due polinomii.'''}}
Siano <math>M(x), N(x)</math> due polinomii della variabile <math>x</math>, i cui gradi sieno rispettivamente <math>m, n</math>. Sarà:
<math>M(x) = a_0 x^m + a_1 x^{m - 1} + ..... + a_{m - 2} x + a_m</math>,
<math>N(x) = b_0 x^n + b_1 x^{n - 1} + ..... + b_{n - 1} x + b_m</math>,
(dove <math>a, b</math> sono costanti).
Dividendo <math>M(x)</math> per <math>N(x)</math> con le regole dell'algebra elementare si troverà un quoziente <math>Q(x)</math> ed un resto <math>R(x)</math>, entrambi polinomii nella <math>x</math>.
Il grado di <math>R(x)</math> è inferiore a quello del divisore <math>N(x)</math>.
E si ha identicamente:
{{centrato|<math>M(x) = N(x) Q(x) + R(x)</math>(<ref name="p60>Il problema di determinare <math>Q(x)</math> ed <math>R(x)</math> è per definizione quello di determinare i due polinomi in guisa che questa uguaglianza di una identità, e che il</ref>).}}<noinclude>{{sezione note}}</noinclude>
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/* Wikidata e namespace opera */ nuova sezione
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{{Bar}}
== Notizie tecniche: 2022-31 ==
<section begin="technews-2022-W31"/><div class="plainlinks">
Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* La [[m:Special:MyLanguage/Help:Displaying_a_formula#Phantom|visualizzazione delle formule di LaTeX è stata migliorata]] su tutti i wiki col supporto dei tag <bdi lang="zxx" dir="ltr"><code>Phantom</code></bdi>. Questo aggiornamento esaudisce parte del [[m:Community_Wishlist_Survey_2022/Editing/Missing_LaTeX_capabilities_for_math_rendering|desiderio #59]] dei risultati del sondaggio 2022 sui desideri della comunità.
'''Modifiche di questa settimana'''
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] La [[mw:MediaWiki 1.39/wmf.23|nuova versione]] di MediaWiki sarà sulle wiki di prova e MediaWiki.org dal giorno {{#time:j xg|2022-08-02|it}}. Sarà disponibile sulle wiki non-Wikipedia e alcune Wikipedia dal giorno {{#time:j xg|2022-08-03|it}} e sulle altre wiki dal giorno {{#time:j xg|2022-08-04|it}} ([[mw:MediaWiki 1.39/Roadmap|calendario]]).
* L'[[mw:Special:MyLanguage/Help:Extension:WikiEditor/Realtime_Preview|anteprima in tempo reale]] si potrà attivare tra le funzioni beta dei wiki nel [https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists%2Fgroup0.dblist gruppo 0]. La funzione è stata sviluppata per esaudire [[m:Special:MyLanguage/Community_Wishlist_Survey_2021/Real_Time_Preview_for_Wikitext|uno dei desideri espressi nel sondaggio sui desideri della comunità]].
'''Modifiche future'''
* La funzione beta [[mw:Special:MyLanguage/Help:DiscussionTools|Strumenti di discussione]] sarà aggiornata nel corso di agosto. Le discussioni appariranno in modo diverso. Visualizza in anteprima [[mw:Special:MyLanguage/Talk pages project/Usability/Prototype|alcuni dei cambiamenti proposti]].
'''Incontri futuri'''
* Questa settimana si terranno tre riunioni con traduzione simultanea dedicati all'aspetto [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements|Vector (2022)]]. Martedì sarà disponibile la traduzione in russo, mentre giovedì gli incontri saranno in arabo e spagnolo. [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements/Updates/Talk to Web|Scopri come partecipare]].
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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23:21, 1 ago 2022 (CEST)
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== Notizie tecniche: 2022-32 ==
<section begin="technews-2022-W32"/><div class="plainlinks">
Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script|GUS2Wiki]] è uno strumento che copia il contenuto di [[{{#special:GadgetUsage}}]] su una pagina wiki di cui si può consultare la cronologia. Se il tuo wiki non è ancora stato collegato all'[[d:Q113143828|elemento Wikidata del Progetto:GUS2Wiki]], puoi eseguire GUS2Wiki manualmente oppure puoi [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script#Opting|chiedere di ricevere gli aggiornamenti]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T121049]
'''Modifiche di questa settimana'''
* Non ci saranno nuove versioni di MediaWiki questa settimana.
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] A causa di un cambio di database, due gruppi di wiki saranno in modalità di sola lettura per qualche minuto intorno alle 07:00 UTC rispettivamente il {{#time:j xg|2022-08-09|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s5.dblist primo gruppo]) e l'{{#time:j xg|2022-08-11|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s2.dblist secondo gruppo]).
'''Incontri futuri'''
* [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon|Wikimania Hackathon]] si terrà online dal 12 al 14 agosto. Non perderti il [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|Pre-Hacking Showcase]] per scoprirne di più sui progetti e trovare collaboratori. Tutti possono [[phab:/project/board/6030/|proporre progetti]] o [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|ospitare sessioni]]. [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Newcomers|I nuovi arrivati sono i benvenuti]]!
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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21:49, 8 ago 2022 (CEST)
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== Wikidata e namespace opera ==
Cari amici,
Giusto per non poltrire do un'occhiata alle poesie dell’''Oxford Book of Italian Verse'' — [[Speciale:LinkPermanente/3018896|prima tranche qui]] — per scovare i doppioni di testi già presenti e creare quindi le pagine-opera che le dirima... mi sono infilato in un bel vespaio perché ogni volta entro in Wikidata, dove tutto è ''fin troppo semplice'' e si sbaglia così bene che non te ne accorgi nemmeno :D.
Chiedo una mano a chi già ci è stato con le seguenti domande in modo da non reinventare la ruota:
*in quale pagina si tengono le discussioni relative a libri ''vs opere ''vs'' edizioni ''vs'' traduzioni?
*Allo stato attuale c'è una pagina Opera e il rispettivo elemento Wikidata che siano da esempio?
**Seguo con interesse il lavoro esperto di @[[Utente:Cinnamologus|Cinnamologus]], ma non capisco ancora perché creare pagine opera di un sonetto quando non ci sono edizioni multiple dello stesso...
Ci sono diversi elementi che caratterizzano un'opera rispetto a una sua edizione, una poesia rispetto a una raccolta ecc.ecc.; io sto procedendo con cautela, ma la prospettiva di creare centinaia di elementi a mitraglia mi suggerisce di non commettere errori di cui pentirmi amaramente.
Con calma sto lentamente schiarendomi le idee e sciogliendo dubbi che vorrei trasformare in pagine d'aiuto, ma so che per me il tempo si fa breve: con la fine del mese temo che il lavoro mi chiamerà nuovamente fuori da questa area di piacevole operosità. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 14:55, 9 ago 2022 (CEST)
e2nxxc50q9d3fs0h4a12jnfoody49vf
3019036
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Cinnamologus
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/* Wikidata e namespace opera */
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== Notizie tecniche: 2022-31 ==
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Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* La [[m:Special:MyLanguage/Help:Displaying_a_formula#Phantom|visualizzazione delle formule di LaTeX è stata migliorata]] su tutti i wiki col supporto dei tag <bdi lang="zxx" dir="ltr"><code>Phantom</code></bdi>. Questo aggiornamento esaudisce parte del [[m:Community_Wishlist_Survey_2022/Editing/Missing_LaTeX_capabilities_for_math_rendering|desiderio #59]] dei risultati del sondaggio 2022 sui desideri della comunità.
'''Modifiche di questa settimana'''
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] La [[mw:MediaWiki 1.39/wmf.23|nuova versione]] di MediaWiki sarà sulle wiki di prova e MediaWiki.org dal giorno {{#time:j xg|2022-08-02|it}}. Sarà disponibile sulle wiki non-Wikipedia e alcune Wikipedia dal giorno {{#time:j xg|2022-08-03|it}} e sulle altre wiki dal giorno {{#time:j xg|2022-08-04|it}} ([[mw:MediaWiki 1.39/Roadmap|calendario]]).
* L'[[mw:Special:MyLanguage/Help:Extension:WikiEditor/Realtime_Preview|anteprima in tempo reale]] si potrà attivare tra le funzioni beta dei wiki nel [https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists%2Fgroup0.dblist gruppo 0]. La funzione è stata sviluppata per esaudire [[m:Special:MyLanguage/Community_Wishlist_Survey_2021/Real_Time_Preview_for_Wikitext|uno dei desideri espressi nel sondaggio sui desideri della comunità]].
'''Modifiche future'''
* La funzione beta [[mw:Special:MyLanguage/Help:DiscussionTools|Strumenti di discussione]] sarà aggiornata nel corso di agosto. Le discussioni appariranno in modo diverso. Visualizza in anteprima [[mw:Special:MyLanguage/Talk pages project/Usability/Prototype|alcuni dei cambiamenti proposti]].
'''Incontri futuri'''
* Questa settimana si terranno tre riunioni con traduzione simultanea dedicati all'aspetto [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements|Vector (2022)]]. Martedì sarà disponibile la traduzione in russo, mentre giovedì gli incontri saranno in arabo e spagnolo. [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements/Updates/Talk to Web|Scopri come partecipare]].
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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23:21, 1 ago 2022 (CEST)
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== Notizie tecniche: 2022-32 ==
<section begin="technews-2022-W32"/><div class="plainlinks">
Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script|GUS2Wiki]] è uno strumento che copia il contenuto di [[{{#special:GadgetUsage}}]] su una pagina wiki di cui si può consultare la cronologia. Se il tuo wiki non è ancora stato collegato all'[[d:Q113143828|elemento Wikidata del Progetto:GUS2Wiki]], puoi eseguire GUS2Wiki manualmente oppure puoi [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script#Opting|chiedere di ricevere gli aggiornamenti]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T121049]
'''Modifiche di questa settimana'''
* Non ci saranno nuove versioni di MediaWiki questa settimana.
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] A causa di un cambio di database, due gruppi di wiki saranno in modalità di sola lettura per qualche minuto intorno alle 07:00 UTC rispettivamente il {{#time:j xg|2022-08-09|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s5.dblist primo gruppo]) e l'{{#time:j xg|2022-08-11|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s2.dblist secondo gruppo]).
'''Incontri futuri'''
* [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon|Wikimania Hackathon]] si terrà online dal 12 al 14 agosto. Non perderti il [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|Pre-Hacking Showcase]] per scoprirne di più sui progetti e trovare collaboratori. Tutti possono [[phab:/project/board/6030/|proporre progetti]] o [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|ospitare sessioni]]. [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Newcomers|I nuovi arrivati sono i benvenuti]]!
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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21:49, 8 ago 2022 (CEST)
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== Wikidata e namespace opera ==
Cari amici,
Giusto per non poltrire do un'occhiata alle poesie dell’''Oxford Book of Italian Verse'' — [[Speciale:LinkPermanente/3018896|prima tranche qui]] — per scovare i doppioni di testi già presenti e creare quindi le pagine-opera che le dirima... mi sono infilato in un bel vespaio perché ogni volta entro in Wikidata, dove tutto è ''fin troppo semplice'' e si sbaglia così bene che non te ne accorgi nemmeno :D.
Chiedo una mano a chi già ci è stato con le seguenti domande in modo da non reinventare la ruota:
*in quale pagina si tengono le discussioni relative a libri ''vs opere ''vs'' edizioni ''vs'' traduzioni?
*Allo stato attuale c'è una pagina Opera e il rispettivo elemento Wikidata che siano da esempio?
**Seguo con interesse il lavoro esperto di @[[Utente:Cinnamologus|Cinnamologus]], ma non capisco ancora perché creare pagine opera di un sonetto quando non ci sono edizioni multiple dello stesso...
Ci sono diversi elementi che caratterizzano un'opera rispetto a una sua edizione, una poesia rispetto a una raccolta ecc.ecc.; io sto procedendo con cautela, ma la prospettiva di creare centinaia di elementi a mitraglia mi suggerisce di non commettere errori di cui pentirmi amaramente.
Con calma sto lentamente schiarendomi le idee e sciogliendo dubbi che vorrei trasformare in pagine d'aiuto, ma so che per me il tempo si fa breve: con la fine del mese temo che il lavoro mi chiamerà nuovamente fuori da questa area di piacevole operosità. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 14:55, 9 ago 2022 (CEST)
:Ciao,
:visto che mi sono sentito chiamato in causa provo a risponderti io. Per quanto riguarda i nessi ''Opera/Edizione'' ti rimando a [[Wikisource:Bar/Archivio/2020.08#Struttura Wikidata per Opere/Edizioni|un vecchio post]] al quale poi mi sono sempre attenuto per la strutturazione dei dati su Wikidata.
:Confesso che avevo messo anch'io gli occhi sull’''Oxford Book of Italian Verse'' e mi sarebbe piaciuto creare le relative pagine su Wikidata... ;)
:Come esempio non troppo complesso di pagina Opera "''strutturata''" ti consiglierei [[Opera:L'America libera (Alfieri)|L'America libera]] di Alfieri, che è una raccolta di cinque odi: quindi troverai la pagina Opera della raccolta e la pagine Opera di ogni singola ode.
:Ti ringrazio dell'interesse per il mio lavoro su Alfieri e in merito alla tua domanda rispondo che creo pagine Opera per ogni singolo sonetto semplicemente perché ritengo le pagine Opera importanti allo stesso livello delle pagine Autore. Da quello che mi sembra di aver capito, le pagine Opera vengono percepite come delle semplici pagine di disambiguazione in caso di più edizioni di uno stesso testo e secondo me è un approccio riduttivo. Nelle pagine Opera per esempio si possono stendere, di una certa opera, degli indici dettagliati e articolati in varie forme, e questo spesso "trascende" la singola edizione con cui abbiamo a che fare (perché, per esempio, potrebbe essere incompleta). In questo ultimo periodo sono arrivato a considerare accettabile anche una pagina Opera che non contiene edizioni, esattamente come esistono pagine Autore che non hanno alcun testo al loro interno ma sono comunque utilissime. Nel caso particolare delle ''Rime'' di Alfieri ho deciso di creare tutte le pagine Opera perché so che ognuna di esse avrà più edizioni al suo interno (e se non sarò io a caricarle, ci penserà qualcun altro in futuro) per cui si troverà già un pezzo di lavoro fatto. E poi c'è il "fattore" Wikidata... Ogni pagina Opera qui su Source ha un corrispettivo ''obbligatorio'' su Wikidata e, se ci pensate, continuando a creare pagine e relative sottopagine di Opere alla fine si avrà su Wikidata una mappa concettuale perfettamente strutturata dell'intera opera di un certo autore! (Comunque già adesso ci sono sonetti di Alfieri che hanno tre edizioni, come [[Opera:Era l'amico, che il destin mi fura (Alfieri)|questo]]... ;)
:Altro vantaggio delle pagine Opera su Wikidata è che puoi raccogliere in quella pagina tutte le varianti del titolo di una certa opera; puoi inserire, in un campo apposito, l'incipit dell'opera (che spesso è più attendibile del titolo che viene assegnato in certe edizioni che sono comunque valide): penso non solo alle poesie, ma anche alle edizioni di documenti e opere non letterarie.
:Colgo l'occasione per esprimere un mio piccolo desiderio... Sarebbe bello che in Ns0, nel box in alto dove ci sono le informazioni sui testi, oltre al link che rimanda alla pagina Autore, ci fosse anche il link che rimanda il titolo alla pagina Opera corrispondente (quando c'è, ovviamente...) --[[Utente:Cinnamologus|<span style="font-family: Georgia, serif; font-size: 14px; color: #26619C;">Cinnamologus</span>]] [[Discussioni utente:Cinnamologus|<span style="font-family: Georgia, serif; font-size: 14px; color: #6ba3db;">(disc.)</span>]] 20:21, 9 ago 2022 (CEST)
mo7szir094y01xo9oig4xqj2zcyeo3q
3019173
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2022-08-10T06:15:46Z
OrbiliusMagister
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/* Wikidata e namespace opera */ Risposta
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== Notizie tecniche: 2022-31 ==
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Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* La [[m:Special:MyLanguage/Help:Displaying_a_formula#Phantom|visualizzazione delle formule di LaTeX è stata migliorata]] su tutti i wiki col supporto dei tag <bdi lang="zxx" dir="ltr"><code>Phantom</code></bdi>. Questo aggiornamento esaudisce parte del [[m:Community_Wishlist_Survey_2022/Editing/Missing_LaTeX_capabilities_for_math_rendering|desiderio #59]] dei risultati del sondaggio 2022 sui desideri della comunità.
'''Modifiche di questa settimana'''
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] La [[mw:MediaWiki 1.39/wmf.23|nuova versione]] di MediaWiki sarà sulle wiki di prova e MediaWiki.org dal giorno {{#time:j xg|2022-08-02|it}}. Sarà disponibile sulle wiki non-Wikipedia e alcune Wikipedia dal giorno {{#time:j xg|2022-08-03|it}} e sulle altre wiki dal giorno {{#time:j xg|2022-08-04|it}} ([[mw:MediaWiki 1.39/Roadmap|calendario]]).
* L'[[mw:Special:MyLanguage/Help:Extension:WikiEditor/Realtime_Preview|anteprima in tempo reale]] si potrà attivare tra le funzioni beta dei wiki nel [https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists%2Fgroup0.dblist gruppo 0]. La funzione è stata sviluppata per esaudire [[m:Special:MyLanguage/Community_Wishlist_Survey_2021/Real_Time_Preview_for_Wikitext|uno dei desideri espressi nel sondaggio sui desideri della comunità]].
'''Modifiche future'''
* La funzione beta [[mw:Special:MyLanguage/Help:DiscussionTools|Strumenti di discussione]] sarà aggiornata nel corso di agosto. Le discussioni appariranno in modo diverso. Visualizza in anteprima [[mw:Special:MyLanguage/Talk pages project/Usability/Prototype|alcuni dei cambiamenti proposti]].
'''Incontri futuri'''
* Questa settimana si terranno tre riunioni con traduzione simultanea dedicati all'aspetto [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements|Vector (2022)]]. Martedì sarà disponibile la traduzione in russo, mentre giovedì gli incontri saranno in arabo e spagnolo. [[mw:Special:MyLanguage/Reading/Web/Desktop Improvements/Updates/Talk to Web|Scopri come partecipare]].
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/31|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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23:21, 1 ago 2022 (CEST)
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== Notizie tecniche: 2022-32 ==
<section begin="technews-2022-W32"/><div class="plainlinks">
Ultimo '''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|bollettino tecnico]]''' della comunità tecnica di Wikimedia. Per favore informa gli altri utenti di queste modifiche. Non tutte le modifiche produrranno effetti per te. [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduzioni]] disponibili.
'''Modifiche recenti'''
* [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script|GUS2Wiki]] è uno strumento che copia il contenuto di [[{{#special:GadgetUsage}}]] su una pagina wiki di cui si può consultare la cronologia. Se il tuo wiki non è ancora stato collegato all'[[d:Q113143828|elemento Wikidata del Progetto:GUS2Wiki]], puoi eseguire GUS2Wiki manualmente oppure puoi [[:m:Special:MyLanguage/Meta:GUS2Wiki/Script#Opting|chiedere di ricevere gli aggiornamenti]]. [https://phabricator.wikimedia.org/T121049]
'''Modifiche di questa settimana'''
* Non ci saranno nuove versioni di MediaWiki questa settimana.
* [[File:Octicons-sync.svg|12px|link=|alt=|Elemento ricorrente]] A causa di un cambio di database, due gruppi di wiki saranno in modalità di sola lettura per qualche minuto intorno alle 07:00 UTC rispettivamente il {{#time:j xg|2022-08-09|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s5.dblist primo gruppo]) e l'{{#time:j xg|2022-08-11|it}} ([https://noc.wikimedia.org/conf/highlight.php?file=dblists/s2.dblist secondo gruppo]).
'''Incontri futuri'''
* [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon|Wikimania Hackathon]] si terrà online dal 12 al 14 agosto. Non perderti il [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|Pre-Hacking Showcase]] per scoprirne di più sui progetti e trovare collaboratori. Tutti possono [[phab:/project/board/6030/|proporre progetti]] o [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Schedule|ospitare sessioni]]. [[wmania:Special:MyLanguage/Hackathon/Newcomers|I nuovi arrivati sono i benvenuti]]!
'''''[[m:Special:MyLanguage/Tech/News|Tech news]]''' preparata dai [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/Writers|redattori Tech News]] e pubblicata da [[m:Special:MyLanguage/User:MediaWiki message delivery|bot]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News#contribute|Contribuisci]] • [[m:Special:MyLanguage/Tech/News/2022/32|Traduci]] • [[m:Tech|Chiedi aiuto]] • [[m:Talk:Tech/News|Commenta]] • [[m:Global message delivery/Targets/Tech ambassadors|Sottoscrivi o cancella la sottoscrizione]].''
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21:49, 8 ago 2022 (CEST)
<!-- Messaggio inviato da User:Quiddity (WMF)@metawiki usando l'elenco su https://meta.wikimedia.org/w/index.php?title=Global_message_delivery/Targets/Tech_ambassadors&oldid=23627807 -->
== Wikidata e namespace opera ==
Cari amici,
Giusto per non poltrire do un'occhiata alle poesie dell’''Oxford Book of Italian Verse'' — [[Speciale:LinkPermanente/3018896|prima tranche qui]] — per scovare i doppioni di testi già presenti e creare quindi le pagine-opera che le dirima... mi sono infilato in un bel vespaio perché ogni volta entro in Wikidata, dove tutto è ''fin troppo semplice'' e si sbaglia così bene che non te ne accorgi nemmeno :D.
Chiedo una mano a chi già ci è stato con le seguenti domande in modo da non reinventare la ruota:
*in quale pagina si tengono le discussioni relative a libri ''vs opere ''vs'' edizioni ''vs'' traduzioni?
*Allo stato attuale c'è una pagina Opera e il rispettivo elemento Wikidata che siano da esempio?
**Seguo con interesse il lavoro esperto di @[[Utente:Cinnamologus|Cinnamologus]], ma non capisco ancora perché creare pagine opera di un sonetto quando non ci sono edizioni multiple dello stesso...
Ci sono diversi elementi che caratterizzano un'opera rispetto a una sua edizione, una poesia rispetto a una raccolta ecc.ecc.; io sto procedendo con cautela, ma la prospettiva di creare centinaia di elementi a mitraglia mi suggerisce di non commettere errori di cui pentirmi amaramente.
Con calma sto lentamente schiarendomi le idee e sciogliendo dubbi che vorrei trasformare in pagine d'aiuto, ma so che per me il tempo si fa breve: con la fine del mese temo che il lavoro mi chiamerà nuovamente fuori da questa area di piacevole operosità. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 14:55, 9 ago 2022 (CEST)
:Ciao,
:visto che mi sono sentito chiamato in causa provo a risponderti io. Per quanto riguarda i nessi ''Opera/Edizione'' ti rimando a [[Wikisource:Bar/Archivio/2020.08#Struttura Wikidata per Opere/Edizioni|un vecchio post]] al quale poi mi sono sempre attenuto per la strutturazione dei dati su Wikidata.
:Confesso che avevo messo anch'io gli occhi sull’''Oxford Book of Italian Verse'' e mi sarebbe piaciuto creare le relative pagine su Wikidata... ;)
:Come esempio non troppo complesso di pagina Opera "''strutturata''" ti consiglierei [[Opera:L'America libera (Alfieri)|L'America libera]] di Alfieri, che è una raccolta di cinque odi: quindi troverai la pagina Opera della raccolta e la pagine Opera di ogni singola ode.
:Ti ringrazio dell'interesse per il mio lavoro su Alfieri e in merito alla tua domanda rispondo che creo pagine Opera per ogni singolo sonetto semplicemente perché ritengo le pagine Opera importanti allo stesso livello delle pagine Autore. Da quello che mi sembra di aver capito, le pagine Opera vengono percepite come delle semplici pagine di disambiguazione in caso di più edizioni di uno stesso testo e secondo me è un approccio riduttivo. Nelle pagine Opera per esempio si possono stendere, di una certa opera, degli indici dettagliati e articolati in varie forme, e questo spesso "trascende" la singola edizione con cui abbiamo a che fare (perché, per esempio, potrebbe essere incompleta). In questo ultimo periodo sono arrivato a considerare accettabile anche una pagina Opera che non contiene edizioni, esattamente come esistono pagine Autore che non hanno alcun testo al loro interno ma sono comunque utilissime. Nel caso particolare delle ''Rime'' di Alfieri ho deciso di creare tutte le pagine Opera perché so che ognuna di esse avrà più edizioni al suo interno (e se non sarò io a caricarle, ci penserà qualcun altro in futuro) per cui si troverà già un pezzo di lavoro fatto. E poi c'è il "fattore" Wikidata... Ogni pagina Opera qui su Source ha un corrispettivo ''obbligatorio'' su Wikidata e, se ci pensate, continuando a creare pagine e relative sottopagine di Opere alla fine si avrà su Wikidata una mappa concettuale perfettamente strutturata dell'intera opera di un certo autore! (Comunque già adesso ci sono sonetti di Alfieri che hanno tre edizioni, come [[Opera:Era l'amico, che il destin mi fura (Alfieri)|questo]]... ;)
:Altro vantaggio delle pagine Opera su Wikidata è che puoi raccogliere in quella pagina tutte le varianti del titolo di una certa opera; puoi inserire, in un campo apposito, l'incipit dell'opera (che spesso è più attendibile del titolo che viene assegnato in certe edizioni che sono comunque valide): penso non solo alle poesie, ma anche alle edizioni di documenti e opere non letterarie.
:Colgo l'occasione per esprimere un mio piccolo desiderio... Sarebbe bello che in Ns0, nel box in alto dove ci sono le informazioni sui testi, oltre al link che rimanda alla pagina Autore, ci fosse anche il link che rimanda il titolo alla pagina Opera corrispondente (quando c'è, ovviamente...) --[[Utente:Cinnamologus|<span style="font-family: Georgia, serif; font-size: 14px; color: #26619C;">Cinnamologus</span>]] [[Discussioni utente:Cinnamologus|<span style="font-family: Georgia, serif; font-size: 14px; color: #6ba3db;">(disc.)</span>]] 20:21, 9 ago 2022 (CEST)
::Fantastico! @[[Utente:Cinnamologus|Cinnamologus]], grazie! gli esempi che hai linkato sono molto illuminanti. Anche se tuttora guardo le pagine autore senza opere con diffidenza, almeno ora sto leggendo delle argomentazioni stimolanti. Sono ben contento di mettermi in discussione e considerare esempi validi. Ehm... se tu volessi farti carico della raccolta di Lucas mi faresti un enorme piacere liberandomi energie che dedicherei ad esempio alla stessa problematica riguardante altri gruppi di opere, dai sonetti di Bindo Bonichi alla terrificante matassa del canzoniere petrarchesco. '''[[Utente:OrbiliusMagister|<span style="color:orange;">ε</span><span style="color:blue;">Δ</span>]][[Discussioni utente:OrbiliusMagister|<span style="color:brown;">ω</span>]]''' 08:15, 10 ago 2022 (CEST)
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte I° capitolo III°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte I° capitolo IV°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte I° capitolo V°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte I° capitolo VI°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte II° capitolo I°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte II° capitolo II°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Parte III°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Tavole parte I°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Tavole parte II°
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Trattato delle sezioni coniche e dei luoghi geometrici/Podromo
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La fanciulla, commossa, ma altamente tranquilla, pose le mani sulla tastiera.
— Vi farò sentire una cosuccia che v’ho dedicata, disse col più tenero sorriso.
E nel silenzio della grande sala, in mezzo ai fiori rari portati dalle serre di Villa Vittoria, il suono d’una patetica melodia si diffuse.
Cantava più che mai sotto le dita dell’appassionata suonatrice il pianoforte, e Montalto rapito ascoltava. Quando l’ultimo accordo si fu smorzato egli la pregò di tornare da capo e due volte insistette con tenerezza infinita:
— Ancora, ancora, ancora
Finalmente egli disse sempre più piano: — Non è vero, Violante, è una canzone senza parole?...
— Come volete, Gabriele! — ella rispose — la chiameremo una canzone senza parole.
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Isabelawliet
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text/x-wiki
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{{Pt|dendo|vedendo}} che il bimbo si disponeva a vagire, si mise a cullarlo amorosamente.
— Sono i suoi occhi, signorino, proprio i suoi occhi! — ella mormorò, osservando le pupille del piccino che cercavano la luce — Caro, caro.....
— E tu avresti il cuore d’abbandonarlo, dimmi... lo avresti...?
Il volto della fanciulla era inondato di lagrime.
— Natalì, vuoi proprio lasciarci? — egli insistette, guardandola con intensità.
— No, no... non ne ho la forza. Resto... ma è unicamente per questa creatura — esclamò Natalia stringendosi al petto, con un generoso impeto di passione, il figliuolo primogenito di Lodovico Pallano.
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Isabelawliet
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text/x-wiki
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Ricordai il vestito scuro, il piccolo mantello, il cappello velato di bianco e la riconobbi subito: era Anna Jorio. Ci salutammo, io non senza turbamento, e mentre passava ebbi l’ardire di rivolgerle la parola:
— Buon giorno, signorina. Qual mirabile paesaggio !
Ella si volse con una certa fierezza nello sguardo, con una fiamma in viso e rallentando appena appena il passo, ripetè freddamente:
— Buon giorno.
Quella voce profonda e dolce aveva un lieve accento di rimprovero, ma io non mi trattenni dal domandarle:
— Le piace molto il mare, non è vero?
— Mi piace tanto che sebbene la mia amica non avesse tempo d’accompagnarmi ci sono venuta sola — ella mormorò come per giustificare quella sua passeggiata.
— La signorina non dimora a Venezia?
— Oh no.
— Una breve fermata allora?
— Brevissima... — ella concluse, chinando la desta e passando oltre.
Non so che cosa io provassi nell’anima. Nessuna donna vi aveva mai lasciato quell’impressione di sicurezza insieme e di soavità. Mi pareva che se avessi potuto prenderle una manina e farla sedere accanto a me sulla rena, in faccia al grande mare, se avessi potuto narrarle la storia della mia<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 145 —|}}</noinclude>
vita e scorgere una lagrima nei suoi profondi e ardenti occhi neri io sarei stato felice....
M’ostinai ad attenderla al ritorno, sulla spiaggia di Santa Elisabetta.
Due vaporini partirono senza ch’ella venisse. Dopo essere stato lungamente in aspetto, la vidi alfine comparire nel viale col suo passo svelto e leggero.
S’affrettava, s’affrettava verso il ''pontone'', ma quando vi giunse, il terzo battello aveva già salpato e filava rapido verso la città. Ella s’affacciò alla ringhiera, e volgendosi spontaneamente:
— Già partito!.— esclamò con vivo rammarico, — ma come si fa, era così bello, stasera il mare!
Il suo volto esprimeva una grande contrarietà ed io temetti essere la cagione principale di quel disappunto. Ma a poco a poco, ella sembrò rassicurarsi e allora parlammo insieme, interrottamente, del paesaggio che ci stava dinanzi.
Ella lo conosceva benissimo e m’andava dicendo:
— Vede quel bosco brullo e quel campanile che s’erge tutto bianco fra le case rosse? E San Nicolò. E laggiù San Pietro di Castello coi suoi camini e i suoi alberi di nave? E poi quel fino e vaporoso frastaglio dei giardini? Non sembra una visione d’Oriente?.....
E nominava le cupole e i campanili, nè mai si saziava di contemplare nello sfondo la Piva degli Schiavoni: uno sfavillìo di colori sui quali pioveva<noinclude>{{PieDiPagina|10||}}</noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 146 —|}}</noinclude>
dall’alto, armonizzandoli, una luce bianca, quasi irreale.
— Ella non conosceva Venezia? domandò, ad un tratto la fanciulla.
— No, è una poesia che il mio sguardo ignorava. Vengo da Roma per trovare dei parenti...
— Ah!... ed è pittore?... — ripigliò ella con un lieve sorriso.
— Sì.... come lo sa?
— Si capisce subito, dalle sue parole, dai movimenti delle sue mani. Esporrà... qui in Venezia?
— Non ancora....
— Bisogna avere coraggio, nella vita.
— Ne ha lei del coraggio?
— Ho dovuto averne molto. Sono istitutrice — diss’ella, senz’altro commento.
Mi parve che pochi minuti fossero trascorsi quando il vaporetto che avevamo veduto sguisciare da lontano, fra i bastimenti del bacino di San Marco, venne frettoloso a prendere gli ultimi passeggeri del Lido. Vi salimmo insieme, insieme sedemmo sopra una panca di prora.
Sul canale di Chioggia, fra i gruppi di pali biancheggianti, si vedeva una fila di barche da pesca dalle vele gialliccie o ranciate, d’una tinta finissima, quali lisce, quali adorne di figure allegoriche, di simboli che equivalgono a stemmi di nobiltà. Erano cariche di masserizie, di canestri o di gente e tutte sembravano immobili e pur lentissime procedevano, abbandonate all’instabilità<noinclude></noinclude>
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Pagina:Turco - Canzone senza parole.djvu/155
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 147 —|}}</noinclude>
del vento, trasportando i marinai stanchi e sonnacchiosi in un’estasi di cadente sole. In un piccolo ''burchio'' stava una donna vestita di nero, velata, e come assorta da un grave dolore. Un bambino giuocava cogli attrezzi da pesca dinanzi a lei e un uomo, il marito, le cingeva amorosamente con un braccio la persona, senza curarsi della gente che potesse vederlo. Anna Iorio osservò in silenzio quell’atto di tenerezza protettrice e il suo volto si suffuse di rossore.
Dalle ''secche'' si levò uno stormo d’uccelli e nell’aria ch’essi battevano rapidissimi coll’ali apparve un improvviso luccichio d’argento. Ma il sole cominciò a declinare proiettando sulla laguna una larga, spera di luce che a poco a poco si franse e si trasformò in due grandi chiazze sfolgoranti. Il fulgore si stendeva sull’acqua picchiettata di macchie color del rame e le chiazze, impicciolendosi a poco a poco, si affocavano, abbagliantissime. Poi, non rimase più, all’orizzonte, che un immenso globo giallo, senza palpito di raggi Lo splendore dell’acqua si venne attenuando e il globo si fece rosso come una bragia.
Io guardavo al dolce profilo della mia compagna che un vivido riflesso aveva illuminato d’un chiarore caldo, guardavo a quel volto puro la cui voluta placidità celava un tumulto di nobili entusiasmi.
Eravamo già rientrati nel bacino, ove guizzavano, in mezzo ai fermi navigli, leggiadre gondole<noinclude></noinclude>
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e sandolini, lasciando una lunga traccia, una specie d’allumacatura più chiara sulla laguna, ora seminata di pagliuzze d’argento, or fiammeggiante di carminio.
Vi sono, nella natura, dei momenti di passione, e a Venezia, nell’ora poetica del tramonto, sembra spesso che un dramma si compia, che una sanguinosa battaglia si dia sulla terra e nel cielo fra gli splendori fuggenti e le grandi ombre che discendono.
Anna Iorio ed io ne sentivamo il fascino come se dal profondo delle nostre anime i misteri quasi paurosi del creato suscitassero un’arcana rispondenza.
Scendemmo insieme dal vaporetto e ci fermammo uno accanto all’altro presso la riva.
Un polverio d’oro era piovuto sull’acqua; fuochi * strani s’accendevano qui e lì fra i cristalli delle bifore snelle, e si consumavano rapidamente, lasciandovi una velatura rosata. Anche dall’orizzonte il rosa sfumava verso lo zenit, tutto era color di rosa, una tinta delicatissima che persisteva e lottava contro il crepuscolo come una speranza che non sapesse disperdersi.
Anna Iorio, per prendere commiato, mi stese la sua manina stretta nel guanto nero.
— Mi permette d’accompagnarla? — osai chiedere, non potendo sopportare il pensiero ch’ella mi lasciasse così.
— Grazie, accetterei volentieri, ma non conviene — diss’ella con grande semplicità.<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 149 —|}}</noinclude>
— Nessuno ci conosce qui, e la convenienza
può essere una volgare convenzione... almeno al-
cuni passi, fino alla piazza....
— Ebbene andiamo! ripigliò la fanciulla, colla
sua solita dolcezza dignitosa.
Gli angeli dalle ali dorate che stanno ingi-
nocchiati fra i pinnacoli sull’arco della facciata
di San Marco, risplendevano ancora misticamente,
come se ardessero di pietà nell’ aere amaran-
tino.
La notte, lenta, calava, da tutte le parti s’in-
nalzavano suoni di campane, fusi ed armonizzati
in un grave concerto e la gloria antica sembrava
risorgere dalle ombre misteriose.
Prima di lasciarci, molto commossi entrambi,
noi ascoltammo insieme quella musica. La fanciulla
s’era già avviata, per risalire la piazza, sola, quan-
d’io domandai:
— Anna, quando ci rivedremo?
Ella mi guardò, un po’ smarrita.
— Non so, rispose tristamente.
— Mi dica dove va domani?
Il suo sguardo profondo ebbe una tale espres-
sione di rimprovero che ne arrossii.....
— Ha ragione..... sono ardito e indiscreto..... —
esclamai — ma d’altronde, non havvi nessuna
legge che assolva di questo fatto per sè stesso
così innocente?
— Dipende dalla voce interna — disse Anna
— sono convinta che la sola coscienza debba {{Pt|re-|}}<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 150 —|}}</noinclude>
{{Pt|golarci|regolarci}}. Non cedo ad un pregiudizio, seguo piuttosto un istinto.....
— Dunque, nel suo pensiero ella mi condanna ?
— Oh no... io non ho alcun motivo di condannarla.... ma..... ci conosciamo così poco..
— Ci conosciamo da poco, non poco... ci vogliono spesso degli anni per penetrare nel mistero delle anime, ma, talvolta, basta un’ora sola perchè una creatura umana inconsciamente si disveli... A me sembra d’averla sempre conosciuta, Anna... forse la sua immagine era in me da gran tempo... come un sogno...
Ella non rispose alle mie parole ma mi stese la punta delle dita dicendo risolutamente: — Vado.
— Io le dispiaccio! ben me n’accorgo..... Mi consenta di dirle una sola cosa ancora... Non le chiederò più ove va domani..... dove va gli altri giorni, ma se dovessi incontrarla per caso, se l’istinto mi riconducesse sulla sua via, mi permette di avvicinarmi e di parlarle?....
Ella esitò.
— Non mi risponde... lo chieggo come una grazia!
Allora ella assentì con un lieve cenno del capo, e senza stendermi la sua manina, mormorò: «Buonasera» in fretta, e quasi vergognosa dell’assentimento, mi lasciò, con un fare brusco, e rapida scomparve sotto le Procuratio, in mezzo alla folla.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 79 —|}}</noinclude>
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Da un’ora, non avevo più pensato a mia madre. Ne sentii un rimorso cocente, corsi alla posta, e vi trovai il seguente biglietto:
''Caro'' ''Mariano'',
«Domani i miei figliuoli vanno a Chioggia. T’aspetto alle undici, qui all’albergo. Ti presenterai come il signor Adriano Delfiore. Ricordati che una somma cautela è necessaria. Distruggi subito la mia lettera... Addio
{{A destra|tua Madre.»}}
Alla lettura di queste righe il mio cuore cominciò a palpitare e palpitò tutta la sera e tutta la notte. Passai molte ore dinanzi all’albergo Danieli senza veder nessuno: uno spossamento profondo mi ricondusse sfinito al mio alloggio. Ogni tanto rileggevo lo scritto di mia madre, lo baciavo anche, tentando trovare fra le righe un’espressione di tenerezza. Mi sembrava che il laconismo di quelle parole derivasse da un naturale riserbo, e il mio affetto s’infiammava d’una pena crudele. Ma il pensiero di dover prendere un nome falso mi destava nell’animo un senso di ribrezzo, il nome volgarmente romantico, che mi era stato imposto, mi faceva orrore, e allora la piccola busta profumata, nei miei ardenti baci, mi bruciava le labbra come un oggetto clandestino.<noinclude></noinclude>
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{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Da un’ora, non avevo più pensato a mia madre. Ne sentii un rimorso cocente, corsi alla posta, e vi trovai il seguente biglietto:
''Caro'' ''Mariano'',
«Domani i miei figliuoli vanno a Chioggia. T’aspetto alle undici, qui all’albergo. Ti presenterai come il signor Adriano Delfiore. Ricordati che una somma cautela è necessaria. Distruggi subito la mia lettera... Addio
{{A destra|tua Madre.»}}
Alla lettura di queste righe il mio cuore cominciò a palpitare e palpitò tutta la sera e tutta la notte. Passai molte ore dinanzi all’albergo Danieli senza veder nessuno: uno spossamento profondo mi ricondusse sfinito al mio alloggio. Ogni tanto rileggevo lo scritto di mia madre, lo baciavo anche, tentando trovare fra le righe un’espressione di tenerezza. Mi sembrava che il laconismo di quelle parole derivasse da un naturale riserbo, e il mio affetto s’infiammava d’una pena crudele. Ma il pensiero di dover prendere un nome falso mi destava nell’animo un senso di ribrezzo, il nome volgarmente romantico, che mi era stato imposto, mi faceva orrore, e allora la piccola busta profumata, nei miei ardenti baci, mi bruciava le labbra come un oggetto clandestino.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 79 —|}}</noinclude>
M’alzai all’alba, andai errando per la cittá. L’istinto mi trasse entro S. Marco.
Un cardinale celebrava l’uffizio divino dinanzi alla pala d’oro di Ordelafo Falier ove sta effigiato il simbolo dell’Eterna Sapienza; ardeva, fra gli aurei splendori della basilica, la bella lampada bizantina e, dall’alto della cantoria, un coro di giovinetti, con voci angeliche, purificate da ogni terrena passione, diffondeva sulla navata, sugli altari e sulla folla, un’onda di ritmi fugati, una musica mista di pietà grave e di pace infinita.
Io mi volsi a destra e a sinistra in quella folla, cercando Anna lorio poiché ''sentivo'' la sua presenza. Non tardai difatti a scorgerla. Era inginocchiata in una panca e abbandonava la testa fra le mani in atto di fervente preghiera. Non vedevo che il nodo pastoso dei suoi capelli neri sotto le falde del piccolo cappello. Aspettai che si sollevasse per salutarla: da lontano ella rispose gravemente al mio saluto. A poco a poco mi ridussi dietro a lei onde potessimo ascoltare insieme la musica consolatrice che scendeva, scendeva sempre più mistica sugli astanti. Ma per tema di dispiacerle, non osavo nemmeno guardarla e quando si appressò l’ora del mio convegno fui costretto a partire, così senz’averle detto una parola.....
Una muta, una doppia angoscia era scesa sovra di me quando m’avvicinai, tutto tremante, all’albergo Danieli, per chiedere di mia madre. Balbettai, colle labbra strette, il mio nome, il mio falso<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 152 —|}}</noinclude>
M’alzai all’alba, andai errando per la cittá. L’istinto mi trasse entro S. Marco.
Un cardinale celebrava l’uffizio divino dinanzi alla pala d’oro di Ordelafo Falier ove sta effigiato il simbolo dell’Eterna Sapienza; ardeva, fra gli aurei splendori della basilica, la bella lampada bizantina e, dall’alto della cantoria, un coro di giovinetti, con voci angeliche, purificate da ogni terrena passione, diffondeva sulla navata, sugli altari e sulla folla, un’onda di ritmi fugati, una musica mista di pietà grave e di pace infinita.
Io mi volsi a destra e a sinistra in quella folla, cercando Anna lorio poiché ''sentivo'' la sua presenza. Non tardai difatti a scorgerla. Era inginocchiata in una panca e abbandonava la testa fra le mani in atto di fervente preghiera. Non vedevo che il nodo pastoso dei suoi capelli neri sotto le falde del piccolo cappello. Aspettai che si sollevasse per salutarla: da lontano ella rispose gravemente al mio saluto. A poco a poco mi ridussi dietro a lei onde potessimo ascoltare insieme la musica consolatrice che scendeva, scendeva sempre più mistica sugli astanti. Ma per tema di dispiacerle, non osavo nemmeno guardarla e quando si appressò l’ora del mio convegno fui costretto a partire, così senz’averle detto una parola.....
Una muta, una doppia angoscia era scesa sovra di me quando m’avvicinai, tutto tremante, all’albergo Danieli, per chiedere di mia madre. Balbettai, colle labbra strette, il mio nome, il mio falso<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 153 —|}}</noinclude>
nome, poi seguii, con passo mal sicuro, il cameriere. Egli m’introdusse in un salotto ove regnava una certa oscurità e abbagliato com’ero dalla luco della Riva non vidi più nulla. Aspettai un minuto, indi una porta s’aperse piano e una figura di donna m’apparve confusamente nel vuoto, colle braccia protese. Io mi precipitai follemente entro quelle braccia e, per la prima volta, gustai l’ineffabile dolcezza dei materni baci... Oh! quel divino momento non tosse mai trascorso!
Ella sedette, mi chiamò a se dappresso e ci guardammo l’un l’altro con intensità. Il mio sguardo ormai avvezzo a quella penombra, distinse chiaramente il materno sorriso... Mia madre era una donna piccola, delicata, gentile d’aspetto, mi sembrò ancor giovanissima. Un’aureola di capelli circondava lo squisito ovale del suo volto, ma quei capelli erano rossi, d’un fulgido colore tizianesco, e, nel ritratto, apparivano biondi e biondi me l’aveva descritti Gozzoli. Me l’ero immaginata bionda la mamma, e quella chioma fulva mi faceva un senso strano di meraviglia, mi distraeva quasi dalla mia muta adorazione. Ci guardavamo ancora tenendoci per le mani, ma io mi sentivo così agitato dalla gioia, che temevo, ad ogni istante, di venir meno fra le sue braccia. Mi erano saliti dal cuore alle labbra i più dolci nomi da dirle, a conforto del turbamento che, non senza una segreta angustia, m’aspettavo di scorgerle in viso, ma ella non era punto smarrita, e dinanzi ad<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 154 —|}}</noinclude>
una tale franchezza non potei che balbettare singhiozzando:
— Mamma, mamma, oh mamma!
Ella mi considerava attentamente, mi esaminava anzi e disse:
— Sei cresciuto bene, Mariano... soltanto un po’ magrino, un po’ pallido...
— Io sono felice di trovarla così fiorente, mamma, m’aveva tanto parlato di lei, quel cuor d’oro di Grozzoli... e io avevo tanto pensato e sognato e sospirato, oh sì, pazzamente sospirato questo momento!
— Sentivi la gran voglia di vedermi, povero ragazzo... e anch’io, sai, lo desideravo sempre; ma è così difficile, così pericoloso per me... sono segreti gelosi da custodirsi... Io non posso mai allontanarmi sola da casa e guai se i miei figli sapessero...
Quelle parole «miei figli», che, scritte, mi avevano fatto tanto male, pronunziate mi trafissero, ma risposi subito:
— Oh non tema, mamma, io non abuserò di nulla, io nulla tradirò... ma lasci soltanto che la vegga, che la contempli, un poco... mamma, adorata mamma!
Ella mi mise una mano dolcemente sulla fronte. Oh l’infinito benefizio di quella carezza!
Poi, spinto da un impulso irresistibile, io soggiunsi:
— Vede... Grozzoli non l’aveva descritta bene.. m’aveva detto ch’era bionda, e lei...<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 155 —|}}</noinclude>
— Ero bionda, — rispose mia madre, sorridendo, — ma quell’insipido colore mi stancava e mi tinsi i capelli... Tutte lo fanno ora, Mariano, tu forse non lo sai.. hai vissuto sempre così ritirato, così lontano dalla società, si vede anche dal tuo vestire che non ci sei avvezzo..
Io mi raddrizzai istintivamente.
— Non è un rimprovero che ti faccio, caro ragazzo, figurati! devi avere così pochi quattrini! è una semplice osservazione, sai...
Io la guardavo, molto sorpreso e all’improvviso mi parve d’intravedere qualche cosa d’artefatto nelle sue gote, nelle sue ciglia, nelle sue labbra, in tutta la sua persona, insomma, che trattenni a stento la dolorosa esclamazione che mi sfuggiva dal petto. Ahimè! quelle labbra che m’avevano dato il santo bacio materno erano tinte, erano tinte!
— Che hai? - domandò ella — che cosa posso averti detto di spiacevole?
— Nulla mamma, nulla. Io sono un figlio del popolo e ignoro certe raffinatezze.
— Ebbene Mariano, parliamo d’altro. Dimmi dei tuoi studi, progrediscono?
— Lo spero, mamma.
— Che cosa stai facendo ora?
— Un quadro simbolico.
— Su quale soggetto?
— «Gli Orfani.»
— Come li raffiguri?<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 156 —|}}</noinclude>
— In un modo strano forse... sono dei fanciulli perduti in un bosco selvaggio che rappresenta l’umana vita...
Subito mi pentii d’aver detto questo e compresi d’essere stato crudele, ma ella non mostrò d’aver capito e rispose soltanto:
— Bada di non divagare troppo..
Poi subito soggiunse:
— Hai qualche speranza di guadagno?
— Fin qui non ho pensato che allo studio.
— Tuttavia, se t’affidassi ai negozianti...
— È vero, potrei fare degli acquerelli a cinquanta lire e delle copie di quadri celebri... oh certamente potrei, ma se mi ci mettessi, sono sicuro che il pennello mi cadrebbe dalle dita. Preferisco vestirmi male e mangiare peggio, piuttosto che prostituire la mia arte ad uno scopo d’interesse... vi sono delle cose sacre, mamma.
— Sei fiero, — riprese ella sorridendo, — ma colla fierezza si fa poca strada... e allora, dimmi, questo piccolo viaggio a Venezia, t’avrà costato un grande sacrifizio?
— Oh mamma, mamma, un sacrifizio dopo che l’ho tanto desiderato!
Ella parve commossa, mi strinse a sè con una certa effusione e io le abbandonai la testa ardente in seno fra le trine fragranti e i gioielli, ma quell’abbraccio, tanto sospirato, mi dava adesso un senso di arcano dolore.
Continuando a seguire il corso dei suoi pensieri, ella disse:<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 157 —|}}</noinclude>
— Sarà necessario ch’io ti risarcisca un poco delle spese che hai fatto per me, vorrei offrirti di più, ma tu accetterai il buon cuore...
S’avvicinò quindi ad una piccola scrivania, ne trasse una busta, che certamente era già stata preparata, e me la porse.
— Io non sono venuto per mendicare del denaro! — esclamai in un impeto di ribellione — Sono venuto per vederla e per prendermi quella piccola parte della sua tenerezza, alla quale ho diritto, mamma, null’altro.
— Mariano... sei... sei collerico come tuo padre! — balbettò ella scoppiando in un pianto dirotto.
Allora mi sembrò che il rimorso mi soffocasse, mi gettai in ginocchio dinanzi a lei, le baciai le mani, le baciai il lembo della veste, ma un grande specchio stava in faccia a noi e mentre io studiavo, con ansia, il suo volto per vedervi ricomparire un dolce, indulgente sorriso, m’accorsi ch’ella vi si mirava per rilevare forse quanto le lagrime l’avessero alterata...
Io mi sentivo diventare un giudice inesorabile e avevo ribrezzo di me e della mia suscettibilità morbosa e pur non ero capace di vincermi...
Ella mi sollevò con una certa bontà e accorgendosi dell’amarezza che mi trapelava nuovamente dal volto, si sforzò di rasserenarsi e di dirmi qualche amorevole parola; ma a me parve che nel suo segreto ella attribuisse la cagione del mio turbamento alla goffaggine dell’educazione<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 158 —|}}</noinclude>
borghese; mi parve, Iddio me lo perdoni, che si vergognasse un poco di me. La sua voce aveva un accento di benevola compassione non già l’ardore represso dell’affetto spontaneo; s’ella accondiscendeva a rivedermi era unicamente per un vago istinto di dovere e di pietà: la sua anima non sentiva alcun desiderio della mia tenerezza, ben me n’ero convinto!
Rimanemmo muti entrambi. Ma ella ruppe subito il silenzio, domandando ancora:
— Dunque non accetti?....
— No, mamma. La ringrazio con tutto il mio cuore, ma non ne ho bisogno.
— Come vuoi, Mariano. Bada però di non essere troppo orgoglioso..... — mormorò dolcemente.
— È vero, sono orgoglioso, mi compatisca! — diss’io con tristezza, sentendo che non avrei mai potuto giustificarmi.
— Non se ne parli più. Hai fissato di rimanere qualche tempo a Venezia?...
— Oh no. Devo affrettarmi di tornare allo studio..... soltanto.... se mi fosse concesso di rivederla ancora una volta.....
— Ci pensavo anch’io..... pensavo ad un altro luogo di ritrovo, perchè qui tu non puoi rimanere a lungo, nè ritornare senza pericolo di dar sospetto.....
Oh! l’orrore di quell’incontro segreto!
— Forse sabato, — continuò ella, i miei figli andranno al Lido a far colazione, io dirò loro che<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 159 —|}}</noinclude>
non mi sento di seguirli e t’indicherò ove tu possa trovarmi.
— Farò tutto ciò ch’ella desidera, — balbettai, — ora è tempo ch’io parta, non è vero?
— Sì, ragazzo mio. Noi abbiamo molti conoscenti qui e se qualcuno giungesse
— Ha ragione.
Ci abbracciammo un’ultima volta, la lasciai, scesi le scale a precipizio, uscii fuori sulla riva, come un pazzo. Avevo la febbre, m’ardevano le tempia, il cuore mi martellava furiosamente. Il sole mi dava fastidio: corsi a chiudermi in casa, ma quella fredda camera d’albergo mi parve insopportabile e dovetti tornare subito all’aperto.
Mi sentivo male, la mia mente era confusa, mi sembrava che il cuore si fosse vuotato ad un tratto, sanguinando, e non volevo analizzare me stesso, nè spiegarmi la cagione di quell’affanno.
Passai due giorni nella desolazione, errando a caso senza trovar conforto.
La prima sera, sulla riva, una voce, nella folla, mi fece sussultare.
Era la voce di mia madre. Ella passeggiava tranquillamente in mezzo ai suoi figli, dando il braccio a uno di loro. Io li seguii alcun tempo, a qualche distanza, non visto, nell’ombra, poi dovetti fuggire.
L’indomane, nel pomeriggio, al ''pontone'' della ''Cá'' ''d’oro'' essi salirono tutti sul vaporetto col quale io tornavo dalla stazione. Le panche erano {{Pt|occu-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 160 —|}}</noinclude>
{{Pt|pate|occupate}} e io cedetti il posto a mia madre, come uno sconosciuto qualunque. Ell’aveva arrossito nel vedermi, io, con uno sguardo, avevo cercato di rassicurarla. Non so come reggessi alla vista di quegli stranieri che pur erano miei fratelli, di quella donna che pur era mia madre, come sopportassi, io orfano reietto, la visione per me straziante di quella famiglia! Mia madre temeva certamente che mi tradissi. Ma io volli crudelmente rimanere fino all’ultimo, e saziarmene lo sguardo, volli udire le loro voci commiste e vedere i loro reciproci sorrisi e leggere loro in faccia la baldanza della felicità. Così, risalimmo insieme per il glorioso Canal grande le cui acque riflettevano, un giorno, dalle facciate degli storici edifizi, gli affreschi del Tiziano e del Giorgione, che in quel sereno pomeriggio rispecchiavano ancor sempre una magìa di forme e di colore. Io vedevo tutto a traverso un velo e la mia anima era torbida e sconsolata.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Più tardi, alla posta, trovai una lettera in cui la mamma mi esortava a recarmi il giorno appresso, alle nove del mattino, in piazza dei Santi Giovanni e Paolo ove mi avrebbe senza fallo raggiunto. Aspettavo da più d’un’ora, con un senso d’inesprimibile desiderio, quand’ella comparve col suo passo cadenzato e sicuro. La sua figura era così snella, così elegante e giovanile da Sembrare quella d’una fanciulla.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 161 —|}}</noinclude>
Ella venne dritta verso di me, senza mostrare alcun imbarazzo e stendendomi la mano disse subito:
— Sarà meglio che prendiamo una gondola, Mariano.
Per buona sorte ne trovai una nel canale vicino. Ella vi discese, chiuse senz’altro le tende del felze e, convinto torse che si trattasse d’un convegno furtivo d’innamorati, il barcaiuolo sorrise, facendomi impallidire di sdegno.
— Chissà per chi ci prendono! — disse mia madre, tranquillamente, mentre io soffrivo anche di quel lieve sospetto d’avventura romantica che le alitava intorno.
Il gondoliere aveva l’ordine di fare un giro in città e di ritornare al punto di partenza e la barca leggera scivolava, scivolava sulle luride acque fra le alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Ella stava seduta accanto a me e una voce lontana come un tenero ricordo d’infanzia, una invincibile brama di fanciullo mi spingeva ancora follemente fra le materne braccia, avido delle sospirate carezze; sentivo il bisogno di attrarre la sua testina sul mio petto anelante, di sfogare tutta la piena di quel figliale trasporto: il nuovo impeto di gioia aveva cancellato dal mio pensiero ogni dubbio, ogni triste esitanza. Ma un rispetto profondo mi frenava; temevo ch’ella potesse farsi meraviglia di quell’appassionato amore di figlio, forse a lei ignoto, e che desiderasse sottrarsi alla<noinclude>{{PieDiPagina|11||}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 162 —|}}</noinclude>
mia ardente tenerezza, e null’altro osando, le coprivo di baci le piccole mani strette nei guanti bianchi, e la chiamavò, senza fine, col dolce nome che la mia solitaria giovinezza aveva ignorato.
Ella sorrideva d’un blando, compiacente sorriso, ma non tardò molto a ritirare le mani e accomodandosi, quasi inconsciamente, le trine delle maniche, disse con bonarietà:
— Tu sei molto impetuoso Mariano: in tutte le cose ci vuole moderazione.....
— Mamma, mamma! come può dirmi così..... ella non sa, ella non conosce i desiderii, i sospiri, i singulti della mia vita travagliata, ella non sa quanto io abbia lamentato e sofferto e pianto. E ora che quest’unico momento mi è concesso, perchè, perchè non devo poter esprimere tutto quello che ho dentro qui nel cuore, che mi tortura, che mi soffoca Non sono io dunque nulla per lei? non sono come gli altri la creatura delle sue viscere e del suo sangue? Che cosa domando io se non la briciola che cade dalla sua mensa, se non una piccola parte di sentimento in tanta dovizia di affetti e di contentezza?
— Calmati, calmati, Mariano, te ne scongiuro! — diceva ella con una certa inquietudine, quello che è avvenuto non può mutare, lo sai. Ciò non toglie che ti voglia molto bene credo anche di avertelo dimostrato in questo momento istesso te lo dimostro.....
— E io gliene sarò eternamente grato, madre mia....<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 163 —|}}</noinclude>
— Sì, ma la tua tempra ardente mi fa paura, sei imperioso, non sei cauto abbastanza, una tua parola potrebbe tradirmi e compromettermi per sempre.... anche ieri mi hai fatto tremare....
— Ho mancato, lo sento, dovevo allontanarmi ma non potevo, ero incatenato....
— Hai fatto male, Mariano, e dovresti meglio comprendere i riguardi che mi devi....
Ella m’amava, lo aveva detto, ma il suo affetto era dominato dalla ragione, dall’opportunismo, dalle esigenze sociali, e la mia folle brama di vederla somigliava all’indiscrezione d’un estraneo....
Un singhiozzo disperato mi strozzava la gola e la gondola continuava a scivolare sulle luride acque dinanzi alle alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Finalmente mi sovvenni d’essere uomo, compresi la stoltezza della mia folle illusione e, raccògliendo tutta l’energia rimastami, frenai le lagrime che mi bruciavano le guancie, soffocai l’angoscia che mi torturava, mi sforzai d’apparire tranquillo e risposi con quiete alle domande ch’ella mi andava rivolgendo, forse per distrarmi. Erano domande vaghe, un po’ frivole forse e io le ascoltavo con uno scoramento profondo.
Ad un tratto, ella disse, guardando il suo piccolo orologio:
— È trascorsa un’ora, Mariano, ove siamo? Io scostai la cortina.
— Presso al punto di partenza, mamma, alla piazza di San Giovanni e Paolo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 163 —|}}</noinclude>
— Sì, ma la tua tempra ardente mi fa paura, sei imperioso, non sei cauto abbastanza, una tua parola potrebbe tradirmi e compromettermi per sempre.... anche ieri mi hai fatto tremare....
— Ho mancato, lo sento, dovevo allontanarmi ma non potevo, ero incatenato....
— Hai fatto male, Mariano, e dovresti meglio comprendere i riguardi che mi devi....
Ella m’amava, lo aveva detto, ma il suo affetto era dominato dalla ragione, dall’opportunismo, dalle esigenze sociali, e la mia folle brama di vederla somigliava all’indiscrezione d’un estraneo....
Un singhiozzo disperato mi strozzava la gola e la gondola continuava a scivolare sulle luride acque dinanzi alle alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Finalmente mi sovvenni d’essere uomo, compresi la stoltezza della mia folle illusione e, raccògliendo tutta l’energia rimastami, frenai le lagrime che mi bruciavano le guancie, soffocai l’angoscia che mi torturava, mi sforzai d’apparire tranquillo e risposi con quiete alle domande ch’ella mi andava rivolgendo, forse per distrarmi. Erano domande vaghe, un po’ frivole forse e io le ascoltavo con uno scoramento profondo.
Ad un tratto, ella disse, guardando il suo piccolo orologio:
— È trascorsa un’ora, Mariano, ove siamo?
Io scostai la cortina.
— Presso al punto di partenza, mamma, alla piazza di San Giovanni e Paolo.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 164 —|}}</noinclude>
— Sarà bene ch’io scenda, i miei figli potrebbero tornare....
Prima che uscissi, per aiutarla, ella mi baciò,, mi fece qualche raccomandazione convenzionale, s’asciugò sulle ciglia una lagrima fuggevole.
— Dobbiamo lasciarci, Mariano, e chi sa quando ci vedremo ancora... — mormorò ella risalendo nella piazza.
Io la seguii senza rispondere e volli accompagnarla per un breve tratto ma, avevamo fatti appena pochi passi, quando apparvero da lontano, i tre giovani Sàlgari. Essi ci avevano già scorti. Io la interrogai collo sguardo; ella disse rapidamente:
— Rimani e sii prudente.
Sorpresi di vederla con un estraneo, i tre figliuoli s’affrettarono incontro alla madre:
— Faceva troppo vento al Lido!.... Siamo tornati subito.... De Rozas ci ha detto ch’eri venuta da questa parte.... T’ha riconosciuta in distanza! — esclamarono tutti insieme.
Ella li salutò affettuosamente, appena appena turbata dal pericolo, e disse, con franchezza, presentandoci a vicenda:
I miei figliuoli... Maurizio, Cecilia, Evelina... il signor Adriano Delfiore figlio d’un amico di mio padre. Ci siamo incontrati qui in piazza....
Le due fanciulle scambiarono un sorriso. Maurizio Sàlgari, un giovanotto molto elegante di diciannov’anni, diede subito un’occhiata poco {{Pt|be-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 165 —|}}</noinclude>
{{Pt|nevola|benevola}} alla mia persona modestamente vestita, poi mi stese la punta delle dita ch’io appena toccai. Dovevo essere pallido come un morto.
— Se non m’inganno, il signore si trovava iersera sul vaporetto e tu forse non l’avevi ravvisato? — domandò una delle due fanciulle.
— Difatti, Evelina. Ci pareva ad entrambi di conoscerci ma lo credemmo un errore, non è vero, signor Adriano?....
Io chinai la testa smarrito, e Evelina mi guardò con una certa curiosità.
Era ancora adolescente e dalla sua fisonomia gentile, dai suoi occhi grandi e azzurri spirava una delicata bontà. Anche il suo sorriso mi parve benevolo e un senso di fraterna tenerezza mi toccò il cuore. Non era mia sorella? non erano tutti fratelli miei?
Ma la madre, la madre ''nostra'' trovò il coraggio di dirmi:
— Ella intendeva visitare la chiesa, non è vero?
non vorrei che indugiasse per noi....
— Non andiamo tutti a San Giovanni e Paolo? — domandò Evelina.
— Oggi no, bimba mia. Io ci fui poc’anzi e mi sento stanca.
— Se permette, signora, mi ritiro, — diss’io con la voce strozzata.
— Quando... quando tornerà a Milano? — chiese mia madre, ingiungendomi collo sguardo, di non contradire a quella domanda che aveva lo scopo di disperdere le mie traccie.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 166 —|}}</noinclude>
— Partirò domani, — risposi laconicamente, con un brivido d’orrore per la menzogna alla quale non ero capace d’associarmi.
Ella mi porse la mano, io le diedi tremando la mia, la diedi ai miei fratelli, m’allontanai vacillante, colla mente in disordine.
L’uomo può rassegnarsi a qualunque disillusione ma il dolore d’aver perduto la fede nella propria madre è un dolore mortale.
L’universo m’appariva scolorato, tutto mi si oscurava dinanzi, le più dolci speranze della vita sembravano sommergersi in un mare di dubbiezze, e la donna che avevo tanto sognato anch’essa nei miei vaneggiamenti giovanili, discendeva, discendeva, nella fosca caligine dell’incredulità. Dal fondo dell’esser mio io sentivo sorgere ribelli pensieri. io sentivo il freddo cinismo minacciare e invadere la mia ragione.
Mi ridussi spossato all’albergo e, come la notte in cui avevo inteso per la prima volta che mia madre era circondata da un’altra famiglia, mi buttai sul mio letto, in un impeto di desolazione e piansi tutte le lagrime degli occhi miei. E come allora, verso l’alba, il desiderio di vederla aveva assorbito e vinto tutte le mie pene, così adesso, ad un tratto, una visione confortatrice mi apparve, e la serena e onesta figura di Anna Jorio s’impose alla mia esaltata fantasia, con un’efficacia salvatrice. Sentivo ch’ella sola avrebbe potuto redimere la mia anima dall’oscurità profonda in cui<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 167 —|}}</noinclude>
era caduta, ma io non avevo più riveduto Anna, non mi rimaneva più alcuna speranza d’incontrarla e le mie circostanze mi costringevano a partire il giorno seguente.
Mi pareva che nè la natura nè l’arte avessero più il potere di consolarmi, nonpertanto un senso di dovere mi trasse in alcune chiese, alla scuola di San Rocco e al palazzo Labia perchè non volevo partire da Venezia senz’avere portato il mio umile tributo d’ammirazione ai nostri grandi. Sceglievo i rii più ombrosi, le vie più remote, agitato dal timore d’incontrarmi colla famiglia Sàlgari. Mi pareva che non avrei più avuto la forza di sopportarne la vista. Dopo il mezzogiorno un istinto strano mi ricondusse all’Accademia che avevo visitato una volta al mio arrivo. Entrai nel primo salone grande e con un improvviso smarrimento vidi Anna che stava contemplando, in fondo, il quadro di Jacobello del Fiore. Ell’era assorta in quella contemplazione, coll’estasi mistica che dá a certe donne l’arte dei primitivi, e io non osai turbarla. Soltanto quando si mosse m’avvicinai.
Mi salutò gravemente, ma il suo sguardo ebbe un raggio d’infinita dolcezza.
— Vede — diss’io, è proprio il destino che mi ha condotto qui presso di lei, è il cuore che m ha guidato.... Mi permette di esserle compagno in questa sua visita alle cose gloriose del passato, poich’ella arriva, non è vero?
— Sì, arrivo.<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 168 —|}}</noinclude>
L’Accademia era quasi vuota; salimmo insieme a quella specie di ''tribuna'' ove domina l’Assunta. Io guardavo il Miracolo di San Marco ma la fanciulla si volgeva spesso verso le divine Sante del Carpaccio.
Dinanzi a quei grandi quadri noi ci comunicammo molte idee.
Figlia d’un artista ella stessa, Anna aveva una intuizione sottile del bello e il suo gusto per le cose elette dell’arte, s’era squisitamente raffinato fra le malinconie feconde d’una giovinezza dolorosa. M’era noto il fascino ch’esercitavano su di lei gli spettacoli della natura, adesso la vedevo estasiarsi davanti alle opere dei grandi antichi e la sua anima candida e ardente di nobili aspirazioni, si rivelava così chiara agli occhi miei che mi pareva di leggervi come in un libro prezioso.
Guardammo insieme e studiammo diverse meravigliose opere d’arte: la Presentazione al Tempio che restituita al suo primo posto di tanto s’avvalora, il Cristo di Cima da Conegliano, le ancone dei Vivarini, le Madonne di Gian Bellino, i pastelli di Rosalba.
Anna era stata la mattina nella chiesa di Santa Maria Mater Domini a vedere la Santa Cristina di Vincenzo Catena che nel suo celestiale rapimento sembra illuminare il piccolo tempio d’una fiamma d’amore, e adesso aveva collocato la sua seggiolina dinanzi alla dolcissima Sant’Orsola del Carpaccio che reggendo soavemente con una mano<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 169 —|}}</noinclude>
la pura fronte, circondata da una treccia bionda, posa tranquilla sul casto guanciale e sogna forse il martirio che il fulgente angelo sta per annunziarle.
— Vede, mi diceva Anna, la spirituale bellezza, di queste due Sante, in tanta meraviglia di cose grandi, mi tiene un impero sull’anima: il sentimento, non è forse la potenza più durevole nell’arte?
Eravamo soli, nella sala del Carpaccio. Io lessi ad Anna la leggenda di Jacopo da Varagine, poi ci trattenemmo ancora discorrendo, ella seduta, io in piedi presso di lei. E a poco a poco accadde che, nel ragionare su quella sua domanda, si venisse ad un colloquio più confidenziale. Io mi sentii convinto di lei come d’una luminosa verità; una tenerezza infinita mi prese e il mio cuore esulcerato effuse abbandonatamente il proprio affanno: io narrai alla cara creatura tutta la mia storia, l’amara storia che a nessuno avrei voluto confidare.
Anna sollevò verso di me gli occhi umidi di pianto, senza proferire parola. La sua tacita pena mi consolava. Poi, ella pure raccontò tutto il passato dell’orfana sua vita e gli studi compiuti fra gli stenti e il tormento di quella sua incompresa missione d’educatrice, fra bambini viziati, in casa di gente altera e fredda. A Venezia era venuta, durante le sue brevi vacanze, per salutare una vecchia amica della sua famiglia, per sodisfare un vivo desiderio di diletti intellettuali.<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 170 —|}}</noinclude>
La confidenza larga, sincera andava con effusione crescente dall’una all’altra delle anime nostre all’improvviso affratellate nella vasta solitudine del mondo. Mi pareva che il mio dolore, passando nell’anima innocente della fanciulla, si depurasse di tutta la parte più terrena e più colpevole.
Oh sì! innocente e pura ella era come il giglio del campo, ma non ignara dell’umana miseria; severa con sè stessa ella sentiva quella generosa pietà del fallire altrui che è la virtù degli animi superiori. Da lei ho imparato a non giudicare mia madre. Da lei ho imparato a rispettarne in silenzio la memoria.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Quando tacemmo, paghi dell’intimo, grave colloquio, ci si affacciò una luminosa visione. Non avevamo mai amato e dinanzi a noi era la grandezza infinita dell’onesto amore. Ma la minaccia della prossima separazione ci fece rabbrividire entrambi. Allora io dissi:
— Anna, Anna, si ricorderà ella di me?...
— La ricordanza è uno dei migliori beni — mormorò la fanciulla.
L’Accademia ormai si chiudeva, dovevamo uscire.
— Andiamo all’aperto. Anna, andiamo a contemplare insieme il cielo di Venezia, torniamo al Lido a vedere il tramonto, non m’abbandoni, per carità, non m’abbandoni!...<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 171 —|}}</noinclude>
Ella mi guardò dolcemente mentre scendevamo le scale e disse con risolutezza.
— Io non posso venire con lei al Lido...
— Non mi ritiene degno d’accompagnarla?
— Non lo dica nemmeno....
— Dobbiamo dunque lasciarci imporre dal convenzionalismo sociale? Le anime nostre non sono diverse dalle altre? non l’abbiamo detto poc’anzi?
— Ah sì, Giuria, molto diverse!
— E allora, ci lasceremo così? Anna, Anna! Ella mi guardò con tristezza.
— Senza una parola, Anna, senza una speranza?
— Facciamo un po’ di strada insieme, — dissella allora pietosamente, avviandosi verso il ponte dell’Accademia.
Io la seguii, e assorti nel nostro colloquio, giungemmo fino alla piazza di San Marco. In mezzo ad una folla di forestieri, la banda suonava, in quel momento, l’intermezzo funebre del ''Crepuscolo'' ''degli'' ''Dei''. La musica mi parve straziante. Avevamo entrambi gli occhi pieni di lagrime. Lei, la donna, la più forte pronunciò la parola decisiva:
— Addio, Giuria.
— Mi chiami almeno Mariano!...
— Sì, Mariano.... addio.... che il Signore l’accompagni.
— Mi consente di chiederle una cosa, in quest’ora suprema?
Ella annuì collo sguardo.<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 172 —|}}</noinclude>
— Non qui in mezzo alla gente, fra tanti sco-
nosciuti che ci guardano... Entriamo nella chiesa J
di San Marco, non sarà una profanazione.
Anna non volle negarmi quest’ultima conten-
tezza: ella s’avviò verso la basilica e io la seguii.
Il bellissimo tempio era quasi deserto e nella mite
penombra la lampada ardeva dinanzi all’altare.
Io presi la fanciulla per la mano e le domandai
con voce tremante:
— Anna, ella mi ha detto che la sua anima è
sola?
— Molto sola.
— Non v’ha dunque nessuna più intima affe-
zione, nessun vincolo che la lega alla vita ?
— No, Mariano.
— Siamo soli entrambi, Anna. Non potrò io
guardare incontro al mio avvenire con una lontana
speranza?.... non mi concede questo conforto,
l’unico ch’io mi abbia ?
Ella mi rivolse le sue pupille nere, velate, con
una muta interrogazione.
— Anna, mi vuole un po’ di bene?...
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del Signore.
— Non è nel tempio del Signore che si fanno
i voti più sacri? vede Anna, noi siamo due soli-
tari perduti nel mondo.... la sorte volle che c’in-
contrassimo, ella per consolarmi, io per conoscere
il benefizio della sua pietá. Ella pianse delle mie
afflizioni, ella ebbe misericordia del mio spirito {{Pt|esa-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 172 —|}}</noinclude>
— Non qui in mezzo alla gente, fra tanti sconosciuti che ci guardano... Entriamo nella chiesa di San Marco, non sarà una profanazione.
Anna non volle negarmi quest’ultima contentezza: ella s’avviò verso la basilica e io la seguii. Il bellissimo tempio era quasi deserto e nella mite penombra la lampada ardeva dinanzi all’altare.
Io presi la fanciulla per la mano e le domandai con voce tremante:
— Anna, ella mi ha detto che la sua anima è sola?
— Molto sola.
— Non v’ha dunque nessuna più intima affezione, nessun vincolo che la lega alla vita?
— No, Mariano.
— Siamo soli entrambi, Anna. Non potrò io guardare incontro al mio avvenire con una lontana speranza?.... non mi concede questo conforto, l’unico ch’io mi abbia?
Ella mi rivolse le sue pupille nere, velate, con una muta interrogazione.
— Anna, mi vuole un po’ di bene?...
— Usciamo di qui, Giuria; questo è il tempio del Signore.
— Non è nel tempio del Signore che si fanno i voti più sacri? vede Anna, noi siamo due solitari perduti nel mondo.... la sorte volle che c’incontrassimo, ella per consolarmi, io per conoscere il benefizio della sua pietá. Ella pianse delle mie afflizioni, ella ebbe misericordia del mio spirito {{Pt|esa-|}}<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 173 —|}}</noinclude>
{{Pt|cerbato|esacerbato}}, io penetrai collo sguardo desioso di purezza entro il dolce mistero della candida sua anima, io vi lessi delle divine gioie... A me pare di averla sempre conosciuta, Anna, io l’ho sempre veduta nel mio pensiero, ella era il sogno della mia triste giovinezza, ella è l’ardente visione dei miei vent'anni.... ella non è Anna Iorio.... per me è la donna che in sè i più grandi affetti accoglie in cui rifulge una spirituale maternitá....
— Siamo in chiesa, Mariano, mormorò la fanciulla molto commossa.
— Lo so, lo sento. Non tema. Una domanda ancora prima di lasciarci! Mi consente di lavorare con una fede inspiratrice nel cuore?.... il ricordo di lei, Anna, infiammerà il mio intelletto, ravviverà la mia fantasia troppo turbata.. Avevo cessato di credere nella virtù e se non l’avessi incontrata, Anna, forse, mi sarei perduto.
— Oh Mariano! mi lasci pregare! — e s’inginocchiò sul pavimento.
Io le rimasi dappresso col cuore in tumulto.
Dopo un lungo raccoglimento la fanciulla s’alzò, mi stese la sua manina, balbettando con tremula voce:
— Lavoreremo entrambi.
— Sì, Anna, lavoreremo. Apparteniamo al numero dei lavoratori. E mentre saremo materialmente lontani, ahimè! quanto, quanto lontani! l’affettuoso pensiero saprà ricongiungerci evocando l’ineffabile visione del ritrovo. Non è vero, Anna?<noinclude></noinclude>
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Ella non rispose, ma i suoi occhi grandi, dolci e fedeli dissero con un casto sguardo la tenera, consenziente parola.
Poi volle partire.
La notte non era lontana. L’accompagnai, per suo desiderio, soltanto fino alla porta della chiesa. Anna mi rivolse l’ultimo saluto, s’allontanò e scomparve nella penombra, portando seco il mio cuore, tutta la mia vita.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Questo è il racconto che mi fece Mariano Giuria in un giorno di confidente abbandono.<noinclude></noinclude>
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Ella non rispose, ma i suoi occhi grandi, dolci e fedeli dissero con un casto sguardo la tenera, consenziente parola.
Poi volle partire.
La notte non era lontana. L’accompagnai, per suo desiderio, soltanto fino alla porta della chiesa. Anna mi rivolse l’ultimo saluto, s’allontanò e scomparve nella penombra, portando seco il mio cuore, tutta la mia vita.
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Questo è il racconto che mi fece Mariano Giuria in un giorno di confidente abbandono.
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{{Ct|f=200%|v=.6|t=4|LA PASSIONE DI CURZIO ALVISE}}
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{{FI
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Nella prima giovinezza, Curzio Alvise ed io, eravamo stati intimi amici, poi gli studi ci avevano divisi: egli seguiva a Firenze un corso di belle lettere, io frequentavo un’Università tedesca per poter restare in Germania quale assistente in una clinica medica. M’era pervenuta, a Berlino, la partecipazione del suo matrimonio con la signorina Subeiras, ch’io non conoscevo; avevo letto nei giornali italiani qualche recensione lusinghiera intorno ad un suo dramma; poi il silenzio epistolare, nella lunga lontananza, m’aveva fatto perdere le sue tracce. Ma la memoria d’Alvise viveva nel mio cuore col desiderio degli antichi confidenti colloqui. Tornato stabilmente in Italia, mi affrettai di cercarlo, e mi dissero ch’egli dimorava in Piemonte, nella villa Subeiras presso N... Mandai alcune righe a quell’indirizzo e egli mi rispose con un breve telegramma:
— Vieni, sono solo.
Curzio Alvise era figlio d’una gentildonna de-<noinclude>{{PieDiPagina|12||}}</noinclude>
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{{Pt|caduta|decaduta}} e d’un popolano salito in buona condizione per virtù del suo ingegno, o accoppiava l’energia incorrotta dell’uomo primitivo all’innata cortesia del patrizio. Sognatore inquieto ma risoluto all’opera, tempra imperiosa e ribelle al convenzionalismo, egli possedeva il fascino di certe vergini nature in cui l’individualità del carattere rifulge limpida e geniale, fra le battaglie dello spirito, i focosi ardimenti, e la nobiltá delle risoluzioni estreme.
Come l’intelletto, così chiara egli aveva la fronte ben disegnata dai capelli neri folti e riccioluti; sulle labbra tagliate superbamente, come un modello di scuola, era una lanugine lieve; negli occhi grandi e grigi, uno sguardo lontano che rispondeva all’interno sogno, che destato all’attenzione delle cose, si faceva all’improvviso acuto, sfavillante; in tutto il volto d’un colore bruno e sano, un’irradiazione di virile bellezza varia quanto il pensiero.
Dal padre egli aveva ereditato la vigoria del corpo alto, forte e snello, dalla madre la grazia delle forme.
Le poche persone ch’egli veramente amava subivano, senza volerlo, il più dolce impero, perchè alla sua indifferenza sdegnosa verso il mondo egli sapeva contrapporre, negli affetti d’elezione, un ap.passionata intensità di sentimento.
Durante il viaggio, io pensavo con piacere a quest’amico dei miei vent’anni, fra tanti prescelto,<noinclude></noinclude>
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ne rivedevo con lo spirito impaziente, la simpatica figura.
Quando scesi alla stazione di N..., ove dovevo prendere una carrozza per recarmi a Villa Subeiras, un uomo, sul fiore degli anni, ma d’aspetto sofferente, vestito di nero e coi capelli un po’ brizzolati, mi si avvicinò, stendendomi le braccia.
— Andrea!
— Curzio! Sei tu!
— Son io. Non mi riconosci più eh? È di gran tempo che non ci vediamo!
Alvise mi sembrò difatti molto mutato. Il suo volto così baldo un giorno di ardente giovinezza era assorto in una severa concentrazione, gli occhi conservavano il loro sguardo or distratto, ora sfavillante, ma sull’ampia fronte, fra i sopraccigli un pensiero fisso, angoscioso forse, aveva tracciato una piega di dolore.
Egli m’accolse con affetto, evitando di parlarmi di sè, chiedendo invece con premura delle cose mie.
Alcuni minuti dopo, correvamo insieme in un elegante landò, lungo vie polverose, nella vasta pianura fertile di messi ondeggianti. In capo ad un’ora apparve, fra i campi, una macchia pittoresca d’alberi e di grandi cespugli e i cavalli si fermarono dinanzi ad un cancello dalle punte dorate sul quale stava scritto con grandi lettere: ''Villa'' ''Emilia''.
Vedendomi intento a quel nome, egli disse semplicemente:<noinclude></noinclude>
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— Era la mia signora.
— L’hai perduta?
— Perduta.
— La molto tempo?
— Sono due anni.
Le sue risposte laconiche non mi permisero di interrogarlo più oltre.
Intanto avevamo preso un lungo viale di tigli in fondo al quale appariva la facciata grigia della villa. Era una costruzione di buono stile, arieggiante il castello medioevale. Il largo fosso che una volta la circondava era stato colmato di terra e ridotto ad uso di giardino.
La carrozza s’inoltrò, passando sugli avanzi di un antico ponte levatoio, in un porticato che metteva al cortile interno tutto verde di rosai rampicanti, i quali salivano fino alle finestre, circondando le persiane di fiorite ghirlande. Smontammo e, subito, Curzio m’introdusse nell’appartamento a terreno, ch’era adesso, oltre i quartieri dei domestici, l’unica parte abitata della casa.
Vidi una camera da letto di stile antico, un gabinetto da bagno, un ampio studio e un salotto messo con femminile eleganza. In un angolo di questo, sovra un tavolino, era un paniere con entro non so qual ricamo cominciato. Scorgendo nel mio sguardo un’altra involontaria domanda, egli spiegò brevemente:
— Era il lavoro d’Emilia, qui è rimasto tutto al medesimo posto.<noinclude></noinclude>
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Poi aperse una bellissima porta di noce scolpito, e subito soggiunse:
— Questa è la biblioteca di casa Subeiras: vi troverai molte cose interessanti, anche delle opere moderne di medicina..... Ma lascia che prima ti conduca al tuo alloggio.
Salimmo la bella scala di marmo scuro e, infilando dei larghi corridoi, giungemmo all’ala destra ove Un cameriere vestito di nero ci aspettava. Trovai due stanzette deliziose. Affacciandomi alla finestra, sentivo l’olezzo d’una pianta di gelsomino azorico che allargava i suoi rami, tutti stellati di bianche corolle, sulla facciata; vedevo, nel sottostante giardino, le aiuole color di fiamma dei gerani e delle begonie e fra due gruppi di quercie secolari un lembo d’orizzonte ove la linea verde della pianura si perdeva nel cielo.
— Tu ami molto i fiori? — io chiesi.
— Non so... Ho forse imparato ad amarli e sono avvezzo a vederli... Emilia li coltivava con passione. Ciò che li abbellisce ai nostri occhi è senza dubbio il gentile rapporto ch’essi hanno con la donna... T’aspetto nel parco — riprese egli, troncando in fretta il discorso.
Quando scesi, Curzio fumava all’ombra di un platano gigantesco, con un bellissimo cane danese accovacciato ai piedi. In un boschetto, á poca distanza, un cameriere stava preparando la tavola. Desinammo così all’aperto, uno in faccia all’altro.
— Dunque tu vivi qui proprio solo? — osai domandargli.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 182 —|}}</noinclude>
— Solo, sempre. Questo cane è il mio fido compagno.
— Lavori?
— Quando posso, quando sono tranquillo... specialmente la notte.
— Una commedia?
— No, sto scrivendo un romanzo.
Io temevo che la mia presenza potesse distoglierlo dalle sue occupazioni, ma egli mi pregò di restare qualche tempo con lui.
— Voglio confidarti la mia storia — diss’egli ma non oggi, nè domani...
Intanto egli mi mostrò la villa con tutte le sue adiacenze, il parco, la serra, le fattorie, le cascine.
Nato con un’anima d’artista e con una forte ripugnanza alle cose positive, egli abbandonava la cura dei suoi beni ad un onesto amministratore, esigendo soltanto che intorno a lui tutto procedesse come nel passato, che il giardiniere colti vasse con la stessa solerzia gli alberi ed 1 fiori, che le persone di servizio attendessero con la stessa scrupolosa esattezza all’ordine della casa. All’entrata del paese d’Arvaz, il più prossimo alla villa, sorgeva da un anno un asilo infantile che la signora Alvise, nel suo breve testamento, aveva pregato il marito di far erigere e al quale egli dedicava indefesse cure.
Un giorno Curzio mi condusse anche nel cimitero del paese ov’era la tomba di casa Subeiras; m’additò un semplice cippo, adorno di freschi fiori,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 183 —|}}</noinclude>
con una breve e severa epigrafe in memoria d’E-
milia Alvise de Subeiras. Essa finiva con le pa-
role del rito nuziale:
— ''Quod'' ''Deus'' ''conjunxit'' ''homo'' ''non'' ''separet''.
— Ha voluto essere sepolta qui — mi disse —
accanto ai suoi cari e presso la chiesuola ove
sposammo.
— Ella t’amava molto?
— Molto.
Gli occhi di Curzio erano fissi, con una strana
intensità, sul piccolo sepolcro.
— Non ne fui degno... — continuò egli, come
fra se. — Ti farò la mia confessione. Non ne ho
mai parlato con nessuno.
Ma non ebbe mai la forza di narrarmi la sua
storia. Una sera mi portò un rotolo di carte.
— Ecco — disse — ho scritto minuziosamente,
quello che mi sarebbe impossibile di raccontare.
L’ho scritto per te, mi sono aperto e confessato
perchè tu mi giudichi e mi condanni.
La notte, chiuso nelle mie camerette, io lessi
con attenzione il racconto che fedelmente tra-
scrivo cambiando soltanto i nomi.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Venivo da Firenze, per raggiungere mia madre
a Torino, quando, in un giornale, dimenticato da
un viaggiatore nel mio compartimento, mi cadde
sottocchio l’avviso di concorso per il posto che<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 184 —|}}</noinclude>
occupai presso il padre d’Emilia, qui nella villa. Si trattava di riordinare una biblioteca di circa 10,000 volumi e buon numero di codici ch’egli aveva ereditato da un suo fratello, uomo di scienze morto a Parigi. Il lavoro era lungo e non poteva durare meno di due anni, ma siccome la perdita prematura di mio padre ci aveva lasciati in condizioni poco buone io non esitai a offrire 1 miei servigi al signor de Subeiras e accolsi, con gioia la notizia ch’egli m’aveva prescelto fra diversi concorrenti. Un mese dopo, misi il piede per la prima volta in questa villa ove m’aspettava, invece d’un semplice compito letterario, l’arduo problema del mio destino.
La famiglia non si componeva che di tre persone: l’ex banchiere Filippo Subeiras, la sua figliuola Emilia, fanciulla di vent’anni e la signora Alwine Frühman, signora tedesca e un po’ anziana.
Un’epidemia difterica avendo rapito quasi Contemporaneamente, al signor Subeiras la moglie e due figliuoletti, egli s’era ritirato con la figlia superstite in campagna per vivere, in silenzio, di quell’unico affetto e del suo dolore. Alwine, la dama di compagnia, non aveva esitato a seguire nella solitudine quei poveri derelitti e a dividere un’esistenza dedicata in gran parte all’esercizio della carità.
Informato di questi particolari, io partii per villa Subeiras coll’animo predisposto a trovarvi un<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 185 —|}}</noinclude>
ambiente piuttosto serio, ma l’immaginazione fu di gran lunga superata dalla realtà.
Quando giunsi, in un nebbioso giorno d’autunno, padre e figliuola stavano giuocando agli scacchi, dinanzi al caminetto, e Fräulein Frühman. lavorava per i poveri accanto a loro.
L’accoglienza gentile ma compassata mi fece provare, subito, un senso d’arcana mestizia.
Filippo Subeiras non era privo d’ingegno, ma, egli aveva impiegato tutte le sue facoltà mentali nell’onesta speculazione e adesso le dedicava da buon dilettante a continui e fortunati esperimenti agricoli sulle sue terre. Conservatore ostinato, s’occupava di politica e di scienze sociali solo per trovare sempre nuovo argomento ai suoi instancabili rimpianti del passato, alla sua acerba disapprovazione del presente, al suo invincibile terrore del futuro.
Ma se l’intelletto di Subeiras era chiuso al sentimento della bellezza e dell’arte, egli confessava però volentieri la propria ignoranza e quest’è un merito che pochi possono vantare.
Emilia amava suo padre d’una tenerezza sviscerata, governava la casa con precoce accorgimento, faceva dei lavori meravigliosi ed era una appassionata cultrice di fiori. D’indole ordinata, paziente, riflessiva, ell’aveva saputo trar profitto dai suoi modesti studi e possedeva delle solide cognizioni, ma parlava poco e sempre sopra soggetti familiari. Severa, anzi un po’ intransingente<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 186 —|}}</noinclude>
nei principii, temperava quella naturale rigidezza con una saggia ed efficace bontà, coi nobili istinti dell’animo compassionevole e incline al sacrificio. Solo dinanzi alla ingiustizia e alla menzogna veniva meno il dolce riserbo di Emilia. Una volta, in mia presenza, entrò in una violenta collera, perchè una cameriera aveva mentito, ma seppe subito reprimere lo sdegno con la pieta. A tutti il suo cuore era prodigo d’attenzioni cortesi; ne facevo io stesso l’indiretta esperienza: la sua persona, nondimeno, non esercitava sopra di me la più lieve attrattiva.
Alwine era la creatura più originale che avessi mai incontrata. Più che renitente, refrattaria allo studio della lingua italiana, ella parlava quasi sempre il tedesco o l’inglese. Molto alta, d’una magrezza eccessiva, con mani e piedi più grandi del vero, la sua figura era dominata da un naso enorme sul quale, a conforto dell’esagerata miopia, certi occhialoni azzurri avevano messo stabile dimora. Ella raccoglieva sulla sommità della testa, in un povero ciuffo, i suoi radi capelli rossicci e aprendo la bocca mostrava due file di denti lunghi, sporgenti e d’un abbagliante bianchezza. Ma su quella bocca il sorriso era soave com’era soave l’anima d’Alwine; dai piccoli occhi, sotto le lenti, parlava un vivo intelletto d’amore.
Io ero troppo giovane, troppo inesperto per apprezzare le qualità dello spirito disgiunte dai pregi della forma esterna. Vivevo concentrato nelle mie<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 187 —|}}</noinclude>
occupazioni, attendendo, nelle ore libere, ad uno studio sulla commedia italiana nel seicento, per il quale la biblioteca mi forniva valide notizie.
La sera si raccoglievano nella villa gli alti funzionari dei paesi vicini, qualche sindaco di buona famiglia, un paio di sacerdoti, il medico, alcuni signori dimoranti in campagna. Durante quelle riunioni Emilia mi guardava, di tratto in tratto, con una certa insistenza, ma mi rivolgeva di rado la parola; due o tre volte, però, mi chiese con grande interesse di mia madre, e a Natale, quando andai a Torino per salutarla, volle che le recassi una focaccia fatta proprio con le sue mani.
Dicevasi, in quel tempo, che la mano della signorina Subeiras, la quale portava seco un ricchissimo patrimonio, tosse ambita da molti più o meno sinceri ammiratori. Io ne vidi comparire parecchi alla villa e partirsene senza speranza: Emilia non voleva abbandonare suo padre.
Mi trovavo da sei mesi circa, in casa Subeiras quando il signor Filippo, còlto in mia presenza, da sincope cardiaca, stramazzò al suolo e spirò fra le braccia della sua atterrita figliuola, lasciandola sola al mondo. L’infelice fanciulla desto in me una viva compassione, e non potendo offrire miglior conforto al suo tacito dolore, vegliai insieme a lei la salma ch’ella aveva pietosamente composta tra i fiori.
Straziata, ma sempre presente a se stessa, Emilia dava prova d’una mirabile fortezza d’animo.<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 188 —|}}</noinclude>
Un vecchio cugino lontano che Subeiras aveva scelto quale esecutore delle sue ultime volontà, venne a stare qualche tempo nella villa e mi comunicò il desiderio della signorina ch’io conducessi a termine il lavoro iniziato. Non ebbi il coraggio di rifiutarmi, ma domandai un mese di riposo, non sembrandomi opportuno di rimanere in casa Subeiras in quei momenti di sì grave lutto. Quando vi ritornai, Emilia era sola con Fräulein Alwine; a me era stato assegnato un bell’appartamentino di tre stanze, nel quale, un cameriere, addetto alla mia persona, mi serviva anche nelle ore della mensa.
Tolta qualche escursione nelle città vicine, vivevo solitario come un trappista, e i convegni della sera non contribuivano certo a distrarmi. Dopo aver adempiuto ai più stretti obblighi della convenienza, Emilia pareva concentrarsi nel lavoro per i poveri, al quale attendevano con lena instancabile, quasi febbrile, le sue piccole mani, ma in realtà, ella stava tutta raccolta nel culto ardente e geloso della propria afflizione. Soltanto qualche volta io sentivo ancora posarsi sovra di me il suo sguardo con un’espressione di curiosità benevola, quasi di muta domanda.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Era trascorso un anno. Il riordinamento faticoso della biblioteca volgeva al termine e, siccome un lontano parente di mia madre, morto in quel<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 189 —|}}</noinclude>
frattempo, aveva pensato, con atto generoso, a procurarmi una modesta ma sicura indipendenza, avido di libertà, io raddoppiavo il lavoro, divisando di lasciare la villa fra poche settimane. Accadde allora un fatto strano e decisivo per il mio avvenire.
Qualche volta, per un’antica consuetudine, dovuta al desiderio amorevole del signor Filippo, lavoravo in giardino. Un giorno d’aprile, mentre stavo decifrando certe pergamene interessanti per l’archivio di famiglia, in un capanno già tutto vestito di verdura, mi vidi comparire dinanzi la signorina de Subeiras, sola. Credevo avesse a chiedermi, come talvolta soleva, un qualche consiglio intorno alle sue letture, ma, al contrario dell’usato, ella si mise a sedere nella poltroncina che sempre indarno le offrivo e alle mie parole: — In che cosa posso aggradirla, signorina? — rispose con voce tremante:
— Dovrei parlarle.
Nelle aiuole fiorivano a gara i giacinti, i tulipani e i narcisi; fra i boschetti si nascondevano le fragili corolle degli anemoni; intorno a noi era tutta una fragranza di viole, un fremito di primavera gioconda. Io posai il codice che m’era rimasto fra le mani sul tavolino e ritto dinanzi a lei mi misi in ascolto. Ella cominciò con grande titubanza:
— Il colloquio che sono venuta a chiederle, Alvise, è molto grave e può avere una notevole influenza sulla mia vita<noinclude></noinclude>
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Io la guardai sorpreso e non seppi che cosa rispondere. Emilia proseguì:
— Io mi trovo in una condizione difficile, dolorosa e assai diversa da quella delle altre fanciulle. Sono sola al mondo: non v’ha peggiore destino di questo. Avrei potuto sposarmi, parecchie volte, ma ho sempre temuto, lo confesso, che la simpatia che mi si dimostrava fosse giustificata più che dalla mia persona dal triste patrimonio che tante crudeli sventure mi hanno lasciato in eredità. Preferii rimanere libera. Sola tuttavia non posso vivere, lo sento, e piuttosto che fare il sacrifizio della mia anima orgogliosa ad un calcolo volgare, ho risolto di transigere, con quelle leggi che condannano la donna a soffocare passivamente le proprie inclinazioni. Ho molto meditato e sofferto, Alvise, prima d’uscire dal silenzio e dal riserbo e vorrei che fin d’ora, ella sapesse comprendermi e anche compatirmi se non agisco con la correttezza che si compete ad una fanciulla mia pari.
— È saggio consiglio quello di seguire il proprio impulso senza rendersi schiavi delle convenzioni sociali — risposi, con crescente meraviglia, — d’altronde a me, signorina, non spetta di dare alcun giudizio.
— A lei più che a qualunque altro — ella disse, con un dolce sorriso, arrossendo.
Io m’inchinai ma rimasi impassibile e freddo e vi fu nel colloquio una breve, penosa pausa, dopo la quale, ella riprese alquanto turbata:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 191 —|}}</noinclude>
— Fra gli uomini che ho conosciuti, uno solo
ha saputo ispirarmi quel sentimento di stima e di
amicizia che deve destare in noi il compagno della
nostra vita. Questo giovane non s’è mai curato di
me, se non per debito di cortesia, ma nei giorni
più strazianti del mio dolore ha voluto dividere
meco, tacitamente, molte ore terribili e indimenti-
cabili. A lui mi vincola, oltre quell’istinto del
cuore che non si spiega, una riconoscenza pro-
fonda... a lui sacrifico volentieri la naturale ritrosia
dell’animo e rivelo con coraggio il mio segreto o
la mia cara speranza...
Lo sguardo della signorina Subeiras mi cercava,
timidamente. Povera Emilia, ella m’appare ancora
qualche volta com’era quel giorno, ritta nella sua
poltroncina di giunchi (non s’abbandonava mai ad
alcuna posa languida o molle), vestita a bruno,
colle mani convulse e strette... Vedendo ch’io me
ne stavo silenzioso, ella proseguì con la voce ^alte-
rata da una forte commozione:
— Devo esprimermi ancora più chiaramente?
devo dirle anche il nome ?...
— Io? sono proprio io? — balbettai con anime
non solo attonito ma anche renitente.
Ella annuì chinando gli occhi e soggiunse, non
senza un certo imbarazzo:
— Non volevo scrivere nè farle parlare da altri,
perciò ho dovuto venire io stessa...
— Sono così confuso, così sbalordito, signorina,
che non trovo parole...<noinclude></noinclude>
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Mi pareva infatti di dover richiamare da quell’apparente sogno il mio pensiero alla realtà della vita. Il cuore agitato mi martellava in petto.
— Non posseggo alcuna esterna attrattiva, lo so, ma il mio cuore è assetato d’affetto e s’ella non ricusa la mia proposta, troverà in me una buona e tenera moglie — disse Emilia, coraggiosamente.
— Io sposare la signorina Subeiras! — esclamai — no, no, è un onore, una distinzione di cui mi sento affatto immeritevole.
Ella fece un cenno espressivo con la mano e continuò, non senza amarezza:
— Non dica così, Alvise. Un uomo come lei deve avere la coscienza del proprio valore.
— È appunto dinanzi alla coscienza che un tale matrimonio avrebbe bisogno di giustificazione.
Crudeli, crudeli parole erano le mie ma io sentivo un feroce istinto di sincerità. Ebbi anche il cuore di guardarla freddamente. Dalla sua fisonomia scorretta ma caratteristica, traspariva più che l’intelligente pensiero, la pura, quasi austera onesta dell’anima. Nondimeno ella mi sembrò, come sempre, assai brutta. Piccola e tozza, Emilia mancava, nelle forme, di ogni grazia, d’ogni leggiadria femminile. L’unica sua bellezza erano i capelli lunghissimi, bruni e folti, ma scevra affatto di vanità, ella li stringeva sulla breve fronte, come una benda, senza un ricciolo, senza un’ondulazione; negli occhi neri era una dolce espressione di tenerezza<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 193 —|}}</noinclude>
fedele, contradicente alla curva fiera dei sopraccigli, alla piega un po’ tenace delle labbra.
— Durante il mio soggiorno alla villa — io ripigliai, vedendola molto contristata da quelle parole — la sua benevola cortesia a mio riguardo, non si è smentita un solo momento, ma l’accerto, signorina che nulla, nulla mai m’avrebbe fatto pensare alla preferenza lusinghiera ch’ella volle accordarmi.
— E pure — disse Emilia, con un filo di voce — io mi sentii damarla il primo giorno ch’ella entrò in questa casa. E quando morì il mio caro babbo, che la teneva in grande considerazione, il mio affetto si confermò fra le angoscie della sventura. Non sono donna da amare due volte nella vita. Le cose forti sono le più profonde, Alvise, e non vengono così facilmente alla superficie.
Dinanzi a quella confessione così schietta e così nobile, il mio turbamento s’accrebbe fino allo spasimo, ina non seppi proferire la gentile, l’affettuosa parola alla quale Emilia aveva diritto. Ella vide quant’ero perplesso e angustiato, e, subito dimentica di sè, disse con grande bontà:
— M’accorgo che non è in grado di darmi una risposta.. se crede, Alvise, aspetterò. Qualunque decisione ella vorrà prendere, sono sicura che non avrò mai a pentirmi della confidenza che le feci, perchè la credo un uomo d’onore. Aspetterò due o tre giorni — riprese, vincendo nobilmente la giusta alterezza dell’animo. E, alzatasi, si mosse<noinclude>{{PieDiPagina|13||}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 194 —|}}</noinclude>
per rientrare in casa. Aveva la bocca contratta, il passo incerto e un grande pallore nel volto.
— È necessario ch’io possa riflettere — mormorai — ma vorrei che fin d’ora, signorina, si tenesse certa della mia devota gratitudine.
Ella mi rivolse un tristissimo sorriso. Povera Emilia, quant’era buona, quant’era magnanima! .. Ma io mi sentivo inasprito contro me stesso, contro il destino e contro di lei. Avrei bramato poter corrispondere almeno con una deferente affezione a quel suo generoso amore, ma il cuore mi s’irrigidiva in petto.
L’accompagnai un piccolo tratto, poi ella s’allontanò a lento passo con una malinconica dignitá nello sguardo.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Dopo quel colloquio, io non ebbi un minuto d’esitanza. Vedevo tutte le cose con chiarezza e ancorché non potessi restare insensibile a una, proposta che doveva mutare per intero la mia sorte, sentivo che, nell’accettarla, io sarei disceso al livello dei volgari speculatori ai quali Emilia accennava e forse più basso ancora. Ma la sera, quando andai in giardino e vidi, fino a notte inoltrata, trasparire il lume dalle persiane nella camera della signorina Subeiras, il pensiero di quella creatura infelice che nella solitudine della sua vita, nell’amarezza di tante sventure m’aveva prescelto spotaneamente a compagno mi turbò, mi<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" /></noinclude>
fece vacillare nella presa risoluzione. Ella forse vegliava, colla mente fissa nell’incerto avvenire, sperava forse che la mia titubanza fosse derivata dalla meraviglia o da un delicato riguardo dell’animo, e io ero costretto invece a rappresentare una parte da scortese cavaliere. La mia lotta nondimeno fu breve. Non è sempre vero, ahimè, che amore
{{Centrato|{{smaller|.....a nullo amato amar perdona.}}}}
Io non potevo offrire ad Emilia quella corrispondenza di affetti ch’ella aveva il diritto d’esigere, la mia lealtà m’imponeva d’esprimermi francamente. Trascorso appena il secondo giorno le scrissi:
«''Signorina'',
«Dall’ora memorabile del nostro colloquio, non ho cessato di riflettere e d’interrogare me stesso La coscienza m’accerta ch’io non posseggo le qualità necessarie per renderla felice, egregia signorina, quant’Ella merita, e un sentimento d’onestà e di delicatezza ch’Eli a non vorrà, spero, disprezzare, mi costringe a ripetere che non mi ritengo degno della nobile e lusinghiera proposta che tanto m’onora. In questo momento doloroso, mi conceda d’esprimer! e, ancora una volta, la mia riconoscente e immutabile devozione.
«Attendo i di Lei ordini per poi lasciare al più presto questa casa ospitale alla quale mi legano<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 195 —|}}</noinclude>
fece vacillare nella presa risoluzione. Ella forse vegliava, colla mente fissa nell’incerto avvenire, sperava forse che la mia titubanza fosse derivata dalla meraviglia o da un delicato riguardo dell’animo, e io ero costretto invece a rappresentare una parte da scortese cavaliere. La mia lotta nondimeno fu breve. Non è sempre vero, ahimè, che amore
{{Centrato|{{smaller|.....a nullo amato amar perdona.}}}}
Io non potevo offrire ad Emilia quella corrispondenza di affetti ch’ella aveva il diritto d’esigere, la mia lealtà m’imponeva d’esprimermi francamente. Trascorso appena il secondo giorno le scrissi:
«''Signorina'',
«Dall’ora memorabile del nostro colloquio, non ho cessato di riflettere e d’interrogare me stesso La coscienza m’accerta ch’io non posseggo le qualità necessarie per renderla felice, egregia signorina, quant’Ella merita, e un sentimento d’onestà e di delicatezza ch’Eli a non vorrà, spero, disprezzare, mi costringe a ripetere che non mi ritengo degno della nobile e lusinghiera proposta che tanto m’onora. In questo momento doloroso, mi conceda d’esprimer! e, ancora una volta, la mia riconoscente e immutabile devozione.
«Attendo i di Lei ordini per poi lasciare al più presto questa casa ospitale alla quale mi legano<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 196 —|}}</noinclude>
tante care memorie e implorando un benevolo compatimento mi segno, ecc.»
Consegnai la lettera al cameriere e un’ora dopo mi pervenne la seguente risposta:
«''Signore'',
«Dimentichi, La prego, il colloquio ch’ebbe luogo fra noi. Io pure mi studierò di cancellarne dal cuore la penosa memoria. In quanto al lavoro della biblioteca, desidererei, se ciò non Le riesce di troppo grave disturbo, ch’Ella si compiacesse di condurlo al termine. Mi creda sempre di Lei
{{A destra|«Obbl.<sup>{{smaller|ma}}</sup> {{Sc|Emilia Subeiras}}».}}
Queste righe, così laconiche, così blande, mi rassicurarono sul conto della signorina Subeiras. Le mandai subito un biglietto in cui le dicevo che mi farei un dovere di compiere con la massima sollecitudine l’opera mia. E mi ci rimisi di lena. Due tre volte, dalla finestra, vidi Emilia aggirarsi fra le aiuole del giardino, ma non ebbi più il coraggio di scendere la sera. Un giorno m’imbattei nel corridoio in Fräulein Alwine che mi rivolse uno sguardo addolorato e un freddo saluto.
«È informata d’ogni cosa» dissi fra me, e mi studiai d’evitarla. Durante un’intera settimana non incontrai più nessuno, ma una mattina scorsi il medico entrare ad ore insolite nella villa, e, avendo chiesto al cameriere se vi fossero ammalati in casa, colui mi rispose:<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 197 —|}}</noinclude>
— Come? non lo sa? c’è la signorina con la febbre.
— Colla febbre?
— Sissignore. Il dottore poc’anzi faceva il viso bujo.
— Dov’è Fräulein Frühman?
— Sempre dalla signorina.
— Dite alla cameriera che la preghi di venire in sala.
E scesi, agitatissimo. Fräulein Alwine non tardò a raggiungermi. Era molto angustiata.
— Dio buono — esclamai — che cos’è accaduto?
Ella fece un cenno espressivo con le mani.
— Febbre, febbre — mormorò — grossa febbre, ''Herr'' ''Doktor''.
— Da quando? — domandai.
— Oh! tre giorni.
— E il medico è venuto soltanto ieri?
— ''Ja''! io chiamato, non voleva, non voleva.....
— E che cosa dice il medico?
— Tice febbre infettivo...
— Ha fatto qualche strapazzo? ha preso freddo? è stata forse da qualche ammalato?
— Oh no.
Ella mi guardava con gli occhi pieni di lagrime e con una tale espressione di tacito rimprovero che ne rimasi mortificato.
— Voi sapete, voi sapete! — proseguì, prendendomi amorevolmente per un braccio.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 198 —|}}</noinclude>
— Io?
— Sì. Non dovrei tire, ''mein'' ''lieber'' ''Herr'' ''Doktor'',
''aber'' ''es'' ''muss'' ''dock'' ''sein''... Voi non avete cabito niente.
Voialtri uomini non cabite mai niente. Scusate.
Non dovrei tire... ''aber'' ''nein'', ''das'' ''ist'' ''zu'' ''grausam''...
crudele, si dice, crudele.
Fräulein Alwine sempre così prudente, così ri-
servata doveva avere delle forti ragioni per farmi
quelle confidenze. Io non seppi che cosa rispon-
derle, avevo l’attitudine d’un delinquente.
— ''Eine'' ''gute'' ''Seele'' — continuò — ''and'' ''so'' ''allein''!
— povera Emilia, così solo!
— Non è solo chi possiede una buona amica
come lei...
— Oh! io vecchio, ''Herr'' ''Doktor''. Voi siete gio-
vane. Oh! se signorina sapesse! ''weh'' ''mir'', ''weh'' ''mir!''
Io me n’andai col cuore in tumulto, ma non
trovavo pace in nessun luogo.
Quando il medico venne, a mezzogiorno, lo
aspettai, per interrogarlo.
— È una forte febbre d’infezione — mi dis-
s’egli. — Da qualche tempo la signorina Subeiras
aveva perduto la sua consueta serenità. La set-
timana scorsa la trovai in preda ad un grande
abbattimento.. non può rassegnarsi alla perdita
di suo padre...
— Non vi sarà pericolo, spero ?
— Pericolo? Mah! Non si può dir niente... Se
la febbre incalza...
Difatti essa incalzò, rapidamente. Alle nove<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 199 —|}}</noinclude>
della sera il termometro segnava quaranta gradi. Nella casa cominciava a diffondersi un senso di spavento e d’angoscia. Io stava sempre nell’anticamera. Alle tre del mattino Fräulein Frühmann uscì per ordinare del ghiaccio e passando, mormorò:
— Ho detto ad Emilia che siete qui,, ella vi prega di coricarvi.
— Non posso. Non reggerei lassù. Vorrei fare qualche cosa anch’io, Fräulein . Mi mandi fuori, dal medico, in città, ove crede... disponga di me.
— Oh, crazie Voi potete stare a casa e far molto lo stesso. Voi potete cambiare vostra risoluzione e non esser tanto superbo. Vostra parola vale più di rimedio. ''Chinin'', ''antipyrin''... tutto niente, questo ci vuole! — E additava vivacemente il cuore. Poi soggiunse ancora una volta:
— Se la povera Emilia sapesse! ''weh'' ''mir'', ''weh'' ''mir''! - si mise un dito alla bocca e scappò via.
Sotto una forma esterna quasi ridicola, Alwine nascondeva un cuor d’oro: durante il mio soggiorno a villa Subeiras avevo avuto spesso l’occasione di convincermene.
Incapace d’un volgare pensiero, ch’agiva evidentemente per l’impulso d’un desiderio affettuoso, d’una gentile speranza. Forse, nel suo cervello romantico di tedesca, ell’aveva immaginato che la felicità dello spirito potesse costituire per la signorina Subeiras un elemento di fisica salvezza. Comunque fosse, il solo amore del bene induceva<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 200 —|}}</noinclude>
certamente la signorina Frühman a transigere col suo solito riserbo, con la squisita delicatezza del suo animo.
Il dubbio ch’Emilia avesse a soffrire nella salute per colpa mia non m’era mai balenato al pensiero, e senza fallo l’avrei respinto come uno sciocco suggerimento della vanità, ma le parole d’Alwine dovevano per forza turbarmi ed esse finirono col destare in me un senso strano di rimorso, una specie d’apprensione dolorosa.
L’inferma continuava a peggiorare e quella notte istessa, nell’angustia delle ore interminabili e tristi, io rivelai ad Alwine la tortura dell’animo mio. L’affetto d’Emilia cominciava a lusingare il mio amor proprio e ad impietosirmi il cuore.
Vi sono momenti fatali che decidono di tutta la vita, momenti in cui la verità delle cose ci sfugge e lo spirito si addormenta in ingannevoli sogni. Non voglio dilungarmi su ciò che accadde, su quella pericolosa dedizione di me stesso alla gravità incalzante dei fatti.
Il giorno appresso vi fu un notevole miglioramento nello stato dell’ammalata; la febbre diminuì, le condizioni generali divennero buone. Alwine mi recava, di tratto in tratto, notizie e saluti, mi prodigava sorrisi’ di benevolenza. Quando la guarigione fu assicurata, andai a Torino per parlare colla madre mia. Ella si sentì subito attratta da un vivo sentimento di gratitudine verso la {{Pt|signo-|}}<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 201 —|}}</noinclude>
{{Pt|rina|signorina}} Subeiras che le sembrava il mio angelo tutelare nel mondo pieno di tentazioni.
In quel tempo, sperai anch’io di poter amare Emilia e fu con una sicurezza strana, con una specie d’esaltamento che la rividi dopo la sua malattia. L’avevano trasportata in giardino, sopra una sedia a sdrajo, in mezzo ad un boschetto di ''philadelphus'' fioriti e fragranti e Alwine era venuta a dirmi che, se volessi scendere, mi vedrebbe volentieri. Al mio apparire la signorina Subeiras arrossi vivamente e mi rivolse uno sguardo in cui si leggeva insieme all’ansietà una fierezza dolorosa. Io mi avvicinai sorridendo e dissi piano:
— Emilia! cara Emilia!
Non avevo mai osato chiamarla col suo nome. Ella ne parve commossa, i suoi occhi bruni si velarono di lagrime e dalle labbra ancora pallide esci come un soffio la timida domanda:
— E dunque?..
Io mi chinai a baciarle la mano.
Eravamo fidanzati e intorno a noi sorrideva la primavera nelle fiorenti aiuole, nei gorgheggi delle capinere, nella serenità luminosa del cielo.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Siccome la cerimonia nuziale doveva aver luogo soltanto in ottobre, non parlammo con nessuno della nostra promessa di matrimonio; io rimasi alla villa e non tardai a riprendere la vita consueta alle cui monotone abitudini non s erano<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 201 —|}}</noinclude>
{{Pt|rina|signorina}} Subeiras che le sembrava il mio angelo tutelare nel mondo pieno di tentazioni.
In quel tempo, sperai anch’io di poter amare Emilia e fu con una sicurezza strana, con una specie d’esaltamento che la rividi dopo la sua malattia. L’avevano trasportata in giardino, sopra una sedia a sdrajo, in mezzo ad un boschetto di ''philadelphus'' fioriti e fragranti e Alwine era venuta a dirmi che, se volessi scendere, mi vedrebbe volentieri. Al mio apparire la signorina Subeiras arrossi vivamente e mi rivolse uno sguardo in cui si leggeva insieme all’ansietà una fierezza dolorosa. Io mi avvicinai sorridendo e dissi piano:
— Emilia! cara Emilia!
Non avevo mai osato chiamarla col suo nome. Ella ne parve commossa, i suoi occhi bruni si velarono di lagrime e dalle labbra ancora pallide esci come un soffio la timida domanda:
— E dunque?..
Io mi chinai a baciarle la mano.
Eravamo fidanzati e intorno a noi sorrideva la primavera nelle fiorenti aiuole, nei gorgheggi delle capinere, nella serenità luminosa del cielo.
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Siccome la cerimonia nuziale doveva aver luogo soltanto in ottobre, non parlammo con nessuno della nostra promessa di matrimonio; io rimasi alla villa e non tardai a riprendere la vita consueta alle cui monotone abitudini non s'erano<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 202 —|}}</noinclude>
aggiunte che due visite giornaliere ad Emilia. Invece di trattenerci in casa o nel giardino andavamo spesso a passeggiare nei dintorni insieme alla buona e fida Alwine che non capiva in sè dalla gioia.
Come si mostrò felice, Emilia, in quel tempo! Liet della sua contentezza, io mi lasciavo sfuggire. qualche tenera parola, vivevo in una incomprensibile illusione sopra me stesso. Furono tre mesi strani che il silenzio della campagna avvolse in un velo di pace apparente e traditrice.
Quando partii per Torino, alcune settimane prima del matrimonio, il distacco mi costò una certa fatica: Emilia ne soffriva assai, ma, come sempre, cercò di vincersi per non turbarmi.
Non so perchè, quel breve soggiorno in una grande città mi destò subito dall’inganno in cui ero caduto. Tornai alla villa, la vigilia delle nozze, e passai la serata con Emilia e con Alwine. Verso mezzanotte, prima di lasciarci provammo entrambi una intensa, ma ben diversa commozione: Emilia era tranquilla, fidente; nel mio cuore invece cominciava ad agitarsi una fiera tempesta. Feci tutti gli sforzi per dissimulare l’interno affanno, mi chinai sulla pura fronte della mia fidanzata e la baciai per la prima volta, ma appena fui solo, nelle mie stanze, mi gettai sul letto in un impeto di disperazione. In quella notte terribile lo stato della mia anima mi si rivelò con una spaventosa chiarezza. Vedevo, disteso sopra un mobile, come una fantasma di<noinclude></noinclude>
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morte, il mio ''frac''; la cravatta bianca, tutti gli altri oggetti bianchi mi sembravano anch’essi simboli di morte e di sepoltura; ini rimproveravo acerbamente d’essere stato troppo debole, d’aver dato l’intera mia vita per la vanitosa speranza di rendere felice una donna, quando il primo elemento della felicità, l’amore mi mancava; mi pareva di trovarmi in una cella senza uscita, fra quattro muri contro i quali dovessi infrangere la testa, come un pazzo travagliato dalla più funesta allucinazione. Alcune volte fui sul punto di scendere, di chiamare Emilia, di confessarle tutto... L’avessi pur fatto! Ma l’idea d’affliggerla e di cagionare anche a mia madre un grave dolore, bastò per trattenermi.
All’alba, dopo aver passeggiato su e giù con questo martirio nell’anima m’affacciai alla finestra, e la cruda brezza del mattino, soffiandomi bruscamente in faccia, mi ridestò all’immutabile realtà delle cose.
Mandai il cameriere a prendere le notizie della mia fidanzata con la quale non dovevo incontrarmi che al momento della partenza per il paese d’Arvaz. Ella mi fece dire da Alwine che aveva dormito tranquillamente. Da li ad un’ora ci rivedemmo nell’atrio. Non volendo tornare alla villa dopo la funzione civile, Emilia portava già il vestito bianco, il velo da sposa, la ghirlanda di fiori d’arancio in testa, ma la piccola figura nuziale che doveva commuovere in quel momento il mio cuore d’una<noinclude></noinclude>
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infinita tenerezza, non ebbe per me alcun raggio d’idealità.
Nella carrozza ov’ella aveva preso posto con Alwine, montarono il cugino Subeiras e il medico del paese, nella mia un avvocato di N... e due amici venuti da Milano. Non avevamo fatto alcun altro invito.
La scena, nella piccola stanza dell’ufficio comunale ove un sindaco balbuziente ci unì dinanzi alla legge, mi parve un poco grottesca, per fortuna fu breve e l’impressione rimastami nell’animo, si dileguò quando, nell’entrare in chiesa mi giunsero all’orecchio i suoni mistici di un mirabile preludio del padre Martini. Al mio amico Marcello Nocera, ottimo musicista, era venuta la felice ispirazione di suonare l’organo. Quella musica mi scese nell’anima, suscitandovi un ardente bisogno del bene. Guardai Emilia che saliva i gradini del presbiterio, con passo fermo, sorreggendo con una certa cura il lungo strascico del candido vestito. Prima d’inginocchiarsi, ella sollevò verso di me le brune pupille, dallo sguardo fedele, ove una serena contentezza rifulgeva, ma non mostrò alcuna commozione per la geniale sorpresa di Marcello.
Il prete di campagna, un pio vecchio, pronunziava con voce tremula ma solenne le belle parole del rito nuziale.
— ''Quod'' ''Deus'' ''conjunxit'' ''homo'' ''non'' ''separet''.
Questa sentenza mi diede un brivido di tristezza e di paura.<noinclude></noinclude>
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All’uscire della chiesa, mentre Nocera improvvisava una marcia di nozze, Emilia mi mormorò con tenerezza:
— Caro Curzio, come sei pallido!...
— Questi accordi penetrano nell’anima...
— Il tuo amico suona bene, non è vero? — ella rispose — peccato, io non capisco la musica.
E subito mi parve che nell’ora più memoranda della nostra vita, una grande distanza ci separasse.
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Dopo una breve colazione tra gli evviva dei pochi amici, partimmo per il nostro lungo viaggio lasciando la villa in custodia di Fräulein Alwine.
Eravamo soli, e il treno correva, correva come incontro ad un ignoto destino. Penso spesso al momento in cui presi Emilia fra le mie braccia, in cui cercai le sue prime innocenti carezze. Ero sincero e nessun rimorso turba per me quella ricordanza. Nelle infinite e strane fluttuazioni del mio pensiero, mi parve allora che la tenerezza fraterna e protettrice ch’Emilia m’ispirava, potesse tenermi luogo dell’amore. Ma fu breve inganno. La sua anima non aveva misteri per me. Natura integra e scrupolosamente onesta, ma punto elastica, Emilia si rivelava in un sol giorno. Le lotte dello spirito le erano ignote e la poesia infinita della sognante giovinezza si riduceva per lei ad una stretta cerchia di rette ma<noinclude></noinclude>
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positive idee. Era come un libro, composto di poche, candide pagine sulle quali stavano scritte, in caratteri d’oro, delle grandi verità. Non vi erano nè pagine chiuse, nè pagine vuote, nè pagine velate, io avevo letto tutto, tutto sapevo chiaramente a memoria.
A me, un folle ardore palpitava in petto con la giovanile curiosità della vita; non potevo comprendere la grandezza d’animo che si nascondeva entro quell’umile forma; lo stesso affetto di Emilia così vergine e spontaneo, così sicuro ed immutabile nelle sue promesse, non suscitava nel mio cuore che dei sensi di blanda gratitudine; Quella creatura, priva di fantasia, non possedeva alcun fascino per me.
La donna che avevo sognata era bionda, slanciata, leggiadra e squisitamente sensibile alle arti. Fu in quel viaggio di nozze ch’io ne vidi sorgere più spesso che mai l’immagine pericolosa dinanzi al mio esaltato pensiero.
Lungo il Reno, nel Belgio, specie a Parigi, certe figure di donne destarono in me dei fremiti che prima non avevo mai provati.
Mi dedicavo ad Emilia, studiandomi di darle un’impressione di felicità, cercando di prevenirla in tutto, ma sebbene fosse cresciuta in mezzo alle ricchezze, mia moglie nulla esigeva per la sua persona. La cameriera non l’aveva voluta, perchè anche a casa se ne serviva pochissimo; accurata nel vestire non aveva mai una falda, un nastro, una<noinclude></noinclude>
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trina fuori di posto; si pettinava da sè, con grande diligenza, ma sdegnava come una vanità colpevole, l’eleganza femminile e la passione della moda. Era un modello di lindura, ma mancava affatto di gusto.
Nei bauli regnava un ordine perfetto. Emilia non usciva dall’albergo senz’aver posto scrupolosamente in assetto tutta la roba nostra. Nelle spese stesse ella si lasciava dominare da questa esattezza; generosa in tutto, avrebbe ricusato di pagare un arancio qualche centesimo di più del suo valore per una invincibile ripugnanza all’inganno.
Dotata d’una grande resistenza fisica e d’una forte volontà, ella stava fuori da mane a sera senza provare stanchezza; bramosa di veder tutto, d’andare al fondo di tutto, ella consultava parecchie guide, prendeva delle note, voleva accertarsi del nome d’un pittore, del carattere d’uno stile, della precisione di certe date storiche. Prediligeva i libri di storia per l’amore della verità ch’era in lei ardente, e la sua tenacissima memoria assecondava con efficacia questa passione; apprezzava gli oggetti d’arte soltanto per il loro valore storico, ma era. incapace di comprenderne la vera grandezza; dal padre aveva ereditato una viva contrarietà per l’arte moderna come fosse un elemento di corruzione; amava poco il teatro che non era stata avvezza a frequentare, perchè nella commedia il soggetto le andava rare volte a genio,<noinclude></noinclude>
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perchè la musica parlava un linguaggio per lei incomprensibile.
Era una donna nata per essere madre. Dal modo con cui guardava i bambini, da certe sue parole vaghe compresi già nei primi giorni quanto lo desiderasse; più tardi anche me lo disse con una commozione profonda. Io ero troppo giovane per aspirare alle gioie intime della famiglia: altre e ben diverse idee mi frullavano nel cervello. La vita febbrile di Parigi acuiva quell’interna esaltazione fino al parossismo. Avevo assistito ad una prima trionfale al ''Gymnase''; un antico sogno di scrivere per il teatro cominciava a solleticare la mia nascente ambizione, tipi nuovi m’ondeggiavano come fantasmi nel pensiero, e la donna bionda e leggiadra v’appariva con un’insistenza così tormentosa che certi momenti mi pareva perfino di udirne il respiro lieve, d’aspirare il profumo dei suoi capelli d’oro.
Eravamo a Parigi da tre mesi, vivendo in tranquillo accordo, quando Emilia fu còlta da un insolito malessere e il medico mi consigliò di ritornare a villa Subeiras, affinchè la mia sposa potesse condurvi una vita tranquilla e metodica in attesa della sua futura maternità. Ella accolse quella speranza con un trasporto di gioia, e sebbene soffrisse molto, non l’udii mai movere un lamento. Il suo stato destava in me dei sensi di apprensione e di pietà; la consideravo come un essere fragile e sacro affidato alle mie cure, ma<noinclude></noinclude>
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quanto dovetti sorvegliare il mio spirito ribelle per non venire mai meno a quella costante vigilanza!...
Quando vidi Emilia nella quiete della casa paterna, fra i comodi e gli agi del suo appartamento, con la fida Alwine al fianco, le visioni d’arte tornarono affascinanti, impetuose al mio pensiero e, resistendo alle affettuose proteste di mia moglie che rimpiangeva l’intimità dei giorni trascorsi, m’abbandonai con trasporto al piacere del lavoro. Chiuso nel mio studio, immerso nella meditazione del mio soggetto, andavo abbozzando le scene d’una commedia e la mia fantasia, obliosa di tutte le domestiche cure, divagava nei campi infiniti della passione umana.
Qualche volta un passo un po’ grave s’avvicinava, mi destava dal mio sogno; una mano bianca, fregiata dal solo anello nuziale, veniva a posarsi sulla mia spalla; una voce dolce ma un po’ dolente mi diceva:
— Che fai Curzio? Scrivi sempre... sempre chiuso in questa stanza, non ti vedo mai...
— Volevi che fossi un uomo ozioso, Emilia?
— Oh no! non ozioso, avrei voluto soltanto che tu vivessi un pochino anche per me...
— Sono tuo, lo sai, Emilia, — rispondevo io amaramente — ma devo scrivere perchè ho qui dentro una febbre che mi divora..
— Non l’avevi, una volta...
— Occupavo un posto in questa casa e mi stava-<noinclude>{{PieDiPagina|14||}}</noinclude>
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a cuore d’adempiere lealmente al mio incarico; la febbre di scrivere c’era ma il dovere la teneva repressa. Ora non ho più alcun impegno fisso, sento il bisogno di fare qualche cosa, una cosa bella, nuova, grande vorrei fare, e se me ne derivasse un po’ di gloria, la gloria sarebbe tutta tua, la metterei come una corona, sul tuo capo, Emilia..
— La gloria è una cosa mutabile e capricciosa, ma gli affetti della famiglia sono un bene che nessuno ci può rapire — diceva ella con la più sincera convinzione — io non mi sento ambiziosa, io non aspiro alla tua gloria, Curzio, io aspiro all’amor tuo!
— Tu sei una donna e non puoi comprendermi! — esclamai, una volta, reprimendo a stento l’irritazione che mi sorgeva dal fondo dell’anima.
Ella mi guardò tristamente e mormorò:
— T’amo tanto!... è forse per questo mio grande amore che tutte le altre cose mi sembrano vane.
Io l’accarezzai, cercando d’acquietarla, poi subito la seguii in giardino ma fui lieto di veder sopraggiungere alcune signore del vicinato le quali costrinsero Emilia ad entrare nel salotto e permisero a me di tornare allo studio.
Avevo lasciato una scena nel punto culminante e volevo finirla, ma la visione m’era sfuggita, il dialogo che prima mi si svolgeva facile e chiaro nella mente diventava scialbo e stentato, la corrente era interrotta, non mi trovavo più in<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 211 —|}}</noinclude>
grado di scrivere e finii collo stracciare la pagina in un impeto di sdegno.
Quel giorno mi sentii, per la prima volta, profondamente infelice. Emilia avrebbe voluto ch’io fossi il compagno indivisibile delle sue letture, delle sue passeggiate, d’ogni suo diletto. Sebbene questo bisogno, così naturale all’amore, avesse per me l’apparenza d’una indiscreta pretesa mi sforzavo d’assecondarlo affinchè la serenità della nostra vita non avesse a intorbidarsi.
Ell’era molto sofferente e alterata in volto, solo nei suoi buoni occhi fedeli, ardeva, come un raggio, l’animosa speranza della maternità.
Fu in una nebbiosa mattina di novembre, dopo due giorni di gravi ambasce, che nacque il povero figliuoletto mio. Quando presi fra le braccia quell’esile bambino provai nell’anima uno schianto di tenera tristezza: egli somigliava a me, ma nelle piccole e scarne membra era appena un soffio di vita, la sua fragile esistenza non pareva alimentata dalla fiamma vivificante dell’amore.
All’udire i primi vagiti della sua creatura, Emilia s’illuminò d’un sorriso d’ineffabile ma tanto più fuggevole gioia. Il piccino visse appena un mese: nè le cure degli specialisti, nè lo sviscerato amor materno valsero ad agguerrirlo per le battaglie della vita.
Come tutti i dolori profondi il dolore d’Emilia era calmo e muto. Ella si vinceva per amor mio, ella sapeva nascondere e reprimere le sue lacrime<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 212 —|}}</noinclude>
cocenti per non affliggermi, ma spesse volte la trovai col corpo abbandonato sulla piccola culla dalla quale non aveva voluto ad ogni costo separarsi. Se quel bambino non fosse morto, torse l’amor materno avrebbe dato ad Emilia la forza di vivere per lui. Oh! con quale amarezza ricordo il giorno in cui Alwine ed io andammo ad accompagnare al camposanto d’Arvaz la piccola bara bianca in cui erano sepolte, per sempre, tante dolci speranze!
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Il mio dramma era finito. Avevo atteso a quel lavoro con tutto l’entusiasmo che può dare una tempestosa giovinezza infiammata dalla passione dell’arte.
Alla protagonista Eva Arnim avevo dedicato tutto il mio intelletto e tutto il mio cuore. Era una figura selvaggia che non ammetteva altra legge fuori dell’amore, che all’amore aveva dato ciecamente sè stessa fino alla morte.
Emilia s’era mostrata un po’ diffidente verso l’opera mia, nondimeno, quando seppe che ne avevo scritto l’ultima pagina, mi chiese di fargliela conoscere.
Eravamo soli, una sera, in un gabinetto, quando mantenni l’impegno. La buona Emilia allestiva una vesticciuola per i poveri. Il movimento e il rumore dei ferri da calza mi davano una tale molestia che dovetti pregarla di smettere.<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 213 —|}}</noinclude>
Ardeva ancora in me la febbre della creazione; nella lettura ad alta voce il mio lavoro m’esaltava; mi pareva che la figura d’Eva si disegnasse sullo sfondo come una cosa viva. Emilia ascoltava con un’attenzione intensa, ma s’era fatta pallida, le mani le si agitavano convulse in grembo.
Dopo il second’atto ella m’interruppe:
— Il soggetto mi sembra molto arrischiato... ma forse.. nella conclusione...
— La conclusione è ancora più forte, cara Emilia — io risposi tranquillamente.
— Dunque la tua Eva è una donna senza principii, senza coscienza, e tu la difendi, tu l’assolvi come un complice.
— Il dramma è oggettivo. Io non la difendo, nè la condanno. Eva Arnim è un tipo, Uno studio, è una donna perla quale l’unico principio è l’amore. Ella non è priva di coscienza, soltanto la sua coscienza è diversa dalla tua...
Ella mi guardò, meravigliata e disse, con dolcezza:
— Continua, Curzio.
Il dramma correva rapido al suo fine ch’era la volontaria morte d’Eva.
Emilia m’aveva seguito sempre con la stessa intensità. Quando riposi il manoscritto ella domandò soltanto:
— L’hai destinato alla scena?
— Certamente, Emilia; non saresti contenta se questa mia speranza s’avverasse?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 214 —|}}</noinclude>
— Tu mi domandi, Curzio, e io ti rispondo sinceramente: no, non sarei contenta.
— Perchè, dimmi perchè?
— Le produzioni artistiche che non hanno uno scopo morale mi ripugnano, lo sai. Perchè tu, proprio tu devi creare una figura così ripulsiva? una suicida?....
— Le passioni esclusive e indomite non sono prive di grandezza...
— Grandezza tu dici? mi sembra grande colui che sa soffrire e morire in silenzio quando Iddio lo chiama... (oh quelle parole!).
— L’arte, Emilia, secondo me è fatta per rappresentare, non per insegnare... tu non vorrai ch’io scriva delle commedi ole per gli asili d’infanzia..
— Ciò che non mira unicamente al bene mi sembra inutile — concluse Emilia con un involontario rimprovero nello sguardo.
Io riposi il manoscritto con grande amarezza, m’alzai e andai a passeggiare in giardino. Mi sentivo più che mai infelice, mi pareva che mille legami diversi mi vincolassero da tutte le parti, che 11 mio cervello dovesse dibattersi entro una cerchia di ferro.
Questi accessi di ribellione e di tristezza non erano rari; Emilia me li leggeva in volto e cercava di rasserenarmi con carezze e con dolci parole. Ma quella sera ella non venne, e quando tornai in casa per darle la buona notte, la trovai nella sua camera da letto, inginocchiata dinanzi<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 215 —|}}</noinclude>
ad un antico Crocifisso d’avorio ch’ella teneva in gran pregio. Mi parve che avesse pianto e le lagrime che cercava indarno di reprimere, invece di commuovermi, m’irritarono.
— E inutile che tu pianga, Emilia, — le dissi freddamente — il mio dramma è finito, l’ho scritto per il teatro: esso deve andare in scena. Se tu mi chiedessi di rinunziare a questo mio divisamento, non potrei compiacerti, perchè non mi credo in dovere di cedere ad una femminile debolezza... E necessario ch’io abbia una mèta nella vita.
— Non ho mai pensato a chiederti dei sacri fizii, Curzio, — ella disse con grande bontà, alzandosi, — il tuo piacere è sempre stato la mia massima gioia. Credevo soltanto che tu potessi scegliere una mèta migliore. Temo sempre che l’arte diventi un ostacolo alla nostra contentezza. Non so perchè io abbia questo senso di paura, questo presentimento ch’essa debba dividerci Sarebbe così dolce la nostra intima vita lontani dal mondo....
— La famiglia, la quiete, la solitudine sono conforti che l’Uomo apprezza soltanto dopo la battaglia.... io anelo ad una vita intellettuale, larga, intensa — esclamai; — quand’ho lavorato, ho bisogno d’attingere idee ad una fonte viva, non posso disperdere tutta l’energia della mia giovinezza nei languidi ozii della campagna.... Ma è meglio che, su questo, non ragioniamo, Emilia, perchè non c’intenderemo mai...<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 216 —|}}</noinclude>
— Fa, come ti piace, Curzio, — ella rispose sommessamente, sollevandosi per baciarmi in fronte. Oh! quanto è penoso il ricordo di quelle carezze!
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Il direttore della compagnia drammatica C.... che recitava al teatro Manzoni, aveva acconsentito ch’io gli leggessi il mio dramma. Andai apposta a Milano, ma dovetti attendere parecchi giorni prima ch’egli trovasse un’ora opportuna per quella lettura, finita la quale sollevò varie obbiezioni intorno al soggetto e non seppe darmi una risposta decisiva.
Facevano parte della compagnia lo Z.., attore notissimo per il suo talento, e Irene Saradia, un’attrice giovane che il direttore aveva scoperto in provincia, in un teatrino di filodrammatici. Incoraggiata dalle sue istanze, ella s’era messa in carriera, aveva esordito, con successo, da più d’anno e studiava indefessamente. La sua squisita tempra artistica le faceva presagire da tutti un glorioso avvenire.
L’«Eva Arnim» fu accettata in grazia sua. Ell’aveva scorso il mio lavoro, la parte della protagonista le era piaciuta e continuava a insisterò perchè si facesse la prova del dramma.
Scrissi ad Emilia che m’occorreva di restare assente qualche giorno da casa, poi pregai Z..., che avevo conosciuto a Firenze, di presentarmi alla signorina Saradia. Ell’alloggiava all’albergo Milano,<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 217 —|}}</noinclude>
con una cugina, sua solita compagna nella vita errante dell’arte.
Non dimenticherò mai il giorno in cui il mio sguardo s’incontrò per la prima volta con quella d’Irene.
La trovammo intenta a studiare la parte di Magda nella «Casa paterna». Era distratta e ci accolse con una certa freddezza. Poi la conversazione s’andò gradatamente animando.
Dal suo talento originale, dalla magìa della sua parola, dalla sua intellettuale e per me fulgida bellezza io rimasi ammaliato come da una sconosciuta gioia.
Ell’era bionda di quel biondo argenteo e fino che s’attribuisce alle fate; gli occhi grandi, d’un azzurro cupo, pronti a rispecchiare il perspicace pensiero, avevano dei riflessi verdi e neri come la laguna nelle ore misteriose del tramonto; il puro ovale del volto era s’affuso d’un pallore appassionato e, nella bocca mobile, ove il raro sorriso somigliava a un raggio d’amore, tutte le impressioni passavano, rapidamente, alternando una certa alterezza triste con la più schietta amabilità.
Uscii dal salotto d’Irene Saradia con l’animo fortemente agitato: ella m’aveva detto che aspettava con impazienza la ''prima'' della mia «Eva» e questo pensiero mi destava nell’anima una contentezza quasi angosciosa.
Il giorno appresso la udii recitare per la prima<noinclude></noinclude>
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volta, nelle «Anime solitarie» e ebbi da ''Anna'' ''Marr'' un’impressione violenta, indimenticabile.
Quando la udii e la vidi nelle prove dell’Eva un fremito m’invase da capo a piedi: ella si rinnovava nelle sue parti per una mirabile potenza intuitiva. Non era più Irene Saradia, era Eva stessa, la creatura selvaggia e primitiva, figlia del libero pensiero, che aveva tormentato la mia fantasia, come un’insistente visione, e che mi stava dinanzi viva e palpitante.
Molto indocile, Irene si concedeva spesso la libertà di fare dei cambiamenti, che io accettavo di buon grado, m’aveva perfino suggerito d’abbreviare un dialogo, per la rapidità dell’azione, e io l’avevo tagliato, senz’altro.
Dopo l’ultima prova, mentre mi rallegravo con lei nell’effusione dell’animo, Irene mi guardò coi grandi occhi di fuoco e mi disse:
— Vedete, Alvise, Eva era una cantante, io sono un’attrice, v’è poca differenza: come lei sono sola, senz’affetti, coll’arte mia...
— E col vostro sogno...
— Il sogno ha condotto Eva alla morte... e noi tutte morremmo se ci fosse dato leggere chiaramente nel cuore dell’uomo. Voi avete delineato la figura d’Eva per un istinto artistico, Alvise, ma forse non potete interamente comprenderla... bene, l’uomo non c’intende mai.
— Difatti ho conosciuto Eva oggi soltanto e l’ho veduta viva...<noinclude></noinclude>
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— Eppure io non l’ho ancora trovata in tutta la sua efficacia. Domani, Alvise, domani io sarò Eva, assolutamente...
Irene parlava, parlava e, a poco a poco, una vertigine mi annebbiava il cervello. Mi parve tutt’a un tratto, che Emilia non avesse mai vissuto, che villa Subeiras fosse scomparsa, che per me non esistesse più nulla fuorché il teatro, il mio dramma e quella donna seducente. Mia Emilia doveva arrivare, quella sera stessa, con Fräulein Frühman e io avevo promesso d’andare alla stazione. L’ora passava: mi destai, con uno sforzo da quella strana ebbrezza, pigliai una carrozza, esortai il fiaccheraio a sferzare il cavallo e giunsi appena in tempo per ricevere le due viaggiatrici. Mi parve che Emilia venisse da un paese lontano, da un paese che non era il mio. La sua preoccupazione eccessiva per certi nonnulla della vita, per una cinghia rotta, per una macchia del suo ombrello, cominciò già ad infastidirmi. La condussi con un senso di riluttanza all’albergo Milano ove alloggiavo da qualche giorno io stesso.
Emilia mi rivolse poche domande intorno all’esito delle prove, s’informò piuttosto, con un certo interesse, degli attori e delle attrici, ma quando le dissi che Irene Saradia abitava li presso di. noi, allo stesso piano, tradì, suo malgrado, la viva contrarietà dell’animo per tutto quello che riguarda il teatro. Mi chiese subito se avessi gradito ch’ella facesse la conoscenza della<noinclude></noinclude>
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prima attrice, ma si rallegrò udendo che non esigevo quel sacrifizio. Il giorno appresso fui costretto di accompagnarla in varii negozi; non vedevo nè capivo nulla. Ella mi guardava, di tratto in tratto, con un’aria di tristezza. Verso le quattro mi feci annunziare dalla signorina Saradia ma ell’era sofferente, non poteva ricevermi. Quella sera doveva andare in scena il mio dramma. Un’angustia mortale mi prese, un terrore dell’insuccesso e di tutte le sue conseguenze: mi pareva di soffocare. Tornai da Emilia, dissimulando la mia pena e la seguii macchinalmente ai giardini, ove aveva espresso il desiderio di fare una passeggiata. Era un giorno mitissimo di marzo: il paesaggio risorgente alla vita, nella freschezza del verde novello, nella fragranza degli alberi in fiore, faceva palpitare il mio cuore fino allo spasimo. Alle otto andai al teatro Manzoni, affidando Emilia ed Alwine alla cura dei miei amici. Prima ch’io partissi, ella mi abbracciò, mi fece un augurio; era forse più turbata che commossa. La sua presenza in un palco di seconda fila, per quanto ella si studiasse di rimanere nascosta, lungi dall’animarmi, mi toglieva il coraggio, mi faceva perdere anche quel po’ di fiducia in me stesso che m’era rimasta. Nel primo atto ove la figura d’Eva comincia a delinearsi, Irene fu profondamente umana e vera. Nel secondo e nel terz’atto le situazioni un po’ ardite suscitarono qualche contrasto, ma l’incarnazione d’Irene, nel tipo da me sognato, fu così<noinclude></noinclude>
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potente ch’ella vinse il pericolo e, trionfando con efficacia sugli ostacoli, salvò il dramma. Se fu un successo lo dovetti in gran parte a lei e quando calò la tela io lo stesi ambe le mani, con un im peto di gratitudine ardente. Ella mi diede passivamente le sue, fredde come il gelo. Era smorta in viso, piangente, sopraffatta da un’emozione profonda.
— Credevo che non poteste nemmeno recitare, stasera — le dissi — quanto, quanto m’avete fatto soffrire, prima di darmi questa gioia!
— Io ho penato più di voi — ella rispose — è la vostra Eva che mi fa star male.
Quella sera stessa invitai gl’interpreti del mio lavoro ad una cena all’albergo Milano.
Nel pomeriggio avevo espresso ad Emilia quel mio desiderio di raccogliere gli artisti, quel bisogno di stare in mezzo a loro, chiedendole, timidamente, se non volesse prendere parte alla cena, ma ella, con mia sodisfazione, aveva ricusato, senza esitare. Quando la raggiunsi all’uscire del teatro era ancor più turbata di prima e chiusa in sè stessa. Non manifestava in alcun modo l’animo suo. La lasciai nel suo appartamentino, con la buona Eräulein Fruhman ch’era inorridita per il soggetto dell’«Eva Arnim», e non osando dire di più, mormorava ogni tanto fra sè:
— ''Schrecklich'', ''schrecklich''!
La cena fu molto animata. Io sedevo accanto ad Irene, che s’era riavuta ma che serbava in<noinclude></noinclude>
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volto una grande mestizia. Quel velo d’appassionata malinconia rendeva la sua bellezza ancor più meravigliosa. I suoi occhi possedevano una tale magìa che ogni artifizio riusciva superfluo anche per la scena; la sua voce di contralto aveva dei fremiti improvvisi, degli accenti così profondi che io la sentivo risuonare, entro di me, come sulle corde d’un istrumento che vibrasse in virtù d’una forza arcana; nella sua conversazione capricciosa era un irresistibile fascino: ora languida come per improvvisa stanchezza, ora ardente d’un fuoco contenuto, quella strana creatura suscitava un tumulto nel cervello e nel cuore.
Sapevo che Irene aveva rifiutato una brillante proposta di matrimonio per non rinunciare all’arte sua, e ch’era rimasta insensibile all’omaggio di molti ammiratori, ma sentivo, altresì che quella gelosia di se stessa, quella persistente alterezza, derivavano dalla solitudine dell’anima e che anche ella al pari d’Eva, incontrando l’uomo atto a comprenderla, avrebbe tutto dimenticato, sentivo che in quella superba e libera figlia della natura l’amore doveva essere una cosa divina. La sua presenza mi dava un senso d’ineffabile gioia. Sarei morto volentieri in quell’ora, dopo quel successo, lì accanto a lei, sotto l’impero del suo irresistibile sguardo, piuttosto che tornare alla realtà della mia vita.
Quando risalii le scale e rientrai nella camera che occupavo vicino a quella d’Emilia, mi parve,<noinclude></noinclude>
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tutt’a un tratto, che la realtà mi piombasse con un peso insopportabile sul capo. Emilia non dormiva, stava seduta sul letto con le mani conserte, aveva dinanzi a sè il suo libro prediletto: ''L’Imitazione''.
Era affettuosa, ma molto seria; io l’abbracciai, esortandola a riposare, portai il lume dietro un paravento onde non potesse leggermi in volto lo stato dell’anima, è le rimasi d’accanto finché si addormentò.
Il giorno seguente incontrammo Irene nel corridoio e passammo senza fermarci.
Irene mi guardò con degli occhi strani.
— E molto bella anche da vicino, la Saradia — disse Emilia tranquillamente — poverina, mi ±a compassione, quella bellezza le recherà sventura.
— Sventura?... perchè? è una fanciulla onesta che ama la sua arte sovra ogni cosa e che passerà di trionfo in trionfo...
— Non dubito punto della sua onestà, ma non credo che l’illibatezza del costume possa conciliarsi a lungo con la vita dell’attrice, è una vita che io non riesco a comprendere.
— Tu sei come un fiore dell’Alpe, Emilia — diss’io sforzandomi, come sempre, di reprimere l’irritazione ch’ella suscitava in me — tu hai bisogno di vederti dinanzi il consueto paesaggio, il noto e sereno orizzonte... questa vita piena d’emozioni t’opprime, ti fa male, non è vero?<noinclude></noinclude>
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— Hai ragione, Curzio, mi fa male. Quando partiremo?
— V’è ancora una recita del mio dramma, Emilia, forse due, in questo momento non posso allontanarmi, lo vedi anche tu...
— Se credi, potrò tornare a casa con Alwine e tu verrai presto, non è vero, presto?...
— Appena sarò libero, Emilia...
Quella sera stessa ella ripartì alla volta di N..... Per il mio lavoro, per gli applausi lusinghieri coi quali era stato accolto, per quel mio primo passo fortunato nella carriera dell’arte, non una parola. L’abisso fra di noi era già scavato, soltanto la sua grande bontà fino allora era riescita a colmarlo. La povera Emilia era costretta a quel freddo silenzio dalla sua sottile coscienza, da un imperioso bisogno di rettitudine e di sincerità, ma ne soffriva acerbamente; io non potevo comprenderlo: dinanzi a lei mi sentivo inquieto, inasprito e il rimorso di quella mia intolleranza m’esasperava.
Appena tornato dalla stazione, il teatro essendo chiuso, feci una visita a Irene. Ell’era circondata da vari artisti. Un giovanotto che le sedeva accanto mi cedette il suo posto. Si parlò dell’arte drammatica, di letteratura, anche dell’amore. Genialmente colta, ma spesso molto sobria nella parola, Irene non aggiungeva che, di tratto in tratto, qualche frizzo spiritoso alla conversazione; quando il discorso cadde sull’amore, ella ammutolì.
— Vedi — disse un critico ad un giovane poeta<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 225 —|}}</noinclude>
— Irene Saradia non ha mai voluto esprimersi su questo scabroso argomento.
— Sente? — io soggiunsi.
— Per la donna l’amore è come il destino e sul destino non si ragiona — ella rispose gravemente.
Erano le parole d’Eva queste e Irene le ripeteva con uno strano lampo di dolore negli occhi.
Poco tempo dopo tutti partirono e noi rimanemmo soli.
Sopra un tavolino, in un vasetto snello di Murano, alcune giunchiglie appassivano, mandando un odore inebriante.
— Non vi fanno male questi fiori? — domandai.
— Oh no! io ho bisogno del profumo dei fiori...
Qual seduzione per me in quello sguardo, in quel sorriso, in quella voce appassionata, profonda!
Irene vestiva di nero. La vita di trina, chiusa da bottoni di brillanti, accollata ma un po’ trasparente, lasciava intravedere la morbida bianchezza delle spalle e delle braccia mirabili; i capelli, contorti in un nodo serpentino sulla nuca gentile, le cingevano la fronte d’un leggero e dorato diadema; gli occhi grandi ardevano, nel nativo pallore del volto, come due fiamme, e la bocca, dolce insieme e sdegnosa, aveva dei moti involontari quasi proferisse inaudibili parole.
Leggiadramente reclinata sul divano, ell’appoggiava la testa ad un piccolo cuscino bianco, sul quale erano ricamati degli strani ''cypripedium'' bruni e gialli; due rose pallide illanguidivano,<noinclude>{{PieDiPagina|15||}}</noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 226 —|}}</noinclude>
tra le falde del suo vestito come se le morissero in seno.
Ella mi guardava intensamente, quasi per interrogarmi sull’estatico silenzio in cui ero piombato e anch’io mi sentivo morire Ad; un tratto Irene mi disse:
— Alvise, voi siete molto infelice.
— Perchè? — esclamai, sussultando.
— Perchè avete sacrificato il vostro maggior bene, la libertà.
— Come sapete voi? come potete saper questo? E il ricordo della buona Emilia, forse per l’ultima volta, si ribellò nella mia coscienza, insorgendo contro l’inquisitivo colloquio. Ella se n’accorse subito e riprese:
— Vi rincresce che v’abbia letto nell’anima? Voi forse non avevate il coraggio di confessarlo a voi stesso. Eppure è necessario che guardiamo bene in faccia al nostro destino, ond’esso non ci sorprenda disarmati e ci soggioghi. La via tempestosa dell’arte non s’accorda colla placida monotonia della famiglia e le blande aspirazioni della tiepida felicità domestica non possono avvicendarsi colle gioie ardenti, coi dolori atroci della vita pubblica. Vi rincresce che ve lo dica? non è la verità questa?
— È la verità e perciò non può mutare.
Ella mi guardò con un enigmatico sorriso e subito mi chiese:
— Tornate presto laggiù?<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 227 —|}}</noinclude>
— Dove laggiù?
— Nella vostra villa, fra gli ozii della campagna.
— Appena finite le recito del mio dramma. È nel silenzio che si lavora e io corro al lavoro. La geniale interprete d’E va mi stará sempre dinanzi come una muta ispiratrice. Vorrei che mi riuscisse di plasmare una figura ancor più degna di voi! Se la troverò voi la farete rifulgere, voi le infonderete il soffio vitale, non è vero?
— Non so. Il desiderio mi porta lontana, molto lontana! — diss’ella.
— Verso il sogno, Irene?...
— Oh! il sogno!.. il sogno mi fa paura!
Ella s’era alzata di scatto. Un profondo turbamento le traspariva dal volto. Mi parve che volesse congedarmi e m’avviai verso la porta. Ella mi stese la piccola mano nervosa che sembrava presa da un gelo di morte.
— Addio, Eva! — diss’io.
— Addio, Aùtari... — ma questo ch’era il nome dell’amante d’Eva, le morì sulle labbra, con un impercettibile suono, e volgendosi, ella scomparve nella camera vicina. In quei giorni, sola, non potei rivederla mai.
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Richiamato ad Arvaz, dalle insistenti preghiere d’Emilia, trovai la vita campestre molto monotona. Non mi sapevo adattare alle solite abitudini, alle<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 228 —|}}</noinclude>
ore fisse, ai colloqui col ragioniere e coi fattori di campagna, alle nostre conversazioni della sera. A Milano avevo meditato il soggetto d’una nuova commedia, ero impaziente di tracciarne la linea generale, di distribuire certe scene, e il costante silenzio d’Emilia, questa prova palese della sua contrarietà, mi faceva male e nel tempo istesso, per la contradizione delle umane cose, m’eccitava a scrivere. Con Emilia mi sforzavo tuttavia d’apparire ilare ed amorevole, ma quella simulata contentezza mi dava rimorso e più volte fui sul punto di dirle:
— Ho ceduto alla tua proposta generosa per debolezza, per vanità forse, soprattutto per il desiderio di renderti felice, ma io non posseggo gli elementi di felicità ai quali tu aspiri; bramerei amarti e non so; il tuo cuore buono e semplice, la tua mente retta e positiva non sono fatti per comprendere i tumulti della mia indomita giovinezza e io non posso piegarmi alle esigenze d’un matrimonio di ragione. Tu hai creduto avvolgermi in un serto di rose, e m’hai cinto, senza volerlo, d’una pesante catena. Le necessità della vita domestica inceppano il mio pensiero, le abitudini mi ripugnano, il mio ideale non è la pace, è la lotta; sono un ambizioso e ho bisogno dell’amore che intende, non già delle tiranniche affezioni che inceppano la via.
Fors’ella, la mite Emilia sarebbe venuta meno dinanzi a quella brutale dichiarazione, ma io avrei<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 229 —|}}</noinclude>
detto la verità ali no, non sarei stato ancora interamente sincero, ella avrebbe ancora ignorato che, da tre mesi, un’abbagliante immagine s’era impadronita degli occhi miei e che la vedevo ovunque come una visione ispiratrice al cui fascino più non mi riesciva di sottrarmi...
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Un giorno, scorrendo la posta, mi venne fra le mani una lettera con la scrittura larga, slanciata e il mio cuore tremò d’una colpevole gioia.
Non v’erano che poche righe:
''Caro'' ''amico'',
La settimana ventura parto per l’America. Prima di lasciare l’Italia vorrei salutarvi.
{{A destra|{{Sc|Irene Saradia.}}}}
Io non ebbi il coraggio di mostrare quella lettera ad Emilia e fu la prima finzione.
Da qualche tempo le avevo manifestato il desiderio d’andare a Milano per parlare con un editore intorno alla ristampa di certi miei articoli critici e colsi questo pretesto per giustificare la mia partenza.
Appena giunto, m’affrettai di recarmi alla casa ove Irene dimorava. Nel rivederci rimanemmo entrambi commossi e senza parole.
— M’avete chiamato... eccomi — diss’io, finalmente.<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
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detto la verità... ah no, non sarei stato ancora interamente sincero, ella avrebbe ancora ignorato che, da tre mesi, un’abbagliante immagine s’era impadronita degli occhi miei e che la vedevo ovunque come una visione ispiratrice al cui fascino più non mi riesciva di sottrarmi...
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Un giorno, scorrendo la posta, mi venne fra le mani una lettera con la scrittura larga, slanciata e il mio cuore tremò d’una colpevole gioia.
Non v’erano che poche righe:
''Caro'' ''amico'',
La settimana ventura parto per l’America. Prima di lasciare l’Italia vorrei salutarvi.
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Io non ebbi il coraggio di mostrare quella lettera ad Emilia e fu la prima finzione.
Da qualche tempo le avevo manifestato il desiderio d’andare a Milano per parlare con un editore intorno alla ristampa di certi miei articoli critici e colsi questo pretesto per giustificare la mia partenza.
Appena giunto, m’affrettai di recarmi alla casa ove Irene dimorava. Nel rivederci rimanemmo entrambi commossi e senza parole.
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 230 —|}}</noinclude>
— Grazie. Non avrei potuto partire senza dirvi
addio.
— Perchè, perchè questa fatale risoluzione?
— Seguo il mio destino. Farò la vostra «Eva»
laggiù, al di là del mare.
Ella mi guardava con gli occhi luminosi. Nel-
l’iride pareva che delle fiammelle s’accendessero,
piene di mistero. La minaccia di non rivederla per
molto tempo, forse mai più, mi metteva nell’animo
una muta ambascia.
— I trionfi di cui godeste fin qui non vi ba-
stavano? — domandai con grande amarezza.
— Io non cerco i trionfi, cerco l’oblio delle cose.
Voglio rinnovare la mia vita.
— Vi segue parte della compagnia?
— Nessuno... tutta gente nuova.
— Sarete sola...
— La mia anima è sempre sola.
Vi fu un lungo, un pericoloso silenzio. Final-
mente trascinato dal dolore e dall’invincibile pas-
sione, io le dissi:
— Perchè dunque mi hai chiamato? non sen-
tivi da lontano tutte le angosce del mio amore?
Ella sollevò lo sguardo un po’ smarrito, le sue
gote impallidirono, ma serbando all’apparenza una
calma profonda ella rispose:
— Anch’io, Curzio, t’amo più della vita. Ma a
che giova? Dobbiamo separarci. Ho voluto vederti
ancora una volta prima che il mare grande e in-
finito ci divida..<noinclude></noinclude>
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text/x-wiki
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— Grazie. Non avrei potuto partire senza dirvi addio.
— Perchè, perchè questa fatale risoluzione?
— Seguo il mio destino. Farò la vostra «Eva» laggiù, al di là del mare.
Ella mi guardava con gli occhi luminosi. Nell’iride pareva che delle fiammelle s’accendessero, piene di mistero. La minaccia di non rivederla per molto tempo, forse mai più, mi metteva nell’animo una muta ambascia.
— I trionfi di cui godeste fin qui non vi bastavano? — domandai con grande amarezza.
— Io non cerco i trionfi, cerco l’oblio delle cose. Voglio rinnovare la mia vita.
— Vi segue parte della compagnia?
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— La mia anima è sempre sola.
Vi fu un lungo, un pericoloso silenzio. Finalmente trascinato dal dolore e dall’invincibile passione, io le dissi:
— Perchè dunque mi hai chiamato? non sentivi da lontano tutte le angosce del mio amore?
Ella sollevò lo sguardo un po’ smarrito, le sue gote impallidirono, ma serbando all’apparenza una calma profonda ella rispose:
— Anch’io, Curzio, t’amo più della vita. Ma a che giova? Dobbiamo separarci. Ho voluto vederti ancora una volta prima che il mare grande e infinito ci divida..<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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Sembravamo sopraffatti entrambi da un abbattimento profondo. Forse un ricordo non ancora interamente assopito sosteneva la mia volontà, ma l’inevitabile destino di quell’imperioso amore era fra noi; ci sentivamo scolorire in volto, gli occhi ci si empivano di lagrime.
Tutt’a un tratto, nello sguardo d’Irene lampeggiò un tale ardore di dolorosa passione, che la vita mia, il passato, Emilia, tutto mi sfuggì dal pensiero su cui quella creatura meravigliosa e in cantatrice da gran tempo regnava.
Cademmo uno nelle braccia dell’altro in un ineffabile esaltamento di follia.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Io rimasi alcuni giorni a Milano e indussi facilmente Irene a rompere il suo contratto per l’America.
Come l’editore era assente e non avevo potuto combinar nulla, scrivendo ad Emilia, mi valsi di quella scusa per il mio indugio a ritornare. Ella mi rispondeva dolcemente e tristemente, lamentando di non potermi raggiungere, per certi lavori di ristauro ch’erano cominciati nella villa e che desiderava sorvegliare ella stessa, lo scorrevo appena le sue lettere, poi le bruciavo con un senso di sgomento. In capo a due settimane, ella cessò di mandarmi le sue notizie. Assorto com’ero, dalla passione, alla prima, non m’accorsi nemmeno di<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 232 —|}}</noinclude>
quell’insolito silenzio, ma un giorno mi balenò alla mente il dubbio che qualche sospetto potesse essere penetrato nell’anima di Emilia, e preso da un’improvvisa angustia risolvetti di ritornare, per qualche tempo, a villa Subeiras, lottando contro me stesso e resistendo all’amore esclusivo e quasi feroce d’Irene la quale avrebbe voluto che spezzassi ogni legame per lei.
Trovai Emilia alquanto abbattuta. Ella m’accolse con la solita tenerezza ma io sentii che, nell’affettuoso saluto, le sue piccole braccia tremavano intorno al mio collo, vidi il suo dolce sorriso offuscato da un’ombra grave. Per quanto ella si sforzasse di dissimularla, ogni atto, ogni movimento tradiva in lei una segreta cura dell’animo. Non vi fu, allora fra noi, alcuna spiegazione, ma una notte, mentre stavo scrivendo ad Irene, Emilia entrò inaspettatamente nel mio gabinetto. Al vederla, con l’accappatoio bianco, così lieve nel passo, mi parve una fantasma.
— Ti disturbo, Curzio? — Ella domandò con la sua voce amorevole.
— Oh perchè? Soltanto m’hai fatto paura, a quest’ora insolita; ti credevo addormentata da un pezzo.
— No, non potevo dormire e sono venuta a salutarti e a vedere quello che fai. A chi scrivi così a lungo?
— A Irene Saradia — - io risposi, con un brivido. — Devo parlarle della mia nuova commedia.<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 233 —|}}</noinclude>
— Ah!... dov’è la signorina Saradia?
— Ora è a Milano.
Quella specie di menzogna mi bruciava dentro, come un fuoco. Se Emilia avesse letta una sola frase di quella lettera la verità le sarebbe apparsa tutt’a un tratto.
La finzione mi ripugnava siffattamente, che l’avrei quasi desiderato. Ma Emilia con atto delicatissimo, si studiò d’evitarne la vista. Ella venne a sedersi accanto a me e mi disse:
— Curzio, hai dei nemici a Milano?
— No, ch’io sappia. Perchè?
— Perchè giorni sono ho ricevuto una lettera infame. Io non ci ho creduto, sai, Curzio, oh no, no, nulla potrebbe farmi dubitare di te, l’ho solamente serbata, per il caso che tu riconoscessi la scrittura... sarebbe una triste cosa che tu usassi qualche cortesia ad un malvagio che forse ti perseguita per invidia...
— Dov’è questa lettera?
— Vuoi vederla? vado a prenderla subito.
Ella scivolò via e tornò subito con la busta in mano. Era uno scritto anonimo e volgare le cui frasi banali io ben ricordo:
«''Signora'',
«Il cuore dell’uomo è mutabile e leggero. Diffidate e tenete gli occhi molto aperti, affinchè un giorno non cada, troppo all’improvviso, la larva a quell’infedele cui consacraste la vostra vita innocente.»<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 234 —|}}</noinclude>
— Ma quest’è un’indegnità! — esclamai, riconoscendo la scrittura e lo stile d’un attore ch’era perdutamente innamorato d’Irene e facendo il foglietto a brani.
— Non è vero, Curzio? — rispos’ella, subito rasserenata — io non diedi importanza a quelle parole, tuttavia la vile allusione alla tua persona mi fece così male che non ebbi più la forza di venire a Milano... Volevo farti una sorpresa, sai... la lettera giunse il giorno destinato alla partenza, e non so perchè, mutai pensiero...
Così dicendo, si chinò sovra di me con rinnovata tenerezza.
Un sudor freddo mi bagnava la fronte, fui sul punto di svelarle tutto, ma se da un lato un bisogno violento mi spingeva a quella fatale confessione, dall’altro mi paralizzava la tema del dolore che le avrei recato. Finii col persistere nel silenzio, mi studiai di corrispondere alla sua amorevolezza, la esortai a coricarsi e a vivere tranquilla. Come sempre, ella seguì docilmente il consiglio e io rimasi lì dinanzi alla lettera, non ancora finita, col rimorso nell’anima e col mio invincibile amore.
{{Centrato|🞻 🞻 🞻}}
Il soggiorno di Villa Subeiras m’era divenuto insopportabile. Non potevo stare vicino a mia moglie, il suo sguardo innocente e fedele mi penetrava nelle viscere, la sua serena virtù m’{{Pt|esa-|}}<noinclude></noinclude>
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Isabelawliet
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<noinclude><pagequality level="3" user="Isabelawliet" />{{RigaIntestazione||— 235 —|}}</noinclude>
{{Pt|cerbava|esacerbava}}; avrei voluto trovare degli argomenti di corruccio contro di lei e sempre più vedevo risplendere sulla sua fronte un raggio di generosa indulgenza. Povera Emilia! ella conosceva il segreto dell’amore che non passa!
Irene mi scriveva lettere di fuoco. Indarno le raccomandavo d’usare qualche precauzione: ella non poneva mente a nulla. Tre o quattro volte eravamo riusciti a combinare un incontro, di poche ore, nelle piccole città vicine ove mi chiamavano, di quando in quando, gli affari di casa. Dopo questi ritrovi in cui il desiderio di rivederci si faceva sempre più violento, Irene aveva dovuto andare con la sua compagnia a Torino e mi chiamava insistentemente per preparare una rappresentazione della mia «Eva.»
Una sera comunicai ad Emilia questa notizia, le dissi che dovrei recarmi fra breve a Torino anch’io. M’aspettavo che mi proponesse di venir meco, ma non vi pensava nemmeno.
Ella domandò soltanto:
— Sarà un’assenza breve?...
— Non so, Emilia. Devo incontrarmi con degli amici ai quali ho promesso di leggere il mio nuovo lavoro.
— Temo sempre che tu sogni un bene che quaggiù non esiste, — ella disse, persistendo nel suo antico principio.
— Credo che tu abbia ragione, Emilia, e certo il mio ingegno non asseconda le mie aspirazioni...<noinclude></noinclude>
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Casmiki
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|494|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>voce Cotiaio, ma ora dagli stessi Lazj è detto Catalisio, per ignoranza di quella lingua deturpandone la retta pronuncia. Altri per lo contrario estimano aver quivi ab antico avuto sue fondamenta Citaia, città, patria di Eeta, donde i poeti chiamarono costui citaiense e la Colchide Citaide. Mermeroe adunque pervenutovi fermo ristaurarne i guasti, nè avendo all'uopo materiale
ed essendo imminente il verno si diè a ripararli
con munizioni di legno, e vi stabilì sua dimora. In vicinanza poi evvi Uchimerio fortissimo castello guardato con somma diligenza dai Lazj unitamente a piccola mano d'imperiali. Così il duce persiano accampatosi con tutto l'esercito a Gutalisio possedeva l'ottima parte della Colchide, strigneva siffattamente i nemici da impedir loro ogni trasporto di vittuaglia ad Uchimerio, ed era pronto a molestare l'andata nella Suania e Scimnia, provincie spettanti all'impero. Conciossiachè ove si giunga ad occupare Muchiresi vien serrata ai Lazj ed ai Romani la via tendente a que' luoghi. Di questo modo procedeva la guerra lazica.<section end="s1" /><section begin="s2" />
{{Centrato|}}CAPO XV.</div>
{{Indentatura}}''Tregua di cinque anni turpemente compra da Giustiniano Augusto. — Libertà di Procopio nello scrivere. — Vendemmiatosi, le viti riproducono grappoli e gli alberi nuovi frutti.''</div>
I. In Bizanzio l'ambasciatore di Cosroe lunghissimamente piatì di pace con Giustiniano Augusto e da ultimo entrambi convennero di porre giù le armi per<section begin="s2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Casmiki
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|502|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>prole de' più illustri duci persiani. Che se rifiuti accogliere sì belle proposte vattene altrove con Dio, Acciocchè i Lazj da sciagure oppressi mercè la sconsigliatezza del capo loro, sottrattivisi una volta, nella quiete e pace s'abbiano il bramato riposo. Nè reggati l'animo di promoverne lo sterminio con sì lunghi e tormentosi patimenti, accecato da frivole speranze ne' tuoi confederati. Imperciocchè a Giustiniano
e mancarono sin qui mezzi per soccorrerti, e riuscirà mai sempre vano ogni futuro tentativo». Gubaze non di meno, ad onta della scrittagli da Mermeroe, fermo in suo proponimento continuava a dimorare sulle cime de' poggi tutto in aspettazione de’ romani aiuti, e l'odio portato a Cosroe vie più fomentavane le speranze riposte nell'impero. Gli uomini per vita nostra spesso
lasciansi governare da capriccio assoggettandovi la propria ragione; e se v'ha sentenza conforme ai loro desiderj corronvi dietro all'impazzata non esaminando punto se seconda errore.
All'appresentarsene poi altra molesta la comportano a malincorpo, rifiutansi di prestarle intera fede, ne voglion sentire di esame per conoscere se tenda effettivamente al verace lor bene.
<section end="s1" /><section begin="s2" />{{Centrato|}}CAPO XVII.</div>
{{Indentatura}}''Indiana semenza dei bachi da seta, ed ammaestramenti per averne bozzoli dati da monaci ai Romani. — Sottoscritta da Cosroe la tregua prosegue impertanto la guerra presso de' Lazj. — Stato delle affricane faccende.''</div>
T. Alcuni monaci in questa capitarono dalle Indie,
i quali udito che Giustiniano Augusto forte adoperavasi<section begin="s2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Casmiki
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<noinclude><pagequality level="2" user="Casmiki" />{{RigaIntestazione|502|GUERRE GOTTICHE|}}</noinclude>prole de' più illustri duci persiani. Che se rifiuti accogliere sì belle proposte vattene altrove con Dio, Acciocchè i Lazj da sciagure oppressi mercè la sconsigliatezza del capo loro, sottrattivisi una volta, nella quiete e pace s'abbiano il bramato riposo. Nè reggati l'animo di promoverne lo sterminio con sì lunghi e tormentosi patimenti, accecato da frivole speranze ne' tuoi confederati. Imperciocchè a Giustiniano
e mancarono sin qui mezzi per soccorrerti, e riuscirà mai sempre vano ogni futuro tentativo». Gubaze non di meno, ad onta della scrittagli da Mermeroe, fermo in suo proponimento continuava a dimorare sulle cime de' poggi tutto in aspettazione de’ romani aiuti, e l'odio portato a Cosroe vie più fomentavane le speranze riposte nell'impero. Gli uomini per vita nostra spesso
lasciansi governare da capriccio assoggettandovi la propria ragione; e se v'ha sentenza conforme ai loro desiderj corronvi dietro all'impazzata non esaminando punto se seconda errore.
All'appresentarsene poi altra molesta la comportano a malincorpo, rifiutansi di prestarle intera fede, ne voglion sentire di esame per conoscere se tenda effettivamente al verace lor bene.
<section end="s1" /><section begin="s2" />{{Centrato|}}CAPO XVII.</div>
{{Indentatura}}''Indiana semenza dei bachi da seta, ed ammaestramenti per averne bozzoli dati da monaci ai Romani. — Sottoscritta da Cosroe la tregua prosegue impertanto la guerra presso de' Lazj. — Stato delle affricane faccende.''</div>
I. Alcuni monaci in questa capitarono dalle Indie,
i quali udito che Giustiniano Augusto forte adoperavasi<section begin="s2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Teretru83
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<noinclude><pagequality level="3" user="Teretru83" />{{rigaIntestazione|52|CAPITOLO IV - § 15-16||}}
----</noinclude><section begin="1" />Ma, poichè <math>\alpha</math> e <math>\beta</math> sono primi tra loro, <math>\alpha^n</math> è primo con <math>\beta, \beta^n</math> con <math>\alpha</math>. Se ne deduce tosto che <math>a_0</math> è divisibile per <math>\beta, a_n</math> divisibile per <math>\alpha</math>. {{spazi|15}}c. d. d.
Ponendo <math>\beta=1</math> in questo teorema si ha:
{{Sc| Coroll}}. ''Le radici intere della nostra equazione a coefficienti interi sono tutte divisori del termine noto <math>a_0</math>.''
Se <math>a_0=1</math> dal precedente teorema si trae:
{{Sc|Coroll.}} ''Se <math>a_0=1</math>, la nostra equazione non può avere radici fratte, ma soltanto al più radici intere.''
Questi teoremi riducono a pochi tentativi la ricerca delle radici intere o fratte di una equazione algebrica. E si potrebbero aggiungere altri teoremi dello stesso tipo, che abbrevierebbero ancora la ricerca.<section end="1" />
<section begin="2" />{{centrato|§ 16. - '''Polinomii a coefficienti reali.'''}}
Supponiamo che i coefficienti <math>a_0, a_1, ....., a_n</math> del polinomio
{{centrato|<math>P(x) = a_o x^n + a_ + a x^{x-1} + ..... + a_{n - 1} + a_n</math>}}
sieno numeri reali. Ciononostante le radici <math>\alpha</math> possono essere numeri complessi (come è ben noto già dalla teoria delle equazioni di secondo grado). Sia <math>\beta + i \gamma</math> una tale radice. Sarà
<math>P(\beta + i \gamma) = a_0 (\beta + i \gamma)^n + a_1 (\beta + i \gamma)^{n - 1} + ... + a_n (\beta + i \gamma) + a_n = 0</math>.
Il numero complesso coniugato sarà pure nullo.
Tale numero si deduce dal precedente cambiando <math>i</math> in <math>-i</math>. Ma questo cambiamento non muta i coefficienti <math>a_0, a_1, ...</math>, che sono ''reali''. Dunque questo numero immaginario coniugato, che è ancora nullo, vale:
<math>P(\beta - i \gamma) = a_0 (\beta - i \gamma)^n + a_\ (\beta - i \gamma)^{n -1} + ... + a_n (\beta - i \gamma) + a_n = 0</math>.
E questa uguaglianza dimostra che anche <math>\beta - i \gamma</math> è radice dell'equazione <math>P(x)=0</math>.
Tra i fattori lineari <math>x - \alpha</math>, in cui è decomposto <math>P(x)</math> figurano perciò entrambi i fattori <math>[ x - (\beta + i \gamma)]</math> e <math>[x - (\beta - i \gamma)]</math>: il cui prodotto è il fattore ''reale di secondo grado'' <math>p_1(x)=(x-\beta)^2 + \gamma^2 = x^2 - 2 \beta x + (\beta^2 + 1gamma^2)</math>. E il polinomio <math>P(x)</math> è divisibile per questo fattore. Il quoziente <math>P_1(x)</math> sarà ancora polinomio a coefficienti reali. E, se la equazione <math>P_1(x) = 0</math> possiede qualche radice immaginaria (che sarò pure radice di <math>P(x) = 0</math>), allora <math>P_1(x)</math> sarà ancora divisibile per un polinomio <math>p_2(x)</math> di secondo grado a coefficienti reali. Sarà perciò <math>P_1(x) = p_2(x) P_2(x)</math>, e quindi <math>P(x) = p_1 (x) p_2 (x) P_2 (x)</math>, dove <math>P_2 (x)</math> è ancora un polinomio. E così via. Se ne deduce:
''Ogni polinomio <math>P(x)</math> a coefficienti reali si p uò scomporre nel prodotto di polinomii di primo o di secondo grado a {{pt|coeffi-}}''<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Teretru83
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<noinclude><pagequality level="3" user="Teretru83" />{{rigaIntestazione||POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE|53}}
----</noinclude><section begin="1" />''{{pt|cienti|coefficienti}} reali. I fattori di primo grado corrispondono alle radici reali della <math>P(x)=0</math>. I fattori di secondo grado corrispondono alle radici complesse.'' Anzi ognuno di questi fattori individua una coppua di radici immaginarie coniugate.
Se il polinomio è di grado ''dispari'', evidentemente esso non può essere prodotto di soli fattori di secondo grado. Quidni:
''Ogni equazione di grado dispari a coefficienti reali possiede almeno una radice reale.''
Sarà bene enunciare esplicitamente la osservazione iniziale:
''Se <math>P(x)=0</math> è un'equazione a coefficienti reali che possiede una radice complessa, essa possiede anche la radice immaginaria coniugta''. Essa si può, per quanto abbiamo qui dimostrato, generalizzare così: ''Se un'equazione <math>P(x)</math> a coefficienti reali possiede'' r ''radici complesse uguali a un numero <math>\alpha + i \beta</math>, essa possiede anche'' r ''radici uguali al numero complesso coniugato'' <math>\alpha - i \beta</math>.
In tal caso tra i precedenti fattori ve ne sono <math>r</math> uguali ad <math>(x - \alpha)^2 + \beta^2</math>.<section end="1" />
<section begin="2" />{{centrato| § 17. - '''Sistemi di equazioni algebriche.'''}}
<math>\alpha)</math> Se <math>f(x)=0, g(x)=0</math> sono due equazioni algebriche, che hanno comune la radice <math>\alpha</math>, allora <math>x - \alpha</math> è divisore sia di <math>f(x)</math> che di <math>g(x)</math> e quindi anche del loro massimo comun divisore; cioè <math>\alpha</math> è radice dell'equazione, ottenura uguagliando a zero tale M. C. D. E reciprocamente, una radice di questa ultima equazione è radice comune delle <math>f(x)=0, g(x)=0</math>. Se tale M. C. D. è una costante (differente da zero), se cioè <math>f(x), g(x)</math> sono primi tra di loro, le equazioni <math>f(x)=0, g(x)=0</math> non avranno radici comuni.
<math>\beta)</math> Si può scrivere in vari modi la condizione necessaria e sufficiente affinchè le equazioni <math>f(x)=0, g(x)=0</math> abbiano almeno una radice comune.
Se p. es. <math>\alpha_1, \alpha_2, ..., \alpha_m</math> sono le radici della <math>g(x)=0</math>, basta esprimere che è nulla almeno una delle <math>f(\alpha_1), f(\alpha_2), ..., f(\alpha_m)</math>, ossia che il loro prodotto
{{centrato|<math>f(\alpha_1) f(\alpha_2) ..... f(\alpha_m)=0</math>.}}
Il primo membro di questa equazione, essendo un polinomio ''simmetrico'' delle radici della <math>g(x)=0</math>, si può calcolare (§ 14, <math>\delta</math>) senza risolvere questa equazione. ''Tale polinomio'' (che si puù calcolare anche in altri modi, p. es., esprimendo che almeno una<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Teretru83
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<noinclude><pagequality level="3" user="Teretru83" />{{rigaIntestazione|54|CAPITOLO IV - § 17|}}
----</noinclude><section begin="1" />delle radici di <math>f(x)=0</math> soddisfa alla <math>g(x)=0</math>), ''il cui annullarsi è condizione necessaria e sufficiente affinché le due equazioni abbiano almeno una radice comune, si dice il risultante delle due equazioni:'' esso è un polinoio formato coi coefficienti <math>a_1, b_1</math> delle due equazioni.
<math>\gamma)</math> ''Sistemi di due equazioni algebriche intere a due incognite''.
Uguagliando a zero un polinomio in più variabili sia ha un'equazione algebrica a più incognite, ed i gruppi dei valori delle incognite, che soddisfano l'equazione, sono le soluzioni di essa. Date due equazioni algebriche in due incognite <math>x, y</math> consideriamo il loro sistema, e cerchiamo le loro soluzioni comuni.
Siano:
{{centrato|<math>f(x, y)=0</math>{{spazi|5}},{{spazi|5}}<math>g(x, t)=0</math>}}
le due equazioni; la prima di grado ''n'', la seconda di grado ''m'' nella <math>x</math>. Ordinate secondo le potenze decrescenti di <math>x</math>, esse prensonola forma
{{centrato|<math>f(x, y)= \varphi (y) x^n + \varphi_1(y) x^{n-1} + \varphi_2(y) x^{n-2} +...+ \varphi_n(y)=0</math>}}
{{centrato|<math>g(x, y)= \psi_0(y) x^m + \psi(y)x^{m-1} + \psi_2(y)x^{m-2} +...+ \psi_m(y)=0</math>}}
dove <math>\varphi</math> e <math>\psi</math> sono polinomii nella <math>y</math>
Se una coppia di valori <math>x</math> ed <math>y</math>, p. es., <math>x = \alpha, y = \beta</math>, soddisfa entrambe le equazioni, allora, immaginando in esse posto <math>y = \beta</math>, si hanno due equazioni nella sola <math>x</math>, che avranno per radice comune il valore <math>x = \alpha</math>; cosicchè per <math>y = \beta</math> sarà nullo il risultante in ''R'' di questa due equazioni in <math>x</math>. Si noti che, per calcolare <math>R</math>, nelle due date equazioni si considera come incognita la sola <math>x</math>; cosicchè questo loro risultante <math>R</math> sarà un polinomio <math>R(y)</math> nella sola <math>y</math>, perchè dipenderà solo dalle <math>\varphi_i(y), \psi_j(y)</math>, coefficienti delle due equazioni.
Se <math>x=\alpha, y=\beta</math> soddisfano le equazioni, la <math>R(y)=0</math> ammette <math>\beta</math> come radice. Viceversa ogni valore <math>\beta</math> di <math>y</math> che annulli <math>R(y)</math>, sostituito nelle due equazioni date, le riduce a due equazioni in <math>x</math> aventi almeno una radice a comune, che si calcola servendosi dell'algoritmo del M. C. D. Si trovano così tutte le coppie di valori di <math>y</math> ed <math>x</math> soddisfacendi alle due date equazioni.
L'equazioni <math>R(y)=0</math> dicesi l'equazione risultante dalla eliminazione di <math>x</math> dalle due date equazioni. In generale, però, per calcolare <math>R(y)</math>, o per risolvere il dato sistema di equazioni, è opportuno ricorrere ad artifici che variano da caso a caso, e che solo la pratica può suggerire.<section end="1" /><noinclude><references/></noinclude>
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Teretru83
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<noinclude><pagequality level="3" user="Teretru83" />{{rigaIntestazione||POLINOMII ED EQUAZIONI ALGEBRICHE|55}}
----</noinclude><section begin="1" /><math>\delta)</math> Vediamo come il problema di trovare le radici <math>z=z+iy</math> reali o complesse dell'equazione
{{centrato|<math>f(x) = a_0 z^n + a_1 z^{n-1} +...+ a_{n-1} z + a_n =0</math>}}
a coefficienti <math>a_j = b_j + ic_j</math> reali o complessi (<math>x, y, c_j, b_j</math> numeri reali) si riduca al problema di trovare le radici reali di un'equazione a coefficienti reali. La nostra equazione diventa nelle attuali ipotesi:
{{centrato|<matH>(b_0 + ic_0)(x + iy)^n + (b_1 + ic_1)(x + iy)^{n-1} +... +</math>}}
{{centrato|<math>+ (b_{n-1} + ic_{n-1})(x + iy) + (b_n + ic_n)=0</math>.}}
Sviluppando ed eseguendo tutte le operazioni, il primo membro si ridurrà in fine al tipo
{{centrato|<math>P(x, y) + iQ(x, y),</math>}}
ove <math>P</math> e <math>Q</math> saranno polinomii nelle <math>x, y</math> a coefficienti reali, onde l'equazione precedente diventerà:
{{centrato|<math>P(x, y) + iQ (x, y) = 0</math>}}
e si scinderà nelle due:+
{{centrato|<math>P(x, y) = 0</math> {{spazi|5}};{{spazi|5}}<math>Q(x, y) = 0</math>.}}
Siamo così ridotti alla risoluzione di un sistema di due equazioni in due incognite, che si potrà fare col metodo dato in <math>\gamma)</math>. Ogni soluzione reale <math>x=x_0, y=y_0</math> d questo sistema dà una radice <math>x_0 + iy_0</math> dell'equazione proposta, e viceversa.<section end="1" />
<section begin="2" />{{centrato|'''Esercizi.'''}}
1° Dati <math>n</math> punti, tra qualunque dei qual non sono mai in linea retta, quante sono le rette che contengono due di tali punti?
{{sc|Ris}}. <math>n \choose 2</math>.
2° Quante sono le estrazioni possibili distinte al gioco del lotto?
{{sc|Ris.}} <math>30 \choose 5</math>.
3° Quante sono le estrazioni possibili al gioco del lotto, in cui <math>k (k < 5)</math> dei numeri estratti sono prefissati a priori?
{{sc|Ris.}} Dei 5 numeri estratti, <math>k</math> sono prefissati; i restanti <math>5 - k</math> devonsi scegliere tra i residui <math>90 - k</math> numeri. Il numero cercato è perciò <math> {90 - k} \choose {5 - k}</math>. Per <math>k = 2, 3, 4</math> si ottiene il<section end="2" /><noinclude><references/></noinclude>
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Categoria:Libri curati da Agenore Gelli
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|371}}</noinclude>{{Pt|''petuo''|''perpetuo''}} ''e ai lievissimi e ai gravissimi.''), e gli uni si tengono lontano separati fra loro, gli altri la stessa vibrazione hanno in sè, quando sono inclinati ad unirsi, oppure vengono coperti da que’ che sono portati ad avvilupparsi. Poichè la natura del vuoto, che ognuno di essi separa, ciò effettua, non essendo abile a dare alcuna stabilità; e la solidità che in essi esiste, col loro urtarsi insieme la vibrazione produce, sino a tanto che il ravviluppamento li ristabilisca dall’urtarsi insieme. Principio di essi non v’è, essendo cagioni e gli atomi ed il vuoto. (''Dice più sotto che negli atomi altre qualità neppure vi sono, eccetto la figura e la grandezza e il peso dice poi, nel dodicesimo'' Degli elementi, ''che il colore si muta per la posizione degli atomi; e che ogni maniera di grandezza non è in essi; quindi non mai atomo fu veduto dal senso. E la voce stessa, in tutte queste cose ricordate, dà una sufficiente idea della cognizione degli enti della natura''). — Anche i mondi sono infiniti, sia che a questo assomiglino, o no; poichè gli atomi essendo infiniti, come poco fa si è dimostrato, sono trasportati anche lontanissimo. E siccome questi atomi, dai quali o possa farsi un mondo o siasi fatto per essi, non sono consumati nè in un mondo, nè in finiti, nè in quanti sono simili, nè in quanti sono differenti da questo, così non avvi ostacolo contro l’infinità dei mondi. Anche le forine sono di figura simili ai solidi, per tenuità assai lontane dalle cose apparenti, non potendo sì fatte separazioni non nascere nell’ambiente, nè le attitudini dei concavi e dei tenui per oprarle, nè gli effluvj che couservano la {{Pt|sus-|}}<noinclude></noinclude>
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Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/399
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|372|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>{{Pt|seguente|susseguente}} posizione e andamento, quella stessa cioè che avevano ne’ solidi. Queste forme noi chiamiamo immagini ({{Greco da controllare}}). In oltre il moto che, senza ostacoli, si fa pel vuoto, ogni concepibile lunghezza compie in un tempo incomprensibile: poichè dalla lentezza o celerità dell’urto o del non urlo trae somiglianza. Nondimeno il corpo portato al basso non perviene insieme in più luoghi in tempi comprensibili pel discorso: non potendosi pensare che anche questo venga insieme, in tempo sensibile, da qual siasi luogo dell’infinito; poichè da qualunque luogo avremo concepito il moto, e’ sarà sempre lontano; e sarà eguale all’urto, quand’anche si lasci non impedita la celerità del moto. Utile è poi di ritenere quest’elemento, sia perchè le immagini usano della più grande tenuità, cui nessuna delle cose apparenti smentisce, o perchè hanno anche una velocità insuperabile, avendo tutte un andamento proporzionato, così che la loro infinitezza nessuna cosa impedisca o poche, ma molte e infinite impediscano tosto alcun po’. In oltre teniamo che la formazione delle immagini venga in un col pensiero, poichè viene dalla superficie dei cprpi un continuo flusso, non manifesto a’ sensi pel reciproco riempimento che per molto tempo conserva nel solido la posizione e l’ordine degli atomi, sebbene talvolta confusi, e preste unioni si fanno nell’ambiente, perchè non è mestieri che avvenga in profondità il riempimento. Ma v’ha ancora altri modi generativi di così fatte nature; nulla ad essi testimoniando i sensi in contrario, s’uom consideri in qualche modo gli atti onde si portano a<noinclude></noinclude>
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L'uomo è nel mondo un corridore umano
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OrbiliusMagister
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| prec = Voi del nome crudel ben degna siete
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Oh quanto a te degg'io
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OrbiliusMagister
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Qualor da bel desio
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OrbiliusMagister
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OrbiliusMagister
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O rauca sì, ma rara
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OrbiliusMagister
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>45
DELLA SIFILIDE
OSSIA
DEL MORBO GALLICO
POEMA
DI GI&OLAIO PRAGASTORO
& rotautyiD aas&KD
LIBRO I.
<poem>
Quai varii casi, e germi, un morbo strano,
E non pria visto unquanco, abbian recato;
Morbo, che a’ nostri dì per tutta Europa,
E le città d’Asia, e di Libia in parte,
{{R|5}}Incrudelì; nel Lazio poi, dei Galli
Per l’empie guerre, irruppe, ond’ebbe il nome;
E qual cura, e d’aita uso comporti,
La grande arte dell’uom negli aspri eventi,
E dai Celesti i doni conceduti,
{{R|10}}Quinci a cantar, e le cagioni ascose
Per i campi a cercar del vasto Olimpo,
Comincerò: come gentile amore
Di novità m’invita, e i placidi orti
Di Natura, e i portenti aman le Muse.
{{R|15}}{{Ac|Pietro Bembo|B<small>EMBO</small>}}, d’Ausonia chiaro onor, se mai
L<small>EON</small> t’allenti dei consigli magni
L’alta mole, ond’El regge il mondo tutto,
E darti alquanto ami a le dolci Muse:
Quest’opra non spregiar, nè la fatica
{{R|20}}Medica, qual che sia. Di tale Apollo
</poem><noinclude></noinclude>
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3019055
2022-08-09T22:55:28Z
Alex brollo
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{{Ct|f=130%|v=1|L=0px|'''DELLA SIFILIDE'''}}
{{Ct|f=90%|v=1|L=0px|OSSIA}}
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{{Ct|f=100%|v=1|L=0px|POEMA}}
{{Ct|f=130%|v=1|L=0px|DI GIROLAIO FRACASTORO}}
{{Ct|f=120%|v=1|L=0px|A PIETRO BEMBO}}
{{Ct|f=100%|v=1|L=0px|LIBRO I.}}
<poem>
:{{x-larger|Q}}uai varii casi, e germi, un morbo strano,
E non pria visto unquanco, abbian recato;
Morbo, che a’ nostri dì per tutta Europa,
E le città d’Asia, e di Libia in parte,
{{R|5}}Incrudelì; nel Lazio poi, dei Galli
Per l’empie guerre, irruppe, ond’ebbe il nome;
E qual cura, e d’aita uso comporti,
La grande arte dell’uom negli aspri eventi,
E dai Celesti i doni conceduti,
{{R|10}}Quinci a cantar, e le cagioni ascose
Per i campi a cercar del vasto Olimpo,
Comincerò: come gentile amore
Di novità m’invita, e i placidi orti
Di Natura, e i portenti aman le Muse.
:{{R|15}}{{Ac|Pietro Bembo|{{Sc|Bembo}}}}, d’Ausonia chiaro onor, se mai
{{Sc|Leon}} t’allenti dei consigli magni
L’alta mole, ond’El regge il mondo tutto,
E darti alquanto ami a le dolci Muse:
Quest’opra non spregiar, nè la fatica
{{R|20}}Medica, qual che sia. Di tale Apollo
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Degnossi; ed anco lievi cose àn pregio,
Che in ver sott’esto tenue vel s’asconde
Grande origin di fati, e di Natura.
Urania tu che astri e cagion conosci,
{{R|25}}E le plaghe, e del ciel gli effetti varii,
(Così mentre che scorri il puro Olimpo,
E ne misuri le lucenti stelle,
Tutte t’applaudan con divin concento)
Dea, vien meco a scherzar fra l’ombre chete,
{{R|30}}Ve’ dolci spiran l’aure, e i mirti spessi,
E risponde dai cavi antri il Benaco.
Narra quai cause, o Dea, da tanta etade
Diero sì strana lue? Forse condotta
Dal mar occiduo a noi sen venne, quando
{{R|35}}Eletta gioventù dal lido Ibero
Sciolse, l’ignoto mar tentando ardita,
A cercar terre in altro mondo poste?
Poi ch’è fama che eterno il morbo infetti
Ognor quei siti per maligno influsso
{{R|40}}Di ciel, vagando, e la perdoni a pochi.
Or crederem, che del commercio a colpa
Tal ne venisse lue, che, lieve in prima,
A poco a poco indi acquistando forze,
E pasco, s’espandesse in ogni terra?
{{R|45}}Spesso così, se a caso una favilla
Cade da lume in su le stoppie, e in campo
Riman negletta dal pastor, serpeggia
Piccola e tarda sul principio, e poi
Cresciuta s’erge, e vincitrice invade
{{R|50}}Le messi, i solchi, il vicin bosco, e al cielo
Vibra le fiamme: crepitando stride
Di Giove la foresta, e l’aria e i campi
Splendono intorno. — Ma così non déssi
Creder, se merta fè quanto vedemmo.
{{R|55}}Venuta d’oltremar certo non lice
</poem><noinclude></noinclude>
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3019121
3019056
2022-08-09T22:56:23Z
Alex brollo
1615
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Degnossi; ed anco lievi cose àn pregio,
Che in ver sott’esto tenue vel s’asconde
Grande origin di fati, e di Natura.
:Urania tu che astri e cagion conosci,
{{R|25}}E le plaghe, e del ciel gli effetti varii,
(Così mentre che scorri il puro Olimpo,
E ne misuri le lucenti stelle,
Tutte t’applaudan con divin concento)
Dea, vien meco a scherzar fra l’ombre chete,
{{R|30}}Ve’ dolci spiran l’aure, e i mirti spessi,
E risponde dai cavi antri il Benaco.
Narra quai cause, o Dea, da tanta etade
Diero sì strana lue? Forse condotta
Dal mar occiduo a noi sen venne, quando
{{R|35}}Eletta gioventù dal lido Ibero
Sciolse, l’ignoto mar tentando ardita,
A cercar terre in altro mondo poste?
Poi ch’è fama che eterno il morbo infetti
Ognor quei siti per maligno influsso
{{R|40}}Di ciel, vagando, e la perdoni a pochi.
Or crederem, che del commercio a colpa
Tal ne venisse lue, che, lieve in prima,
A poco a poco indi acquistando forze,
E pasco, s’espandesse in ogni terra?
{{R|45}}Spesso così, se a caso una favilla
Cade da lume in su le stoppie, e in campo
Riman negletta dal pastor, serpeggia
Piccola e tarda sul principio, e poi
Cresciuta s’erge, e vincitrice invade
{{R|50}}Le messi, i solchi, il vicin bosco, e al cielo
Vibra le fiamme: crepitando stride
Di Giove la foresta, e l’aria e i campi
Splendono intorno. — Ma così non déssi
Creder, se merta fè quanto vedemmo.
{{R|55}}Venuta d’oltremar certo non lice
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Stimar tal peste, e noi sappiam che molti
Fuor di contatto alcun questa medesma
Lue spontanea a patir furono i primi.
Ma più correr tant’orbe una sol peste
{{R|60}}E in breve, e a un tempo, non avria potuto.
Ve’ i popoli del Lazio, e quei che i paschi
Del Sagra erbosi, e i boschi Ausonii, e cole
Di Puglia il suol: guarda ove corre il Tebro,
E ve’ il Po corre al mar con fiumi cento,
{{R|65}}E d’onde cento città chete irriga.
Non vedi come a un tempo sol la peste
Fiera tutti ne trasse a sorte pari?
Ch’anzi è fama, non pria d’allor gli esterni
Esserne stati infetti, e non gli Iberi,
{{R|70}}Osi solcar per mar ignoto, averla
Contratta pria di lor cui parte il mare,
L’alta Pirene, il Ren bicorne, e l’Alpe;
O pria di lor cui la fredd’Orsa agghiada.
Voi pur, Cartaginesi, al tempo istesso
{{R|75}}E la sentiste voi che il lieto Egitto,
E mietete pel Nilo i campi opimi,
E le palme Idumee. Ciò vero essendo,
Alta più dunque e più riposta causa
(S’i’ non erro) qui v’ha d’origin grave.
{{R|80}}E pria, nell’alto ciel quanto ed in terra,
E nel mar vasto la natura edúca,
Non tutto con egual modo procede.
Spesso e frequente appar quanto da tenui
Sorge primordii, e per contrario rade
{{R|85}}E a certi luoghi circoscritte, e tempi
Si manifestan cose, che principio
Àn più forte e riposto, ed altre in luce
Non escon fuor da fitta notte, pria
Che scorrano mill’anni e larghe etadi.
{{R|90}}Tanto stan giunti i genitali semi!
</poem><noinclude></noinclude>
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2022-08-09T22:57:14Z
Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||47}}</noinclude><poem>
Stimar tal peste, e noi sappiam che molti
Fuor di contatto alcun questa medesma
Lue spontanea a patir furono i primi.
Ma più correr tant’orbe una sol peste
{{R|60}}E in breve, e a un tempo, non avria potuto.
Ve’ i popoli del Lazio, e quei che i paschi
Del Sagra erbosi, e i boschi Ausonii, e cole
Di Puglia il suol: guarda ove corre il Tebro,
E ve’ il Po corre al mar con fiumi cento,
{{R|65}}E d’onde cento città chete irriga.
Non vedi come a un tempo sol la peste
Fiera tutti ne trasse a sorte pari?
Ch’anzi è fama, non pria d’allor gli esterni
Esserne stati infetti, e non gli Iberi,
{{R|70}}Osi solcar per mar ignoto, averla
Contratta pria di lor cui parte il mare,
L’alta Pirene, il Ren bicorne, e l’Alpe;
O pria di lor cui la fredd’Orsa agghiada.
Voi pur, Cartaginesi, al tempo istesso
{{R|75}}E la sentiste voi che il lieto Egitto,
E mietete pel Nilo i campi opimi,
E le palme Idumee. Ciò vero essendo,
Alta più dunque e più riposta causa
(S’i’ non erro) qui v’ha d’origin grave.
:{{R|80}}E pria, nell’alto ciel quanto ed in terra,
E nel mar vasto la natura edúca,
Non tutto con egual modo procede.
Spesso e frequente appar quanto da tenui
Sorge primordii, e per contrario rade
{{R|85}}E a certi luoghi circoscritte, e tempi
Si manifestan cose, che principio
Àn più forte e riposto, ed altre in luce
Non escon fuor da fitta notte, pria
Che scorrano mill’anni e larghe etadi.
{{R|90}}Tanto stan giunti i genitali semi!
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2022-08-09T21:32:15Z
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Dunque poichè non una i morbi tutti
Àn dal nascer cagion, la maggior parte
Facil mostra principio e nascimento;
Altri emergon più radi, e lungamente
{{R|95}}L’ardue a vincer cagioni, e il fatto arcano
Durano, e l’alte a superar tenèbre.
Così l’elefantiasi al cielo ausonio
Lungamente fu ignota, ed il lichene
Che quei del Nilo, e i lor vicini, opprime.
{{R|100}}Di spezie è tal la dira lue, che or ora
Uscita alfin dalla caligin atra
Si trasse, e a’ suoi natali infranse i ceppi.
La qual però (scorrendo eterno il tempo)
È da stimar sovente in terra vista,
{{R|105}}Benchè sin ora, nè di nome, nota
Fosse tra noi, da quando tutte cose
L’età remota involve, e i nomi strugge,
Nè viddero degli avi le memorie
Tardi i nepoti. Pur nasce, ed è nota,
{{R|110}}Nell’ampio oceano occidental fra quella
Gente ch’abita l’orbe or or scoperto:
Tanto per varïar d’anni e di cielo
E principii e ragion mutan di cose;
E il mal, che l’aer ivi, e la terra acconcia,
{{R|115}}Da sè genera, a noi qui tardo addusse
Corso d’età. Di che se brami tutte
Saper mai le cagion, pria guarda intorno
Quante infettò città, quanto di mondo.
Veggendo allor di tanta tabe i germi
{{R|120}}Non poter della terra, e non del mare
Capire in sen, forza ti fia per certo
Stimar posta del mal la sede prima
Nello stesso aër, che sparso ovunque intorno
Penetra i corpi tutti in ogni parte,
{{R|125}}Di tai pesti a infettar uso i viventi.
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Dunque poichè non una i morbi tutti
Àn dal nascer cagion, la maggior parte
Facil mostra principio e nascimento;
Altri emergon più radi, e lungamente
{{R|95}}L’ardue a vincer cagioni, e il fatto arcano
Durano, e l’alte a superar tenèbre.
Così l’elefantiasi al cielo ausonio
Lungamente fu ignota, ed il lichene
Che quei del Nilo, e i lor vicini, opprime.
:{{R|100}}Di spezie è tal la dira lue, che or ora
Uscita alfin dalla caligin atra
Si trasse, e a’ suoi natali infranse i ceppi.
La qual però (scorrendo eterno il tempo)
È da stimar sovente in terra vista,
{{R|105}}Benchè sin ora, nè di nome, nota
Fosse tra noi, da quando tutte cose
L’età remota involve, e i nomi strugge,
Nè viddero degli avi le memorie
Tardi i nepoti. Pur nasce, ed è nota,
{{R|110}}Nell’ampio oceano occidental fra quella
Gente ch’abita l’orbe or or scoperto:
Tanto per varïar d’anni e di cielo
E principii e ragion mutan di cose;
E il mal, che l’aer ivi, e la terra acconcia,
{{R|115}}Da sè genera, a noi qui tardo addusse
Corso d’età. Di che se brami tutte
Saper mai le cagion, pria guarda intorno
Quante infettò città, quanto di mondo.
Veggendo allor di tanta tabe i germi
{{R|120}}Non poter della terra, e non del mare
Capire in sen, forza ti fia per certo
Stimar posta del mal la sede prima
Nello stesso aër, che sparso ovunque intorno
Penetra i corpi tutti in ogni parte,
{{R|125}}Di tai pesti a infettar uso i viventi.
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E a tutte cose in ver principio è l’aere:
Ei gravi spesso all’uomo i morbi apporta,
Nato nei molli corpi in mille modi
A infracidire, e a pigliar presto, e i presi
{{R|130}}Mali a recare. — Or come abbia il contagio
Preso, e il tempo mutar chè vaglia, apprendi.
Prima il nitido Sole e gli astri tutti
Scuotono, e a mutar dansi e cielo e terra,
E il liquid’aere, e come anche su in cielo
{{R|135}}Cangiar le stelle e corso e sedi, al pari
Gli elementi quaggiù piglian pur essi
Aspetti varii. Or vedi allor che all’Ostro
Piegò i presti destrieri il sol d’inverno,
E basso più vede il nostr’orbe, dura
{{R|140}}Per gel farsi la bruma, il suol cosparso
Di pruina, ed in ghiaccio i fiumi stretti.
Se poi vicino al Cancro alto ci guarda,
Boschi arde, asseta prati, e in polverosi
Campi squallor piglia l’estate; e certo
{{R|145}}Lo splendor della notte, l’aurea Luna,
Cui serve il mare ed ogni umor, e il grave
Astro Saturnio, e quel di Giove all’orbe
Più mite, e Cipria bella, e l’igneo Marte,
E l’altre stelle mutano pur esse
{{R|150}}Con moti strani gli elementi ognora:
E più se molte insiem congiunte sieno,
O segnino altre vie con vario corso.
E ciò dopo molt’anni, e molti giri
Del ciel rapido avvien, volgendo i fati
{{R|155}}Al cenno degli Dei: ma quando accada,
E maturinsi i tempi e i dì prefissi,
Quai casi ai salsi mari, e ai campi eterei,
Quai sovrastano al suol! Qui tutto è nube
Che in ciel s’addensa, e lo distempra in pioggia,
{{R|160}}Onde travolti a precipizio i fiumi
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E a tutte cose in ver principio è l’aere:
Ei gravi spesso all’uomo i morbi apporta,
Nato nei molli corpi in mille modi
A infracidire, e a pigliar presto, e i presi
{{R|130}}Mali a recare. — Or come abbia il contagio
Preso, e il tempo mutar chè vaglia, apprendi.
:Prima il nitido Sole e gli astri tutti
Scuotono, e a mutar dansi e cielo e terra,
E il liquid’aere, e come anche su in cielo
{{R|135}}Cangiar le stelle e corso e sedi, al pari
Gli elementi quaggiù piglian pur essi
Aspetti varii. Or vedi allor che all’Ostro
Piegò i presti destrieri il sol d’inverno,
E basso più vede il nostr’orbe, dura
{{R|140}}Per gel farsi la bruma, il suol cosparso
Di pruina, ed in ghiaccio i fiumi stretti.
Se poi vicino al Cancro alto ci guarda,
Boschi arde, asseta prati, e in polverosi
Campi squallor piglia l’estate; e certo
{{R|145}}Lo splendor della notte, l’aurea Luna,
Cui serve il mare ed ogni umor, e il grave
Astro Saturnio, e quel di Giove all’orbe
Più mite, e Cipria bella, e l’igneo Marte,
E l’altre stelle mutano pur esse
{{R|150}}Con moti strani gli elementi ognora:
E più se molte insiem congiunte sieno,
O segnino altre vie con vario corso.
E ciò dopo molt’anni, e molti giri
Del ciel rapido avvien, volgendo i fati
{{R|155}}Al cenno degli Dei: ma quando accada,
E maturinsi i tempi e i dì prefissi,
Quai casi ai salsi mari, e ai campi eterei,
Quai sovrastano al suol! Qui tutto è nube
Che in ciel s’addensa, e lo distempra in pioggia,
{{R|160}}Onde travolti a precipizio i fiumi
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Dagli alti monti, i boschi seco, i sassi
Seco trarran gli armenti: urtando forte
O il padre Gange, o il Po torbido, sopra
Tetti e boschi, fia pari al mar sonante.
{{R|165}}L’estati altrove fien cocenti, e anch’esse
Sugli arsi fonti gemeran le Ninfe,
O i venti tutto inverdiranno, o chiusi
Scuoteran l’orbe, e le città turrite.
E dì forse v?rrà, dei fati al cenno
{{R|170}}E di Natura, in cui non sol la terra
Or colta andrà dal mar coperta, o nuda;
Ma il Sol medesmo — (e fia chi ’l creda?) — nuovo
Prenderà corso, e il muterà pur l’anno
Inusato calor, freddi inusati
{{R|175}}Verranno, e un cotal dì nuovi animali
Darà al mondo, e da sè fere ed armenti
Spirto trarranno dall’origin prima.
Forse e maggiori osa produr la terra
Darà Enceladi e Cei, col gran Tifeo,
{{R|180}}Presti i Numi a cacciar dal patrio cielo,
E svelto impor l’Ossa al nevoso Olimpo.
Locchè veggendo, è nulla a tempo certo
Guasto l’etra veder per morbi nuovi,
E nuove pesti da stelle prefisse,
{{R|185}}Egro l’uomo patir per lunghe etadi.
Due secoli passar da poi che Marte
Coll’infausto Saturno i rai cocenti
Commisti in orïente ed in ira i campi
Inaffiati dal Gange, arse una febbre,
{{R|190}}Che (o Dio!) sputo di sangue, ansando il petto,
Dèsto, morte affrettava al quarto giorno.
Cotal morbo agli Assirii e i Persi, e quelli
Che beon Tigri ed Eufrate, a tempo breve,
Colse, e l’Arabo ricco, e il molle Egizio;
{{R|195}}Indi i Frigi, e oltremar miseramente
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Dagli alti monti, i boschi seco, i sassi
Seco trarran gli armenti: urtando forte
O il padre Gange, o il Po torbido, sopra
Tetti e boschi, fia pari al mar sonante.
{{R|165}}L’estati altrove fien cocenti, e anch’esse
Sugli arsi fonti gemeran le Ninfe,
O i venti tutto inverdiranno, o chiusi
Scuoteran l’orbe, e le città turrite.
E dì forse v?rrà, dei fati al cenno
{{R|170}}E di Natura, in cui non sol la terra
Or colta andrà dal mar coperta, o nuda;
Ma il Sol medesmo — (e fia chi ’l creda?) — nuovo
Prenderà corso, e il muterà pur l’anno
Inusato calor, freddi inusati
{{R|175}}Verranno, e un cotal dì nuovi animali
Darà al mondo, e da sè fere ed armenti
Spirto trarranno dall’origin prima.
Forse e maggiori osa produr la terra
Darà Enceladi e Cei, col gran Tifeo,
{{R|180}}Presti i Numi a cacciar dal patrio cielo,
E svelto impor l’Ossa al nevoso Olimpo.
Locchè veggendo, è nulla a tempo certo
Guasto l’etra veder per morbi nuovi,
E nuove pesti da stelle prefisse,
{{R|185}}Egro l’uomo patir per lunghe etadi.
:Due secoli passar da poi che Marte
Coll’infausto Saturno i rai cocenti
Commisti in orïente ed in ira i campi
Inaffiati dal Gange, arse una febbre,
{{R|190}}Che (o Dio!) sputo di sangue, ansando il petto,
Dèsto, morte affrettava al quarto giorno.
Cotal morbo agli Assirii e i Persi, e quelli
Che beon Tigri ed Eufrate, a tempo breve,
Colse, e l’Arabo ricco, e il molle Egizio;
{{R|195}}Indi i Frigi, e oltremar miseramente
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Il Lazio, e crudo Europa tutta invase.
Tu dunque meco a veder vien girarsi
In sé l’etra costante, e le superne
Sedi, e le stelle ardenti, e nota quale
{{R|200}}Fosse lo stato lor, quai segni desse,
Che cosa abbia predetto il Cielo a noi.
Forse che in ciò tutta vedrai del nuovo
Morbo la causa, e di cotanto evento.
Guarda dal vasto Olimpo ov’egli il Cancro
{{R|205}}Veglia all’ardenti porte, a branche aperte.
Quindi gli orridi aspetti, e quindi i varii
Mostri vedrai dei morbi, e quivi solo
Tutti gli ardenti rai degli astri uniti
Congiurate vibrar fiamme per l’etra.
{{R|210}}Fiamme cui da lontan, della Sirena
Dall’alto avel, vide l’antiquo Vate,
Cui la divina Urania apprese tutte
Le sedi eteree, ed il futuro, e disse:
Salvate, o Numi, le infelici terre;
{{R|215}}Veggo inusata errar tabe che il cielo
Infetta; a guerre inique Europa in preda,
E correr sangue i campi ausonii. — Ei disse,
E i suoi presagi consegnò allo scritto.
Usan gli Dei, come percorso à il Sole
{{R|220}}Certo giro d’età, che Giove assegni
I fati, apra il futuro, e quanto deggia
Terra e cielo aspettar. Tal tempo urgendo
A’ nostri dì, Giove, de’ Numi il padre
E delle cose, a sè chiamò compagni
{{R|225}}Saturno e Marte nell’oprar. — Dischiude
Delle porte le soglie bipatenti
Il Cancro ai Numi, che dei fati àn cura.
Presto Marte guerrier fra tutti in armi
E per foco lucente, il petto colmo
{{R|230}}Di vendette e di guerra, al sangue anela.
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Il Lazio, e crudo Europa tutta invase.
:Tu dunque meco a veder vien girarsi
In sé l’etra costante, e le superne
Sedi, e le stelle ardenti, e nota quale
{{R|200}}Fosse lo stato lor, quai segni desse,
Che cosa abbia predetto il Cielo a noi.
Forse che in ciò tutta vedrai del nuovo
Morbo la causa, e di cotanto evento.
:Guarda dal vasto Olimpo ov’egli il Cancro
{{R|205}}Veglia all’ardenti porte, a branche aperte.
Quindi gli orridi aspetti, e quindi i varii
Mostri vedrai dei morbi, e quivi solo
Tutti gli ardenti rai degli astri uniti
Congiurate vibrar fiamme per l’etra.
{{R|210}}Fiamme cui da lontan, della Sirena
Dall’alto avel, vide l’antiquo Vate,
Cui la divina Urania apprese tutte
Le sedi eteree, ed il futuro, e disse:
Salvate, o Numi, le infelici terre;
{{R|215}}Veggo inusata errar tabe che il cielo
Infetta; a guerre inique Europa in preda,
E correr sangue i campi ausonii. — Ei disse,
E i suoi presagi consegnò allo scritto.
:Usan gli Dei, come percorso à il Sole
{{R|220}}Certo giro d’età, che Giove assegni
I fati, apra il futuro, e quanto deggia
Terra e cielo aspettar. Tal tempo urgendo
A’ nostri dì, Giove, de’ Numi il padre
E delle cose, a sè chiamò compagni
{{R|225}}Saturno e Marte nell’oprar. — Dischiude
Delle porte le soglie bipatenti
Il Cancro ai Numi, che dei fati àn cura.
Presto Marte guerrier fra tutti in armi
E per foco lucente, il petto colmo
{{R|230}}Di vendette e di guerra, al sangue anela.
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Giove, placido Re, su d’aureo cocchio
Vien dopo, equo ad ognun, se assenta il fato.
Ultimo, e tardo per etade e lunga
Via, giunge il Veglio, che à la falce, e sente
{{R|235}}Antico incontro al figlio, cui ricusa
Egli obbedir, l’odio, onde spesso addietro
L’orme volge, e minaccia indispettito.
Ma Giove, da quel trono u’ s’erge ei solo,
Apre i fati e il futuro, e molto i mali
{{R|240}}Della terra infelice egli compiagne,
Le guerre, i casi umani, le rovine
Degli imperi e le prede, e a morte schiuse
Le vie; ma più l’incognito contagio
Di mal nuovo, cui l’uom domar non puote.
{{R|245}}Assentir gli altri Dei; tremò l’Olimpo,
E l’aer tocco da novelli influssi
L’aeree piagge a poco a poco, e il vano
Infettarsi del ciel, donde inusata
Tabe pel cielo si disperse ovunque.
{{R|250}}Sia che, molli astri coll’ardente sole
Congiurando, traesse ignea una forza
Da terra e mar vapori, che, commisti
Ai venti lievi, esto novel contagio
Raro a veder recassero; ossia ch’altro
{{R|255}}Sceso dall’etra corrompesse ogni aura:
Sebben; ned erro, arduo egli è dir quel ch’opri,
E con qual norma, il ciel, certe di tutto
Cause cercando; che talor lunghi anni
Differisce gli effetti, e meschia in tutto
{{R|260}}(Donde l’error) le sorti ai casi varii.
Or via; ciò soprattutto apprendi: strana
Dei contagi e sì varia esser natura,
Che l’aer talvolta i soli alberi offese
E i molli germi e i fior: talora tolse,
{{R|265}}Stento d’un anno, seminati e liete
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Giove, placido Re, su d’aureo cocchio
Vien dopo, equo ad ognun, se assenta il fato.
Ultimo, e tardo per etade e lunga
Via, giunge il Veglio, che à la falce, e sente
{{R|235}}Antico incontro al figlio, cui ricusa
Egli obbedir, l’odio, onde spesso addietro
L’orme volge, e minaccia indispettito.
Ma Giove, da quel trono u’ s’erge ei solo,
Apre i fati e il futuro, e molto i mali
{{R|240}}Della terra infelice egli compiagne,
Le guerre, i casi umani, le rovine
Degli imperi e le prede, e a morte schiuse
Le vie; ma più l’incognito contagio
Di mal nuovo, cui l’uom domar non puote.
{{R|245}}Assentir gli altri Dei; tremò l’Olimpo,
E l’aer tocco da novelli influssi
L’aeree piagge a poco a poco, e il vano
Infettarsi del ciel, donde inusata
Tabe pel cielo si disperse ovunque.
{{R|250}}Sia che, molli astri coll’ardente sole
Congiurando, traesse ignea una forza
Da terra e mar vapori, che, commisti
Ai venti lievi, esto novel contagio
Raro a veder recassero; ossia ch’altro
{{R|255}}Sceso dall’etra corrompesse ogni aura:
:Sebben; ned erro, arduo egli è dir quel ch’opri,
E con qual norma, il ciel, certe di tutto
Cause cercando; che talor lunghi anni
Differisce gli effetti, e meschia in tutto
{{R|260}}(Donde l’error) le sorti ai casi varii.
:Or via; ciò soprattutto apprendi: strana
Dei contagi e sì varia esser natura,
Che l’aer talvolta i soli alberi offese
E i molli germi e i fior: talora tolse,
{{R|265}}Stento d’un anno, seminati e liete
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Messi; ruggine scabra i gambi invase,
E diè la madre terra infetti i semi.
Soli talora gli animali, e d’essi
O molte, o qualche spezie, ebberne pena.
{{R|270}}Tal maligna stagione io pur ricordo,
E tal per Austro umido Autunno, in cui
Sol le capre perian: lieto il pastore
Le traea dalle stalle ai paschi, e mentre
Ei cantava securo all’ombra densa,
{{R|275}}Molcendo il gregge coll’umil zampogna,
Irrequïeta ecco una tosse alcuna
Prenderne, e morir tosto: a salto spinta
Ruinoso, versando il fiato estremo,
Moribonda cadea fra le compagne.
{{R|280}}A primavera quindi, e alla seguente
State ria febbre la belante greggia
(O stupor!) tutta quasi a rapir venne.
Son dell’infetto ciel varii cotanto
E germi, e spezie, e il numero a vicenda
{{R|285}}Tra cose mosse, e tra moventi, è fisso.
E non vedi la lue, benchè sien gli occhi
Molli, ed esposti più che il petto anelo,
Ficcarsi in fondo del polmone? — È l’ uva
Molle dei pomi più, pur non per essi
{{R|290}}Guastasi, e l’uva stessa offende l’uva.
Che forze qui, quivi alimento manca,
Gli indugi altrove ànno influenza, e i pori
Or troppo fitti, or troppo radi, anch’essi.
Nei contagi poichè dunque sì varia
{{R|295}}Natura e spezie, e in modi portentosi
I germi ancor, tu ben t’affisa in questo
Che origine à celeste, ed inusato,
Quanto ammirando, apparse. Ei non corruppe
Del mar i muti abitator, non belve
{{R|300}}Pei boschi erranti, non augelli o bovi
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||59}}</noinclude><poem>
Messi; ruggine scabra i gambi invase,
E diè la madre terra infetti i semi.
Soli talora gli animali, e d’essi
O molte, o qualche spezie, ebberne pena.
{{R|270}}Tal maligna stagione io pur ricordo,
E tal per Austro umido Autunno, in cui
Sol le capre perian: lieto il pastore
Le traea dalle stalle ai paschi, e mentre
Ei cantava securo all’ombra densa,
{{R|275}}Molcendo il gregge coll’umil zampogna,
Irrequïeta ecco una tosse alcuna
Prenderne, e morir tosto: a salto spinta
Ruinoso, versando il fiato estremo,
Moribonda cadea fra le compagne.
{{R|280}}A primavera quindi, e alla seguente
State ria febbre la belante greggia
(O stupor!) tutta quasi a rapir venne.
Son dell’infetto ciel varii cotanto
E germi, e spezie, e il numero a vicenda
{{R|285}}Tra cose mosse, e tra moventi, è fisso.
E non vedi la lue, benchè sien gli occhi
Molli, ed esposti più che il petto anelo,
Ficcarsi in fondo del polmone? — È l’uva
Molle dei pomi più, pur non per essi
{{R|290}}Guastasi, e l’uva stessa offende l’uva.
Che forze qui, quivi alimento manca,
Gli indugi altrove ànno influenza, e i pori
Or troppo fitti, or troppo radi, anch’essi.
:Nei contagi poichè dunque sì varia
{{R|295}}Natura e spezie, e in modi portentosi
I germi ancor, tu ben t’affisa in questo
Che origine à celeste, ed inusato,
Quanto ammirando, apparse. Ei non corruppe
Del mar i muti abitator, non belve
{{R|300}}Pei boschi erranti, non augelli o bovi
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Non gregge, non destrier; ma l’uom fra tutti,
Forte di mente, e ne pasceo le membra.
Nell’uomo poi quanto à di crasso il sangue
La turpissima assalse, dalle parti
{{R|305}}Più molli a sè traendo un pingue pasto.
Tai norme procedean fra morbo e sangue:
Or tutte io dir le affezïoni e i segni
Vo’ della peste rea: così mi doni
Favor la Musa, e tal difesa Apollo,
{{R|310}}Signor dei carmi e dell’età lontane,
Ch’aggian le mie memorie eterna vita.
Forse ai nostri nepoti e’ fia che giovi
Aver appreso di tal peste i segni.
Che dei fati al voler, gli anni volgendo,
{{R|315}}Tempo verrà, che in notte atra sopita
Anco morrà; dopo cent’anni e cento
La stessa rivedrà quindi le stelle,
E fia nuovo stupor d’età venture.
Mirabil era in pria, che il morbo appreso
{{R|320}}Certi spesso di sè segni non desse;
Che già di Luna empiuto un quarto corso,
E sebben entro penetri una volta,
Tosto per questo e’ non si mostra, e occulto
Cova, finchè si nutra e pigli lena.
{{R|325}}Da insolito torpor gravato intanto
E da spontanea languidezza vinti
Pigri e più tardi si moveano all’opre.
Anche il color natio degli occhi e spento
Cadea il color della non lieta fronte.
{{R|330}}Nata la carie fra pudende turpi
Coll’inguine rodeale invitta e lenta.
Feansi più chiari poi del morbo i segni:
Perchè, come fuggia del puro giorno
L’alma luce, e le tristi ombre notturne
{{R|335}}Cadeano, e quel calor, che suole innato
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Non gregge, non destrier; ma l’uom fra tutti,
Forte di mente, e ne pasceo le membra.
Nell’uomo poi quanto à di crasso il sangue
La turpissima assalse, dalle parti
{{R|305}}Più molli a sè traendo un pingue pasto.
Tai norme procedean fra morbo e sangue:
Or tutte io dir le affezïoni e i segni
Vo’ della peste rea: così mi doni
Favor la Musa, e tal difesa Apollo,
{{R|310}}Signor dei carmi e dell’età lontane,
Ch’aggian le mie memorie eterna vita.
Forse ai nostri nepoti e’ fia che giovi
Aver appreso di tal peste i segni.
Che dei fati al voler, gli anni volgendo,
{{R|315}}Tempo verrà, che in notte atra sopita
Anco morrà; dopo cent’anni e cento
La stessa rivedrà quindi le stelle,
E fia nuovo stupor d’età venture.
:Mirabil era in pria, che il morbo appreso
{{R|320}}Certi spesso di sè segni non desse;
Che già di Luna empiuto un quarto corso,
E sebben entro penetri una volta,
Tosto per questo e’ non si mostra, e occulto
Cova, finchè si nutra e pigli lena.
{{R|325}}Da insolito torpor gravato intanto
E da spontanea languidezza vinti
Pigri e più tardi si moveano all’opre.
Anche il color natio degli occhi e spento
Cadea il color della non lieta fronte.
{{R|330}}Nata la carie fra pudende turpi
Coll’inguine rodeale invitta e lenta.
Feansi più chiari poi del morbo i segni:
Perchè, come fuggia del puro giorno
L’alma luce, e le tristi ombre notturne
{{R|335}}Cadeano, e quel calor, che suole innato
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Addentrarsi la nolle, avea fomento
Tolto all’estreme parti; allor le doglie
Fiere prendeano ascelle, e braccia, e polpe.
Che la tabe, com’era entro alle vene
{{R|340}}E i nutritivi umori avea macchiato,
A separare il mal Natura avvezza
Fuor dal corpo spignea la parte infetta,
E perchè tarda per crassizie ell’era,
Tenace e lenta uscendo, s’attaccava,
{{R|345}}Nè poca, ai membri ed ai lacerti esangui:
Stesa ai nodi indi fiero un duol recava.
Pur più presta ad uscir la sottil parte
Feria la prima cute, e i membri estremi.
Tosto invadean pustule informi il corpo,
{{R|350}}E fean turpe la faccia, orrendo il petto.
Nuova specie di mal; punta di ghianda
Rassembrava la pustula, di crassa
Marcia rigonfia, ch’indi a poco rotta
Molta sanie grondava, e muco, e tabe.
{{R|355}}Ch’anzi scavando, e con celarsi in fondo,
Poscia miseramente i corpi, e spesso
Arti di carne brulli, e squallid’ossa
Io stesso vidi, e bocche in sozzi modi
Squarciate, che metteano un fil di voce.
{{R|360}}Come stillar dall’umida corteccia
Suol ciriegio o di Fille il tronco infausto
Pingue licor, che in lenta gomma indura:
Suole così da questa peste un muco
Correr pel corpo, che s’addensa in callo,
{{R|365}}Onde alcun, sospirando il fior degli anni
E sua beltà, visti con guardo bieco
I membri informi, e il gonfio viso, i Numi
Misero! chiamò spesso e gli astri crudi.
Dolci sonni notturni intanto lassi
{{R|370}}Tutti traeano gli animali in terra;
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Addentrarsi la nolle, avea fomento
Tolto all’estreme parti; allor le doglie
Fiere prendeano ascelle, e braccia, e polpe.
Che la tabe, com’era entro alle vene
{{R|340}}E i nutritivi umori avea macchiato,
A separare il mal Natura avvezza
Fuor dal corpo spignea la parte infetta,
E perchè tarda per crassizie ell’era,
Tenace e lenta uscendo, s’attaccava,
{{R|345}}Nè poca, ai membri ed ai lacerti esangui:
Stesa ai nodi indi fiero un duol recava.
Pur più presta ad uscir la sottil parte
Feria la prima cute, e i membri estremi.
Tosto invadean pustule informi il corpo,
{{R|350}}E fean turpe la faccia, orrendo il petto.
Nuova specie di mal; punta di ghianda
Rassembrava la pustula, di crassa
Marcia rigonfia, ch’indi a poco rotta
Molta sanie grondava, e muco, e tabe.
{{R|355}}Ch’anzi scavando, e con celarsi in fondo,
Poscia miseramente i corpi, e spesso
Arti di carne brulli, e squallid’ossa
Io stesso vidi, e bocche in sozzi modi
Squarciate, che metteano un fil di voce.
{{R|360}}Come stillar dall’umida corteccia
Suol ciriegio o di Fille il tronco infausto
Pingue licor, che in lenta gomma indura:
Suole così da questa peste un muco
Correr pel corpo, che s’addensa in callo,
{{R|365}}Onde alcun, sospirando il fior degli anni
E sua beltà, visti con guardo bieco
I membri informi, e il gonfio viso, i Numi
Misero! chiamò spesso e gli astri crudi.
Dolci sonni notturni intanto lassi
{{R|370}}Tutti traeano gli animali in terra;
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Ma quïete per essi e sopor nullo:
Odïata sorgea l’alba, e nimica
Della notte e del giorno avean l’imago.
Cerere in nulla, e in nulla i don di Bacco
{{R|375}}Loro valean: non dolci e in copia i cibi,
Non di città piaceri, agi di villa,
Benchè nitide fonti, e Tempe amene,
E cercasser sui monti aure tranquille.
E preci sparse, ed arsi incensi ai Numi
{{R|380}}Fur anco, ornate l’are a ricchi doni:
Ma non mosser gli Dei preghiere e doni.
Dei Cenomani io stesso, io mi rammento,
Ve’ con onda Sebina Oglio trascorre
I pingui paschi, insigne aver veduto
{{R|385}}GIOVANE il più felice, ed in Ausonia
Illustre più, di pubertà sul fiore,
Per auro ed avi, e per beltà potente,
Cui studio era frenar destrier focosi,
O cinger l’elmo, o sfolgorar tra l’armi,
{{R|390}}E in dura lotta avvalorar le forze,
E cervi preoccupar, dar caccia a fere.
Le fanciulle del Pò, le Dee dell’Oglio
Lui bramaro, e le Dee delle foreste,
E della villa le fanciulle: tutte
{{R|395}}Ne desïar le nozze. — Alcuna forse
Da lui negletta, i Numi, e non invano,
Mosse a punirlo; ed ei, nulla temente
E di sè baldo, sì ria peste incolse,
Che più crudel non fia, nè fu giammai.
{{R|400}}A poco a poco allor sparve quel fiore
Di coraggio e di età; squallida strinse
La tabe gli arti — (orrendo a dirsi!) — e l’ossa
Maggiori si gonfiar per tumor sozzi.
Dei che pietà! Deformi ulceri i vaghi
{{R|405}}Occhi, e l’amor pascean dell’alma luce:
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Ma quïete per essi e sopor nullo:
Odïata sorgea l’alba, e nimica
Della notte e del giorno avean l’imago.
Cerere in nulla, e in nulla i don di Bacco
{{R|375}}Loro valean: non dolci e in copia i cibi,
Non di città piaceri, agi di villa,
Benchè nitide fonti, e Tempe amene,
E cercasser sui monti aure tranquille.
E preci sparse, ed arsi incensi ai Numi
{{R|380}}Fur anco, ornate l’are a ricchi doni:
Ma non mosser gli Dei preghiere e doni.
:Dei Cenomani io stesso, io mi rammento,
Ve’ con onda Sebina Oglio trascorre
I pingui paschi, insigne aver veduto
{{R|385}}GIOVANE il più felice, ed in Ausonia
Illustre più, di pubertà sul fiore,
Per auro ed avi, e per beltà potente,
Cui studio era frenar destrier focosi,
O cinger l’elmo, o sfolgorar tra l’armi,
{{R|390}}E in dura lotta avvalorar le forze,
E cervi preoccupar, dar caccia a fere.
Le fanciulle del Pò, le Dee dell’Oglio
Lui bramaro, e le Dee delle foreste,
E della villa le fanciulle: tutte
{{R|395}}Ne desïar le nozze. — Alcuna forse
Da lui negletta, i Numi, e non invano,
Mosse a punirlo; ed ei, nulla temente
E di sè baldo, sì ria peste incolse,
Che più crudel non fia, nè fu giammai.
{{R|400}}A poco a poco allor sparve quel fiore
Di coraggio e di età; squallida strinse
La tabe gli arti — (orrendo a dirsi!) — e l’ossa
Maggiori si gonfiar per tumor sozzi.
Dei che pietà! Deformi ulceri i vaghi
{{R|405}}Occhi, e l’amor pascean dell’alma luce:
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Rôse acre umor le nari; e così alfine
A tempo breve l’infelice l’aure
Odïate lasciò. — L’Alpi vicine,
E i vaghi fiumi il piansero, e dell’Oglio
{{R|410}}Le Dee, le Ninfe Eridanine, e quelle
Della villa, e le Dee dei boschi, e il lago
Sebin lo pianse amaramente. — Adunque
Cotal peste mescea crudo Saturno
Per l’ampie terre, e Marte al par crudele
{{R|415}}Empie sorti aggiungea; che d’essa lue
Coll’apparir, cred’io, tutte sventure
Vaticinar le dire Furie a noi,
E tutti i guai dal fondo imo e dall’atra
Palude i laghi vomitar d’Averno
{{R|420}}E peste, e orribil fame, e guerra, e morte.
Patrii Numi di cui posa in tutela
Italia, o tu del Lazio, o tu Saturno
Padre, e che tanto mal mertaro i tuoi?
Che ci resta a soffrir d’aspro e di grave?
{{R|425}}Chi mai s’ebbe sì avverso il ciel? Tu prima
O Partenope narra i danni tuoi,
Le rapine, i Re spenti, e i tuoi cattivi.
Forse dirò la strage infanda, e il sangue
Franco ed Italo sparso in lotta pari,
{{R|430}}Quando sanguigno, e d’uomini e cavalli
Corpi estinti traendo, ed elmi, ed armi,
All’Eridano in sen correva il Taro?
E te di stragi nostre Adda spumante,
Te lo stesso Eridan padre infelice
{{R|435}}Quinci non molto al seno accolse, e teco
Pianse, e ti diè d’amiche onde conforto.
Povera Ausonia! ecco il valor tuo prisco,
E a che l’impero tuo Discordia addusse!
Avvi un angolo in te che non soffrisse
{{R|440}}Barbara servitù, rapine e stragi?
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Rôse acre umor le nari; e così alfine
A tempo breve l’infelice l’aure
Odïate lasciò. — L’Alpi vicine,
E i vaghi fiumi il piansero, e dell’Oglio
{{R|410}}Le Dee, le Ninfe Eridanine, e quelle
Della villa, e le Dee dei boschi, e il lago
Sebin lo pianse amaramente. — Adunque
Cotal peste mescea crudo Saturno
Per l’ampie terre, e Marte al par crudele
{{R|415}}Empie sorti aggiungea; che d’essa lue
Coll’apparir, cred’io, tutte sventure
Vaticinar le dire Furie a noi,
E tutti i guai dal fondo imo e dall’atra
Palude i laghi vomitar d’Averno
{{R|420}}E peste, e orribil fame, e guerra, e morte.
:Patrii Numi di cui posa in tutela
Italia, o tu del Lazio, o tu Saturno
Padre, e che tanto mal mertaro i tuoi?
Che ci resta a soffrir d’aspro e di grave?
{{R|425}}Chi mai s’ebbe sì avverso il ciel? Tu prima
O Partenope narra i danni tuoi,
Le rapine, i Re spenti, e i tuoi cattivi.
Forse dirò la strage infanda, e il sangue
Franco ed Italo sparso in lotta pari,
{{R|430}}Quando sanguigno, e d’uomini e cavalli
Corpi estinti traendo, ed elmi, ed armi,
All’Eridano in sen correva il Taro?
E te di stragi nostre Adda spumante,
Te lo stesso Eridan padre infelice
{{R|435}}Quinci non molto al seno accolse, e teco
Pianse, e ti diè d’amiche onde conforto.
:Povera Ausonia! ecco il valor tuo prisco,
E a che l’impero tuo Discordia addusse!
Avvi un angolo in te che non soffrisse
{{R|440}}Barbara servitù, rapine e stragi?
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Ditelo voi vitifere colline
Ai tumulti non use, ove il Retrone
Ameno scorre, e al mar con piene corna
Tendendo, all’onde Euganee unirsi affretta.
{{R|445}}O Patria a lungo lieta, e a lungo in pace
Più ch’altra mai, santissima di Numi
Stanza; o Patria d’eroi feconda e d’auro,
Per pingui campi, e d’Adige e Benaco
Per l’onde altera, i mali tuoi ridire
{{R|450}}Chi potrà mai? Chi ai dolor nostri i detti
Far pari, e all’onte ed ai comandi iniqui?
Copri il capo Benaco, e in te l’ascondi,
Nè più rigar, già Dio, fastosi allori.
Ed ecco, quasi che lagrime a noi
{{R|455}}E mancassero guai, fra tanti lutti,
Ecco del Lazio quella speme, e quella
Speme di Palla estinta: al sen rapito
Te delle Muse per morte crudele
D’anni in fior te vedemmo ANTONIO-MARCO,
{{R|460}}Del Benaco sepolto in su l’estrema
Riva, cui bagna la Sarca sonante.
Te dell’Adige piansero le rive:
Te chiamar l’ombre di {{Ac|Gaio Valerio Catullo|Catullo}}, e nuova
Intesero dolcezza i patrii boschi.
{{R|465}}Il Re Franco di guerre allora empiea
L’opima Italia, a fren stretta Liguria,
Mentre {{Ac|Gaio Giulio Cesare|Cesare}} altrove a ferro e a foco
Mettea gli Euganei, e il Sil placido, e il Carno
Ribelle, e il Lazio tutto era nel pianto.
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Ditelo voi vitifere colline
Ai tumulti non use, ove il Retrone
Ameno scorre, e al mar con piene corna
Tendendo, all’onde Euganee unirsi affretta.
:{{R|445}}O Patria a lungo lieta, e a lungo in pace
Più ch’altra mai, santissima di Numi
Stanza; o Patria d’eroi feconda e d’auro,
Per pingui campi, e d’Adige e Benaco
Per l’onde altera, i mali tuoi ridire
{{R|450}}Chi potrà mai? Chi ai dolor nostri i detti
Far pari, e all’onte ed ai comandi iniqui?
Copri il capo Benaco, e in te l’ascondi,
Nè più rigar, già Dio, fastosi allori.
:Ed ecco, quasi che lagrime a noi
{{R|455}}E mancassero guai, fra tanti lutti,
Ecco del Lazio quella speme, e quella
Speme di Palla estinta: al sen rapito
Te delle Muse per morte crudele
D’anni in fior te vedemmo ANTONIO-MARCO,
{{R|460}}Del Benaco sepolto in su l’estrema
Riva, cui bagna la Sarca sonante.
Te dell’Adige piansero le rive:
Te chiamar l’ombre di {{Ac|Gaio Valerio Catullo|Catullo}}, e nuova
Intesero dolcezza i patrii boschi.
:{{R|465}}Il Re Franco di guerre allora empiea
L’opima Italia, a fren stretta Liguria,
Mentre {{Ac|Gaio Giulio Cesare|Cesare}} altrove a ferro e a foco
Mettea gli Euganei, e il Sil placido, e il Carno
Ribelle, e il Lazio tutto era nel pianto.
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LIBRO II.
<poem>
Or qual la vita da tenersi, quale
La cura intorno a danno tanto, e il tempo,
(Che del mio canto l’altra parte è questa)
E i mirandi dirò dell’uom trovati:
{{R|5}}Che al nuovo caso sbalordito, in pria
Molto tentava invan, sin che maggiore
Fessi l’ingegno nella stretta, e crebbe
Per l’uso esperïenza; allor gli aiuti
Potè lunge recar, frenar la peste,
{{R|10}}E vincitrice al cielo erger la fronte.
Io credo ben, che la superna aîta
Molto c’insegni, e ne sien guida i fati.
Che sebben fera la stagione, e inique
Fosser le stelle, non del tutto a noi
{{R|15}}Mancò il Nume, e il favor di ciel benigno.
Se un insolito mal, se tristi guerre,
Se noi vedemmo de’ Signor nel sangue
Tinte le case, e le città, le rocche
Arse, e i regni distrutti, e i templi, e l’are
{{R|20}}Contaminate; se all’urtar dei fiumi
Rotte le sponde, i colti invasi, e l’acque
Rapir le selve, e coi pastor le greggie,
E penuria crudel premer le terre;
Questa pur, questa età medesma (quello
{{R|25}}Che il destin negò agli avi) il mar poteo
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||71}}</noinclude>{{Ct|f=100%|v=2|t=3|lh=1.5|LIBRO II.}}
<poem>
:{{x-larger|O}}r qual la vita da tenersi, quale
La cura intorno a danno tanto, e il tempo,
(Che del mio canto l’altra parte è questa)
E i mirandi dirò dell’uom trovati:
{{R|5}}Che al nuovo caso sbalordito, in pria
Molto tentava invan, sin che maggiore
Fessi l’ingegno nella stretta, e crebbe
Per l’uso esperïenza; allor gli aiuti
Potè lunge recar, frenar la peste,
{{R|10}}E vincitrice al cielo erger la fronte.
Io credo ben, che la superna aîta
Molto c’insegni, e ne sien guida i fati.
Che sebben fera la stagione, e inique
Fosser le stelle, non del tutto a noi
{{R|15}}Mancò il Nume, e il favor di ciel benigno.
Se un insolito mal, se tristi guerre,
Se noi vedemmo de’ Signor nel sangue
Tinte le case, e le città, le rocche
Arse, e i regni distrutti, e i templi, e l’are
{{R|20}}Contaminate; se all’urtar dei fiumi
Rotte le sponde, i colti invasi, e l’acque
Rapir le selve, e coi pastor le greggie,
E penuria crudel premer le terre;
Questa pur, questa età medesma (quello
{{R|25}}Che il destin negò agli avi) il mar poteo
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Tutto solcar quanto Anfitrite il cinge,
Nè dall’ultimo Atlante ai golfi Esperii
Giunger bastolle, e sotto l’Orsa a Prasso,
Veder di Rapto i lidi alpestri, e addurre
{{R|30}}Dal mar Carmano ed Arabo le merci;
Ma più si giunse alla Titania Aurora
Sopra Indo e Gange, ove al noto orbe dava
Catigara confin, Ciambe lasciata,
E le d’ebano e noci altere selve.
{{R|35}}Dal nostro un mondo al fin per genti e cielo
Diverso, e chiaro per maggiori stelle,
Toccammo, i Dei reggendo il corso ardito.
Insigne un Vate anco vedemmo, al canto
Di cui fer plauso Partenope bella,
{{R|40}}L’ombra di {{Ac|Publio Virgilio Marone|Maro}}, e il placido Sebeto.
Degli astri il giro egli cantava, e gli orti
D’ Esperia, e quante à il ciel mutabil piagge.
Ma di te per lacer e d’altri, cui
Fama appo morte, e le future etadi
{{R|45}}Porranno a paro degli antichi, o {{Ac|Pietro Bembo|B<small>EMBO</small>}};
Di quel non tacerò, dono a noi dato,
Magnanimo LEON, per cui s’estolle
Il Lazio, e la gran Roma, e dal suo letto
A Roma trïonfante il Tebro applaude.
{{R|50}}D’esso al favor, le avverse stelle al mondo
Già cessan di far onta, e Giove regna
Diffonditor di pura luce in cielo.
Sol Ei, appo tai pene e lunghi stenti,
Agli ozii dolci le fuggenti Muse
{{R|55}}Richiamò, e al Lazio il prisco dritto e il retto,
E la pietà tornata, in mente volge
Sante per Roma e per la Fede imprese.
L’ampie bocche del Nilo indi, e l’Eufrate,
E d’Asia treman l’onde a tanto nome,
{{R|60}}E fugge l’Egea Dori agli istmi suoi.
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||73}}</noinclude><poem>
Tutto solcar quanto Anfitrite il cinge,
Nè dall’ultimo Atlante ai golfi Esperii
Giunger bastolle, e sotto l’Orsa a Prasso,
Veder di Rapto i lidi alpestri, e addurre
{{R|30}}Dal mar Carmano ed Arabo le merci;
Ma più si giunse alla Titania Aurora
Sopra Indo e Gange, ove al noto orbe dava
Catigara confin, Ciambe lasciata,
E le d’ebano e noci altere selve.
{{R|35}}Dal nostro un mondo al fin per genti e cielo
Diverso, e chiaro per maggiori stelle,
Toccammo, i Dei reggendo il corso ardito.
Insigne un Vate anco vedemmo, al canto
Di cui fer plauso Partenope bella,
{{R|40}}L’ombra di {{Ac|Publio Virgilio Marone|Maro}}, e il placido Sebeto.
Degli astri il giro egli cantava, e gli orti
D’Esperia, e quante à il ciel mutabil piagge.
Ma di te per lacer e d’altri, cui
Fama appo morte, e le future etadi
{{R|45}}Porranno a paro degli antichi, o {{Ac|Pietro Bembo|B<small>EMBO</small>}};
Di quel non tacerò, dono a noi dato,
Magnanimo LEON, per cui s’estolle
Il Lazio, e la gran Roma, e dal suo letto
A Roma trïonfante il Tebro applaude.
{{R|50}}D’esso al favor, le avverse stelle al mondo
Già cessan di far onta, e Giove regna
Diffonditor di pura luce in cielo.
Sol Ei, appo tai pene e lunghi stenti,
Agli ozii dolci le fuggenti Muse
{{R|55}}Richiamò, e al Lazio il prisco dritto e il retto,
E la pietà tornata, in mente volge
Sante per Roma e per la Fede imprese.
L’ampie bocche del Nilo indi, e l’Eufrate,
E d’Asia treman l’onde a tanto nome,
{{R|60}}E fugge l’Egea Dori agli istmi suoi.
</poem><noinclude></noinclude>
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Finch’altri adunque sì gran cose, e i fasti
Di Lui racconterà, tu stesso mentre
Vita gli vuoi dar forse in carte eterne,
Noi, cui non chiama il fato a tanto, i nostri
{{R|65}}Scherzi seguiterem con tenue Musa.
Prima, perchè non una il sangue affetto
Indole serba, di quel mal più spera
Che sangue puro invase: in quel cui l’atra
Bile fa gonfio, e denso alza le vene,
{{R|70}}Stentasi più, tenace è più la peste.
Val quindi usar incontro a questi i forti
Mezzi, nè perdonarla ai membri infetti.
Anzi tutti sperar lieti i successi
Quegli può, che scoprir seppe alle prime
{{R|75}}La tabe occulta, e serpeggiante addentro;
Che quando dopo lungo pasto in forza
Venne, e fermò nel sangue il suo veleno,
Quanto a riaver tua libertà di stento!
Dunque ai primi principii opponi ogni opra,
{{R|80}}E serba i miei precetti in mente fermi.
E pria non d’ogni ciel ti voglio amico:
Fuggi, ve’ spira austro perpetuo, o fango, .
O grave odor manda palude immonda.
Meglio l’aperto campo, e i larghi spazii,
{{R|85}}E in colli aprichi anco le aurette, e i molli
Zeffiri, e d’Aquilon l’äer battuto.
Qui, il comando, non ozio, e non riposo:
Non indugiar; in caccia faticosa
Ratto insegui il cinghiale, e l’orso insegui,
{{R|90}}Nè ti sia grave, dell’aerie rupi
Vinto il dorso, fugar rapido cervo
In valle, e in cerca gir pel bosco a lungo.
Che ben vid’io, chi nel sudore estinse,
E lasciò il morbo nelle selve. Stendi
{{R|95}}All’aratro la man, col vomer curvo
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:Finch’altri adunque sì gran cose, e i fasti
Di Lui racconterà, tu stesso mentre
Vita gli vuoi dar forse in carte eterne,
Noi, cui non chiama il fato a tanto, i nostri
{{R|65}}Scherzi seguiterem con tenue Musa.
:Prima, perchè non una il sangue affetto
Indole serba, di quel mal più spera
Che sangue puro invase: in quel cui l’atra
Bile fa gonfio, e denso alza le vene,
{{R|70}}Stentasi più, tenace è più la peste.
Val quindi usar incontro a questi i forti
Mezzi, nè perdonarla ai membri infetti.
Anzi tutti sperar lieti i successi
Quegli può, che scoprir seppe alle prime
{{R|75}}La tabe occulta, e serpeggiante addentro;
Che quando dopo lungo pasto in forza
Venne, e fermò nel sangue il suo veleno,
Quanto a riaver tua libertà di stento!
Dunque ai primi principii opponi ogni opra,
{{R|80}}E serba i miei precetti in mente fermi.
:E pria non d’ogni ciel ti voglio amico:
Fuggi, ve’ spira austro perpetuo, o fango, .
O grave odor manda palude immonda.
Meglio l’aperto campo, e i larghi spazii,
{{R|85}}E in colli aprichi anco le aurette, e i molli
Zeffiri, e d’Aquilon l’äer battuto.
Qui, il comando, non ozio, e non riposo:
Non indugiar; in caccia faticosa
Ratto insegui il cinghiale, e l’orso insegui,
{{R|90}}Nè ti sia grave, dell’aerie rupi
Vinto il dorso, fugar rapido cervo
In valle, e in cerca gir pel bosco a lungo.
Che ben vid’io, chi nel sudore estinse,
E lasciò il morbo nelle selve. Stendi
{{R|95}}All’aratro la man, col vomer curvo
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Lungo apri il solco, e colla marra il suolo
Fendi, e le dure glèbe, a lutta lena.
Dà di bipenne al piè dell’ardua quercia,
E strappa l’orno dall’ime radici,
{{R|100}}E in casa ovunque esercitarti adopra;
Gioca al mattin, di palla al vespro gioca;
Fa di sudar in dura lotta, e al salto
Vinci il malor; nè ti seduca un lento
Incessante desio d’ozio e di letto:
{{R|105}}Tu del letto fidar, fidar del grave
Sopor non ti vorrai: nutr’egli il morbo,
E in aspetto di pace inganna, e il cresce.
Nè sfuggir men quanto la mente attristi.
Caccia l’ire, le cure, e tutto intendi
{{R|110}}Di Minerva agli studii, ai carmi, ai cori
Di giovani e fanciulle insiem commisti:
Sol che Vener tu fugga, e i piacer molli,
Fatali in ver, poi ch’odiano il contagio
Le tenere donzelle, e Cipria istessa.
{{R|115}}Poi del vitto gelosa aver dèi cura
A null’altra maggior. — E pria che tutto
Quanti pesci od in fonte od in palude
O nei liquidi laghi àn vita, o in mare,
Tutti gli vieto: pur ve n’à cui l’uso
{{R|120}}Concedo liberal, se l’uopo il voglia.
Bianca, non dura, e non tenace àn questi
Carne, sbattuta fra gli scogli e l’onde.
Tai van pel mar le ficidi e le orate
Splendenti, e i gobii, e del sassoso amanti
{{R|125}}Le perchie: tal dei dolci fiumi in riva
D’erbe pasciuto il ruminante scaro
Solo in fra i sassi. Neppur lodo uccelli
Vaghi di stagni, e d’alte fonti, o d’onde
In cui cerchino cibo: a te diniego
{{R|130}}L’anitra pingue, e l’oca ancor più cruda
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Lungo apri il solco, e colla marra il suolo
Fendi, e le dure glèbe, a lutta lena.
Dà di bipenne al piè dell’ardua quercia,
E strappa l’orno dall’ime radici,
{{R|100}}E in casa ovunque esercitarti adopra;
Gioca al mattin, di palla al vespro gioca;
Fa di sudar in dura lotta, e al salto
Vinci il malor; nè ti seduca un lento
Incessante desio d’ozio e di letto:
{{R|105}}Tu del letto fidar, fidar del grave
Sopor non ti vorrai: nutr’egli il morbo,
E in aspetto di pace inganna, e il cresce.
Nè sfuggir men quanto la mente attristi.
Caccia l’ire, le cure, e tutto intendi
{{R|110}}Di Minerva agli studii, ai carmi, ai cori
Di giovani e fanciulle insiem commisti:
Sol che Vener tu fugga, e i piacer molli,
Fatali in ver, poi ch’odiano il contagio
Le tenere donzelle, e Cipria istessa.
{{R|115}}Poi del vitto gelosa aver dèi cura
A null’altra maggior. — E pria che tutto
Quanti pesci od in fonte od in palude
O nei liquidi laghi àn vita, o in mare,
Tutti gli vieto: pur ve n’à cui l’uso
{{R|120}}Concedo liberal, se l’uopo il voglia.
Bianca, non dura, e non tenace àn questi
Carne, sbattuta fra gli scogli e l’onde.
Tai van pel mar le ficidi e le orate
Splendenti, e i gobii, e del sassoso amanti
{{R|125}}Le perchie: tal dei dolci fiumi in riva
D’erbe pasciuto il ruminante scaro
Solo in fra i sassi. Neppur lodo uccelli
Vaghi di stagni, e d’alte fonti, o d’onde
In cui cerchino cibo: a te diniego
{{R|130}}L’anitra pingue, e l’oca ancor più cruda
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(Meglio ella vegli al Campidoglio); schiva
La quaglia tarda per grassezza: il ventre
Tu, le interiora, e il tergo, ah il tergo! fuggi
Della scroffa ricurva, e del cinghiale,
{{R|135}}Sia pur in caccia da te colto, il lombo.
Poi nè il duro cocomer, nè il tartuffo,
Nè ’l carcioffo, ne ’l bulbo ti disfami.
Latte e aceto non lodo, non spumose
Tazze di pretto vin, quale i Cirnei
{{R|140}}Od i Falerni od i Pugliesi campi
Mandano, o qual da piccolo racemo
La Retic’uva: è meglio il vin Sabino,
Dalle Naiadi domo a larghe linfe.
Che se dell’orto il cibo ami, e le mense
{{R|145}}Care a Numi; non compre e semplici erbe,
Lieto sisimbrio, verdi mente, ed ài
Cicorea, e sonco in fior pel verno tutto,
E ’l sio che delle fonti ognor tra i rivi
Di godersi fa mostra, ed ài le timbre
{{R|150}}Soavi, e l’odorose calaminte.
Liete cògli melisse, e le buglosse,
U’ l’onda scorre, e a piene man l’eruca
Nel campo, e salso critmo, e bieta, e romice;
Danno il lupolo i dumi, e qui raccolgi
{{R|155}}Asparagi, e vitalba che non aggia
Rami e mani distese, e non suoi verdi
Corimbi ancor. Ma annoverarle ognuna
Lungo e vano sarebbe, e già mi chiama
Altra impresa, e le Muse a selve nuove
{{R|160}}Di Natura vo’ trar dall’ombre Aonie.
Onde se non vorranno alla mia fronte
Dar un serto d’alloro, e l’onor magno;
Alle mie tempie almen, per tante e tante
Vite salvate, lo daran di quercia.
{{R|165}}Se il morbo in primavera od in autunno
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(Meglio ella vegli al Campidoglio); schiva
La quaglia tarda per grassezza: il ventre
Tu, le interiora, e il tergo, ah il tergo! fuggi
Della scroffa ricurva, e del cinghiale,
{{R|135}}Sia pur in caccia da te colto, il lombo.
Poi nè il duro cocomer, nè il tartuffo,
Nè ’l carcioffo, ne ’l bulbo ti disfami.
Latte e aceto non lodo, non spumose
Tazze di pretto vin, quale i Cirnei
{{R|140}}Od i Falerni od i Pugliesi campi
Mandano, o qual da piccolo racemo
La Retic’uva: è meglio il vin Sabino,
Dalle Naiadi domo a larghe linfe.
Che se dell’orto il cibo ami, e le mense
{{R|145}}Care a Numi; non compre e semplici erbe,
Lieto sisimbrio, verdi mente, ed ài
Cicorea, e sonco in fior pel verno tutto,
E ’l sio che delle fonti ognor tra i rivi
Di godersi fa mostra, ed ài le timbre
{{R|150}}Soavi, e l’odorose calaminte.
Liete cògli melisse, e le buglosse,
U’ l’onda scorre, e a piene man l’eruca
Nel campo, e salso critmo, e bieta, e romice;
Danno il lupolo i dumi, e qui raccolgi
{{R|155}}Asparagi, e vitalba che non aggia
Rami e mani distese, e non suoi verdi
Corimbi ancor. Ma annoverarle ognuna
Lungo e vano sarebbe, e già mi chiama
Altra impresa, e le Muse a selve nuove
{{R|160}}Di Natura vo’ trar dall’ombre Aonie.
Onde se non vorranno alla mia fronte
Dar un serto d’alloro, e l’onor magno;
Alle mie tempie almen, per tante e tante
Vite salvate, lo daran di quercia.
:{{R|165}}Se il morbo in primavera od in autunno
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Ange talun, fresco degli anni, e pieno
Di sangue, la regal vena o la media
Giova che incida a trarne il fluido impuro.
Ma in qual l’assalga poi tempo la peste,
{{R|170}}Non ti gravi cavar l’umor corrotto,
E il contagio depor dal facil ventre.
Sol prepara l’uscita; i densi umori
Risolvi; attenua i crassi, e taglia i lenti.
Dunque il coricio ed il panfilio timo
{{R|175}}Ch’esce a timbra simil, d’essa più duro,
A cuocer corri, e la volubil fronde
Del lupolo, e finocchio, e l’apio, e i germi
Del capno amaro; aggiungi pur, imago
Di polpi irsuti, il polipodio, schivo
{{R|180}}D’acque l’adianto, e l’infecondo aspleno,
E la pinta fillite; il che beuto
Più di prima, e l’umor crudo concotto
Con acre scilla, e colicintid’aspra
Ti cura e con elleboro, e coll’erba
{{R|185}}Che surta in riva al mar, cangia tre volte
Al dì il color de’ fiori, e al nome il dice.
Giovan le sue radici, unite al zenzero,
Al cocomero anguineo, e al Nabateo
Incenso, e a mirra, a bdelio, a panacea,
{{R|190}}E liquore ammoniaco, e bulbo colchico.
Ciò fatto, se per sorte ài freddo e molle
Sortito il core, nè tentar le acerbe
Ti piacerà sì tosto, e spegner presto
La peste, ma sol vie placide a tempo;
{{R|195}}Ai lasciati fomenti il far ritorno
Sol ti resta, ed opporti al germe reo,
In ammirandi modi a serper uso.
Giovino adunque gli essicanti, e quelli,
Ch’ostano resinosi a sanie putre.
{{R|200}}Tal della mirra è il pianto, e tal l’incenso,
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Ange talun, fresco degli anni, e pieno
Di sangue, la regal vena o la media
Giova che incida a trarne il fluido impuro.
Ma in qual l’assalga poi tempo la peste,
{{R|170}}Non ti gravi cavar l’umor corrotto,
E il contagio depor dal facil ventre.
Sol prepara l’uscita; i densi umori
Risolvi; attenua i crassi, e taglia i lenti.
:Dunque il coricio ed il panfilio timo
{{R|175}}Ch’esce a timbra simil, d’essa più duro,
A cuocer corri, e la volubil fronde
Del lupolo, e finocchio, e l’apio, e i germi
Del capno amaro; aggiungi pur, imago
Di polpi irsuti, il polipodio, schivo
{{R|180}}D’acque l’adianto, e l’infecondo aspleno,
E la pinta fillite; il che beuto
Più di prima, e l’umor crudo concotto
Con acre scilla, e colicintid’aspra
Ti cura e con elleboro, e coll’erba
{{R|185}}Che surta in riva al mar, cangia tre volte
Al dì il color de’ fiori, e al nome il dice.
Giovan le sue radici, unite al zenzero,
Al cocomero anguineo, e al Nabateo
Incenso, e a mirra, a bdelio, a panacea,
{{R|190}}E liquore ammoniaco, e bulbo colchico.
:Ciò fatto, se per sorte ài freddo e molle
Sortito il core, nè tentar le acerbe
Ti piacerà sì tosto, e spegner presto
La peste, ma sol vie placide a tempo;
{{R|195}}Ai lasciati fomenti il far ritorno
Sol ti resta, ed opporti al germe reo,
In ammirandi modi a serper uso.
Giovino adunque gli essicanti, e quelli,
Ch’ostano resinosi a sanie putre.
{{R|200}}Tal della mirra è il pianto, e tal l’incenso,
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L’aspalato, il cipresso eterno, e il cedro,
Ed il cipero, e il calamo odoroso.
Casia adunque non manchi, e non amomo,
Noci moscate, agalloco, canella.
{{R|205}}V’è pur nei prati, e alle paludi appresso
Scordio a veleni, e a tutte pesti, avverso,
Erba, che a lieve stento aver tu puoi:
La chioma à verde, ed il camedrio imita;
Rosseggia il fior; d’aglio à sapore e nome.
{{R|210}}Di questa alla prim’alba il crin frondoso,
E cuoci la radice, e bevi a josa.
Nè taceran di Te miei carmi, o Cedro,
Gloria d’Esperie e selve Mede, e quivi,
Benchè lodato pria dai sacri vati,
{{R|215}}Non sdegnerai la mia medica Musa.
Così verdeggi ognor tua chioma, e folta
Sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca
D’auree pendenti poma, orni la selva.
Dunque i ciechi a sturbar germi del morbo
{{R|220}}L’ammiranda preval citerea pianta,
Che a lei Ciprigna, Adone suo piagnendo,
Molte accrebbe virtudi, e diede i doni.
Nel concavo talun di vitreo vaso
Che oblungo à il collo, e tondo il ventre in giro,
{{R|225}}Manipoli d’Ideo Dittamo, o d’Edra
Cuoce, o d’Iride illiria, o la radice
Negra del Ramno, o l’Enula: il vapore
Alto n’esala, e lieve il vuoto n’empie.
Ma come l’aere incontra, e il freddo vetro,
{{R|230}}Stringesi denso in umida rugiada,
E pel canal trascorre in vago rio.
Dell’acqua distillata ai primi albori
Recano un nappo a ber, indi nel letto
Comandano il sudor, nè invan, ch’ei vale
{{R|235}}Le reliquie del morbo a scior nell’aure.
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L’aspalato, il cipresso eterno, e il cedro,
Ed il cipero, e il calamo odoroso.
Casia adunque non manchi, e non amomo,
Noci moscate, agalloco, canella.
{{R|205}}V’è pur nei prati, e alle paludi appresso
Scordio a veleni, e a tutte pesti, avverso,
Erba, che a lieve stento aver tu puoi:
La chioma à verde, ed il camedrio imita;
Rosseggia il fior; d’aglio à sapore e nome.
{{R|210}}Di questa alla prim’alba il crin frondoso,
E cuoci la radice, e bevi a josa.
Nè taceran di Te miei carmi, o Cedro,
Gloria d’Esperie e selve Mede, e quivi,
Benchè lodato pria dai sacri vati,
{{R|215}}Non sdegnerai la mia medica Musa.
Così verdeggi ognor tua chioma, e folta
Sempre, e per nuovo fior fragrante, e carca
D’auree pendenti poma, orni la selva.
Dunque i ciechi a sturbar germi del morbo
{{R|220}}L’ammiranda preval citerea pianta,
Che a lei Ciprigna, Adone suo piagnendo,
Molte accrebbe virtudi, e diede i doni.
:Nel concavo talun di vitreo vaso
Che oblungo à il collo, e tondo il ventre in giro,
{{R|225}}Manipoli d’Ideo Dittamo, o d’Edra
Cuoce, o d’Iride illiria, o la radice
Negra del Ramno, o l’Enula: il vapore
Alto n’esala, e lieve il vuoto n’empie.
Ma come l’aere incontra, e il freddo vetro,
{{R|230}}Stringesi denso in umida rugiada,
E pel canal trascorre in vago rio.
Dell’acqua distillata ai primi albori
Recano un nappo a ber, indi nel letto
Comandano il sudor, nè invan, ch’ei vale
{{R|235}}Le reliquie del morbo a scior nell’aure.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Se intanto t’ange le convulse membra
Maligno duol, t’affretta di lenirlo
Con olio masticino, esipo, o lento
Grasso dell’oca; arrogi emulso il muco
{{R|240}}Di lin, narcisso, ed enula, con fluido
Mele e croco coricio, e d’olio schiuma.
Che se il viso e le fauci erpete reo
T’assal, con nitro ed acqua medicata
D’erugin verde, il mal, che serpe, aduggi.
{{R|245}}Pur dei caustici sol potrà la forza
L’ulceri consumare, aggiunta ad essi,
Che gli addentri con sè, parte di grasso.
Così qual altra piaga i membri infetti
Pasca, e i duri potrai calli disciorre.
{{R|250}}Se poi tentato invan ciò pur ti sembri,
O ad ogni prova ài spirto e forze pronte,
Nè vuoi protrarre, anzi le acerbe agogni,
Più presto a consumar la peste infame;
D’altri rimedii ti dirò, che quanto
{{R|255}}Aspri son più, tanto più presto i guai
Cessan del male: dappoichè la cruda
Tabe, tenace assai, ma che per molto
Fomite, ardita, le vie dolci e miti
Sdegna, cura non vuole, e più resiste.
{{R|260}}V’à dunque chi storace, e chi cinabro
Usa alle prime, e minio, e stimmi, e trito
Incenso, e il corpo con profumo acerbo
Vapora, ad assorbire il reo contagio.
Ma in vero tal rimedio in parte è duro,
{{R|265}}Fallace in parte, poichè il fiato arresta
Nelle fauci, e l’anela anima appena
Dall’uscir si contien pel corpo tutto.
Perciò non s’usi, a mio consiglio, e giovi
Ai membri sol, cui pascono chironie
{{R|270}}Ulceri, e informi pustulette. — Meglio
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||85}}</noinclude><poem>
Se intanto t’ange le convulse membra
Maligno duol, t’affretta di lenirlo
Con olio masticino, esipo, o lento
Grasso dell’oca; arrogi emulso il muco
{{R|240}}Di lin, narcisso, ed enula, con fluido
Mele e croco coricio, e d’olio schiuma.
Che se il viso e le fauci erpete reo
T’assal, con nitro ed acqua medicata
D’erugin verde, il mal, che serpe, aduggi.
:{{R|245}}Pur dei caustici sol potrà la forza
L’ulceri consumare, aggiunta ad essi,
Che gli addentri con sè, parte di grasso.
Così qual altra piaga i membri infetti
Pasca, e i duri potrai calli disciorre.
{{R|250}}Se poi tentato invan ciò pur ti sembri,
O ad ogni prova ài spirto e forze pronte,
Nè vuoi protrarre, anzi le acerbe agogni,
Più presto a consumar la peste infame;
D’altri rimedii ti dirò, che quanto
{{R|255}}Aspri son più, tanto più presto i guai
Cessan del male: dappoichè la cruda
Tabe, tenace assai, ma che per molto
Fomite, ardita, le vie dolci e miti
Sdegna, cura non vuole, e più resiste.
{{R|260}}V’à dunque chi storace, e chi cinabro
Usa alle prime, e minio, e stimmi, e trito
Incenso, e il corpo con profumo acerbo
Vapora, ad assorbire il reo contagio.
Ma in vero tal rimedio in parte è duro,
{{R|265}}Fallace in parte, poichè il fiato arresta
Nelle fauci, e l’anela anima appena
Dall’uscir si contien pel corpo tutto.
Perciò non s’usi, a mio consiglio, e giovi
Ai membri sol, cui pascono chironie
{{R|270}}Ulceri, e informi pustulette. — Meglio
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Del vivo argento, ch’à miranda possa,
Valgonsi i più: sia perchè il caldo e il freddo,
Ratto sente, onde presto il nostro foco
Riceve, e gli umor scioglie, e meglio agisce,
{{R|275}}Qual fiamma abbrucia più candente ferro:
Sia perchè l’acri particelle, ond’esso
Consta mirabilmente, svincolate
Come possan nei corpi entrar distinte,
Struggon tumori, ardon di peste i germi:
{{R|280}}Sia che il fato o natura altra gli desse
Virtù, dono è de’ Numi, e tal trovato
Di cui vo’ dire; e chi stupendi i doni
Può ridir degli Dei? — Là della Siria
Nell’alte valli, a glauche selve in mezzo
{{R|285}}Di salci ombrosi, u’ di Calliroe è il fonte,
Fama è che Ilceo, cultor d’orto agli agresti
Dei sacro, e di foreste, e cacciatore
Di belve, colto da cotanto morbo,
Il cipero annaffiando e la fragrante
{{R|290}}Selvetta della casia e dell’amomo,
Così pregasse: — O Dei, che sempre io stesso
O’ venerato, e tu Calliroe santa
Che i morbi fughi, e cui pur ora affissi
D’un cervo e testa e corna ad alta quercia;
{{R|295}}Dei, se infelice a me questa torrete
Peste crudel, che notte e dì mi strugge,
Io le purpuree e candide viole
Prime dell’orticello, e i bianchi gigli,
Le prime rose, ed i giacinti primi,
{{R|300}}Darò in serto odoroso ai vostri altari.
Ivi sorgea verde gramigna, e lasso
Ei si corcò, ciò detto, all’erba in mezzo.
Qui Calliroe la Dea, che al vicin fonte
Bagnavasi, con lene onda scorrendo
{{R|305}}Dal liquid’antro pei muscosi sassi,
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Del vivo argento, ch’à miranda possa,
Valgonsi i più: sia perchè il caldo e il freddo,
Ratto sente, onde presto il nostro foco
Riceve, e gli umor scioglie, e meglio agisce,
{{R|275}}Qual fiamma abbrucia più candente ferro:
Sia perchè l’acri particelle, ond’esso
Consta mirabilmente, svincolate
Come possan nei corpi entrar distinte,
Struggon tumori, ardon di peste i germi:
{{R|280}}Sia che il fato o natura altra gli desse
Virtù, dono è de’ Numi, e tal trovato
Di cui vo’ dire; e chi stupendi i doni
Può ridir degli Dei? — Là della Siria
Nell’alte valli, a glauche selve in mezzo
{{R|285}}Di salci ombrosi, u’ di Calliroe è il fonte,
Fama è che Ilceo, cultor d’orto agli agresti
Dei sacro, e di foreste, e cacciatore
Di belve, colto da cotanto morbo,
Il cipero annaffiando e la fragrante
{{R|290}}Selvetta della casia e dell’amomo,
Così pregasse: — O Dei, che sempre io stesso
O’ venerato, e tu Calliroe santa
Che i morbi fughi, e cui pur ora affissi
D’un cervo e testa e corna ad alta quercia;
{{R|295}}Dei, se infelice a me questa torrete
Peste crudel, che notte e dì mi strugge,
Io le purpuree e candide viole
Prime dell’orticello, e i bianchi gigli,
Le prime rose, ed i giacinti primi,
{{R|300}}Darò in serto odoroso ai vostri altari.
Ivi sorgea verde gramigna, e lasso
Ei si corcò, ciò detto, all’erba in mezzo.
Qui Calliroe la Dea, che al vicin fonte
Bagnavasi, con lene onda scorrendo
{{R|305}}Dal liquid’antro pei muscosi sassi,
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Del vivo argento, ch’à miranda possa,
Valgonsi i più: sia perchè il caldo e il freddo,
Ratto sente, onde presto il nostro foco
Riceve, e gli umor scioglie, e meglio agisce,
{{R|275}}Qual fiamma abbrucia più candente ferro:
Sia perchè l’acri particelle, ond’esso
Consta mirabilmente, svincolate
Come possan nei corpi entrar distinte,
Struggon tumori, ardon di peste i germi:
{{R|280}}Sia che il fato o natura altra gli desse
Virtù, dono è de’ Numi, e tal trovato
Di cui vo’ dire; e chi stupendi i doni
Può ridir degli Dei? — Là della Siria
Nell’alte valli, a glauche selve in mezzo
{{R|285}}Di salci ombrosi, u’ di Calliroe è il fonte,
Fama è che Ilceo, cultor d’orto agli agresti
Dei sacro, e di foreste, e cacciatore
Di belve, colto da cotanto morbo,
Il cipero annaffiando e la fragrante
{{R|290}}Selvetta della casia e dell’amomo,
Così pregasse: — O Dei, che sempre io stesso
O’ venerato, e tu Calliroe santa
Che i morbi fughi, e cui pur ora affissi
D’un cervo e testa e corna ad alta quercia;
{{R|295}}Dei, se infelice a me questa torrete
Peste crudel, che notte e dì mi strugge,
Io le purpuree e candide viole
Prime dell’orticello, e i bianchi gigli,
Le prime rose, ed i giacinti primi,
{{R|300}}Darò in serto odoroso ai vostri altari.
Ivi sorgea verde gramigna, e lasso
Ei si corcò, ciò detto, all’erba in mezzo.
Qui Calliroe la Dea, che al vicin fonte
Bagnavasi, con lene onda scorrendo
{{R|305}}Dal liquid’antro pei muscosi sassi,
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Col soave sussurro il senno infuse
Nel giovin sulla ripa ai salci in mezzo,
Ed ei dal sacro fiume uscir la vide,
Ed in sogno così dirgli pietosa:
{{R|310}}Ilceo, o dagli Dei nel mal estremo
Inteso, o tu mia cura, ovunque il Sole
Splenda nell’orbe, non sperar salute.
Trivia, e alla prece sua Febo, t’affligge
Pel sacro cervo che feristi al fiume,
{{R|315}}E per l’orrido capo ai tronchi nostri
Infitto: poi che esanime ella vide
La belva e il mozzo capo, e il suol del sacro
Sangue cosparso, empieo di lai la selva;
Maledisse all’autor. Di tanta suora
{{R|320}}Febo udì il prego, e peste immonda d’ambo
Per l’ire avesti, ovunque splenda il Sole,
Fuor d’aita: indi alla terra in fondo
Fra l’ombre déi cercar, se v’à, salute.
Sotto il monte vicin, da piante chiuso,
{{R|325}}V’à un antro per orror tremendo, dove
Sorge a Giove gran selva, in cui le cime
Dei cedri mandan rauco suon; quì vanne
Come rompa l’Aurora, e negra agnella
Supplice svena in su l’entrar: grand’Opi,
{{R|330}}Dicendo, a te la sveno; indi la Notte,
Le Ninfe, ignote Dee, gli Dei dei boschi,
D’atro cipresso e tia abbiano incenso.
E a te, che narri il caso, e invochi aita,
Non mancherà la Dea, che te nei sacri
{{R|335}}Del suol recessi adduca, e regga attenta.
Or sorgi, nè temer di sogno in questo:
Quella son io, che per i pingui colti,
Scorro con pure linfe, e tu conosci.
Disse, e presto l’azzurra onda l’ascose.
{{R|340}}Egli tolto al sopor mite, s’allegra
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Col soave sussurro il senno infuse
Nel giovin sulla ripa ai salci in mezzo,
Ed ei dal sacro fiume uscir la vide,
Ed in sogno così dirgli pietosa:
{{R|310}}Ilceo, o dagli Dei nel mal estremo
Inteso, o tu mia cura, ovunque il Sole
Splenda nell’orbe, non sperar salute.
Trivia, e alla prece sua Febo, t’affligge
Pel sacro cervo che feristi al fiume,
{{R|315}}E per l’orrido capo ai tronchi nostri
Infitto: poi che esanime ella vide
La belva e il mozzo capo, e il suol del sacro
Sangue cosparso, empieo di lai la selva;
Maledisse all’autor. Di tanta suora
{{R|320}}Febo udì il prego, e peste immonda d’ambo
Per l’ire avesti, ovunque splenda il Sole,
Fuor d’aita: indi alla terra in fondo
Fra l’ombre déi cercar, se v’à, salute.
:Sotto il monte vicin, da piante chiuso,
{{R|325}}V’à un antro per orror tremendo, dove
Sorge a Giove gran selva, in cui le cime
Dei cedri mandan rauco suon; quì vanne
Come rompa l’Aurora, e negra agnella
Supplice svena in su l’entrar: grand’Opi,
{{R|330}}Dicendo, a te la sveno; indi la Notte,
Le Ninfe, ignote Dee, gli Dei dei boschi,
D’atro cipresso e tia abbiano incenso.
E a te, che narri il caso, e invochi aita,
Non mancherà la Dea, che te nei sacri
{{R|335}}Del suol recessi adduca, e regga attenta.
Or sorgi, nè temer di sogno in questo:
Quella son io, che per i pingui colti,
Scorro con pure linfe, e tu conosci.
Disse, e presto l’azzurra onda l’ascose.
:{{R|340}}Egli tolto al sopor mite, s’allegra
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Del bene, e voti offre alla ninfa amica:
Sì che ovunque ti seguo, o del vicino
Fonte Calliroe diva; e come ruppe
Nuova l’aurora in ciel, nella di Giove
{{R|345}}Selva, sott’esso l’ardue rupi, l’antro
A sè dimostro entrò: la negra agnella
Ferma sul limitar, e tremebonda
La svena ad Opi, e a Te, grida, la sveno
Grand’Opi; indi la Notte; e della Nolle
{{R|350}}Le ignote Dive invoca, e già il cipresso
Atro, e ardeva la tia, quando una voce
Sotterra al sacro delle Ninfe orecchio
Giunse, di lor c’ànno i metalli in cura.
Tutte scuotonsi tosto, e lascian l’opre,
{{R|355}}Mentre liquidi zolfi, e vivo argento
Trattavano a ritrarne il fulgid’auro,
E li cuocean premendo in frigid’onda
Cento di foco spessi raggi, e d’etere
Abbruciato, e di terra e mar frantumi
{{R|360}}Mescean, semi sfuggenti ai guardi nostri.
Lipare intanto, Lipare che d’auro
E argento à cura, e i sacri arde bitumi,
Di sotterra ad Ilceo ratta sen viene
Per cieche vie; lo racconsola, e dice:
{{R|365}}Ilceo, poichè il tuo nome, ed il tuo morbo,
Ed a che vieni il so, caccia i timori.
Calliroe mia qui non ti manda invano:
Avrai salute della terra in fondo:
Fa core, e per le mute opache vie
{{R|370}}Seguimi, e duce avrai me stessa al fianco.
Sì disse, e l’antro cieco entrò la prima.
La segue egli, stupìto a quelle vaste
Vie della terra squallide in eterno,
Antri ognor ciechi, e sotterranei fiumi.
{{R|375}}Lipare allor: quant’ampia terra vedi
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Del bene, e voti offre alla ninfa amica:
Sì che ovunque ti seguo, o del vicino
Fonte Calliroe diva; e come ruppe
Nuova l’aurora in ciel, nella di Giove
{{R|345}}Selva, sott’esso l’ardue rupi, l’antro
A sè dimostro entrò: la negra agnella
Ferma sul limitar, e tremebonda
La svena ad Opi, e a Te, grida, la sveno
Grand’Opi; indi la Notte; e della Nolle
{{R|350}}Le ignote Dive invoca, e già il cipresso
Atro, e ardeva la tia, quando una voce
Sotterra al sacro delle Ninfe orecchio
Giunse, di lor c’ànno i metalli in cura.
Tutte scuotonsi tosto, e lascian l’opre,
{{R|355}}Mentre liquidi zolfi, e vivo argento
Trattavano a ritrarne il fulgid’auro,
E li cuocean premendo in frigid’onda
Cento di foco spessi raggi, e d’etere
Abbruciato, e di terra e mar frantumi
{{R|360}}Mescean, semi sfuggenti ai guardi nostri.
:Lipare intanto, Lipare che d’auro
E argento à cura, e i sacri arde bitumi,
Di sotterra ad Ilceo ratta sen viene
Per cieche vie; lo racconsola, e dice:
:{{R|365}}Ilceo, poichè il tuo nome, ed il tuo morbo,
Ed a che vieni il so, caccia i timori.
Calliroe mia qui non ti manda invano:
Avrai salute della terra in fondo:
Fa core, e per le mute opache vie
{{R|370}}Seguimi, e duce avrai me stessa al fianco.
Sì disse, e l’antro cieco entrò la prima.
La segue egli, stupìto a quelle vaste
Vie della terra squallide in eterno,
Antri ognor ciechi, e sotterranei fiumi.
{{R|375}}Lipare allor: quant’ampia terra vedi
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Di luce muta, a notte sacra, è sede
Di Numi, e n’à Proserpina il profondo,
L’alto i fonti, che fuor dagli antri sacri
Van per vie late romorosi al mare.
{{R|380}}Stan ricche Ninfe in mezzo, onde i metalli
Lucid’or, rame, argento origin ànno.
Ed una io delle suore a te pietosa
Ne vegno, io stessa, che per vie montane
Noti a Calliroe tua fumanti solfi
{{R|385}}Mando: fra terra e fumo ivano intanto. —
Ma già le fiamme crepitar, e i chiusi
Zolfi e di rame strider le fucine
S’odon: quest’è, la Vergin disse, terra
Del metal vario pregna, onde cotanto
{{R|390}}Cale a voi che del ciel l’aure beete.
Mille abitiam noi Dee quest’antri cupi,
Noi figlie della Notte e della Terra,
Piene d’arti e virtù: s’adopran l’une
L’acque a dedur, l’altre a cercar scintille
{{R|395}}E di commisto foco i germi ovunque:
Mescon materie quelle, oppongon queste
Alle masse ripari, e infondon l’acque.
Non lunge a canne aperte etnei Ciclopi
Àn le fucine, e cuocono, e riversano,
{{R|400}}Vulcan stride, e il metal sonante battono.
La manca interna via conduce ad essi:
Ma del rio sacro la diritta all’onde,
Onde d’argento e di metallo vivo,
Speme a salute. — E già tenean le aurate
{{R|405}}Volte, e di spodio le mura grommate,
E di fuligo e glauco zolfo intorno.
Già del liquido argento agli ampii laghi
Stavansi presso, e ne tenean le sponde.
E qui di tanti guai ritrovi il fine,
{{R|410}}Lipare aggiunge; per tre volte asperso
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Di luce muta, a notte sacra, è sede
Di Numi, e n’à Proserpina il profondo,
L’alto i fonti, che fuor dagli antri sacri
Van per vie late romorosi al mare.
{{R|380}}Stan ricche Ninfe in mezzo, onde i metalli
Lucid’or, rame, argento origin ànno.
Ed una io delle suore a te pietosa
Ne vegno, io stessa, che per vie montane
Noti a Calliroe tua fumanti solfi
{{R|385}}Mando: fra terra e fumo ivano intanto. —
Ma già le fiamme crepitar, e i chiusi
Zolfi e di rame strider le fucine
S’odon: quest’è, la Vergin disse, terra
Del metal vario pregna, onde cotanto
{{R|390}}Cale a voi che del ciel l’aure beete.
Mille abitiam noi Dee quest’antri cupi,
Noi figlie della Notte e della Terra,
Piene d’arti e virtù: s’adopran l’une
L’acque a dedur, l’altre a cercar scintille
{{R|395}}E di commisto foco i germi ovunque:
Mescon materie quelle, oppongon queste
Alle masse ripari, e infondon l’acque.
Non lunge a canne aperte etnei Ciclopi
Àn le fucine, e cuocono, e riversano,
{{R|400}}Vulcan stride, e il metal sonante battono.
La manca interna via conduce ad essi:
Ma del rio sacro la diritta all’onde,
Onde d’argento e di metallo vivo,
Speme a salute. — E già tenean le aurate
{{R|405}}Volte, e di spodio le mura grommate,
E di fuligo e glauco zolfo intorno.
Già del liquido argento agli ampii laghi
Stavansi presso, e ne tenean le sponde.
E qui di tanti guai ritrovi il fine,
{{R|410}}Lipare aggiunge; per tre volte asperso
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Del sacro fiume, attufferansi in quello.
Disse, e tre volte del salubre argento
L’asperge; tre colla virginea mano
D’acqua, e terge tre volte il corpo tutto
{{R|410}}Del giovane, che ammira, e sè mondato,
E lasciata la rea peste nel fiume.
Dunque tosto che t’abbia il ciel più puro,
Ed il nitido giorno, e il Sol vedrai,
Alla casta Diana, e l’ara appresta
{{R|420}}Del loco ai Numi, e dell’amico fonte.
La Vergin disse, e il giovane che a tanto
Dono grazie porgea, dal sen di notte
Tolto, sano rediva al dì bramato.
La nuova fama acquistò fede, e ovunque
{{R|425}}Disse certo il rimedio, onde da pria
Sugna porcina a fluido argento unissi;
Indi d’Oricio terebinto pece,
E di larice aerio; altri usa ancora
D’orso o cavallo il grasso, o bdelio, o cedria.
{{R|430}}Altri gocce di mirra, o incenso maschio
V’aggiunge, o rosso minio e zolfo vivo.
Nè spiace a me se alcun tritura, e mesce
L’iri esiccante, il galbano, l’elleboro
Graveolente, il lasero, e il salubre
{{R|435}}Di lentisco olio, e zolfo ignoto al foco.
Or ungerne, e coprirti il corpo tutto
Turpe nè osceno ti rassembri, un male
Fuggi così, di cui nulla è più sozzo;
Sol che i molli precordii e salvi il capo.
{{R|440}}Cinganti allor velli di stoppia e fascie;
Molte sul letto poi coltre t’imponi,
Sì che impuro il sudor stilli dal corpo:
Tanto basti iterar per giorni dieci.
Aspro; ma è da soffrir quant’egli è d’uopo.
{{R|445}}Fa cor; certa salute ài già da presso.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||95}}</noinclude><poem>
Del sacro fiume, attufferansi in quello.
Disse, e tre volte del salubre argento
L’asperge; tre colla virginea mano
D’acqua, e terge tre volte il corpo tutto
{{R|410}}Del giovane, che ammira, e sè mondato,
E lasciata la rea peste nel fiume.
:Dunque tosto che t’abbia il ciel più puro,
Ed il nitido giorno, e il Sol vedrai,
Alla casta Diana, e l’ara appresta
{{R|420}}Del loco ai Numi, e dell’amico fonte.
:La Vergin disse, e il giovane che a tanto
Dono grazie porgea, dal sen di notte
Tolto, sano rediva al dì bramato.
:La nuova fama acquistò fede, e ovunque
{{R|425}}Disse certo il rimedio, onde da pria
Sugna porcina a fluido argento unissi;
Indi d’Oricio terebinto pece,
E di larice aerio; altri usa ancora
D’orso o cavallo il grasso, o bdelio, o cedria.
{{R|430}}Altri gocce di mirra, o incenso maschio
V’aggiunge, o rosso minio e zolfo vivo.
Nè spiace a me se alcun tritura, e mesce
L’iri esiccante, il galbano, l’elleboro
Graveolente, il lasero, e il salubre
{{R|435}}Di lentisco olio, e zolfo ignoto al foco.
:Or ungerne, e coprirti il corpo tutto
Turpe nè osceno ti rassembri, un male
Fuggi così, di cui nulla è più sozzo;
Sol che i molli precordii e salvi il capo.
{{R|440}}Cinganti allor velli di stoppia e fascie;
Molte sul letto poi coltre t’imponi,
Sì che impuro il sudor stilli dal corpo:
Tanto basti iterar per giorni dieci.
Aspro; ma è da soffrir quant’egli è d’uopo.
{{R|445}}Fa cor; certa salute ài già da presso.
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Vedi negli escrementi il mal si stempra!
Assiduo sputo ti spumeggia in bocca,
E largo ai piedi tuoi fiume di tabe.
Brutte macchino pur ulceri il volto,
{{R|450}}E tu il bagna con latte, o vuoi con succo
Di spocistìde e di ligustro verde:
Ed or Falerno generoso e Chio,
E spumante in gran nappo il Rezio assento.
Ma già vincesti, e la salute è teco:
{{R|455}}Ti resta una sol cura, e blanda al tutto:
Con stecade, e lavar il corpo e gli arti
Con rosmarin, sacra verbena, e chiome
Amaracine, ed eraclei profumi.
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Vedi negli escrementi il mal si stempra!
Assiduo sputo ti spumeggia in bocca,
E largo ai piedi tuoi fiume di tabe.
Brutte macchino pur ulceri il volto,
{{R|450}}E tu il bagna con latte, o vuoi con succo
Di spocistìde e di ligustro verde:
Ed or Falerno generoso e Chio,
E spumante in gran nappo il Rezio assento.
:Ma già vincesti, e la salute è teco:
{{R|455}}Ti resta una sol cura, e blanda al tutto:
Con stecade, e lavar il corpo e gli arti
Con rosmarin, sacra verbena, e chiome
Amaracine, ed eraclei profumi.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude>LIBRO III.
<poem>
Ma più felici ormai le selve, e i colli
Del nuov’orbe mi chiamano; da lunge
Risuona il mar oltre l’Erculea meta,
E plaudono remoti i lidi: or canto
{{R|5}}Il gran dono dei Numi, e te da ignoto
Mondo condotta o sacra planta, cui
Dato è impor fine al duolo. — Urania Diva
Venera il sacro bosco, e il crin ricinta
Di nuova fronda, ed in medico ammanto,
{{R|10}}Va mostrando pel Lazio i santi rami.
E me giovi cantar cose non viste
Dai nostri padri, o celebrate unquanco.
Forse avverrà, che alcun preso all’incanto
Di novitade, e a dir uso altre geste,
{{R|15}}Canti le poppe con migliori auspicii
Ose i rischi tentar di Oceano intatto.
Ei dirà pur le terre e i fiumi varii,
E le città, e le genti, e i visti mostri,
Le misurate zone, e le nascenti
{{R|20}}Stelle nell’altro ciel, Arto fra tutte:
Poi le nuove battaglie, ed i vessilli
Dal nuovo orbe recati, e leggi, e nomi.
Canti (nè il crederan l’età venture)
Quanto dell’Ocean l’onda comprende
{{R|25}}Sol da una prora misurato e corso.
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<poem>
Ma più felici ormai le selve, e i colli
Del nuov’orbe mi chiamano; da lunge
Risuona il mar oltre l’Erculea meta,
E plaudono remoti i lidi: or canto
{{R|5}}Il gran dono dei Numi, e te da ignoto
Mondo condotta o sacra planta, cui
Dato è impor fine al duolo. — Urania Diva
Venera il sacro bosco, e il crin ricinta
Di nuova fronda, ed in medico ammanto,
{{R|10}}Va mostrando pel Lazio i santi rami.
E me giovi cantar cose non viste
Dai nostri padri, o celebrate unquanco.
:Forse avverrà, che alcun preso all’incanto
Di novitade, e a dir uso altre geste,
{{R|15}}Canti le poppe con migliori auspicii
Ose i rischi tentar di Oceano intatto.
Ei dirà pur le terre e i fiumi varii,
E le città, e le genti, e i visti mostri,
Le misurate zone, e le nascenti
{{R|20}}Stelle nell’altro ciel, Arto fra tutte:
Poi le nuove battaglie, ed i vessilli
Dal nuovo orbe recati, e leggi, e nomi.
Canti (nè il crederan l’età venture)
Quanto dell’Ocean l’onda comprende
{{R|25}}Sol da una prora misurato e corso.
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<poem>
:{{Sx-larger|M}}a più felici ormai le selve, e i colli
Del nuov’orbe mi chiamano; da lunge
Risuona il mar oltre l’Erculea meta,
E plaudono remoti i lidi: or canto
{{R|5}}Il gran dono dei Numi, e te da ignoto
Mondo condotta o sacra planta, cui
Dato è impor fine al duolo. — Urania Diva
Venera il sacro bosco, e il crin ricinta
Di nuova fronda, ed in medico ammanto,
{{R|10}}Va mostrando pel Lazio i santi rami.
E me giovi cantar cose non viste
Dai nostri padri, o celebrate unquanco.
:Forse avverrà, che alcun preso all’incanto
Di novitade, e a dir uso altre geste,
{{R|15}}Canti le poppe con migliori auspicii
Ose i rischi tentar di Oceano intatto.
Ei dirà pur le terre e i fiumi varii,
E le città, e le genti, e i visti mostri,
Le misurate zone, e le nascenti
{{R|20}}Stelle nell’altro ciel, Arto fra tutte:
Poi le nuove battaglie, ed i vessilli
Dal nuovo orbe recati, e leggi, e nomi.
Canti (nè il crederan l’età venture)
Quanto dell’Ocean l’onda comprende
{{R|25}}Sol da una prora misurato e corso.
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Felice cui tanto donasse un Dio!
D’una sol pianta dir le forze e l’uso
È per me assai, dove scoperta, e come
Strania per tanto mare a noi sia giunta.
{{R|30}}Nell’ampio Ocrano sotto il Cancro ardente
Dove a mezza la notte il Sole a noi
Celasi, quasi ignota avvi a gran tratto
Un’isola che Ispana i scopritori
Disser, ferace in ôr, ma ben più ricca
{{R|35}}Per l’albero che Jaco in sermon patrio
Chiamano. — Liscio egli è; dall’alta cima
Sempre verde chiomata, a grande selva,
Spande di foglie, e piccoletta ed acre
Pende una noce da’ suoi rami in copia.
{{R|40}}N’è dura la materia emula al ferro,
E i tronchi sudan forte ragia al foco.
Tagliati àn color vario; alla corteccia
Verdeggia il lauro pel di fuori, e dentro
À di bosso pallor, fosco è il midollo,
{{R|45}}Fra l’ebano e la noce, e se il vermiglio
Non mancasse, emular l’Iri potrebbe.
Studian le genti a cultivarla assai,
E pianta ell’è, che i colli e i campi aperti
Ovunque veste, nè più santa cosa,
{{R|50}}Nè cara più, àn quelle genti tutte;
Che in quella il Ciel contre la peste pose,
E perpetua, la speme: i grossi rami
Battono forte di corteccia mondi,
O scheggie fan, che immerse in puro fonte
{{R|55}}Beon l’umore, che notte e dì le macera:
Cuoconle poi, nè minor cura àn dessi,
Che l’acqua a caso non infurii, e spanda
La spuma, che soverchia al foco in mezzo.
Ungon di spuma in ver quanto d’immondo
{{R|60}}Resti pel corpo, e l’egre membra strugga.
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Felice cui tanto donasse un Dio!
D’una sol pianta dir le forze e l’uso
È per me assai, dove scoperta, e come
Strania per tanto mare a noi sia giunta.
:{{R|30}}Nell’ampio Ocrano sotto il Cancro ardente
Dove a mezza la notte il Sole a noi
Celasi, quasi ignota avvi a gran tratto
Un’isola che Ispana i scopritori
Disser, ferace in ôr, ma ben più ricca
{{R|35}}Per l’albero che Jaco in sermon patrio
Chiamano. — Liscio egli è; dall’alta cima
Sempre verde chiomata, a grande selva,
Spande di foglie, e piccoletta ed acre
Pende una noce da’ suoi rami in copia.
{{R|40}}N’è dura la materia emula al ferro,
E i tronchi sudan forte ragia al foco.
Tagliati àn color vario; alla corteccia
Verdeggia il lauro pel di fuori, e dentro
À di bosso pallor, fosco è il midollo,
{{R|45}}Fra l’ebano e la noce, e se il vermiglio
Non mancasse, emular l’Iri potrebbe.
Studian le genti a cultivarla assai,
E pianta ell’è, che i colli e i campi aperti
Ovunque veste, nè più santa cosa,
{{R|50}}Nè cara più, àn quelle genti tutte;
Che in quella il Ciel contre la peste pose,
E perpetua, la speme: i grossi rami
Battono forte di corteccia mondi,
O scheggie fan, che immerse in puro fonte
{{R|55}}Beon l’umore, che notte e dì le macera:
Cuoconle poi, nè minor cura àn dessi,
Che l’acqua a caso non infurii, e spanda
La spuma, che soverchia al foco in mezzo.
Ungon di spuma in ver quanto d’immondo
{{R|60}}Resti pel corpo, e l’egre membra strugga.
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La metà presa del divino umore
Ne ripongono il resto; anzi i frammenti
Ricuoprono qual prima, e mel soave
V’aggiungono, che sol questa alle mense
{{R|65}}Bevanda assenton sacerdoti e leggi.
Due bicchier poscia del decotto prima
Beono a più dì, quando Lucifer esce,
E quando tardo in ciel Vespero spunta.
Nè cessan pria, che il suo corso mensile,
{{R|70}}E non compia la Luna intero il giro,
Ch’emulo aggiunga le fraterne bighe.
Celansi intanto entro ai recessi oscuri,
Ve’ non forza di vento, o d’aer fiato
Penetri, e offenda con gelato spiro.
{{R|75}}Che rammentar sopra ogni cosa quanto
Sottil vitto e digiuno ognun s’imponga?
Che loro è assai n’abbia alimento il corpo
A viver solo, nè a mancar di lena.
Pur tanto ah non temer! che il sacro umore
{{R|80}}Le forze, qual ambrosia, anima ed erge;
E le membra digiune occulto pasce.
Appresso il ber, per due sol ore, sotto
Stanno alle coltri, onde il rimedio addentro
Scorra, e sudor dal caldo corpo sprema:
{{R|85}}Nel vano äer così sfuma la peste:
E neppur macchia, o meraviglia! resta.
Ulceri più non v’ànno, il duol partio,
Dalle membra tornate a giovanezza,
E in questo il giro suo Cinzia rinnova.
{{R|90}}Qual Dio quest’usi a quelle genti noti,
E qual caso o destin li trasse a noi,
Ond’anco avemmo il prezioso legno,
Ora dirò. — Di Nereo i seni ascosi
Mossi a cercar dove si corca il Sole,
{{R|95}}Calpe lasciata, e i patrii lidi, il vasto
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La metà presa del divino umore
Ne ripongono il resto; anzi i frammenti
Ricuoprono qual prima, e mel soave
V’aggiungono, che sol questa alle mense
{{R|65}}Bevanda assenton sacerdoti e leggi.
Due bicchier poscia del decotto prima
Beono a più dì, quando Lucifer esce,
E quando tardo in ciel Vespero spunta.
Nè cessan pria, che il suo corso mensile,
{{R|70}}E non compia la Luna intero il giro,
Ch’emulo aggiunga le fraterne bighe.
Celansi intanto entro ai recessi oscuri,
Ve’ non forza di vento, o d’aer fiato
Penetri, e offenda con gelato spiro.
{{R|75}}Che rammentar sopra ogni cosa quanto
Sottil vitto e digiuno ognun s’imponga?
Che loro è assai n’abbia alimento il corpo
A viver solo, nè a mancar di lena.
Pur tanto ah non temer! che il sacro umore
{{R|80}}Le forze, qual ambrosia, anima ed erge;
E le membra digiune occulto pasce.
Appresso il ber, per due sol ore, sotto
Stanno alle coltri, onde il rimedio addentro
Scorra, e sudor dal caldo corpo sprema:
{{R|85}}Nel vano äer così sfuma la peste:
E neppur macchia, o meraviglia! resta.
Ulceri più non v’ànno, il duol partio,
Dalle membra tornate a giovanezza,
E in questo il giro suo Cinzia rinnova.
:{{R|90}}Qual Dio quest’usi a quelle genti noti,
E qual caso o destin li trasse a noi,
Ond’anco avemmo il prezioso legno,
Ora dirò. — Di Nereo i seni ascosi
Mossi a cercar dove si corca il Sole,
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Ocëano fendeano i pini arditi
Per ignoto cammino errando a lungo.
Le Nereidi muoveano ad essi intorno,
Mostri del nuovo mar, nuotando in frotta,
{{R|100}}E stupiano in veder le poppe eccelse,
E le volanti in mar vele dipinte.
Notte era, e in puro ciel splendea la Luna,
Chiaro spargente sulle tremul’onde:
Quando l’Eroe dai fati a tanto eletto,
{{R|105}}Duce di flotta in onde vaste errante:
O tu Luna, sclamò, che ai flutti imperi,
Che nel nostro cammin due volte il corno
Mostrasti curvo, e pien sull’aurea fronte,
Dacchè terra non vedesi; o del Cielo
{{R|110}}E della Notte onor, Vergin Latonia,
Deh! toccar danne sospirato un porto.
Ella udì il priego, e per l’aere labendo
In Nereide mutossi, e, qual Cimotoe
O Cloto, stette della nave appresso,
{{R|115}}E, nuotante a fior d’onda, a dir imprese:
Navi mie, non temete: all’indomane
Terra e porto fidalo aver potrete.
Ma non v’arresti il primo lido: il fato
Oltre d’assai vi chiama; al mar in mezzo
{{R|120}}V’à grande isola Ofiri; a lei sia il corso,
E sede avrete e impero. — In così dire
Urta il pino: egli il mar rapido fende. —
Facili spiran l’aure, e già dall’onde
Sorgeva il Sol, quando da lunge ombrosi
{{R|125}}Spuntano i colli, e terra è presso: un grido
Dei nocchieri alla terra invia il saluto,
Alla terra bramata, e in porto amico
Giunti, ai pietosi Dei sciolgono i voti,
E curan l’egre navi, e i corpi lassi.
{{R|130}}Indi al dì quarto, poi che al mar le vele
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Ocëano fendeano i pini arditi
Per ignoto cammino errando a lungo.
Le Nereidi muoveano ad essi intorno,
Mostri del nuovo mar, nuotando in frotta,
{{R|100}}E stupiano in veder le poppe eccelse,
E le volanti in mar vele dipinte.
:Notte era, e in puro ciel splendea la Luna,
Chiaro spargente sulle tremul’onde:
Quando l’Eroe dai fati a tanto eletto,
{{R|105}}Duce di flotta in onde vaste errante:
O tu Luna, sclamò, che ai flutti imperi,
Che nel nostro cammin due volte il corno
Mostrasti curvo, e pien sull’aurea fronte,
Dacchè terra non vedesi; o del Cielo
{{R|110}}E della Notte onor, Vergin Latonia,
Deh! toccar danne sospirato un porto.
Ella udì il priego, e per l’aere labendo
In Nereide mutossi, e, qual Cimotoe
O Cloto, stette della nave appresso,
{{R|115}}E, nuotante a fior d’onda, a dir imprese:
Navi mie, non temete: all’indomane
Terra e porto fidalo aver potrete.
Ma non v’arresti il primo lido: il fato
Oltre d’assai vi chiama; al mar in mezzo
{{R|120}}V’à grande isola Ofiri; a lei sia il corso,
E sede avrete e impero. — In così dire
Urta il pino: egli il mar rapido fende. —
Facili spiran l’aure, e già dall’onde
Sorgeva il Sol, quando da lunge ombrosi
{{R|125}}Spuntano i colli, e terra è presso: un grido
Dei nocchieri alla terra invia il saluto,
Alla terra bramata, e in porto amico
Giunti, ai pietosi Dei sciolgono i voti,
E curan l’egre navi, e i corpi lassi.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Noto invitò, diero di piglio ai remi;
Lieti a rivalicar l’onde cerulee.
Lasciano Antilia, in dubbio mar natante
L’alta Ammeria, ed Agìa, dei Caniballi
{{R|135}}L’infame terra, e la silvestre Giane.
Ed ecco d’alte torri isole ornate,
Molte scoprono in mar; una fra queste
Folta di selve opache, risuonante
D’un fiume al corso, che nel vasto letto
{{R|140}}Fulgide arene d’oro al mar travolve.
Piace a questa drizzar le curve poppe,
Poichè invitanvi i boschi e l’onde pure.
Presto del verde suol messi al possesso
Salutan pria la terra ignota, e il Genio,
{{R|145}}E le Ninfe del loco, e te che d’auro
Con nitid’onde, o Fiume, al mar trascorri.
Quindi la dura Cerere, e il natio
Bacco spacciato sull’erboso lito,
Chi cerca uom ch’ivi sia, chi d’ôr l’arene.
{{R|150}}Pei rami ombrosi della selva a caso
Svolazzava d’augei schiera che pinta
In ceruleo le piume, e in rosso il rostro,
Giva secura pel natio boschetto.
Come una man di giovani la vide
{{R|155}}Per l’alta selva; palle orrende, e, imago
Del fulmine, lo schioppo impugnan, tuo
Ritrovato o Vulcan, ch’armi i Teutoni,
E agli uomini lo stral rechi di Giove.
Ed ecco ognun l’augel segna cui cogliere;
{{R|160}}Poi nitro, e zolfo, e cenere, di salcio
Calca nell’arma, cui favilla accostasi.
L’ignea forza costretta al foco subito
Accendesi, dilatasi, senz’obice
Spinge la palla inclusa, e questa stridula
{{R|165}}Fende l’aria: qua e la cadono esanimi
</poem><noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||107}}</noinclude><poem>
Noto invitò, diero di piglio ai remi;
Lieti a rivalicar l’onde cerulee.
Lasciano Antilia, in dubbio mar natante
L’alta Ammeria, ed Agìa, dei Caniballi
{{R|135}}L’infame terra, e la silvestre Giane.
Ed ecco d’alte torri isole ornate,
Molte scoprono in mar; una fra queste
Folta di selve opache, risuonante
D’un fiume al corso, che nel vasto letto
{{R|140}}Fulgide arene d’oro al mar travolve.
Piace a questa drizzar le curve poppe,
Poichè invitanvi i boschi e l’onde pure.
Presto del verde suol messi al possesso
Salutan pria la terra ignota, e il Genio,
{{R|145}}E le Ninfe del loco, e te che d’auro
Con nitid’onde, o Fiume, al mar trascorri.
Quindi la dura Cerere, e il natio
Bacco spacciato sull’erboso lito,
Chi cerca uom ch’ivi sia, chi d’ôr l’arene.
:{{R|150}}Pei rami ombrosi della selva a caso
Svolazzava d’augei schiera che pinta
In ceruleo le piume, e in rosso il rostro,
Giva secura pel natio boschetto.
Come una man di giovani la vide
{{R|155}}Per l’alta selva; palle orrende, e, imago
Del fulmine, lo schioppo impugnan, tuo
Ritrovato o Vulcan, ch’armi i Teutoni,
E agli uomini lo stral rechi di Giove.
Ed ecco ognun l’augel segna cui cogliere;
{{R|160}}Poi nitro, e zolfo, e cenere, di salcio
Calca nell’arma, cui favilla accostasi.
L’ignea forza costretta al foco subito
Accendesi, dilatasi, senz’obice
Spinge la palla inclusa, e questa stridula
{{R|165}}Fende l’aria: qua e la cadono esanimi
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Gli augei colpiti; il ciel di lampi infiammasi,
E il tuono è tal che poggi e colli concavi,
E percossi dal mar gli antri rintronano. —
Parte allor degli uccelli al bosco folto,
{{R|170}}Parte fugge atterrita agli ardui scogli.
Ed uno, o meraviglia! empie gli orecchi
Di terribili accenti, e a dir imprende:
Voi che del Sol violate i sacri augelli,
Esperii, or voi quello che il grande Apollo
{{R|175}}Vi canta, e di mia bocca io reco, udite:
Voi, benchè ignari, ai lungamente cerchi
Liti d’Ofiri, aura seconda addusse;
Ma soggettar le nuove terre, e questi
A lunga libertà popoli avvezzi,
{{R|180}}E cittadi fondarvi, e culto nuovo,
Potrete sol, dopo di terra e mare
Stenti infiniti, ed aspre guerre, e molti
Corpi sepolti nell’estrania terra.
Tornar, perse le navi, in patria pochi
{{R|185}}Potrete, e i socii rivarcato il mare
Altri non troveran; quì pur Ciclopi
Non mancheranno; vi trarrà discordia
All’ire, all’armi, e già s’appressa il giorno
In cui di morbo ignoto il corpo infetti,
{{R|190}}Per aiuto verrete a questa selva,
Finchè vi dolga il fallir vostro. Tacque,
E s’avvolse stridendo all’ombre in seno.
Abbrividir repente; impallidiro,
E il sangue lor fredda paura strinse.
{{R|195}}Allor, pregati i sacri augelli e i Numi,
Prima adorano il Sole, e della selva
Santa gli Dei custodi, e chieggon pace,
Di nuovo salutando Ofiri e il fiume.
Bruna il volto ed il crin vien dalla selva
{{R|200}}Nuova d’uomini intanto inerme turba,
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Alex brollo
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||109}}</noinclude><poem>
Gli augei colpiti; il ciel di lampi infiammasi,
E il tuono è tal che poggi e colli concavi,
E percossi dal mar gli antri rintronano. —
Parte allor degli uccelli al bosco folto,
{{R|170}}Parte fugge atterrita agli ardui scogli.
Ed uno, o meraviglia! empie gli orecchi
Di terribili accenti, e a dir imprende:
:Voi che del Sol violate i sacri augelli,
Esperii, or voi quello che il grande Apollo
{{R|175}}Vi canta, e di mia bocca io reco, udite:
Voi, benchè ignari, ai lungamente cerchi
Liti d’Ofiri, aura seconda addusse;
Ma soggettar le nuove terre, e questi
A lunga libertà popoli avvezzi,
{{R|180}}E cittadi fondarvi, e culto nuovo,
Potrete sol, dopo di terra e mare
Stenti infiniti, ed aspre guerre, e molti
Corpi sepolti nell’estrania terra.
Tornar, perse le navi, in patria pochi
{{R|185}}Potrete, e i socii rivarcato il mare
Altri non troveran; quì pur Ciclopi
Non mancheranno; vi trarrà discordia
All’ire, all’armi, e già s’appressa il giorno
In cui di morbo ignoto il corpo infetti,
{{R|190}}Per aiuto verrete a questa selva,
Finchè vi dolga il fallir vostro. Tacque,
E s’avvolse stridendo all’ombre in seno.
Abbrividir repente; impallidiro,
E il sangue lor fredda paura strinse.
:{{R|195}}Allor, pregati i sacri augelli e i Numi,
Prima adorano il Sole, e della selva
Santa gli Dei custodi, e chieggon pace,
Di nuovo salutando Ofiri e il fiume.
Bruna il volto ed il crin vien dalla selva
{{R|200}}Nuova d’uomini intanto inerme turba,
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Nuda il petto, di fronde intorno cinta
Pacifiche, e le navi, immense moli,
L’armi lucenti, e le vesti ammirando,
Non ristà dal veder: scesi dal cielo
{{R|205}}Uomini, Numi, o Eroi, ne stima, e porge,
Qual chi adora, di preci a noi saluto.
Prima allo stesso Re, cui doni lieti
Di biade e d’auro per le rive colto,
E natie recan frutta e puro mele.
{{R|210}}Essi di nostre vesti, e doni molti
Presentati, alla gioia e al ber si danno;
Come se a mensa, e dei Celesti al cibo,
Felice a diventar l’uomo chiamato,
Beva nettare eterno in tazze dive.
{{R|215}}D’ambe parti così gli animi stretti
In secura amistà, s’unir le genti:
Gli stessi Re fra lor lieti sul lido
Stringon le destre, e l’alleanza insieme.
L’uno lieve cotone al fianco e al petto
{{R|220}}Porta, e verde smeraldo il lembo n’orna:
Bruno in volto; à la destra acuto dardo;
Tien la manca di drago irta una spoglia.
Veste guarnacca d’or l’altro, cui sotto
Splendono fulgid’arme; un elmo à in testa
{{R|225}}Di rame, cui dipinte ornan le piume.
Aureo cinge smaniglio al niveo collo,
E gli pende dal fianco il brando Ibero.
E già i popoli uniti, ospitalmente
Questi alle case e quelli all’alte navi,
{{R|230}}Passano in giochi e fra i bicchieri i giorni.
Una festa cadeva, ed annuo un rito
Al Sol vendicator nel bosco ombroso,
Già d’Esperia e d’Ofiri ogn’uom v’accorre.
Di valle curva in su le sponde erbose
{{R|235}}Qui accalcate le madri ed i mariti,
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Nuda il petto, di fronde intorno cinta
Pacifiche, e le navi, immense moli,
L’armi lucenti, e le vesti ammirando,
Non ristà dal veder: scesi dal cielo
{{R|205}}Uomini, Numi, o Eroi, ne stima, e porge,
Qual chi adora, di preci a noi saluto.
Prima allo stesso Re, cui doni lieti
Di biade e d’auro per le rive colto,
E natie recan frutta e puro mele.
{{R|210}}Essi di nostre vesti, e doni molti
Presentati, alla gioia e al ber si danno;
Come se a mensa, e dei Celesti al cibo,
Felice a diventar l’uomo chiamato,
Beva nettare eterno in tazze dive.
{{R|215}}D’ambe parti così gli animi stretti
In secura amistà, s’unir le genti:
Gli stessi Re fra lor lieti sul lido
Stringon le destre, e l’alleanza insieme.
:L’uno lieve cotone al fianco e al petto
{{R|220}}Porta, e verde smeraldo il lembo n’orna:
Bruno in volto; à la destra acuto dardo;
Tien la manca di drago irta una spoglia.
Veste guarnacca d’or l’altro, cui sotto
Splendono fulgid’arme; un elmo à in testa
{{R|225}}Di rame, cui dipinte ornan le piume.
Aureo cinge smaniglio al niveo collo,
E gli pende dal fianco il brando Ibero.
:E già i popoli uniti, ospitalmente
Questi alle case e quelli all’alte navi,
{{R|230}}Passano in giochi e fra i bicchieri i giorni.
:Una festa cadeva, ed annuo un rito
Al Sol vendicator nel bosco ombroso,
Già d’Esperia e d’Ofiri ogn’uom v’accorre.
Di valle curva in su le sponde erbose
{{R|235}}Qui accalcate le madri ed i mariti,
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Popolo, padri, vecchi, e giovanetti
Mesti assisteano colle membra infette,
Brutte per croste, e per tabe gemente.
Con ramuscello d’Iaco un Sacerdote
{{R|240}}D’onda pura li asperge in veste bianca.
Poi svena bianco un bove all’ara innante,
E col sangue di quel, posto ivi presso,
Ne cosparge un pastore: al Sol potente
Sciolgonsi gli inni armonïosi, e tutti
{{R|245}}Fan prova di svenar pecore e porci,
Le viscere arrostir, mangiar sull’erba.
Stupiron gli Europej del rito arcano,
E del contagio non pria visto unquanco.
Ma il Duce lor, gravi pensier volgendo,
{{R|250}}Quest’è il mal, seco disse — (o ciel ne scampa!) —
Che accennommi del Sol la profetessa.
Indi al rege stranier (già detti e lingua
Avean comune) a qual Dio spetti chiede,
La festa, e a che la tanta in quella valle
{{R|255}}D’infermi schiera miseranda, e all’ara
Perchè un pastor di bovin sangue intriso,
Cui: Fortissimo o tu di prodi Ispani
Duce, il re disse, è nostro rito offrire
Annuo a vindice Nume un sagrifizio:
{{R|260}}N’è l’origine antica, e gli avi a noi
Lo tramandar; pur se gli estranei casi
Udir ti giova, t’aprirò le prime
Cause del rito e della tabe infanda.
Forse che infino a voi d’Atlante venne,
{{R|265}}E dell’antica sua progenie il nome:
Noi pur da lui per lungo ordin venuti
Siamo. Ed oh un tempo popolo felice,
Caro agli Iddii, sin che devoti e grati
Ad essi gli avi fur! Ma poi che i Numi,
{{R|270}}Pel fasto dei nepoti, ebbersi a scherno;
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||113}}</noinclude><poem>
Popolo, padri, vecchi, e giovanetti
Mesti assisteano colle membra infette,
Brutte per croste, e per tabe gemente.
Con ramuscello d’Iaco un Sacerdote
{{R|240}}D’onda pura li asperge in veste bianca.
Poi svena bianco un bove all’ara innante,
E col sangue di quel, posto ivi presso,
Ne cosparge un pastore: al Sol potente
Sciolgonsi gli inni armonïosi, e tutti
{{R|245}}Fan prova di svenar pecore e porci,
Le viscere arrostir, mangiar sull’erba.
:Stupiron gli Europej del rito arcano,
E del contagio non pria visto unquanco.
Ma il Duce lor, gravi pensier volgendo,
{{R|250}}Quest’è il mal, seco disse — (o ciel ne scampa!) —
Che accennommi del Sol la profetessa.
Indi al rege stranier (già detti e lingua
Avean comune) a qual Dio spetti chiede,
La festa, e a che la tanta in quella valle
{{R|255}}D’infermi schiera miseranda, e all’ara
Perchè un pastor di bovin sangue intriso,
Cui: Fortissimo o tu di prodi Ispani
Duce, il re disse, è nostro rito offrire
Annuo a vindice Nume un sagrifizio:
{{R|260}}N’è l’origine antica, e gli avi a noi
Lo tramandar; pur se gli estranei casi
Udir ti giova, t’aprirò le prime
Cause del rito e della tabe infanda.
:Forse che infino a voi d’Atlante venne,
{{R|265}}E dell’antica sua progenie il nome:
Noi pur da lui per lungo ordin venuti
Siamo. Ed oh un tempo popolo felice,
Caro agli Iddii, sin che devoti e grati
Ad essi gli avi fur! Ma poi che i Numi,
{{R|270}}Pel fasto dei nepoti, ebbersi a scherno;
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Da quel di quanta la miseria, e quante
Le sventure, ridir mal io potrei.
Scosse Atlantide allor — isola detta
Dall’antico suo re, — grande un tremuoto,
{{R|275}}E dall’onde sparì ch’ella solcava
Donna di terra e mar, con navi mille.
De’ quadrupedi allor perir per sempre,
E le torme, e le gregge; invan lo studio
Del reintegrarle più: l’ostia straniera
{{R|280}}Bagna l’altare di straniero sangue.
E cotal peste pur lurida invase
I nostri corpi allora, e niuno, o pochi
La scampar, che, adirati i Numi, Apollo,
Piomba dal cielo, e le città devasta.
{{R|285}}Quindi con nuovo rito a tanta festa
Gli avi principio diero, e come, or dico:
A questi fiumi Sifilo pastore,
Fama tal è, mille adduceva i bovi,
Mille pel re Alcitòo su questi paschi
{{R|290}}Le greggie, e Sirio gli assetati campi,
E i boschi ardeva, che ai pastor null’ombra
Davano più, ne d’aura alcun ristoro.
Ei pel gregge dolente, e d’ira acceso
Contro il sublime Sole il guardo ergendo:
{{R|295}}E Dio te, o Sole, e delle cose padre,
Sclama, noi dir? Noi, stolti, ergerti altari,
Scannar tori, ed offrirti il pingue farro?
Forse di noi, forse dei regj armenti
Punto ti cale? O non piuttosto invidia
{{R|300}}Ti punge? — Mille le giovenche nivee,
Pascon per me mill’agni; un Tauro solo
Tu, s’è pur vero, e in cielo ài solo un Capro,
E un Can magro, che guarda a tanto armento.
Folle! che non piuttosto un rege adoro,
{{R|305}}Cui tanti campi, e genti, e tanto vasti
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||115}}</noinclude><poem>
Da quel di quanta la miseria, e quante
Le sventure, ridir mal io potrei.
Scosse Atlantide allor — isola detta
Dall’antico suo re, — grande un tremuoto,
{{R|275}}E dall’onde sparì ch’ella solcava
Donna di terra e mar, con navi mille.
De’ quadrupedi allor perir per sempre,
E le torme, e le gregge; invan lo studio
Del reintegrarle più: l’ostia straniera
{{R|280}}Bagna l’altare di straniero sangue.
E cotal peste pur lurida invase
I nostri corpi allora, e niuno, o pochi
La scampar, che, adirati i Numi, Apollo,
Piomba dal cielo, e le città devasta.
{{R|285}}Quindi con nuovo rito a tanta festa
Gli avi principio diero, e come, or dico:
A questi fiumi Sifilo pastore,
Fama tal è, mille adduceva i bovi,
Mille pel re Alcitòo su questi paschi
{{R|290}}Le greggie, e Sirio gli assetati campi,
E i boschi ardeva, che ai pastor null’ombra
Davano più, ne d’aura alcun ristoro.
Ei pel gregge dolente, e d’ira acceso
Contro il sublime Sole il guardo ergendo:
{{R|295}}E Dio te, o Sole, e delle cose padre,
Sclama, noi dir? Noi, stolti, ergerti altari,
Scannar tori, ed offrirti il pingue farro?
Forse di noi, forse dei regj armenti
Punto ti cale? O non piuttosto invidia
{{R|300}}Ti punge? — Mille le giovenche nivee,
Pascon per me mill’agni; un Tauro solo
Tu, s’è pur vero, e in cielo ài solo un Capro,
E un Can magro, che guarda a tanto armento.
Folle! che non piuttosto un rege adoro,
{{R|305}}Cui tanti campi, e genti, e tanto vasti
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Servono i mari, e al Sol va innanzi, e ai Numi?
Egli l’aure seconde, ai verdi boschi
Ei darà dolce il rezzo, e fresco al gregge.
Disse, ned aspettò: sui monti l’are
{{R|310}}Erse ad Alcitoo rege, e culto diegli.
Dei coloni la turba e dei pastori
Lo segue, ed arde incensi, e il sangue versa
Dei tori, che arrostiti in brani fumano.
Ciò che veggendo il Re dall’alto soglio
{{R|315}}In fra i devoti popoli seduto,
Altero pel divin resogli onore,
Vieta che in terra alcun Nume s’adori,
Pena il suo sdegno; sè maggior di tutti
Grida, e solo del Ciel curar gli Dei. —
{{R|320}}Il Padre Sol, che tutto vede e lustra,
Vide anche questo; arse di sdegno; i rai
Contorse infausti, e mandò fosco il lume.
Tosto la madre Terra e i vasti mari
N’andar compresi, ond’arse in vampe l’etra.
{{R|325}}Quindi a quell’empio suol de’ mali ignoti
Una piena. — Chi primo il sangue sparso
Al Re porgeva, ed are al monte in cima,
Sifilo n’ave turpe scabbia in dosso.
Primo convulse membra, e notti insonni
{{R|330}}Ei s’ebbe, e il morbo da lui primo il nome,
Cui sifilide dir piacque ai coloni.
E già la peste rea le città tutte
Coglie e il Re stesso: indi a cercar d’America
Vanno la Ninfa nel Cartesio bosco.
{{R|335}}Cole America i boschi, e degli Dei
Dal profondo del bosco apre i responsi.
Chieggon del morbo la cagion, la cura;
Ed ella: Sprezzatori o voi del Sole,
Egli voi preme: ad uom non lice ai Numi
{{R|340}}Pareggiarsi; gli date il culto usato;
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||117}}</noinclude><poem>
Servono i mari, e al Sol va innanzi, e ai Numi?
Egli l’aure seconde, ai verdi boschi
Ei darà dolce il rezzo, e fresco al gregge.
Disse, ned aspettò: sui monti l’are
{{R|310}}Erse ad Alcitoo rege, e culto diegli.
Dei coloni la turba e dei pastori
Lo segue, ed arde incensi, e il sangue versa
Dei tori, che arrostiti in brani fumano.
Ciò che veggendo il Re dall’alto soglio
{{R|315}}In fra i devoti popoli seduto,
Altero pel divin resogli onore,
Vieta che in terra alcun Nume s’adori,
Pena il suo sdegno; sè maggior di tutti
Grida, e solo del Ciel curar gli Dei. —
{{R|320}}Il Padre Sol, che tutto vede e lustra,
Vide anche questo; arse di sdegno; i rai
Contorse infausti, e mandò fosco il lume.
Tosto la madre Terra e i vasti mari
N’andar compresi, ond’arse in vampe l’etra.
{{R|325}}Quindi a quell’empio suol de’ mali ignoti
Una piena. — Chi primo il sangue sparso
Al Re porgeva, ed are al monte in cima,
Sifilo n’ave turpe scabbia in dosso.
Primo convulse membra, e notti insonni
{{R|330}}Ei s’ebbe, e il morbo da lui primo il nome,
Cui sifilide dir piacque ai coloni.
E già la peste rea le città tutte
Coglie e il Re stesso: indi a cercar d’America
Vanno la Ninfa nel Cartesio bosco.
{{R|335}}Cole America i boschi, e degli Dei
Dal profondo del bosco apre i responsi.
Chieggon del morbo la cagion, la cura;
Ed ella: Sprezzatori o voi del Sole,
Egli voi preme: ad uom non lice ai Numi
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Lo placate, nè l’ire oltre n’andranno.
Eterna ell’è, non revocabil mai,
La peste ch’ei vibrò; quai uom qui nasca
La proverà; lo Stige egli, e il severo
{{R|345}}Destin giurò. Se pur certo rimedio
Cercate, alla gran Giuno offrite bianca
Vitella, e negra vacca alla gran Terra.
L’una darà dal ciel felice un seme,
L’altra una selva dal seme felice.
{{R|350}}Ciò a salute. Disse, e l’antro e il bosco
Ne fur scossi, ed orror fu tutto intorno.
Obbedir; l’are antiche ergono al Sole;
Bianca vitella a Te, gran Giuno, e negra
Vacca svenano a Te, massima Terra.
{{R|355}}Dico a stupor — ma gli avi e i numi attesto —
L’arbor sacra che voi pel bosco tutto
Vedete, in questo suol prima non vista,
Prese tosto a gittar verdi le fronde,
E a invigorir pei campi in vasta selva.
{{R|360}}Tosto al vindice Sol nuov’annua festa
Indice il Sacerdote, e a sorte è tratto
Sifilo da immolar solo per tutti.
Già già le bende, e il sacro farro in pronto,
Di purpureo tingea sangue il coltello.
{{R|365}}Ma Giuno il fece salvo, e il mite Apollo,
Che meglio del tapin ostia un giovenco
Vollero, e il suol di ferin sangue intriso.
Dunque a memoria di quel fatto eterna
D’annua festa sacrar tal rito i padri.
{{R|370}}Tratto all’ara un pastor vittima vana;
Quel tuo delitto, o Sifilo, ricorda.
Tutta che vedi la turba tapina,
Tocca dal Dio, gli error sconta degli avi,
Cui con voti e con preci il Sacerdote
{{R|375}}Propizia i Numi, e il concitato Apollo.
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<noinclude><pagequality level="3" user="Alex brollo" />{{RigaIntestazione|||119}}</noinclude><poem>
Lo placate, nè l’ire oltre n’andranno.
Eterna ell’è, non revocabil mai,
La peste ch’ei vibrò; quai uom qui nasca
La proverà; lo Stige egli, e il severo
{{R|345}}Destin giurò. Se pur certo rimedio
Cercate, alla gran Giuno offrite bianca
Vitella, e negra vacca alla gran Terra.
L’una darà dal ciel felice un seme,
L’altra una selva dal seme felice.
{{R|350}}Ciò a salute. Disse, e l’antro e il bosco
Ne fur scossi, ed orror fu tutto intorno.
Obbedir; l’are antiche ergono al Sole;
Bianca vitella a Te, gran Giuno, e negra
Vacca svenano a Te, massima Terra.
{{R|355}}Dico a stupor — ma gli avi e i numi attesto —
L’arbor sacra che voi pel bosco tutto
Vedete, in questo suol prima non vista,
Prese tosto a gittar verdi le fronde,
E a invigorir pei campi in vasta selva.
{{R|360}}Tosto al vindice Sol nuov’annua festa
Indice il Sacerdote, e a sorte è tratto
Sifilo da immolar solo per tutti.
Già già le bende, e il sacro farro in pronto,
Di purpureo tingea sangue il coltello.
{{R|365}}Ma Giuno il fece salvo, e il mite Apollo,
Che meglio del tapin ostia un giovenco
Vollero, e il suol di ferin sangue intriso.
Dunque a memoria di quel fatto eterna
D’annua festa sacrar tal rito i padri.
{{R|370}}Tratto all’ara un pastor vittima vana;
Quel tuo delitto, o Sifilo, ricorda.
Tutta che vedi la turba tapina,
Tocca dal Dio, gli error sconta degli avi,
Cui con voti e con preci il Sacerdote
{{R|375}}Propizia i Numi, e il concitato Apollo.
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
I maggior rami della pianta sacra
Portan seco mondati, ond’ànno un succo
D’alta virtù, che fuga il morbo infando. —
Traeano in tai parlari, ed altri il tempo
{{R|380}}Quelle genti diverse insiem commiste.
Le navi intanto che, mandate ai cari
Liti d’Europa, riedon d’oltremare,
Recan portenti: ovunque (o fato arcano!)
Egual peste occupar d’Europa il cielo,
{{R|385}}E le città senza rimedio afflitte.
Più forte anzi un rumor va per le navi,
Del mal medesmo esser la flotta, e molta
Gioventude da tabe i membri infetta.
Non obliar dai tristi augei predetto
{{R|390}}Che cerco fora a quella selva aiuto.
Tosto a le Ninfe e al Sol porgendo voti,
Tran dall’intatta selva, e dal più fitto
Cercano, i tronchi, e tazze medicate
Beon, qual v’è l’uso, e con tal succo al fine
{{R|395}}La rea peste cacciar: ch’anzi dei Numi
Tanto dono alla patria, e il sacro arbusto
Voglion si rechi, a veder mai se fughi
Egual peste ivi pur, nè il fato niega
Zeffiri amici, e destro Apollo spira.
{{R|400}}Voi prima aveste, o Iberi, il divo dono,
Stupiti al pronto aiuto; ai Galli or conta,
Ai Sciti ed al German, corre applaudito
Il Latin ciel l’Iàco, e tutta Europa.
Salve o da Numi seminata, illustre
{{R|405}}Pianta, bella di chiome e virtù nuove,
Speme dell’uom, del nuovo mondo onore!
Più beata, se pur sott’esto cielo
Gli Dei nata fra genti ad essi amiche,
E t’avesser voluto eterna selva.
{{R|445}}Ma tu, se qualche fama al nostro carme
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I maggior rami della pianta sacra
Portan seco mondati, ond’ànno un succo
D’alta virtù, che fuga il morbo infando. —
Traeano in tai parlari, ed altri il tempo
{{R|380}}Quelle genti diverse insiem commiste.
Le navi intanto che, mandate ai cari
Liti d’Europa, riedon d’oltremare,
Recan portenti: ovunque (o fato arcano!)
Egual peste occupar d’Europa il cielo,
{{R|385}}E le città senza rimedio afflitte.
Più forte anzi un rumor va per le navi,
Del mal medesmo esser la flotta, e molta
Gioventude da tabe i membri infetta.
:Non obliar dai tristi augei predetto
{{R|390}}Che cerco fora a quella selva aiuto.
Tosto a le Ninfe e al Sol porgendo voti,
Tran dall’intatta selva, e dal più fitto
Cercano, i tronchi, e tazze medicate
Beon, qual v’è l’uso, e con tal succo al fine
{{R|395}}La rea peste cacciar: ch’anzi dei Numi
Tanto dono alla patria, e il sacro arbusto
Voglion si rechi, a veder mai se fughi
Egual peste ivi pur, nè il fato niega
Zeffiri amici, e destro Apollo spira.
{{R|400}}Voi prima aveste, o Iberi, il divo dono,
Stupiti al pronto aiuto; ai Galli or conta,
Ai Sciti ed al German, corre applaudito
Il Latin ciel l’Iàco, e tutta Europa.
:Salve o da Numi seminata, illustre
{{R|405}}Pianta, bella di chiome e virtù nuove,
Speme dell’uom, del nuovo mondo onore!
Più beata, se pur sott’esto cielo
Gli Dei nata fra genti ad essi amiche,
E t’avesser voluto eterna selva.
{{R|445}}Ma tu, se qualche fama al nostro carme
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<noinclude><pagequality level="1" user="" /></noinclude><poem>
Dien le Muse, tu pure in queste parti
Cognita, e sino al ciel cantata andrai.
Se Te non Battro, e il suol ultimo Artòo,
Nè Meroe, e l’arso Ammon tra l’Afre arene;
{{R|450}}Ben il Lazio, e t’udran l’onde del verde
Benaco, e del labente Adige i molli
Recessi; e basterà che te del Tebro
Legga in riva, e talor t’accenni il {{Ac|Pietro Bembo|B<small>EMBO</small>}}.
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Dien le Muse, tu pure in queste parti
Cognita, e sino al ciel cantata andrai.
Se Te non Battro, e il suol ultimo Artòo,
Nè Meroe, e l’arso Ammon tra l’Afre arene;
{{R|450}}Ben il Lazio, e t’udran l’onde del verde
Benaco, e del labente Adige i molli
Recessi; e basterà che te del Tebro
Legga in riva, e talor t’accenni il {{Ac|Pietro Bembo|B<small>EMBO</small>}}.
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LIBRARY
From the Bequest of
MARY P. C. NASH
IN MEMORY OF HER HUSBAND
BENNETT HUBBARD NASH
Instructor and Professor of Italian and Spanish
1866-1894--><noinclude></noinclude>
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{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|VOLUME UNICO}}
{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|CON RITRATTO}}
{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|ED ANNOTAZIONI.}}
{| align=center
|CLASSE||I.||FILOLOGIA.
|-
|{{»|1.5|1}}||II.||MITOLOGIA.
|-
|{{»|1.5|1}}||III.||STORIA.
|-
|{{»|1.5|1}}||IV.||GEOMETRIA.
|-
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|{{»|1.5|1}}||VI.||MEDICINA E CHIRURGIA.
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|{{»|1.5|1}}||VIII.||BOTANICA E STORIA NATURALE.
|}
{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|PREZZO AUSTR. L. 6,00.}}
{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|VENEZIA,}}
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{{Ct|f=100%|v=1|lh=1.5|G. A. MOLENA PROPRIETARIO EDITORE.}}<noinclude></noinclude>
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== Match & split parziale ==
Il puro testo italiano in versi dei tre libri (senza immagini a fronte) era presente su wikisource dal 2008; l'edizione fonte è stata caricata ed è stato effettuato M & S del puro testo italiano. Manca la trascrizione dell'introduzione, del testo latino a fronte e del robusto apparato di note, che si riferisce al testo latino originale. [[User:Alex brollo|Alex brollo]] ([[User talk:Alex brollo|disc.]]). 07:39, 10 ago 2022 (CEST)
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O coralli animati, o vive rose
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Ecco pur, labra mie, rompeste al fine
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China il sen, nuda il braccio, accesa il volto
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| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
| Titolo = V. La filatrice di seta
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| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
| URL della versione cartacea a fronte = Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu
| prec = Lascia di coglier piú ricci pungenti
| succ = Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto
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Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto
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OrbiliusMagister
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| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
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| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| Titolo = VII. Il dente mancante
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| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
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| prec = Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto
| succ = Mentre con umil socco in cari accenti
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Mentre con umil socco in cari accenti
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| Titolo = VIII. Alla comica Lavinia
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| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
| Titolo = IX. A un'attrice di tragedia
| Anno di pubblicazione = XVII secolo
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| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| prec = Mentre con umil socco in cari accenti
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| Titolo = X. Alla cantatrice Anna Renzia, romana
| Anno di pubblicazione = XVII secolo
| Lingua originale del testo =
| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Bernardo Morando<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
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{{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Bernardo Morando<section end="Nome e cognome dell'autore"/>
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</div></onlyinclude><!-- a qui -->{{Qualità|avz=100%|data=10 agosto 2022|arg=Da definire}}{{Intestazione
| Nome e cognome dell'autore = Bernardo Morando
| Titolo = XV. Le maschere di carnevale
| Anno di pubblicazione = XVII secolo
| Lingua originale del testo =
| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Progetto = Letteratura
| Argomento = Sonetti
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O de le umane brame
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Dai tenebrosi orrori
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|432|{{Sc|annotazioni}}.|}}</noinclude>sono se non l'eco delle sensazioni in noi. Pare che qui seguasi da Epicuro l’opinione di Aristotele, secondo la quale l’errore non può nascere che dal legame delle rappresentazioni fra loro. L’errore non s’incontra che nell’opinione, o nella supposizione ({{Greco da controllare}}), che dimanda ancora di essere confermata dalla sensazione. Se nel sentire v’è un movimento dell’anima unito a questa sensazione, ma che non sia interamente identico con essa, è desso un legame che ha mestieri ancora di essere confermato. Ora se esso è confermato e non confutato, l’opinione è sera; se al contrario è confutato e non confermato, l’opinione è falsa (p. 50 e 51). E ad alcune opinioni di tal natura che gli Epicurei riducevano tutto che appellavano illusione dei sensi. Per esempio, una torre veduta da lunge pare rotonda, e noi aggiugniamo a questa sensazione della rotondità l’idea di una torre; ma avvicinandosi la troviamo quadrata; la nostra ultima sensazione confuta l’idea che ci avevamo fatta della torre, senza per altro che la prima sensazione fosse falsa.“ — ''Ritter''.
''L’anima è un corpo ec. ec''. - „Epicuro nella dottrina dell’anima segue particolarmente Democrito. L’anima è per lui qualche cosa di corporeo, non considerando egli come immateriale altro che il vuoto, che non ha nè passività nè attività, e non fa che lasciar muovere i corpi a traverso di esso; e quindi è assurdo chiamarla immateriale, attesochè reggasi chiaro ch’ella agisce e ch’ella patisce. L’anima vivificando tutto il corpo, per tutto il corpo è sparsa del pari. Come invisibile, e soggetta a molti cangiamenti, ella deve essere un corpo dilicatissimo facile al moto. Epicuro la paragona ad un soffio che è compostoci! una certa mescolanza del caldo. Essa consta d’atomi ritondetti e levigatissimi, i quali perciò di leggieri si muovono. Quattro attività si possono scorgere nell’anima: ella è cagione del movimento,<noinclude></noinclude>
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Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/460
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|annotazioni}}.|433}}</noinclude>del riposo, del calore del corpo e della sensazione. Epicuro riferisce ciascuna di queste attività ad un diverso elemento della composizione dell’anima: il moto al soffio, il riposo all’aria, il calore del corpo al fuoco, e la sensazione ad una specie di atomi senza nome, che sono estremamente sottili ed agili. L’altre parti costitutive dell’anima sono egualmente distribuite per tutto il corpo; l’ultima parte solo sembra aver sede principale nel petto. Avvi in ciò un tentativo di spiegare l’unità dell’anima ragionevole; ma il corpo vivificato e l’anima vivificante si appartengono a vicenda, perchè quello non è animato che da questa; quando l’anima ha lasciato il corpo, non v’ha più in esso nè moto nè sensazione. Per altro l’anima ancora non ha senso e moto che nel corpo; ella è, per così dire, ricoperta dal corpo; ma quando il corpo è disciolto, ell’è egualmente dissipata. L’anima essendo un composto, può naturalmente essere decomposta; egli è ciò che accade di necessità per la dissoluzione del corpo, che la guarentisce contro l’influenza delle forze esteriori.“ — ''Ritter''. — Quest’anima di Epicuro sembra trovarsi già nel Sankhia di Kapila, ed è, come la definisce {{AutoreCitato|Henry Thomas Colebrooke|Colebrooke}}, una specie di compromesso tra un’anima materiale ed un’anima immateriale. È il non so che di qualche naturalista moderno. Ma non è forse in Epicuro che un elemento materiale, come gli spiriti animali e il fluido nerveo dei filosofi de’ nostri giorni.
XXV. ''Occupazione ordinaria ec''. — {{Greco da controllare}}, qui non significa, secondo il Kühnio, ''disciplinarum liberalium orbis'', nè pe’ loro cultori scrisse quest’epitome Epicuro, nemico aperto dell’arti liberali; ma ''vulgaria vitae humanae officia''. Questo passo fu male interpretato eziandio dal Gassendi.
''La grandezza del sole e delle stelle ec.'' — „Epicuro intende ridurre le forze della natura a fenomeni insignificanti. La grandezza del sole, dice egli, e quella delle altre<noinclude></noinclude>
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Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/461
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|434|{{Sc|annotazioni}}.|}}</noinclude>stelle, per rapporto a noi, è tanto grande, nè più nè meno, di quanto ci appare; non trattandosi per noi di sapere quale è la grandezza reale del sole in sè stesso, ma solo qual’è l’impressione sensibile che il sole fa sopra di noi. — Al passo intercalato da Diogene, va unito, secondo un’altra opera di Epicuro, anche la frase, {{Greco da controllare}}; cioè, poichè nessun altro intervallo è piò proporzionato a questo colore che quello tra il colore del sole e noi.“ — ''Ritter'.
''L’arti abbiette degli astrologi''. — Per quanto il Gassendi cerchi scusarlo, è innegabile un qualche disprezzo di Epicuro per gli studi scientifici, massime perchè stimavali inutili alla felicità.
XXVI. ''Nè il sapiente dovrà mischiarsi con donne ec. ec.'' — Alcuni di questi dommi particolari, che si attribuiscono agli Epicurei, principalmente quello contra l’amor fisico, non corrispondono per certo agli elogi ch’Epicuro faceva dei piaceri dei sensi. — „In generale non bisogna accostarsi a questi passi speciali che con molta precauzione e critica circospetta; e quanto al domma attribuitogli del {{Greco da controllare}}, la forma mezzo ionica fa presumere che questa sia una sentenza di Democrito, il quale, come tutti sanno, rigetta assolutamente il concubinaggio, essendoci noto per altre tradizioni che Epicuro non faceva lo stesso.“ — ''Ritter''.
''Non amministrerà gli affari pubblici.'' — Secondo il Ritter, gli Epicurei non erano conseguenti in questi particolari precetti, poichè altrove si dice il contrario.
''A nessun amico sarà di carico''. — Rifiutate altre lezioni, l’Huebnero seguì la congettura del Rondelli, sostituendo al {{Greco da controllare}}.
XXVII. ''Nel piacere delle cose passate ec''. — {{Greco da controllare}}. Il Ritter vorrebbe sostituito a {{Greco da controllare}} ma forse la frase suona lo stesso. — „Secondo Epicuro ogni {{Pt|pia-|}}<noinclude></noinclude>
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La man che ne le dita ha le quadrella
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[[Aiuto:Oggetto automatico|←]] Creata nuova pagina: {{Conteggio pagine|[[Speciale:Statistiche]]}}<!-- Area dati: non modificare da qui: --><onlyinclude><div style="display:none"><section begin="Nome e cognome dell'autore"/>Anton Giulio Brignole Sale<section end="Nome e cognome dell'autore"/> <section begin="Anno di pubblicazione"/>XVII secolo<section end="Anno di pubblicazione"/> <section begin="URL della versione cartacea a fronte"/>Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu<section end="URL...
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{{Raccolta|Lirici marinisti/VI/Antonio Giulio Brignole-Sale|Anton Giulio Brignole Sale}}
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Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XV
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Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XVI
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''Stimando dio un animale immortale ec. ec''. — „Un mondo composto di atomi, che possiedono in sè stessi il moto e le leggi di ogni loro combinazione possibile, è un mondo che basta a sè stesso, che si spiega di per sè stesso e non ha mestieri nè di un primo motore nè di un’intelligenza prima; quindi nessuna provvidenza. Epicuro non ammette dio, ma dei. Non sono puri spiriti, perchè nella dottrina atomistica non v’ha spirito; non sono corpi nemmeno, perchè non si danno corpi che possano chiamarsi dei. — Epicuro si volge ad una vecchia teorica di Democrito, e ne appella ai sogni. Come ne’ sogni v’ha immagini che agiscono sopra di noi, determinando sensazioni aggradevoli o penose, senza venir nonostante dai corpi esterni, del pari gli dei sono immagini simili a quelle dei nostri sogni, ma più grandi, aventi umana forma; immagini che precisamente non sono corpi, ma che pur non sono sprovvedute di materialità, che sono ciò che voi vorrete, ma che per altro bisogna ammettere, poichè la specie umana crede agli dei, e l’universalità del sentimento religioso è on fatto, al quale è mestieri assegnare una cagione; e la si trova in fantasmi che producono sull’animo umano, fatto com’è, un’impressione incontestabile, analoga a quella che noi riceviamo dai sogni.“ — ''Cousin''. — Non trovando nulla cui rannodare con certezza la convinzione dell’esistenza dei numi col sistema epicureo, molti hanno dubitato che Epicuro fosse<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|436|{{Sc|annotazioni}}.|}}</noinclude>persuaso dell’esistenza dei suoi; molti che per solo timore di un’accusa d’empietà gli avesse ammessi; ma il Ritter giustamente osserva, che a’ tempi di Epicuro il popolo istesso negava e pubblicamente insultava gli dei, e che poi il filosofo negava quelli del popolo. Qualche traccia di argomenti in favore almeno della possibilità dei numi traspare dalla sua dottrina della conoscenza, e Tennemann riconosce in lui un deista inconseguente. Gli dei come enti eterni e sovranamente felici, secondo Epicuro, sono degni dei nostri omaggi, quantunque vivano in un riposo ed in una indifferenza che forma la loro felicità, senza per nulla darsi pensiero del mondo. L’uomo pio è quello che onora gli dei dal fondo del suo cuore, per la loro perfezione infinita, senza speranze di ricompensa. Questo culto è un dovere, e somiglia al rispetto ed all’amore che portiamo ai genitori. Nuova e sorprendente contraddizione, dice Degerando, sfuggita agli storici; specie di quietismo simile a quello che concepì l’anima tenera e pia di {{AutoreCitato|Fènelon|Fènèlon}}, il culto dell’amore disinteressato, unito ad un sistema che pe’ suoi risultali si confonde quasi coll’ateismo!
''Ê evidente la cognizione di essi'' (i numi). — Nel p. 139 dice che gli dei sono visibili al raziocinio. — „L’idea degli dei, sparsa dovunque, doveva essere per Epicuro una rappresentazione derivata da sensazioni precedenti. Quindi egli crede che le idee degli dei risultino da visioni divine, sia nella veglia, sia nel sonno, e vi debbano corrispondere immagini corporee tanto fine da non poter essere sentite dai sensi esterni, ma solamente dall’anima. — Donde avviene sovente che uno spirito forte, che nega l’esistenza di dio, crede ancora all’esistenza degli spiriti.“ — ''Ritter''.
''Non essere un male il non vivere''. — „Si rimprovera Epicuro di non avere ammesso alcuno scopo positivo alla vita, e di non conoscere altre tendenze del saggio, fuor l’insensibilità. Di ciò lo assolve l’intenzione espressa nella sua<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|annotazioni}}.|437}}</noinclude>dottrina. La sua opinione si riduce semplicemente a questo: che la saggezza e la prudenza non servono, per vero dire, che ad insegnare a fuggir le cose perniciose ed a trovare soddisfacimento quasi in ogni stato; ma che quando per tal modo la calma dell’anima, la non sofferenza, è una volta prodotta, la natura fa nascere allora da sè stessa il piacere nel godimento temperato del presente, nella certa speranza per l’avvenire, forse ancora nel sentimento non interrotto della salute. — Così a lato dell’{{Greco da controllare}} si trova
l’{{Greco da controllare}}, e a lato dell’{{Greco da controllare}}, l’{{Greco da controllare}}. —“ (Vedi p. 128, 131, 136). — ''Ritter''.
''Le principali sentenze''. — {{Greco da controllare}}. — Le scorrezioni e le oscurità che s’incontrano in questo libro, e massime in queste ''Sentenze'', e che sono attestati dalle molte varianti e congetture, spesso infruttuose, proposte da uomini assai eruditi, ci indussero a voltare anche più fedelmente del solito, e quasi parola per parola, alcuni passi, che ci parvero oscurissimi, onde offerire a’ non dotti di greco un qualche mezzo di giudicare se ad Epicuro, al testo od a noi debbansi attribuire gli imbarazzi da’ quali non ci fu dato per avventura di torgli. E questo modo parmi tenessero anche que’ traduttori che non vollero interpretare a capriccio, tra quali l’Huebnero, i cui dubbj appalesano le lunghe annotazioni.
''Il giusto della natura ec''. (Vedi anche il p. 153). — „La legge e la giustizia preservano il saggio dal timore degli uomini. La legge è stabilita pel saggio, non perch’egli non faccia il male, ma perchè non patisca ingiustizia. (''Presso Stobeo''). — La legge si fonda in un contratto di reciproca utilità; dove non avvi un simile contratto, del pari non v’ha diritto. Esiste per verità un diritto naturale universale, ma non è profittevole che a quelli che hanno {{Pt|conchiu-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|438|{{Sc|annotazioni}}.|}}</noinclude>{{Pt|so|conchiuso}} il contratto, e cambia secondo i differenti aspetti sotto i quali si mostra l’utile comune.“ — ''Ritter''.
''Non lamentarono come di un misero ec''. — Cioè, se non ci inganniamo, giunsero a quella felicità che fa tenere beato chi, morendo, esce dal timore di perderla. Sentenza che suggerì forse a {{AutoreCitato|George Gordon Byron|L. Byron}} di chiamare fortunato colui che muore prima del quarantesim’anno!
{{rule|4em}}
''E qui dovrebbero succedere alcune appendici annunciate ne’ cenni premessi all’opera, ma la tarda pubblicazione di questo lavoro, smesso e ripreso le troppe volte, indusse, com’è naturale, e forse pel meglio, qualche perplessità e mutamento nel disegno del traduttore. Da prima egli pensò una introduzione storica, che trascorrendo le epoche della greca filosofia, preparasse in qualche modo alla lettura di un libro imperfettissimo. Trovatolo in progresso più sempre imperfetto, credette miglior partito un corredo di note, che oltre al dichiarare i passi oscuri, ne adempisse le molte lacune.... Ma dove sarebb’ito egli mai? Limitò quindi le note, e serbò l’esposizione dei principali sistemi, manomessi dal buon Laerzio, per alcune appendici che tenessero dietro alla traduzione. Questo oscillare non venne meno che quando il lavoro toccò verso al suo fine. Oimè, nè introduzioni, nè lunghe note, nè appendici poteano ridurre a qualche perfezione questo prezioso centone! Fors’era un rincarare la derrata. Sparita adunque l’introduzione, sminuite al possibile le note, anco le appendici dovettero rimanere un vano pensiero; e certo i lettori''<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="1" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|||439}}</noinclude>''ne sapranno grado al traduttore, il quale sagrificò alla convenienza molti studi preparatorii, fatti non senza amore, che poteano (e non è rado l’esempio) mettergli il ticchio di usarli soltanto per fare dell’erudito.''
INDICE DEL SECONDO VOLUME.
Vita di Antistcne
LIBRO SESTO.
. Par, r. 1 Vita di Metrocle . » .
Pag. 47
— di Diogene . .
. . » 10
— di lpparchia . .
. » 49
— di Moninio. . .
— di Menippo . . .
. » 81
— di Oncsicrito . .
. . t, 41
— di Menedemo . .
. n 33
— di Crate ....
Annotazioni ai libro sesto. » 37
LIBRO SETTIMO.
Vita di Zenone . .
. Pag. 71
Vita di Cleante . . .
Pag. 113
— di Arislono . .
. . » 158
— di Stero . . . .
— di Erillo . . .
— di Crisippo . . .
. *> IM
— di Dionisio . .
. . » 142
Annotazioni ai libro settimo. » igi
. LIBRO OTTAVO.
Vita di Pitagora . .
. Pag. 187
Vita di Ippaso . . .
Pan. 226
— di Empedocle .
. . » 210
— di Filolao . . .
. » 227
— di Epicarmo . .
. . » 222
— di Eudosso . . .
. » 228
— di Archila . .
. . » 223
Annotazioni al libro ottavo . » 231
— di Alcmconc . .
. . » 223
• *
LIBRO NONO.
Vita di Eraclito . .
. Pag. 261
Vita di Protagora . .
Pag. 288
— di Senofane . .
. . »> 270
— di Diogene apoiloniate.» 292
— di Parmenide .
. . »> 272
— di Anassarco . .
. 1 » 295
— di Melisso . .
. . » 274
— di Pirrone . . .
. n 29»
— di Zenone clealc
. . » 278
— di Timone . . .
. » 317
— di Leucippo . .
. . t> 278
Annotazioni al libro nono
. » 521
— di Democrito
. . » 280
LIBRO DECIMO.
Yila di Epicuro • .
. Pai J. 333
Annotazioni al libro decimo. P. Ili»
fi
n
Digitìzed by Google<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|373}}</noinclude>noi le simpatie delle cose esteriori. Ed è poi da credere eziandio che noi vediamo le forme e le comprendiamo per l’introduzione di alcun che proveniente dall’esterno; poichè le cose esterne non ci aprirebbero altrimenti la propria natura e del colore e della forma per mezzo dell’aria frapposta tra esse e noi, nè per mezzo dei raggi o di altre maniere qual siensi di flussi, a noi provenienti da quelle, di modo che a maniera di certe quali forme, dalle cose di colori e forme simili, con adatta grandezza, ci penetrano negli occhi o nel pensiero celeremente: poscia per questa cagione, che la fantasia è espressione dell’uno e del perpetuo, e conserva la simpatia tratta dal soggetto, secondo il sostegno proporzionato ch’indi le deriva dalla riunione degli atomi per la profondezza del solido. E quella fantasia che abbiamo intensamente ricevuta nella mente o ne’ sensi, sia dalla forma, sia dagli accidenti, forma è dessa del solido, la quale nasce secondo la conseguente densità o rimanenza della fantasia. La falsità e l’errore nelle opinioni aggiunte è sempre in relazione col moto ch’è in noi stessi congiunto alla fantastica visione, ma per altro ha un concetto dal quale nasce il falso. Poichè la rassomiglianza dei fantasmi, che come in immagine si ricevono o nascenti dal sonno, o per qualch’altro intuito della mente, o dai restanti criterj, non esisterebbe nelle cose che sono e appellansi vere, se non ve ne fossero alcuni e sì fatti da applicatisi. L’ errore non esisterebbe se non avessimo ricevuto anche un altro movimento in noi stessi congiunto per<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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text/x-wiki
<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|374|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>certo, ma avente un concetto. Da questa unione coll’intuito fantastico, avente per altro un sentimento, qualora non sia attestato o sia attestato in contrario, nasce il falso; attestato o non attestato in contrario, il vero. Ed è mestieri per ciò che strettamente ci atteniamo a questa opinione, affinchè non si tolgano di mezzo i criteri relativi a’ fatti, e l’errore egualmente confermato non confonda ogni cosa. — Ora anche l’udire nasce da una corrente che proviene da chi parla, o suona, o romoreggia, o in qual sia maniera eccita la passione acustica. Questo flusso si divide in corpicciuoli similari, conservanti insieme una certa simpatia vicendevole e particolare unità, estesa sino a ciò che l’emette, e che forma per lo più la percezione conforme di quello; se poi no, fa manifesto solo il di fuori. Poichè senza una certa simpatia da colà proveniente, non nascerebbe una tale percezione. Non s’ha dunque a stimare l’aria istessa aver forma dalla voce che si emette, o da qualche cosa di simile, molto ad essa mancando, ond’essere atta a patir ciò; ma incontanente la percossa che si fa in noi, quando emettiamo la voce, da certi corpicciuoli che effettuano la corrente ventosa, quello produrre che in noi prepara la passione acustica. — Eziandio l’odorato è da stimarsi come l’udito, non si potendo operare alcuna sensazione se non vi fossero certi corpicciuoli che dall’oggetto si trasportano a muovere con giusta misura questo senso; gli uni in disordine ed ostilmente, gli altri con tranquillità ed armonia. — Ed anche bisogna credere<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|375}}</noinclude>che gli atomi nessuna qualità offrano delle cose apparenti, fuor la figura, la gravità, la grandezza e quant’è necessariamente connaturale alla forma; dacchè ogni qualità si muta, ma gli atomi non si mutano, dovendo, nelle dissoluzioni e nelle unioni, rimanere qualche cosa di solido e indissolubile, che faccia i suoi mutamenti non in ciò che non è, nè dà ciò che non è, ma molti per trasposizione, alcuni per accessione o discostamento. Quindi è giuoco forza che ciò che non cambia sia incorruttibile, e non abbia la natura di ciò che si trasmuta, ma abbia corpicciuoli e configurazioni proprie. Queste cose devono ancora per necessità essere permanenti; poichè in quelle che per noi si trasformano, secondo il preconcetto sistema, la forma che in esse esiste si accetta, ma le qualità che non esistono in ciò che si tramuta come quella, non vengono lasciate indietro, ma si prendono dalla totalità del corpo. Bastano dunque queste cose che si lasciano indietro alla formazione delle unioni, poichè è di necessità che ne rimanga indietro taluna, e che non tutte si struggano in ciò che non è. Ma per altro non bassi a stimare che ogni maniera di grandezza esista negli atomi, affinchè i fenomeni non attestino il contrario; sebbene sia da credere esservi alcune mutazioni di grandezze, dandosi meglio ragione, se ciò accade, delle cose che nascono relativamente alle passioni ed ai sensi. Che poi esista ogni grandezza neppure è utile alla differenza delle qualità; e l’atomo dovrebbe arrivare a noi visibile. Il che non iscorgiamo accadere,<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|375|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>nè immaginiamo come possa esser visibile un atomo. In oltre non dobbiamo pensare che in un corpo finito vi sieno dei corpicciuoli infiniti, che che grandi; di modo che non solo va tolta la divisione in infinito nel meno, onde ogni cosa non facciamo debole, e, come nelle unioni degli aggregati, non isforziamo, comprimendo ciò che è in ciò che non è, a consumarsi; ma nè pure è mestieri di credere che siavi passaggio in meno nelle cose che sono finite all’infinito. Poichè quand’anche taluno avesse detto che i corpicciuoli sono infiniti o di qual siasi grandezza, non si può intendere, come abbia anche il finito quella grandezza, essendo manifesto che i corpicciuoli che hanno alcune quantità non sono infiniti; poichè se questi, da cui quelle quantità qualunque venissero, fossero infiniti, avrebbero anche una grandezza e un’estremità nel finito che si potrebbe comprendere; e se non è osservabile per sè stesso, nè pure quel che segue da ciò non è tale da intendersi, e così da quel che segue andando a quel che precede, il pensiero avrà da ciò argomento per arrivare all’infinito. E quel minimo che è nel senso si dee concepire che nè tale sia quali sono le cose che hanno un cangiamento, nè in ogni parte al tutto dissimile, ma abbia alcun che di comune con ciò che si muta, e non ne prenda le parti: ma quando per la similitudine della comunanza qualche cosa crediamo prendere da lui, ora in questa parte, ora in quella, siamo costretti a cadere nell’eguaglianza. In seguito, queste cose osserviamo incominciando da un primo, e non in sè {{Pt|stes-|}}<noinclude></noinclude>
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|377}}</noinclude>so nè da parli che toccano a parti, ma misurandone nel loro particolare la grandezza, la maggiore col più, la minore col meno: Con questa proporzione dobbiamo stimare che si trovi nell’atomo anche la più piccola parte. Poichè è manifesto come in picciolezza esso differisce da ciò che veggiamo per mezzo dei sensi, ma ha la stessa proporzione; avendo noi provato che l’atomo ha la sua grandezza in questa proporzione solo in qualche cosa di piccolo, escluso il grande. Ed anco vanno considerate come assai piccole e non miste le estremità delle lunghezze, preparando esse col loro mezzo la prima misura ai maggiori ed ai minori per via di discorso nella speculazione sugli invisibili: poichè la comunanza ch’esse hanno con ciò che non muta basta a compiere ciò che havvi sin là; l’assembramento poi non può nascere da quelle cose che hanno moto. Ma nell’infinito, come più alto o più basso, non dobbiamo nominare l’alto e il basso, sapendosi che quello che è sopra il capo, in qualunque luogo si ponga, producendolo all’infinito, non mai ci si farà visibile; nè quello che è sotto ciò che abbiamo immaginato sarà insieme per la stessa ragione anche sopra e sotto; poichè ciò è impossibile ad intendersi. Quindi dobbiamo accettare un movimento superiore, che si supponga in infinito, ed uno inferiore, quand’anche ciò che noi riferiamo ai luoghi sopra del nostro capo arrivi le dieci mila volte ai piedi di quelli che sono superiori, o ciò che da noi si riferisce al basso, al capo di quelli che sono sotto; poichè il moto universale, quantunque<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|378|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>agli uni e agli altri opposto, si suppone infinito. Ed anche è giuocoforza che gli atomi abbiano un’eguale velocità quando sono trasportati pel vuoto senz’essere da nulla respinti: da che i pesanti non sono trasportati più velocemente dei piccoli e leggieri, quando niente ad essi facciasi incontro, nè i piccoli dei grandi, tutti avendo un adito eguale, quando non sieno da nulla essi pure impediti, nè quel di sopra nè il laterale dagli urti del moto, nè quel di sotto dai proprj pesi. Chè in quanto l’uno ritenga l’altro, intanto insieme col pensiero avrà il moto, finchè nulla resista, o dal di fuori o dal proprio peso, contro la forza urtante. Ma anche nelle riunioni non sarà l’uno trasportato più velocemente dell’altro, essendo eguale la velocità degli atomi, per essere gli atomi che si trovano negli aggregati, mossi verso un solo luogo e nel minor tempo continuato: se poi non sono spinti verso un luogo, ma sovente respinti, essi verranno mossi in tempi che il discorso può considerare, finchè la continuità del moto cada sotto i sensi. Quello che si congettura intorno all’invisibile, cioè che i tempi i quali il discorso considera avranno un durevole moto, non è vero in tali circostanze: poichè tutto ciò che si considera, o si riceve coll’applicazione della mente è vero. — Dopo ciò è da vedere intorno all’anima in relazione co’ sensi e colle passioni: perchè così avremo fermissima prova che l’anima è un corpo di parti sottili, disseminato per tutto l’assembramento, somigliantissimo a spirito, mescolalo a non so qual calore e simile in qualche luogo all’uno, in<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione||{{Sc|epicuro}}.|379}}</noinclude>qualche luogo all’altro. Avvi poi una parte anche di essi che ha provato molti cangiamenti per la tenuità delle parti e che meglio s’accorda per questo colla restante aggregazione. Ciò tutto appalesano le potenze dell’anima e le passioni e i facili moti e i pensieri e le cose delle quali privati muojamo. E anche bisogna tenere che l’anima ha dal senso la principal cagione. Tuttavolta e’ non l’avrebbe ricevuta se dal restante aggregamento non fosse in qualche modo afforzata: il restante aggregamento poi quando ad essa procaccia questa cagione, si fa da lei partecipe anch’esso di tale accidente, non però di tutto ciò ch’ella possiede. Quindi allo allontanarsi dell’anima non ha più senso: poichè e’ non possedeva in sè stesso questa forza, ma gliela procacciava un’altra cosa ch’era insieme con esso, la quale a mezzo della forza compita ch’è in lei formando tostamente in sè stessa, per virtù del moto, il sensibile accidente, anche a questo, com’è detto, per vicinanza e simpatia lo comunicava. Il perchè esistendo l’anima, non mai, da qual siasi parte allontanata, sarà priva di sensazione se tuttavolta persiste l’acume del senso, ma anch’essa perirà, sciolto ciò che la copriva, sia tutto, sia qualche parte. Il restante aggregamento durando e in totale ed in parte, non ha, rimossa quella, la sensazione, che che sia la quantità degli atomi tendente verso la natura dell’anima. Ma però sciolto il totale aggregamento, l’anima è dispersa e non ha più le stesse forze, nè si muove, per modo che neppure ha senso. Poichè non si può<noinclude></noinclude>
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Piaz1606
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<noinclude><pagequality level="3" user="Piaz1606" />{{RigaIntestazione|380|{{Sc|epicuro}}.|}}</noinclude>comprendere com’ella senta, se in questa unione anche questi movimenti non usa, quando le cose che coprono e contengono non sieno come quelle in cui ora trovandosi ha tali movimenti. (''Ma per altro dice in altri luoghi e questo, e che l’anima è composta di atomi leggierissimi e rotondissimi, molto differenti da quelli del fuoco; ma che la parte irragionevole di essa è dispersa nel resto del corpo, la ragionevole nel petto, come è manifesto e dalle paure e dalla gioja: che il sonno nasce quando le parti dell’anima, che sono disseminate per tutta l’unione, contenute od evacuate, cadono insieme colle disperse; e che il seme proviene da tutte le parti del corpo''). Ora devesi anco pensare quello ch’io chiamo l’incorporeo pel frequente uso dei nomi di ciò che per sè s’intendesse; per sè poi non è intelligibile l’incorporeo fuor che nel vuoto; e il vuoto non può nè fare nè patire, ma solo per lo suo mezzo procurare il movimento a’ corpi. Di modo che quelli che dicono essere l’anima incorporea, sono pazzi; poichè se fosse tale, nè far potrebbe nè patir nulla; ed ora entrambe queste cose comprendiamo manifestamente accadere nell’anima. Tutti questi ragionamenti adunque s’uom riferisca alle passioni cd alle sensazioni, ricordandosi delle cose dette in principio, bastantemente vedrà riunito nelle forme di che sporre per esse con sicurezza e diligenza le singule parti. Non hassi poi a credere che e le figure e i colori e le grandezze e le gravità e tutte l’altre cose qualificanti il corpo come accidenti, sieno, o in tutti o ne’ visibili e dal<noinclude></noinclude>
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